Al fine di verificarne l`efficacia, vale a dire se e in quale

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LA COMUNICAZIONE AZIENDALE
Al fine di verificarne l’efficacia, vale a dire se e in quale misura l’impresa si è dimostrata capace di rispondere ai bisogni informativi dei suoi target di riferimento, è
necessaria una fase di feedback, ovvero di analisi delle risposte: solo così è possibile
intervenire con opportune repliche, rettifiche o integrazioni alle informazioni già
rilasciate.
Il caso Merloni
Dal gennaio 2005 la Merloni elettrodomestici ha cambiato ragione sociale: si chiama Indesit. Tale
decisione è stata dettata dalla volontà di recuperare uno storico marchio che è risultato essere
anche il brand commerciale più conosciuto in Europa negli elettrodomestici bianchi: un modo per
sviluppare sinergie in termini di comunicazione e per rendere immediatamente evidente il legame tra la società e il prodotto finale.
Dopo lo sbarco in Piazza Affari, Merloni nel 1997 matura la netta separazione tra azionista e
management seguita dalla costituzione di un consiglio di amministrazione, oggi composto in
maggioranza da persone indipendenti, e dall’istituzione di appositi comitati (risorse umane, audit,
innovazione). È per rispondere alla richiesta del mercato di una maggiore trasparenza che la
società ha aggiornato la corporate governance e puntato sul dialogo e sulla coerenza dei messaggi. Come ha dichiarato l’amministratore delegato Andrea Guerra, ogni anno il top management dedica una trentina di giorni per incontrare la business community: analisti, investitori istituzionali, ma anche i media per arrivare direttamente ai clienti (nel 2003 sono usciti in Europa
10.000 articoli).
Il gruppo di Fabriano, oltre alla pubblicità, investe nella comunicazione istituzionale circa 5
milioni di euro all’anno e si dichiara più che soddisfatto dei risultati di questa strategia. Le misurazioni sistematiche effettuate dalla direzione comunicazione del gruppo mettono in evidenza
che il mercato e i consumatori riconoscono il gruppo marchigiano come un’azienda leader del
settore, internazionalizzata, con elevate capacità manageriali e, soprattutto, all’avanguardia nell’innovazione. Una reputazione che si riflette sui comportamenti d’acquisto, sul fatturato e sugli
utili dell’azienda.
Entrambe le tipologie di comunicazione, dovuta e voluta, costituiscono l’offerta primaria, nel senso che viene originata, prodotta e trasmessa dall’impresa. Esiste poi
una forma di comunicazione che potremmo definire derivata (o secondaria), cioè una
comunicazione economico-finanziaria che, basandosi sui contenuti della comunicazione primaria, analizzandoli e rielaborandoli, crea nuova informazione (Fig. 5.3). Tale
attività è svolta, non di rado, da soggetti estranei alla gestione aziendale che, percependo l’esistenza di un gap informativo tra le conoscenze attese da determinati soggetti economici e quelle conseguite attraverso la comunicazione primaria, tendono a
verificare, integrare ed elaborare le informazioni primarie per poi trasmetterle a specifici pubblici di riferimento.
In altri termini, l’asimmetria informativa che si viene a creare nel mercato della
comunicazione economico-finanziaria, per il ruolo monopolistico svolto dalle imprese
nell’offerta di tali informazioni, se da un lato causa rilevanti inefficienze nel mercato,
dall’altro determina un vuoto d’offerta e costituisce, quindi, un forte incentivo per lo
sviluppo di forme di verifica e di analisi per così dire «collettive»8.
CAPITOLO
6
La comunicazione commerciale
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intervenire per rendere innocuo il prodotto eventualmente tramite un recall (ritiro del
prodotto). Contemporaneamente occorre comunicare all’esterno per fornire una sincera informazione ai consumatori e difendere il buon nome aziendale. Nella fase di
esplosione della crisi, pertanto, alla flessione delle vendite possono seguire ulteriori
costi dovuti a un’eventuale operazione di recall del prodotto e all’immobilizzazione
della merce invenduta.
3. Il periodo interlocutorio – Nella terza fase, il cosiddetto periodo interlocutorio, l’emergenza pubblica è cessata, ma il recupero non può ancora iniziare perché è necessario effettuare test, analisi, indagini sull’accaduto, oppure rilavorazioni o riprogettazioni
del prodotto. In questa fase non bisogna trascurare né il possibile effetto trascinamento
sugli altri prodotti dell’azienda coinvolta, né i possibili riflessi organizzativi relativi ai
rapporti con l’ambiente di riferimento (fornitori, distributori, creditori ecc.) che possono comportare un aumento del profilo di rischio complessivo dell’impresa.
4. Il recupero – Quando la crisi si risolve, c’è la cosiddetta fase di recupero con la reimmissione del prodotto nel mercato, eventualmente in una forma nuova. Il recupero della quota di mercato di solito ha un andamento di tipo logistico, con una veloce riconquista dei clienti più fedeli e una lenta ricostruzione della restante quota di mercato. Il programma di recupero è fondamentalmente un programma di marketing. Tuttavia, è
necessario osservare che spesso non c’è alcun periodo interlocutorio, talvolta può capitare che non si riesca più a recuperare la quota di mercato e, in alcuni casi, si rinuncia
del tutto al recupero.
Per questo tipo di emergenze l’obiettivo aziendale è minimizzare l’area di costo, e ciò
può essere perseguito in due modi:
• riducendo il tempo complessivo della crisi, ovvero tentando di minimizzare le fasi di
emergenza e il periodo di recupero;
• restringendo l’area di perdita lungo l’asse verticale, cercando cioè di ridurre i tassi di
caduta delle vendite, di eliminare il periodo interlocutorio, di velocizzare al massimo
il recupero.
Il caso Mercedes Classe A
Un problema di comunicazione risolto con la comunicazione. È questa la sintesi che definisce l’intera vicenda che ha coinvolto la Mercedes nel lancio della Classe A incappata nel test «schiva
alce». Una vicenda unica, legata al fatto che prima del debutto, per un anno e mezzo vi era stata
una comunicazione massiccia che aveva sensibilizzato la percezione e le attese del pubblico.
Di fronte a tale situazione, alla Mercedes si sono resi conto immediatamente che il ribaltamento
dell’auto non costituiva il vero problema, ma che per riportare la fiducia sul prodotto occorreva
intervenire subito ed essere quanto più possibile trasparenti. Per questo hanno reagito con una
comunicazione molto forte, tenendo a Stoccarda una conferenza stampa in cui spiegavano cosa
avrebbe fatto la Mercedes per rimuovere il problema: equipaggiare di serie e senza sovrapprezzo
la Classe A con l’Esp, il sistema di controllo della stabilità, il cui valore era di circa due milioni di
lire, con un costo industriale complessivo di circa trecento milioni di marchi. Superata questa fase,
CAPITOLO
6
La comunicazione commerciale
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informazioni e preferisce quindi non assumersi alcuna responsabilità e fornire notizie
limitate (mostrandosi inattendibile e reticente). A questo proposito, è buona norma
che ad affrontare le telecamere e le conferenze stampa sia il presidente, l’amministratore delegato o il più alto dirigente disponibile nella circostanza; se poi l’intervista
richiede competenze tecniche specifiche, alla persona prescelta come comunicatore
ufficiale possono essere affiancati specialisti interni o esterni in grado di fornire nel
modo più comprensibile i dati tecnici eventualmente richiesti. In ogni caso, l’esplosione della crisi non deve mai indurre l’impresa ad adottare tattiche di breve periodo
(dichiarazioni, interventi, impegni) che non siano sostenibili e paganti per l’azienda
anche nel medio-lungo periodo.
Non tutti sono d’accordo sull’opportunità di affidare il ruolo di portavoce al responsabile aziendale. I motivi che portano a ritenere più corretta la scelta di un alto dirigente o del responsabile delle relazioni pubbliche come portavoce dell’impresa nei momenti di crisi sono sostanzialmente tre (Invernizzi e Ripamonti 2002, p. 229):
1. il ruolo di portavoce può essere molto impegnativo e pertanto è più opportuno che il
direttore generale o l’amministratore delegato dedichino la gran parte del loro tempo alla gestione della crisi e alla gestione ordinaria dell’azienda;
2. potrebbe essere utile riservare l’autorevolezza del loro intervento in vista di un ulteriore peggioramento della crisi;
3. l’esposizione in prima linea del vertice aziendale può rivelarsi estremamente pericolosa; se il presidente viene ritenuto responsabile e arrestato, come nel caso della
Union Carbide, l’azienda rischia di trovarsi non solo priva di un piano per affrontare
la crisi, ma anche senza il suo presidente.
Il caso Union Carbide
In uno stabilimento di Bhopal, in India, della multinazionale americana Union Carbide (produttrice di pesticidi) si verificò nella notte fra il 2 e il 3 dicembre 1984 una fuga di gas tossico che
provocò la morte di almeno 15.000 persone, nonché la cecità ad altre 200.000 persone abitanti a Bhopal e nelle immediate vicinanze. La tragedia scosse l’opinione pubblica mondiale e il
suo presidente (Warren Anderson) durante la prima conferenza stampa, profondamente colpito dall’incidente, annunciò di volersi recare a Bhopal di persona per verificare l’accaduto e
gestire la crisi. Non appena giunto in India venne arrestato perché ritenuto responsabile dell’accaduto. Il management dell’azienda, privo di un piano di crisi e del suo presidente, adottò un
atteggiamento difensivo caratterizzato dall’immobilismo che compromise pesantemente la
gestione della crisi e l’immagine della multinazionale coinvolta (Invernizzi e Ripamonti 2002,
pp. 229-230).
Il contenuto della comunicazione durante la crisi – Durante la crisi la comunicazione dovrà avere un duplice contenuto: un contenuto istituzionale di base e uno specifico d’emergenza. Quest’ultimo consisterà nella formulazione di messaggi e nella
definizione di azioni correlate alla tipologia dell’emergenza in atto, e cioè:
• che cosa è concretamente successo;
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LA COMUNICAZIONE AZIENDALE
dalla Procter & Gamble, quando si è difesa da dicerie su presunti effetti nocivi di un
suo detergente (Febreze).
Il caso Febreze
A partire dal dicembre 1998 si diffusero in Internet dicerie che attaccavano un prodotto della
Procter & Gamble: il Febreze. Quest’ultimo è un detergente utilizzato per rimuovere dalle fibre
tessili odori come quelli di cucina, di animali o di fumo. Il prodotto era accusato di contenere una
sostanza chimica nociva per gli animali domestici.
La Procter & Gamble reagì prontamente allestendo, nelle pagine del sito dedicate al prodotto, una
sezione dedicata a confutare tali voci. L’accesso alla sezione era facilitato dalla presenza di un link
intitolato «False illazioni via Internet su Febreze». In tale sezione era riportata la seguente dichiarazione dell’American Society for the Prevention of Cruelty to Animal (ASPCA): «A seguito di un
approfondito esame l’ASPCA ritiene Febreze sicuro nelle case dove si trovino cani e gatti, se il prodotto viene usato secondo le indicazioni della ditta produttrice».
La parte finale della sezione era strutturata come FAQ, riportava cioè le domande più frequenti sul
prodotto, fornendo ulteriori risposte sulla sua composizione e sulla sua sicurezza.
I risultati di questa politica di comunicazione furono positivi e portarono alla scomparsa delle dicerie sul prodotto in questione.
A partire dalla seconda metà del 2001 il link è stato rimosso, mentre rimangono le pagine Web
dedicate a illustrare le caratteristiche del prodotto.8
Note
1
Va da sé che la pubblicità sui mezzi di comunicazione di massa non è validamente utilizzabile nei settori
dei beni strumentali, che alcune forme di sales promotion sono di esclusivo impatto e, quindi, utilizzo, nei
mercati dei prodotti di massa ecc., ma questa prospettiva parziale e, come detto, spesso errata, non deve
spingere a esprimere giudizi di applicabilità alla comunicazione tout-court, ma, esclusivamente, a quei
determinati strumenti della comunicazione.
2
Si è volutamente usato il termine «acquirenti» perché i destinatari di tale attività di comunicazione possono essere consumatori finali, intermediari commerciali, imprese, utenti (nel caso di servizi), risparmiatori
o investitori (nel caso di prodotti finanziari).
3
Liberamente tratto da M. Gervasio, F. Grattagliano, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2003.
4
In realtà i fattori su cui si fonda una politica di marca sono rintracciabili nell’insieme delle variabili di marketing, cioè nel marketing mix.
5
Lo sforzo che l’azienda deve fare continuamente è quello di domandarsi: «Quali sono i vantaggi, i benefici
per il consumatore?», «Perché i clienti preferiscono la mia marca?»; domande alle quali è importante saper
fornire risposte razionali e quantificabili che costituiscano una solida base per costruire un’identità riconoscibile dal mercato.
6
Se in molti settori, in particolare nel largo consumo, lo sviluppo di politiche di estensione della marca ha
preso avvio come una delle tante possibili risposte per fronteggiare il potere della distribuzione, in altri casi
si sono percorse vie diverse più strettamente legate alla concorrenza e alla rivalità intrasettoriale e intersettoriale tra imprese.
7
Liberamente tratto da Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 1998.
8
Liberamente tratto da Invernizzi e Ripamonti 2002, pp. 245-254.
CAPITOLO
7
La pubblicità
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ma, inoltre, una serie di attività di comunicazione che dovrebbero essere svolte, non
solo dalla pubblicità, cominciando dall’informazione dell’esistenza del prodotto, dell’impresa, per suscitare poi un atteggiamento positivo e stimolare quindi un’azione di
qualche genere: acquistare il prodotto offerto, non cambiare fornitore (fidelizzazione), sottoscrivere un aumento di capitale, cambiare abitudini d’acquisto e di consumo, condividere un’idea ecc. Non esistono previsioni relative alla durata di ciascuno
stadio, ma generalmente accade che, all’aumentare della complessità dell’offerta e
dell’impegno finanziario richiesto, lo stadio conoscitivo tende a dilatarsi, potendo
durare anni; viceversa, per un nuovo prodotto in vendita nei supermercati, per l’apertura di un nuovo locale e, più in generale, per i prodotti cosiddetti banali, i passaggi
potrebbero aver luogo pressoché istantaneamente.
Grazie ai modelli gerarchici è pertanto possibile identificare gli obiettivi della pubblicità. Così, per esempio, nel caso del lancio di un nuovo prodotto, se dalle ricerche fosse
emerso uno scarso livello di consapevolezza circa gli attributi e le caratteristiche dell’offerta (comunicazione commerciale), ovvero quando un’impresa dovesse decidere
di quotarsi in Borsa o di entrare in un mercato internazionale in cui è poco conosciuta
(comunicazione istituzionale), ma anche nell’ipotesi di un’impresa in fase di sviluppo
alla ricerca di manager e collaboratori, distributori qualificati (comunicazione gestionale), in tutti questi casi sarebbe opportuno puntare sulla consapevolezza. Viceversa, nel
caso in cui risultasse un elevato livello di consapevolezza, ma una scarsa immagine dell’impresa o della sua offerta, la pubblicità dovrebbe orientarsi al raggiungimento di
obiettivi affettivi, come la creazione di una preferenza di marca o un nuovo posizionamento coerente con la strategia di marketing dell’impresa.
Rientrano nell’ambito degli obiettivi affettivi e di immagine le cosiddette campagne pubblicitarie di prodotto green marketing e le iniziative di cause related marketing
(CRM).
Green marketing – Nel green marketing si tratta di legare la comunicazione alla promozione di prodotti ecoefficienti, in grado cioè di non incidere, o incidere meno di altri,
sull’ambiente durante una parte o tutto il loro ciclo di vita (Conti 2002, p. 384). La ricerca e lo sviluppo di prodotti ecocompatibili sono attività relativamente recenti nel panorama internazionale e non tutte le esperienze hanno avuto lo stesso successo. Il problema di fondo è che non basta realizzare prodotti che garantiscano la compatibilità
ambientale, ma è necessario che gli stessi prodotti soddisfino anche le richieste dei
consumatori. La LCA (Life Cycle Assessment) studia gli aspetti ambientali e i potenziali
impatti lungo tutta la vita del prodotto, quindi dall’acquisizione delle materie prime sino
allo smaltimento: le etichette ecologiche, per esempio l’Ecolabel, attestano che il prodotto ha un ridotto impatto ambientale nel suo intero ciclo di vita.
Il caso COOP-Italia
Nel panorama italiano tra i primi prodotti certificati Ecolabel si trovano le carte per uso domestico. La COOP-Italia, per esempio, ha fatto certificare con il marchio Ecolabel (una margherita di
stelle) due prodotti: «Tutto casa COOP» e la «Carta igienica COOP». Il prodotto «Tutto casa
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LA COMUNICAZIONE AZIENDALE
COOP», per esempio, è ottenuto al 100 per cento da fibre di cellulosa recuperate da carta da
macero selezionata e non ha alcuna stampa colorata, il cilindro di cartone è riciclabile e l’involucro esterno è in politene.1
Cause related marketing – Nel caso di cause related marketing, si tratta di legare
l’attività dell’impresa alla sua responsabilità sociale, di costruire un’immagine positiva
anche dal punto di vista sociale e non solo industriale o finanziario. Attraverso le iniziative di CRM si cerca di far percepire l’impresa come un elemento indispensabile, o
quanto meno utile, allo sviluppo della comunità sociopolitica, alla tutela dell’ambiente,
coniugando profit e non-profit. Non si tratta di filantropia, ma di attività commerciali
che perseguono un obiettivo aziendale coniugato però con un vantaggio per una causa
sociale. Il caso più noto e più a lungo realizzato in Italia di CRM è quello relativo alla
partnership di caused related marketing tra Perfetti e WWF che prevede un contributo
per ogni stick di Golia Bianca venduto per salvare l’orso bianco.
È difficile collocare tali inziative in ambito esclusivamente pubblicitario. Si tratta,
infatti di politiche d’impresa che trovano nelle sponsorizzazioni sociali lo strumento di
comunicazione più idoneo. L’argomento verrà pertanto ripreso nel capitolo 13, relativo
alle sponsorizzazioni.
La pubblicità, infine, può puntare anche a obiettivi comportamentali quali: la prova
del prodotto (nel caso di nuovi prodotti o di prodotti con bassi tassi di utilizzo) o la ripetizione degli acquisti, l’acquisto delle proprie azioni o la sottoscrizione delle obbligazioni, la fedeltà alla marca, un maggior coinvolgimento dei propri dipendenti ai progetti di
sviluppo dell’azienda.
Ciclo di vita del prodotto e comunicazione – Esiste una correlazione tra ciclo di
vita del prodotto (e si potrebbe dire dell’impresa) e gli obiettivi perseguibili attraverso
la comunicazione pubblicitaria e non solo.
Quando si ha a che fare con una nuova categoria di prodotto (bene o servizio), l’obiettivo principale consiste nel presentare ai soggetti di domanda le caratteristiche del
prodotto e, se è il caso, il suo vantaggio relativo rispetto al prodotto che si trova a sostituire. Gli esempi in questo senso sono numerosi: basti pensare a lancio dei DVD che
hanno sostituito le viedocassette, nelle cui campagne di lancio si sono enfatizzati gli
aspetti relativi alla definizione dell’immagine e all’ingombro; alle lenti a contatto usa e
getta, ai fondi comuni d’investimento ecc. Nello stadio di crescita del ciclo di vita si
assiste, normalmente, a un aumento della concorrenza sia a livello istituzionale sia di
prodotto e, di conseguenza, nasce il bisogno di porre l’accento sugli elementi di differenziazione e sulla superiorità della marca. Si tendono a privilegiare, quindi, obiettivi
pubblicitari di tipo affettivo eccezion fatta per le nuove marche che si affacciano sul
mercato in questa fase. Infine, nella fase di maturità, la concorrenza è intensa e i prodotti presentano caratteristiche affini. In questa fase l’immagine (obiettivo affettivo) e
la fedeltà alla marca (obiettivo comportamentale) risultano entrambe estremamente
importanti. Tipico il caso delle banche, delle automobili, ma anche dei detersivi, della
Nutella o della Barilla.
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LA COMUNICAZIONE AZIENDALE
no comunque l’attenzione, fanno parlare di sé e del prodotto anche quando vengono
condannate e ritirate dal mercato.
La paura e l’ansia – Occasionalmente, infine, le imprese ricorrono a messaggi pensati per aumentare lo stato d’ansia o la paura del pubblico. Esistono almeno due tipi di
appelli basati sulla paura (Bragozzi e Moore 1994): la minaccia di conseguenze fisiche
negative e la minaccia di disapprovazione sociale. Nel primo caso la comunicazione
tende a sottolineare il danno derivante dalla mancata adozione di un determinato comportamento o dal mancato uso di un certo prodotto (si pensi alle campagne sociali sull’uso del casco o della cintura di sicurezza). Nel caso della minaccia di disapprovazione
sociale il comunicatore tende a suggerire al destinatario il rischio di essere isolato, ridicolizzato, denigrato come individuo se non adotta determinati comportamenti o prodotti («No Martini, no party!», adesivi per dentiere, deodoranti ecc.). Il meccanismo
della paura, minacciando il benessere di un individuo, gli causa una dissonanza cognitiva che può essere risolta rifiutando il messaggio (negando a se stessi di averlo visto) o
aderendo al suggerimento proposto dal messaggio medesimo.
Anche il ricorso alla paura, come nel caso degli stati d’animo negativi, richiede da
parte delle imprese delle serie riflessioni di ordine etico e morale. Dal punto di vista
prettamente operativo occorre invece sottolineare che non sempre la paura indotta dalla comunicazione produce un maggiore effetto persuasivo; talvolta si è rilevata una
riduzione della persuasione all’aumentare del livello della paura dovuta a un meccanismo di difesa che porta alla rimozione del messaggio (Sternthal e Craig 1974).
Il caso Rana
Budget limitato, episodicità delle azioni, mancanza di coerenza nella costruzione del messaggio
sono alcuni tipici handicap delle aziende di minori dimensioni nella comunicazione d’impresa.
Ma c’è chi vanta un indice di notorietà da fare invidia a molti personaggi dello spettacolo, al punto
da arrivare a mettere la propria faccia sul prodotto che vende. Si tratta di Giovanni Rana che da
San Giovanni Lupatoto (Verona) è arrivato a vendere i suoi tortellini in tutta Europa.
«Gli imprenditori di prima generazione» dice il fondatore dell’impero della pasta fresca che ha
ormai lasciato il timone operativo dell’azienda al figlio Gian Luca «spesso tendono a mettere il
proprio nome «in ditta». Sotto l’aspetto manageriale fa squadra, «senso di noi», cultura d’impresa.
Io ho fatto di più. Ho voluto mettere la mia faccia. Anche perché non ho paura di perderla. Il
nostro livello di qualità è fuori discussione».
E alcuni anni fa, quando Rana ha deciso di scendere in campo direttamente, ha rilanciato alla
grande, in prima persona la tradizione del testimonial, inaugurata a Carosello dal farmacista Nico
Ciccarelli che rimproverava Giorgia Moll perché enfatizzava gli effetti della «Pasta del capitano».
Dopo Rana altri imprenditori hanno deciso di scendere in campo direttamente: Gancia, Amadori,
Doris, per citarne alcuni.
Certo, il nome breve e facile da ricordare aiuta, come pure un phisique du rôle, che ben si addice
a promuovere un prodotto alimentare. Ma Rana ha saputo capitalizzare tutto questo con una strategia a 360 gradi che ha portato l’azienda veronese a mettere la foto del fondatore sulle confezioni vendute in Spagna. In Francia, invece, hanno preferito la pubblicità comparativa con il leader
del mercato, Lustucru, che ha reagito con una denuncia. Il leader francese non solo ha perso la
causa, ma facendo parlare i giornali, ha portato la notorietà di Rana al 50 per cento.
CAPITOLO
10
La promozione delle vendite
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proponente. In tali tipologie d’impresa si ricorre più facilmente all’offerta di facilitazioni e omaggi di valenza emotiva e personale, al fine di favorire il rafforzamento della
relazione fiduciaria con alcuni dei clienti acquisiti. Così facendo, infatti, i clienti tendono a percepire l’impresa come una struttura volta a realizzare bisogni e aspettative
anche ludiche.
Il caso Azimut «Formula 1»
Un caso emblematico di promozione, volta all’acquisizione di nuovi clienti, è quello realizzato da
Azimut nel 2001: si tratta della «Prova rendimento» del Fondo Formula 1 Anno Conservative. L’offerta è consistita nell’invito alla prova di un fondo a rischio medio-basso al fine di dimostrare le
capacità di gestione del soggetto proponente. Azimut ha messo a disposizione dei potenziali
clienti quote del fondo Formula 1 Anno Conservative pari all’importo minimo necessario per investire nei fondi Azimut (1500 euro), offrendo, a chi aderiva all’invito, la possibilità di entrare in possesso in qualsiasi momento (entro il 31 gennaio 2002) delle quote con il rendimento già
eventualmente realizzato, versando solo la cifra iniziale.
In quest’ottica, le iniziative promozionali tendono a perseguire obiettivi strategici di
lungo periodo, che consistono nell’accrescimento della notorietà e dell’immagine del
prodotto, del marchio o dell’impresa, potendo quindi essere utilizzate nell’ambito della
comunicazione commerciale, istituzionale, ma anche in quella gestionale. Tutto ciò
rientra più propriamente nell’ambito della cosiddetta attività di merchandising.
Definizione di merchandising – Il termine «merchandising» non trova uniformità
d’interpretazioni nella dottrina e nella prassi: nell’ambito della grande distribuzione
organizzata e, più in generale, nella letteratura di marketing, il merchandising è definibile come l’insieme delle attività svolte sul punto vendita atte ad accelerare la rotazione
dei prodotti esposti su superfici a libero servizio. In quest’ottica il merchandising si
identifica con tutte le tecniche atte a ottimizzare il sell-out e a comunicare immagine e
professionalità venendo a coincidere sostanzialmente con il concetto di visual merchandising, ovvero con le attività di comunicazione che, nel presente lavoro, vengono
affrontate in termini di comunicazione interpersonale e di ruolo delle strutture fisiche.
Queste promozioni consistono in qualunque cosa atta a indurre i clienti a comprare o a
intraprendere un’azione, tramite esposizioni e atmosfere. Esse comprendono le esposizioni in vetrina, le esposizioni sugli scaffali e nelle corsie, l’impiego di video e altri
richiami a uno qualunque dei cinque sensi. Questi elementi, insieme all’uso di una
musica di sottofondo, possono essere utilizzati allo scopo di creare un ambiente favorevole per incoraggiare le vendite e ulteriori visite al punto vendita.
Dal punto di vista giuridico e nella prassi di altri operatori della comunicazione, il termine merchandising riguarda un contratto relativo alla produzione di oggetti (magliette, adesivi, cappellini, sciarpe, gadget, giocattoli ecc.) che richiamano un gruppo musicale, un film, una squadra di calcio, un evento, una marca, un’impresa. È accogliendo
questo profilo concettuale del merchandising che risulta possibile affermare in questa
sede che tale attività può essere considerata una particolare forma o modalità di pro-
412
LA COMUNICAZIONE AZIENDALE
Le sponsorizzazioni sociali – Le sponsorizzazioni nel Un esempio di sponsorizzazione
sociale (good causes o cause related marketing), infine, culturale: Galbani-Danone Group
finanzia la ristrutturazione
attualmente molto diffuse, sono costituite dal sostegno
della Porziuncola
fornito da talune imprese a cause di interesse generale.
Le imprese vantano una lunga storia di contributi a cause caritatevoli, ma negli ultimi tempi sono diventate sempre più interessate a realizzare vantaggi commerciali dai
finanziamenti realizzati nel sociale. Il marketing a favore
di una causa permette alle aziende di dare un’immagine
di loro stesse come «altruiste, caritatevoli, orientate alla
comunità e umane» (Meenaghan 1998). Le aree sociali
più considerate dalle imprese sono quelle dei giovani, Fonte: Assorel, 5 anni di premio «Marco
della formazione e dell’occupazione, della salute (della Borsa», 196 casi, le migliori campagne di
ricerca e della prevenzione), del disagio e dell’emargina- relazioni pubbliche, 2002
zione, degli anziani, dell’ecologia e dei beni culturali.
Tali forme di sponsorizzazione tendono a sostituirsi alle donazioni filantropiche e
caritatevoli e a collocarsi, talvolta, in forma ibrida fra le promozioni in molti casi,
infatti, si tratta dell’impegno da parte dell’impresa di destinare una parte del proprio
fatturato al sostegno di una causa o di un organismo caritatevole. La campagna promozionale organizzata da American Express a favore del restauro della Statua della
Libertà di New York ne è un ottimo esempio.
Il caso American Express
L’obiettivo della promozione era triplice:
1. aumentare il tasso di utilizzo della carta da parte degli utenti;
2. incoraggiare i distributori ad accettare la carta come modalità di pagamento;
3. migliorare l’immagine della società. American Express si impegnava a devolvere un centesimo
di dollaro per ogni transazione effettuata negli USA e 1 dollaro per ogni carta rilasciata nell’ultimo
trimestre dell’anno.
La campagna è stata vantaggiosa per lo sponsor e per la causa. Sono stati raccolti circa 1,7
milioni di dollari per il progetto di restauro e il tasso di utilizzo della carta AmEx è aumentato del
2,8 per cento rispetto all’anno precedente, con una migliore accoglienza da parte dei distributori (Meenaghan 1998).
La sponsorizzazione sociale di Dash
Sono tre le campagne di cause related marketing che hanno coinvolto il marchio Dash in iniziative sociali. Tutte a favore dell’Africa e tutte lanciate con la stessa formula a distanza di cinque anni
una dall’altra: una raccolta fondi finalizzata a una precisa realizzazione e comunicata attraverso il
piccolo schermo da presentatori noti come Adriano Cementano, Pippo Baudo e Paolo Bonolis.
La prima volta, nel 1987, Procter & Gamble, titolare della marca, adotta la causa dell’analfabetismo nei villaggi rurali del Kenya e riesce a costruire una scuola in un villaggio. Nella seconda campagna decide di associarsi all’inglese ActionAid per portare acqua e strutture sanitarie in Etiopia.
Nel 1997 Dash rinforza la sua immagine nell’impegno sociale con la campagna «Dash per Unicef,
una scuola per l’Angola» con l’obiettivo di formare cinquemila maestri, inviando strumenti di
lavoro e kit scolastici.6
CAPITOLO
13
La sponsorizzazione
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2. un obiettivo di realismo della messa in scena: per rendere in modo efficace una
situazione, una scena, un personaggio è necessario circondarlo di oggetti reali, tra
cui i beni di consumo di marca. In alcuni casi si va ben oltre il realismo, con una presenza dei prodotti di marca così evidente e palese da rendere praticamente impossibile definire il confine tra la natura pubblicitaria e la natura di product placement dell’inserimento del prodotto nella sceneggiatura.
Dal punto di vista delle aziende inserzioniste, il product placement consente di perseguire i seguenti obiettivi:
• visibilità e notorietà al proprio prodotto;
• caratterizzazione del prodotto in relazione al grado di integrazione con la storia e all’intensità dell’esposizione;
• immunità da pratiche elusive, come lo zapping, consentendo un livello di attenzione
più elevato rispetto alla pubblicità;
• il raggiungimento di un’audience significativa. La presenza dei brand nei film di un
certo livello garantisce infatti un numero di contatti di gran lunga superiore al numero di spettatori del circuito cinematografico: i passaggi televisivi, l’home video costituiscono una fonte di audience di dimensioni interessanti. Stime recenti indicano
una distribuzione dei ricavi pari a circa un quarto per il box office, un quarto per la tv
e il resto al mercato home video (Dalli 2005).
Il caso dei Ritz
Nel film A proposito di Henry (1991) il prodotto svolge una funzione terapeutica: «Durante la riabilitazione, l’avvocato dipinge ossessivamente quadri su quadri dei famosi cracker. I Ritz compaiono spessissimo sia nella confezione originale, sia nei dipinti, sia nei dialoghi. Il loro ruolo si spiega
quasi alla fine della vicenda, quando l’avvocato passa davanti all’Hotel Ritz Carlton nel quale, prima di perdere la memoria, si vedeva con una collega di lavoro per un rapporto extraconiugale»
(Dalli, 2005, p. 83).
L’efficacia del product placement – È evidente che per le aziende inserzioniste l’aspetto più rilevante riguarda la misurazione dell’efficacia di questa forma di comunicazione in termini di risposta dei consumatori.
L’evidenza empirica mostra che, se qualche segnale di efficacia si riscontra per ciò
che riguarda la notorietà, non esiste un’evidenza generalizzabile sulla possibilità di
influenzare l’atteggiamento e soprattutto l’acquisto vero e proprio.
Tuttavia, si condivide la posizione di chi ha affermato che i beni culturali (film, musica, libri ecc.) costituiscono una categoria di beni di consumo dall’elevato contenuto
simbolico e, pertanto, che hanno un ruolo sostanziale nella costruzione dell’identità
del consumatore (Dalli 2005). In questa prospettiva, le marche che compaiono nei film
contribuiscono al processo di autoidentificazione del consumatore in modo più diretto
di quanto non accada attraverso il consumo in senso materiale (Fabris 2003).
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