INDICATORI SOCIALI E DI QUALITA’ DELLA VITA. Dispensa del corso di sociologia urbana di Francesca Silvia Rota Indice Premessa. Gli indicatori nelle scienze sociali………………………………………………………..pag. 2 L’evoluzione nelle applicazioni degli indicatori sociali……………………………………………..pag. 3 Le premesse teoriche e le tecniche di analisi nei programmi di raccolta degli indicatori di sviluppo e di qualità della vita…………………………………………………... pag. 7 Alcuni esempi di indicatori sociali………………………………………………………………….. pag. 11 La ricerca basata sugli indicatori sociali in Italia…...………………………………………………..pag. 18 Riferimenti bibliografici…………………………………………………………………………….. pag. 21 Elenco siti internet …………………………………………………………………………………. pag. 23 Premessa. Gli indicatori nelle scienze sociali Le scienze sociali, nel loro cammino di sviluppo, hanno dovuto fronteggiare numerose difficoltà. Tali difficoltà, particolarmente evidenti nelle fasi iniziali dell’evoluzione di queste discipline, possono essere imputate al verificarsi di più fattori. In parte, esse sono ascrivibili alla complessità dell’oggetto di studio (le scienze sociali nascono con lo scopo di ricercare le leggi che governano le società industriali) ed al fatto che le scienze sociali costituiscono un’invenzione piuttosto recente nell’ambito della ricerca scientifica. In parte, esse sono dovute alla problematicità della creazione di un contesto sperimentale in campo sociale ed al fatto che la società costituisce ‘un bersaglio mobile’ in adattamento continuo ai mutamenti del contesto (Martinotti, 1997). Tutt’oggi, le scienze sociali si trovano di fronte ad una duplice sfida: - la necessità di capire – e fronteggiare – le accresciute e mutevoli complessità che caratterizzano le entità sovranazionali di recente formazione (Unione europea); la necessità di rispondere adeguatamene alla maggiore interconnettività delle comunicazioni sociali. Nel tentativo di superare le difficoltà incontrate, uno degli strumenti che le discipline sociali si sono date nel corso del tempo è stato quello dell’eleborazione di indicatori sociali1. Indicatori che – come si vadrà in seguito – vengono inizialmente costruiti con lo scopo di fornire indicazioni ai decisori, in vista dell’elaborazione di politiche e programmi di sviluppo (‘movimento degli indicatori sociali’), ma che, in seguito, trovano applicazione sempre più diffusa e significativa in molteplici altri settori. La ricerca sugli indicatori sociali è un fenomeno caratteristico dei paesi ad elevato livello di sviluppo che, soprattutto negli ultimi tempi, sta assumendo dimensioni inedite. Si assiste oggi a quello che viene definito un generale processo di ‘alfabetizzazione statistica’ (Martinotti, 1992), ovvero ad una straordinaria diffusione di produttori e fruitori di dati relativi ai fenomeni sociali e statistiche (siano esse prodotte dagli enti pubblici, o dalla ricerca sociale autonoma), accompagnata ad una pervasiva opera di divulgazione di tali dati da parte dei mass media e del rapido diffondersi delle tecnologie informatiche. Il fenomeno è presente anche nel nostro paese, dove, non solo si assiste all’ampliamento del ruolo dei produttori ufficiali ed istituzionali di dati, primo tra tutti l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ma si assiste anche alla caduta del ‘regime di monopolio’ in cui essi lavoravano. A queste trasformazioni di fondo si accompagna, in generale, un allargamento di interesse e di attenzione (da parte della pubblica amministrazione, degli istituti di ricerca e dei singoli ricercatori) verso lo studio delle caratteristiche socioeconomiche dei diversi tipi di aree territoriali e delle loro modificazioni, e, più in particolare, del differente livello di benessere e qualità della vita che ivi si registra (Zajczyk, 1997). Inoltre – come accennato in precedenza –, con l’emergere della nuova entità territoriale europea, per le scienze sociali si fa sempre più urgente la necessità di elaborare una scienza sociale di prospettiva europea, che sia basata su principi di interdisciplinarietà e sulla consapevolezza della diversità delle culture che la compongono, ma che, allo stesso tempo, non risulti vincolata a nessuna di queste; in altre parole, anche a livello sovralocale, si pone alle scienze sociali (soprattutto alla 1 Secondo Guala (2000), “un fenomeno complesso ed articolato può essere colto attraverso una serie di concetti più semplici e specifici, i quali diventano strumenti che descrivono aspetti e problemi del fenomeno complesso” (p. 447). L’utilità degli indicatori dunque risiede in tale funzione denotativa, resa possibile dall’instaurarsi di ‘rapporto di indicazione’, ovvero di un nesso tra il concetto più generale che si vuole indagare e quelli più specifici ed analitici che servono a livello operazionale come misura e sintomo del fenomeno più generale. A titolo esemplificativo, la ‘qualità urbana’ (che costituisce sicuramente un fenomeno complesso) può essere descritta schematicamente attraverso numerosi indicatori analitici quali: l’utilizzazione di trasporti pubblici, la fruizione di servizi, la distribuzione di aree verdi e strutture sportive, la composizione dell’utenza dell’offerta culturale ecc (Guala, 2000). 2 sociologia) il problema di sviluppare misure che siano decontestualizzate2, quali sono (appunto) gli indicatori sociali (Martinotti, 1997). Ciò premesso, si analizzeranno, in primo luogo, le fasi temporali che hanno scandito la ricerca sugli indicatori sociali, evidenziandone le premesse teoriche e le condizioni di contesto (L’evoluzione nelle applicazioni degli indicatori sociali). Successivamente, si andranno a considerare specificatamente gli indicatori di sviluppo e di qualità della vita, di cui si illustreranno i presupposti concettuali, le tecniche di analisi (Le premesse teoriche e le tecniche di analisi nei programmi di raccolta degli indicatori di sviluppo e di qualità della vita) e qualche esempio pratico (Alcuni esempi di indicatori sociali). Infine, si cercherà di tratteggiare come si sia vissuta nel nostro paese l’esperienza del ‘movimento degli indicatori sociali’ e quali risultati abbia prodotto (La ricerca basata sugli indicatori sociali in Italia). L’evoluzione nelle applicazioni degli indicatori sociali Secondo gli studiosi della materia (Zajczyk, 1997), i presupposti della ricerca sugli indicatori sociali possono essere fatti risalire all’esperienza maturata negli Stati Uniti, nel corso degli anni venti e trenta di questo secolo; in particolar modo, essi si riferiscono all’opera del sociologo statunitense William Ogburn che, tra il 1928 e il 1942, cura la redazione di una serie di rapporti sociali, tra cui il più noto, Tendenze sociali recenti negli Stati Uniti, viene pubblicato nel 1933 dai Comitati presidenziali e costituisce per anni l’unico modello di riferimento per la redazione delle moderne inchieste sociali. La ricerca riceve un nuovo impulso nel 1954, quando l’ONU nomina una commissione con il compito di migliorare la rilevazione dei livelli di vita attraverso una più puntuale definizione dei contenuti del concetto di Standard of Living e degli indicatori necessari. Ma, a dire il vero, è poi solo con il progetto dell’agenzia spaziale NASA (teso a studiare gli effetti indiretti del programma spaziale sulla società americana) che si può far coincidere l’origine degli indicatori sociali, definiti da Bauer (1966) “le statistiche, le serie statistiche ed ogni altra forma di valutazione che ci consentano di determinare dove siamo, e dove stiamo andando, rispetto ai nostri valori e obiettivi” (p. 115). A questo proposito, è interessante sottolineare il fatto che la problematica della qualità della vita (tema centrale della riflessione sugli indicatori sociali) giunge con molto ritardo in ambito accademico. Szlalai e Andrews (1980), denunciano questa situazione, sottolineando come l’origine dell’espressione ‘qualità della vita’ (o, meglio, del suo uso su larga scala) non derivi da ambienti universitari, bensì dai mezzi di comunicazione di massa che, fin dai tardi anni cinquanta, si occupano di problemi legati all'inquinamento ambientale e al deterioramento delle condizioni di vita urbane. Per quel che riguarda il contesto (socioeconomico e culturale) in cui si avviano queste iniziali sperimentazioni sugli indicatori sociali, gli anni sono quelli tra i ‘50 e l'inizio dei ‘60, anni dominati dall’affermarsi delle teorie economicistiche ed evoluzionistiche dello sviluppo, in base alle quali: - lo sviluppo economico costituisce un processo che avanza per fasi successive; il benessere costituisce una condizione derivante, quali automaticamente, dalla crescita economica. 2 L’aggettivo ‘decontestualizzato’ viene qui utilizzato per indicare che la misura ricercata deve essere in grado di cogliere il significato funzionale, e perciò astratto e generalizzabile, di una determinata osservazione sulla realtà sociale (Zajczyk, 1997). 3 In merito a ciò, di particolare interesse è la teoria dei cinque stadi elaborata da Rostow, il quale teorizza che lo sviluppo storico della società industriale passi sempre attraverso cinque fasi successive: 1. 2. 3. 4. 5. la fase definita ‘della società tradizionale’; la fase in cui si creano le condizioni di base per il ‘decollo’ economico; la fase durante la quale si realizza il ‘decollo’ economico; la fase definita di ‘progresso verso la maturità’; la fase caratterizzata dall’affermarsi di modelli di consumo di massa. I primi indicatori elaborati dalle scienze sociali vengono impiegati per analizzare (e possibilmente comprendere) le leggi o le regolarità che sottostanno al funzionamento delle società industriali: si tratta per lo più di indicatori di tipo economico, che misurano il livello di benessere raggiunto dalla comunità attraverso la quantificazione di grandezze esclusivamente monetarie (come ad esempio il calcolo del Prodotto interno lordo – PIL - pro capite). La situazione muta profondamente soprttutto intorno alla metà degli anni sessanta; in questo periodo, caratterizzato da profondi conflitti sociali, in numerosi paesi, si assiste alla crisi delle concezioni evoluzionistiche ed economicistiche dello sviluppo ed all’affermarsi di considerazioni più critiche a riguardo dei modelli dominanti di crescita economica. Si assiste a quella “crisi del mito dello Sviluppo e dell’Illimitato, del Progresso e del Benessere, del Programma, in sintesi, della modernità e dell’Occidente, [che] trascina nella propria caduta i grandi paradigmi che hanno costituito i presupposti del suo pensiero, primo tra i quali l’universalismo, quella opinione e idea secondo cui esistono verità scientifiche che sono valide in tutti i contesti spaziali e temporali” (Scandurra, 1999, p. 13) e tra i politici e gli studiosi si viene affermando la consapevolezza che: • • • • lo sviluppo non si attua spontaneamente in tutti i paesi; anche nei paesi sviluppati, lo sviluppo non porta uguali benefici a tutti i contesti e a tutti i gruppi sociali; vi sono conseguenze indesiderabili connesse con lo sviluppo (soprattutto in campo ambientale e sociale); la crescita economica non porta automaticamente ad un miglioramento della qualità della vita. Le scienze sociali si trovano a dover fronteggiare l’emergere di una forte domanda (espressa dalla classe politica e amministrativa) di nuovi criteri e maggiori informazioni, attraverso cui guidare le politiche sociali. Il ‘movimento degli indicatori’ costituisce la risposta a tale domanda. I tratti salienti della nascita e della storia di tale movimento e delle fasi relative all’uso degli indicatori sociali possono essere suddividisi in tre differenti tappe temporali (Zajczyk, 1997): a) una prima fase (comprendente gli anni ‘60 e ‘70) nella quale si sanziona la nascita del movimento degli indicatori sociali e la sua diffusione negli ambienti pubblici ed in quelli accademici; b) una seconda fase (nel periodo che va dalla fine degli anni ‘70 alla metà degli anni ‘80), che, secondo alcuni (Innes, 1990), può essere interpretata come una fase di crisi, disillusione e delusione del movimento, secondo altri (Andrews, 1990), come un momento di consolidamento e maturazione; c) una terza fase (dalla fine degli anni ‘80 sino ad oggi), che vede una ‘rivitalizzazione’ nella ricerca sugli indicatori sociali, in particolare per quel che concerne la comparabilità internazionale delle statistiche sociali. Posto ciò, si vede più nello specifico in che cosa consiste ciascuna fase temporale. 4 Prima fase. Lo sviluppo iniziale del movimento degli indicatori sociali. Si può dire che l’interesse per gli indicatori sociali trovi origine, negli Stati Uniti, verso la metà degli anni sessanta. Tuttavia, un consolidamento fondamentale di questo tipo di ricerca lo si registra nel 1970, con l’avvio del programma OCSE sugli indicatori sociali, seguito, nel 1974, dallo sviluppo (da parte dell’ONU ed in collaborazione con la Conferenza degli statistici europei) di un innovativo Sistema di statistiche sociali e demografiche (United Nations, 1975). Questa prima fase di studi e sperimentazioni si accompagna ad un progressivo intensificarsi del rapporto tra ricerca e potere. Il momento pubblico sempre più si pone come committente della ricerca sociale al punto che la maggior parte degli studi vengono avviati in risposta alle esigenze conoscitive espresse dalla pubblica amministrazione. E’ dunque in questo quadro di partecipazione ed impegno ‘quasi missionario’ che coinvolge contemporaneamente ricercatori, dirigenti del settore pubblico e politici, che nasce il cosiddetto ‘movimento degli indicatori sociali’; il movimento si origina inizialmente negli Stati Uniti, ma, in breve, trova ampia diffusione anche nei paesi europei. In Europa, in particolare, il movimento degli indicatori assume delle caratteristiche specifiche; qui, infatti, l’incentivo alla ricerca non sorge principalmente da pressioni e richieste governative, ma, piuttosto, la ricerca si svolge per lo più a livello accademico o all’interno di istituti di ricerca pubblici non direttamente collegati all’attività governativa. Il risultato di tutto ciò è che non si può parlare, per i paesi europei, di attività di ricerca con rilevante incisività nel processo di formazione delle scelte politiche. Durante questa prima fase di sviluppo degli indicatori sociali, vengono inoltre formulati alcuni degli interrogativi ‘chiave’ della ricerca sociologica: ci si interroga su quali siano gli aspetti del sociale da privilegiare, quali siano i dati da utilizzare, a quali soggetti (tra committente pubblico e ricercatore) vada assegnato l’incarico di individuare i social concerns (preoccupazioni sociali) da analizzare. Di questi anni sono infatti i primi modelli di contabilità sociale ed i primi rapporti annuali (sistema di ‘bilancioprogramma-pianificazione’, ‘analisi costi-benefici/costi-efficacia’ ecc.), redatti in vista di uno sforzo comune di definizione di un sistema di informazione sociale sufficientemente sviluppato da consentire l’analisi dei cambiamenti sociali e l’elaborazione di modelli esplicativi e di predizione (Sheldon e Moore, 1960). Per quel che riguarda le motivazioni, i presupposti che determinano l’ascesa e la diffusione del ‘movimento degli indicatori sociali’, se ne possono evidenziare due in particolare. La prima motivazione va riferita allo specifico clima politico presente alla fine degli anni sessanta. In quegli anni, nelle società sviluppate del mondo occidentale, si comincia a mettere in dubbio l’equivalenza tra crescita economica e progresso sociale: il concetto di ‘qualità della vita’ diviene obiettivo primario di carattere multidimensionale nella politica sociale. La seconda motivazione va riportata alla crescente domanda di informazione avanzata da una politica sociale sempre più ‘attiva’, ovvero da un politica pubblica che sempre più necessita dell’informazione sociale per diagnosticare i problemi, stabilire le priorità, controllare e valutare le conseguenze delle sue decisioni, nonché trovare soluzioni operative. Seconda fase. Un momento di stagnazione Dopo una fase caratterizzata da entusiasmo e forse eccessive aspettative, in tutti i paesi sviluppati la ricerca sugli indicatori sociali entra in un periodo in cui prevalgono gli elementi di difficoltà e di riflessione critica. Abbiamo visto come, inizialmente, agli indicatori sociali venissero attribuite funzioni anche molto complesse, non solo di rilevazione del benessere e di analisi del cambiamento sociale, ma 5 anche di diagnosi dei problemi sociali e di valutazione dei programmi. Aspettative forse eccessive che (probabilmente) sono tra le cause principali di quella crisi degli indicatori sociali che si delinea verso la fine degli anni ottanta. L’ambizioso progetto di usare gli indicatori sociali ai fini diretti delle decisioni politiche e della programmazione sociale, si ridimensiona nel tempo. Benchè si continui a credere nella capacità degli indicatori di rendere più efficaci i processi decisionali, ci si rende altresì conto che questa relazione non è sempre dimostrabile e si finisce con l’attribuire agli strumenti statistici una funzione prevalentemente conoscitiva. Il fenomeno viene dibattuto soprattutto a livello internazionale, dove non assume tanto i connotati di una crisi, quanto piuttosto di una riduzione dell'interesse, che porta con sé una fase di stagnazione delle iniziative di ricerca e delle pubblicazioni. Tra i fattori che intervengono a determinare tale situazione occorre annoverare in particolare quelli di ordine economico e politico; infatti, in molti paesi sviluppati, negli anni '80 si registrano condizioni economiche meno ‘floride’, che inducono le pubbliche amministrazioni (quella statunitense e quella inglese in particolare, ma non solo quelle) ad apportare pesanti tagli negli investimenti della ricerca sociologica e del monitoraggio. Tagli che colpiscono soprattutto istituzioni come l’OCDE e l’UNESCO, che, nel periodo precedente, avevano investito molto nel tentativo di promuovere un sistema internazionale di statistiche. Non mancano, tuttavia, anche motivazioni di ordine teorico e metodologico, dovute alla mancanza di un modello teorico d’interpretazione della realtà sociale universalmente accettato, mancanza che rende difficile la formulazione di un sistema di indicatori sociali a sua volta ampiamente condivisibile; oltre a ciò si aggiunga il fatto che, nelle scienze sociali, manca anche un ‘comune sistema di misurazione’, quale può essere invece quello basato sul calcolo monetario per le scienze economiche. Terza fase. Il rilancio nella ricerca sugli indicatori sociali.. Più tardi, a partire dalla metà degli anni ottanta, si assiste ad un progressivo rilancio delle pubblicazioni sui dati relativi ai fenomeni sociali e sulle statistiche. Tale ripresa negli studi sociali si verifica in tutti i paesi occidentali ed è dovuta all’affermarsi di un bisogno urgente, tempestivo e mirato di informazione, a sua volta determinato dalla rapidità e varietà con cui si manifestano le trasformazioni sociali, dopo la crisi del cosiddetto "modello fordista" di società industriale. Si assiste al nascere di un rinnovato interesse per gli indicatori sociali e, contemporaneamente, allo spostamento di tale attenzione dal livello sovranazionale e nazionale a quello locale (nel caso dell’Italia, al livello provinciale o comunale). In molti paesi industrializzati, si verifica un vero e proprio ‘boom’ nella redazione di rapporti e compendi di statistiche sociali: documenti finalizzati ad ottenere una migliore definizione dei programmi di politica sociale, sulla base dell’analisi del livello del benessere socioeconomico raggiunto dalle popolazioni. Rapporti ed indagini sociali che, a seconda delle funzioni attribuite agli indicatori sociali, vengono ‘caricati’ molteplici definizioni e scopi3 . Si hanno, ad esempio: • • • 3 rapporti sociali finalizzati alla rilevazione del benessere di una determinata popolazione, tramite la raccolta di informazioni statistiche; rapporti sociali finalizzati all’osservazione del cambiamento sociale (in questo caso gli indicatori sociali assumono una funzione dinamica connessa all’analisi dei sistemi); rapporti sociali finalizzati alla predizione ed individuazione di misure di controllo. Tali rapporti possono ad esempio assumere le caratteristiche di “documenti che descrivono le condizioni sociali passate e presenti, con riguardo soprattutto agli aspetti sociali particolarmente rilevanti per le condizioni di vita delle popolazioni” (United Nations, 6 In questo periodo, assume un forte rilievo anche l'impluso proveniente dai programmi e delle iniziative promosse dall'Unione Europea. Significativo, a questo proposito è l’impegno dell’agenzia comunitaria Eurostat, il cui lavoro consiste nel promuovere l’adozione di un linguaggio statistico condiviso a livello eurocomunitario attraverso l'avvio della standardizzazione delle nomenclature dei modelli di rilevazione e dei questionari usati nelle indagini. L’Eurostat, inoltre, amplia il campo della produzione statistica comunitaria, coinvolgendo nuovi settori di intervento politico e di interesse pubblico, ed incentiva la produzione di indagini campionarie dirette di indicatori statistici4. Tra le più recenti tendenze negli studi sugli indicatori sociali, è possibile delineare alcune linee di sviluppo: - la crescente attenzione da parte di sociologi e politici nei confronti dei valori della ‘qualità della vita’ che provoca una progressiva complessificazione e diversificazione degli indicatori; - le recenti esperienze (soprattutto a livello internazionale ed europeo) di pluralismo metodologico (Marra, 1989); ovvero, le recenti sperimentazioni di forme di integrazione tra dati ecologici, aggregati, e dati di survey, individuali e tra dati oggettivi di contesto e dati soggettivi di opinione, percezione, bisogno. Il fenomeno risponde, a sua volta, ad una duplice necessità: la necessità di soddisfazione (attraverso il valore aggiunto che deriva dalla possibilità di integrare informazioni e indicatori elaborati sulla base di dati di natura diversa) di bisogni conoscitivi sempre più complessi; la necessità di rendere i dati e, quindi, gli indicatori più comparabili (Zajczyk, 1997). A livello internazionale, si possono contare da tempo alcune importanti attività di raccolta diacronica di indicatori sociali di diverso tipo (oggettivo e soggettivo), tra cui le surveys sulla qualità della vita dei paesi scandinavi, lo SPES-sistema di indicatori sociali della Germania occidentale, il Social Trends della Gran Bretagna, gli Eurobarometri dei paesi della Comunità europea ecc; - la maggiore attenzione posta allo studio della qualità della vità in ambito urbano. E’ infatti proprio nelle città, e cioè nei luoghi dove si concentrano maggiormente risorse e popolazione, che le contraddizioni della civiltà moderna acquistano i caratteri più manifesti, principalmente in termini di diseguaglianza e disagio sociale. Le premesse teoriche e tecniche di analisi nell’elaborazione di programmi di raccolta di indicatori di sviluppo e di qualità della vita Uno specifico settore di applicazione degli indicatori sociali è, come si è visto, quello inerente lo sviluppo e la qualità della vita. Con ‘qualità della vita’ si identifica un concetto oggi molto utilizzato, ma a cui – vista la molteplicità degli aspetti che il termine sottende – risulta difficile dare una definizione esauriente. Sinteticamente, si potrebbe dire che “…l’espressione ‘qualità della vita’ viene sempre più utilizzata, tanto nel linguaggio comune, quanto in quello delle scienze sociali, per descrivere sinteticamente il complesso di problemi non soltanto economici, ma anche sociali, ambientali e di relazione che caratterizzano le società moderne. Più in particolare, il sostantivo di qualità si contrappone a 4 1979, p. 2), oppure possono assumere le caratteristiche di documenti che illustrano alternative di sviluppo, il cui fine è quello di esplicitare “la natura e la direzione dei possibili cambiamenti nel contesto delle politiche sociali” (United Nations, 1979, p. 4). A tal proposito, si ricodano gli Eurobarometri, ovvero dei sondaggi sull’opinione dei cittadini effettuati nei paesi membri della CEE due volte all’anno (ogni primavera ed autunno) e che sono importanti perché costituiscono un insieme di dati comparabili a livello internazionale per ampiezza e regolarità di rilevazione. 7 quello di quantità e sta ad indicare che la disponibilità, per una comunità, di un grande volume di risorse economiche non sempre è sufficiente a determinarne il benessere” (Nuvolati, 1998, p. 69). All’origine del concetto e delle riflessioni teoriche sulla qualità della vita si possono identificare diversi filoni di studio, a loro volta afferenti a più ambiti disciplinari. Tra questi filoni è poi possibile individuare due principali ‘basi teoriche’ (o linee interpretative), cui ricondurre i recenti programmi di raccolta di indicatori di sviluppo e qualità della vita, e cioè: - le teorie dei bisogni umani; le teorie dello sviluppo sostenibile. Le teorie dei bisogni umani attingono dal patrimonio scientifico proprio delle discipline filosofiche e riconducono il concetto di qualità della vità all’analisi dei bisogni umani e di come essi si configurano ed evolvono nel tempo. Secondo queste teorie, “rispetto ad una specifica conformazione dei bisogni ed alle soluzioni adottate, è possibile ipotizzare il raggiungimento di un determinato livello di qualità della vita” (Nuvolati, 1997, p. 70). Le prime teorie dei bisogni umani vengono elaborate in seno alla tradizione marxista e vengono fatte risalire alla ‘teoria dei bisogni’ formulata da Eric Frömm, Herbert Marcuse e Agnes Heller; secondo tale formulazione, infatti, la società industriale-capitalista va fortemente criticata perchè responsabile di un processo di alienazione e dipendenza dell’individuo rispetto ad una serie di merci e consuni superflui e, contemporaneamente, della negazione dei suoi bisogni fondamentali in termini di espressione, comunicazione e relazione con gli altri esseri umani (Fischer, 1976). Ciò corrisponde a riconoscere e sostenere il principio secondo cui i veri bisogni (bisogni ‘radicali’ contrapposti a quelli ‘ricchi’, nella concezione marxiana) non consistono nell’acquisizione di determinati beni, quanto nella partecipazione ad un processo di autorealizzazione e nell’immediatezza dei rapporti sociali (Ruffolo, 1990). Questa concezione fa da sfondo teorico a tutta l’analisi in tema di qualità della vita. Si origina così un fondamentale filone di ricerca che, attraverso gli anni e gli autori, porta in evidenza la distinzione tra bisogni di tipo primario e bisogni di tipo secondario (o postmaterialisti). Soprattutto, viene a prendere forma un concetto di qualità della vita non esclusivamente basato sul possesso di determinati beni, o sul possesso di un determinato livello di soddisfazione, bensì sulla possibilità per l’individuo di svolgere una serie di attività (functionings) in sintonia con i valori in cui crede e nel rispetto dei diritti altrui (Sen, 1994). La componente materiale perde via via la centralità che le veniva solitamente attribuita nella determinazione del benessere e viene affiancata da una ricerca individuale della condizione di felicità che sia in linea con principi di libera espressività e gli orientamenti etici dell’individuo. L’identificazione e la classificazione dei bisogni umani divengono punti di partenza privilegiati per lo studio della qualità della vita. A tal proposito, un tentativo interessante di sistematizzazione dei bisogni umani è rappresentato dal lavoro di Galtung e Wirak (1976), in cui ci si ricercano le principali, inalienabili esigenze dell’uomo con lo scopo di tradurle in fini che il sistema sociale e politico deve poi perseguire. Le teorie dello sviluppo sostenibile possono essere invece riferite al pensiero di alcuni scienziati naturali – fisici e biologi, in particolare – e sociali che hanno manifestato visioni profondamente pessimistiche sulle conseguenze del progresso scientifico e tecnologico e sugli usi delle scoperte scientifiche. L’idea di fondo di queste teorie è la seguente: non è pensabile uno sviluppo socioeconomico della società che risulti incompatibile con le esigenze fondamentali dell’uomo (esigenze a vivere in un ambiente sano e ad esprimere se stessi liberamente). Proprio la constatazione che, spesso e volentieri, dietro la crescita economica ed industriale di una nazione si celano costi sociali non facilmente sopportabili (soprattutto per i ceti più deboli della comunità) ha portato anche gli economisti a 8 riconsiderare l’effettiva validità di un indice classico come il GNP (Gross National Product) ed a proporne la sostituzione con il MEW (Measure of Economic Welfare) (Nordhaus e Tobin, 1972), che, a differenza del precedente, consente di inserire nel bilancio i cosiddetti ‘aspetti non immediatamente monetizzabili’. Oltre alla filosofia, alla sociologia e all’economia, anche altre discipline si sono interessate alla qualità della vita, dandone una propria definizione e proponendone tecniche di analisi di volta in volta diverse; tra queste si ricordano (solo a titolo esemplificativo), la psicologia, per quanto attiene la valutazione delle componenti personali ed emozionali della felicità, e la medicina, per la valutazione delle condizioni psicofisiche degli individui. Da quanto visto, ciò che emerge è che, a livello di ricerca sociologica, la crescente preminenza dell’individuo singolo e dei suoi specifici bisogni in tema di qualità di vita hanno determinato la necessità di orientare l’osservazione non solo verso gli aspetti oggettivi (materiali e non) della qualità della vita, ma anche verso quelli di natura più soggettiva, più legati al rapporto che ogni persona intrattiene con la realtà circostante (Guala, 2000). Con Allart (1981), si afferma la consapevolezzza che, a determinare il benessere di un individuo, concorrono più fattori, riferibili tanto alla sfera oggettiva del vivere umano, quanto a quella soggettiva. Si giunge così all’elaborazione dei primi modelli di analisi sociologica basati sulla distinzione tra aspetti oggettivi ( responsabili del livello di vita di una popolazione e quindi della sua soddisfazione) e soggettivi (responsabili della qualità di vita di una popolazione e quindi della sua felicità) del benessere (tab. 1.1). Tab. 1.1 – Gli aspetti del benessere (fonte: Allardt, 1981) Gli aspetti del benessere Livello di vita Risorse materiali o impersonali (having) Soddisfazione Sentimenti soggettivi nei riguardi delle condizioni materiali di vita Qualità della vita Relazione delle persone con: altri (loving) la società (being) la natura Felicità Sentimenti soggettivi nei riguardi delle condizioni non materiali di vita A Zapf (1984) si deve invece la descrizione delle quattro possibilità, risultanti dall’incrocio tra benessere oggettivo e benessere soggettivo: well-being e dissonanza (nel caso di buone condizioni oggettive di vita), adattamento e privazione (nel caso di cattive condizioni oggettive di vita). Per quel che riguarda i metodi di ricerca e le tecniche di analisi sulla qualità della vita, si possono individuare due grandi famiglie: quelle basate sulla raccolta ed elaborazione di dati istituzionali, aggregati a livello territoriale (nazione, regione, provincia, ussl, comune ecc.) e quelle basate su dati di survey (ovvero di indagini con questionario) su campioni rappresentativi della popolazione residente, elaborati per determinate aree geografiche o afferenti ad una specifica comunità (Zajczyk, 1997). La scelta del metodo dipende dall’oggetto specifico di studio, così come dalle risorse di cui dispone il ricercatore. Nel caso delle ricerche realizzate con dati territorialmente aggregati, l’obiettivo principale dei ricercatori è, in generale, quello di valutare le condizioni oggettive di vita (materiali e non) riscontrabili in 9 un determinato contesto. A tal fine, i ricercatori fanno ricorso a dati di base elaborati in indicatori sociali oggettivi (o indici sintetici di qualità della vita) utili per confrontare nel tempo e nello spazio differenti unità di analisi (ad esempio tutte le province italiane, tutte le città europee con più di 200.000 abitanti ecc.). Nel caso delle survey, lo scopo è invece di valutare tanto le caratteristiche del contesto socioeconomico in cui vivono gli intervistati, quanto i comportamenti, gli atteggiamenti e le valutazioni espresse da questi ultimi rispetto ad un elenco di problematiche che condizionano il benessere individuale e collettivo. A tale scopo, i ricercatori si impegnano a costruire indicatori sociali soggettivi che siano anche utili a confrontare gruppi differenziati di popolazione (ad esempio, gli occupati e di disoccupati, i giovani gli adulti e gli anziani ecc.). In entrambi i casi, è da notare il fatto che, comunque sia, il punto di partenza è sempre costituito dall’individuazione delle aree tematiche in cui scomporre il concetto di qualità di vita sulla cui base proporre i relativi indicatori sociali5. A questo proposito, un’analisi comparata dei concerns proposti in occasione di differenti ricerche italiane e straniere sulla qualità della vita, fa emerge che gli argomenti più frequentemente considerati riguardano(Zajczyk, 1997): – – – – – – – – – – – – – le caratteristiche demografiche della popolazione e la struttura familiare; le condizioni di salute; la qualità e la tutela dell’ambiente (naturale e costruito); il clima; la situazione abitativa; la sicurezza pubblica; il disagio sociale; le condizioni di lavoro; la situazione economica; il tempo libero e la cultura; la disponibilità di servizi di vario tipo (trasporti assistenza, sanità, esercizi commerciali); la partecipazione; le relazioni interpersonali. Una volta raccolti i dati di base ed elaborati gli indicatori, si procede alla trasformazione e combinazione di questi ultimi in indici sintetici di qualità della vita, mediante l’applicazione di tecniche differenziate a seconda del livello di complessità richiesto. Tale passaggio di trasformazione (o standardizzazione) degli indicatori – indispensabile soprattutto nel caso di indicatori basati su dati di tipo aggregato – si rende necessaria perché le unità di misura degli indicatori risultano quasi sempre differenti e, quindi, gli indicatori stessi non sono direttamente combinabili. Tra le procedure adottabili per la trasformazione degli indicatori vanno ricordati: i) il calcolo degli Zscores, ottenibili facendo, per ciascun indicatore, la differenza tra il valore medio registrato per il complesso delle unità di analisi (comuni, province ecc.) ed il valore della singola unità, precedentemente divisa per la deviazione standard; ii) la costruzione di numeri indice, in cui i valori più elevati riscontrati per ogni indicatore corrispondono a 100 (o a 1.000) e gli altri vengono calcolati nel rispetto dell’equazione in tal guisa definita; iii) l’utilizzo di graduatorie, più o meno organizzate in decili, quintili 5 Operazioni queste che vengono oggi facilitate (ma non esaurite) dalla presenza di appositi ‘elenchi di preoccupazioni sociali’ forniti da numerose organizzazioni internazionali. 10 ecc., in base alle quali ciascuna unità di analisi per ogni indicatore occupa una posizione particolare rispetto alle altre unità di analisi. Anche le tecniche di ponderazione (attribuzione di un ‘peso’ ad un indicatore, in base all’importanza che esso riveste nella determinazione della qualità della vita) sono molteplici. Tra le più diffuse ricordiamo l’analisi fattoriale6, soprattutto nella variante dell’analisi delle componenti principali; ma esistono anche altri metodi di ponderazione meno complessi, come quello che prevede una distribuzione ‘ad albero’ dei pesi a seconda del numero di indicatori che rientrano in un medesima area tematica (Seidman e Liu, 1977) o come quello basato sulle risposte di un campione di popolazione (o di un più ristretto gruppo di testimoni privilegiati) cui viene esplicitamente richiesto di attribuire dei pesi relativi agli indicatori ed ai concerns. Successivamente alla costruzione di un indice di qualità della vita per ogni unità di analisi, vengono predisposte delle graduatorie, finalizzate a porre in evidenza le situazioni di maggiore benessere e quelle di maggior disagio. Ulteriore operazione è infine quella di procedere ad un raggruppamento delle unità di analisi in base ai valori registrati sui singoli indicatori, tramite cluster analysis, o in base al valore ottenuto per l’indice complessivo, dividendo la classifica finale in decili o segmenti di altra dimensione; tali procedure consentono un’utile mappatura del territorio con la possibilità di individuare le aree geografiche maggiormente caratterizzate in senso positivo o negativo. Alcuni esempi di indicatori sociali Si farà ora cenno ad alcuni dei più significativi programmi di ricerca basati su indicatori di qualità della vita, promossi, in particolare, al livello internazionale. L’INDICE DI SVILUPPO UMANO L’Indice di sviluppo umano (ISU7) viene proposto per la prima volta nell’ambito del Rapporto sullo sviluppo umano n. 1 (United Nations Development Programme, 1999). In tale rapporto, lo sviluppo umano viene definito come ‘processo di ampliamento delle scelte delle persone’, sottolineando come le scelte, le opzioni base, di cui un essere umano deve poter disporre, siano sostanzialmente quelle di una vita lunga e sana, dell’acquisizione di conoscenze e dell’accesso ad un reddito sufficientemente elevato da consentire un dignitoso tenore di vita. Alla luce di tale interpretazione, risulta evidente l’inadeguatezza del ricorso al solo strumento del reddito quale mezzo per quanticare il livello di sviluppo umano; il rapporto propone quindi l’adozione di un nuovo indicatore che tenga conto, contemporaneamente di tutte e tre le dimensioni dello sviluppo sopra individuate (speranza di vita, istruzione e reddito). L’indicatore dello sviluppo umano (ISU) viene costruito in tre passaggi. Il primo passo è quello della definizione di una misura della privazione sofferta dal singolo paese, rispetto a ciascuna delle tre variabili base: speranza di vita (X1), alfabetizzazione (X2) ed il valore del logaritmo del PIL reale procapite (X3). 6 7 Con il termine di analisi fattoriale, si denota un insieme di procedure che si propongono di individuare l’esistenza, o meno, di variabili latenti denominate fattori, o componenti principali, non direttamente osservabili, in grado di spiegare le correlazioni esistenti tra il complesso degli indicatori osservati (Ferrari, 1992). In questo caso, il peso o factor loading è costituito da un coefficiente rappresentante la forza di relazione esistente tra l’indicatore ed i fattori individuati. Obiettivo finale delle elaborazioni e l’individuazione dei cosiddetti factor scores, cioè dei valori raggiunti da ciascuna unità di analisi sui fattori. La traduzione inglese dell’espressione Indice di sviluppo umano (ISU) è Human Development Index (HDI). 11 Per ciscuna delle tre variabili, vengono determinati un valore massimo ed uno minimo in base ai valori effettivi. L’indicatore di privazione colloca quindi un paese in una scala da zero a uno, definita in base alla differenza tra il valore massimo ed il minimo. Quindi, Iij rappresenta l’indicatore di privazione del paese j-mo rispetto alla variabile i-ma e viene definito come: (max Xij – Xij ) Iij = j (max Xij – min Xij) j j Il secondo passo è la definizione di un indice medio di privazione (Ij) calcolato facendo la media semplice dei tre indicatori: Ij = 1 3 3 i=1 — ∑ Iij Il terzo passo è l’ottenimento dell’indice di sviluppo umano (ISU) ricavato sottraendo all’unità l’indice medio di privazione: (ISU)j = (1-Ij) L’indice ISU ha suscitato grande interesse tra i politici, gli operatori dello sviluppo, gli studiosi, la stampa e l’opinione pubblica. In particolare, ciò che ha colpito maggiormente l’attenzione degli esperti è stato il fatto che L’ISU proponga una media non ponderata della classificazione di un paese nella scala della speranza di vita, dell’alfabetizzazione e del reddito; in altre parole ciò che colpisce è il fatto che, nel calcolo dell’indice medio di privazione, la somma delle tre variabili 3 ∑ Iij i=1 non venga ponderata e che a tutte e tre venga attribuito un peso eguale. Questo si spiega in base alla considerazione che tutte e tre le componenti dello sviluppo (speranza di vita, istruzione e reddito) contribuiscano in egual misura nel determinare il livello di sviluppo di un paese. Sulla base dei valori dell’ ISU, calcolati per i vari paesi del mondo, è dunque possibile rendere in forma grafica (fig. 1.1) la rappresentazione dell’andamento della distribuzione globale del reddito. 12 Fig. 1.1 – Rappresentazione grafica della distribuzione del reddito Dall’esame del grafico (fig. 1.1), si possono così ricavare due prime considerazioni (significative e insieme preoccupanti) sul fenomeno: il 20% più ricco della popolazione mondiale riceve l’82,7% del reddito mondiale, mentre il 20% più povero della popolazione mondiale ne riceve solo l’1,4%. La distribuzione globale del reddito per quintili (tab. 1.2) è la seguente: Tab. 1.2 – Distribuzione globale del reddito Popolazione mondiale 20% più ricco Secondo 20% Terzo 20% Quarto 20% 20% più povero Reddito mondiale 82,7% 11,7% 2,3% 1,9% 1,4% 13 Tab. 1.3 – Stesso reddito, ISU differente Paese PIL pro capite (dollari) Valore ISU Mortalità infanntile (per 1.000 nati viv Graduatoria ISU Speranza di vita (anni) Alfabetizzazio -ne adulta (%) 90 106 132 173 71,2 65,4 58,3 43,9 89 78 36 27 24 53 99 135 74 98 112 123 66,2 67,3 65,2 51,7 87 82 75 59 58 37 46 83 38 57 93 100 71,9 70,4 62,2 65,7 94 80 80 73 17 14 53 59 PIL pro capite tra 400 e 500 dollari Sri Lanka Nicaragua Pakistan Guinea 500 400 400 500 0,665 0,583 0,393 0,191 PIL pro capite tra 1000 e 1100 dollari Ecuador Giordania El Salvador Congo 1.010 1.060 1.090 1.040 0,718 0,628 0,543 0,461 PIL pro capite tra 2300 e 2600 dollari Cile Malaysia Sud Africa Iraq 2.360 2.520 2.540 2.550 0,848 0,794 0,650 0,614 THE CITY DEVELOPMENT INDEX Il City Development Index (CDI) costituisce, insieme con il City Product per person8, il principale indicatore utilizzato per calcolare lo sviluppo (o il livello di performance) di una città. Il CDI è stato elaborato come prototipo per Habitat II, dove veniva impiegato con lo scopo di classificare le città in base al livello di sviluppo da esse raggiunto. La tecnica utilizzata per costruire il City Development Index è molto simile a quella utilizzata dal UNDP (United Nations Development Programme) per lo Human Development Index9 (HDI). Alla base dell’elaborazione del CDI vi è, infatti, la considerazione che gli aspetti che contribuiscono a determinare lo sviluppo di un sistema urbano siano molteplici e complessi (livelli di crescita economica, di vivibilità, di sostenibilità, di povertà, di inclusione sociale ecc.) e che, pertanto, per quantificarne il livello, un solo indicatore non risulti sufficiente. Perché la misura sia davvero indicativa bisogna realizzare un indice sintetico che sia il risultato della combinazione di più indicatori (ognuno dei quali rappresentativo di un particolare aspetto dello sviluppo urbano). In questo modo, si giunge all’elaborazione del CDI che è dato dalla costruzione e combinazione di più sotto-indici. I sotto-indici impiegati sono cinque: i) il City Product (misura del prodotto urbano); ii) Infrastructure (misura dell’infrastrutturazione); iii) Waste (misura dei rifiuti); iv) Health (misura della salubrità dell’ambiente urbano); v) Education (misura del sistema di istruzione). Ognuno di questi sotto-indici è dato dalla combinazione di numerosi indicatori, i cui valori vengono normalizzati e ricondotti a misure numeriche comprese tra 0 e 1. Per poter elaborare l’indice CDI è dunque necessario procedere preliminarmente alla quantificazione di questi cinque sotto-indici (i cui valori a loro volta saranno compresi tra 0 e 100). Più specificatamente, per calcolare il City Development Index, si procede applicando le seguenti formule: 8 Il City Product per person è l’analogo del GDP, calcolato alla scala urbana, e viene utilizzato per quantificare le uscite economiche (economic output) della città. In particolare, il CDI può anche essere utilizzato per fornire una misura del benessere e dell’accesso ai srvizi della città di cui i singoli cittadini dispongono. 14 Tab. 1.4 – Formula per calcolare il CDI Index Formula Infrastructure 25 x Water connections + 25 x Sewerage + 25 x Electricity + 25 x Telephone Waste Wastewater treated x 50 + Formal solid waste disposal x 50 Health (Life expectancy – 25) x 50/60 + (32 – Child mortality) x 50/31.92 Education Literacy x 25 + Combined enrolment x 25 Product (log City Product – 4.61) x 100/5.99 City Development (Infrastructure index + Waste index + Education index + Health index + City Product index)/5 Dal momento che le variabili che intervengono nel calcolo del CDI sono fortemente interrelazionate, esistono più modi per giungere all’elaborazione dell’indice che danno più o meno tutti gli stessi risultati. Un modo possibile prevede che i pesi assegnati ad ogni indicatore siano calcolati inizialmente attraverso un istema statistico chiamato Principal Components Analysis e che vengano quindi semplificati. Questa formulazione dell’indice in modo specifico, ricalca da vicino le formule utilizzate nel calcolo dei sottoindici (speranza di vita, istruzione e reddito) impiegati per elaborare lo HDI. Per ottenere una classifica significativa delle città in base al livello da esse raggiunto di sviluppo urbano è però necessario che i dati cui si ricorre siano completi, sicuri e precisi (il che non è sempre facile). Vengono quindi previsti degli aggiustamenti nel caso in cui i dati risultassero incompleti o inaffidabili (come il fatto di sostituire il valore ‘compromesso’con quello di una città analoga per dimensioni ed appartenente alla stessa nazione). Il CDI di una città può essere messo in relazione con il corrispondente valore del HDI nazionale. Tuttavia, poichè nell’ambito di una stessa nazione possono esistere variazioni notevoli tra città e città, ne risulta che (tra i due indici) il CDI sia quello che fornisce la misura più attendibile delle reali condizioni della città. Inoltre, il CDI può essere anche utilizzato come un valido indice di misura sia del livello di povertà sia del livello governance urbana. Non a caso le variabili relative a salute, educazione ed infrastrutture risultano utili per la misura della situazione di povertà nelle città, mentre le variabili sulle infrastrutture, i rifiuti ed il prodotto urbano sono variabili chiave nelle definizione dell’efficacia della governance urbana. Il CDI si relaziona efficacemente anche con il livello del prodotto urbano; si è potuto infatti verificare che le città che presentano valori elevati di prodotto urbano sono anche quelle dove è maggiore il valore del CDI. Qui di seguito si riportano alcuni dei valori di CDI calcolati per i sei grandi ambiti territoriali (Regioni) in cui può essere suddiviso il pianeta (il continente africano, gli stati arabi, l’area asiaticopacifica, l’insieme dei paesi più industrializzati, l’area dell’America latina e dei Caraibi, i paesi in via di sviluppo) e per alcune città selezionate. 9 Lo Human Development Index (HDI) è l’analogo dell’Indice di sviluppo umano (ISU) di cui si è parlato in precedenza. 15 Tab. 1.5 – CDI components by Region Sub – indices Region CDI City Product Infrastructure Waste Health Education Africa Arab States Asia – Pacific Highly Industrialized Countries Latin America and the Caribbean Transition countries 42.85 64.55 65.35 49.69 66.52 62.90 36.17 69.79 67.75 26.04 45.87 44.40 50.39 77.18 78l.27 51.96 63.39 73.43 96.23 90.60 99.21 100.00 94.26 97.10 66.25 78.59 62.93 71.62 70.42 90.64 39.50 55.93 82.71 85.80 75.68 88.94 1998 data Tab. 1.6– CDI components for selected cities Sub – indices City Stockholm Melbourne Singapore Homg Komg Moscow Seoul Rio de Janeiro Sofia Hanoi Havana Jakarta Ulaanbaatar Lahore Colombo Bangalore Dhaka Vientiane Accra Phnom Penn Port Moresby Lagos Niamey CDI City Product Infrastructure Waste Health Education 97.4 95.5 94.5 92.0 89.9 86.0 79.4 79.1 74.2 71.0 69.2 68.4 61.1 58.4 58.0 48.4 47.1 46.6 43.5 39.3 29.3 21.7 93.5 90.0 91.6 89.4 81.0 65.3 82.3 70.9 59.6 65.0 66.2 53.7 71.1 46.9 51.1 55.6 44.0 49.4 40.2 69.0 42.1 40.0 99.5 99.8 99.5 99.3 98.7 98.4 86.2 93.7 72.0 74.8 57.3 59.0 78.5 68.6 82.7 45.3 58.0 50.0 33.0 18.1 29.5 22.0 100.0 100.0 100.0 99.0 86.8 100.0 62.6 58.5 90.0 50.0 46.7 90.0 50.0 45.0 31.3 27.5 0.0 0.0 27.0 10.0 2.0 0.0 94.0 93.7 92.7 90.9 83.8 88.7 81.9 86.2 80.6 80.7 80.2 72.5 64.9 86.2 76.5 64.6 62.3 71.4 47.2 59.1 44.0 78.3 99.8 94.1 88.6 81.3 99.3 77.7 84.3 86.3 69.0 84.7 95.7 66.7 40.8 45.3 48.5 48.7 71.3 62.0 69.9 40.2 29.1 14.9 1998 data Si conclude il discorso sul CDI con un’osservazione che riguarda gli investimenti fatti dalle città: dal valore del CDI ottenuto risulta che le città che hanno maggiormente investito in infrastrutture fisiche e sociali hanno poi avuto ritorni positivi in quelle stesse aree (fisica e sociale) ma anche in altre aree connesse con lo sviluppo urbano. THE URBAN AUDIT Quella dello Urban Audit è un’iniziativa lanciata dall’Unione europea nel 1997 come risposta alla crescente richiesta di un aumento della qualità della vita nelle città europee ed alla necessità di incrementare e rendere comparabile il sistema statistico comunitario. 16 Lo Urban Audit costituisce un sitema di valutazione della qualità delle città europee (sito internet http://www.inforegio.cec.eu.int/urban/audit/src/intro.html). L’Unione Europea si sta impegnando molto dal punto di vista della valutazione, monitoraggio e promozione della qualità di vita a livello locale e, in particolare, della sostenibilità a livello urbano. Ne consegue, pertanto, l’impegno nell’elaborazione di indicatori comuni europei, appositamente pensati per quantificare la sosteniblità secondo modalità comuni a tutta l’Unione e consentire così il confronto. Lo scopo prioritario di Urban Audit è permettere un miglioramento delle condizioni delle singole città dell’Unione e, nello stesso tempo, rendere loro possibile l’accesso a informazioni comparabili su tali condizioni. Nella fase iniziale del programma (pilot phase) sono state invitate a partecipare 58 città europee e sono stati elaborati i indicatori riguardanti 5 distinti campi tematici: aspetti socioeconomici (socio-economic aspects), partecipazione alla vita civica (participation in civic life), educazione e formazione (education and training), ambiente e cultura (environment and culture), piacere (leisure). Il confronto tra i risultati di questi indicatori permetterà nel tempo alle diverse città partecipanti di giudicare il progressi fatti e di identificare le eventuali difficoltà incontrate. Da notare il fatto che per 27 delle 58 città che hanno partecipato alla fase sperimentale, gli indicatori sono calcolati a livello di conurbazione (Conurbation level) o relativamente all’unità territoriale più vasta (Wider Territorial Unit) e che, in alcuni casi, si è cercato di capire se esistono disparità interne di condizione all’interno di una stessa città, attraverso l’elaborazione di inficatori (soprattutto per gli aspetti socioeconomici) a livello di singole ‘subdivisioni’ urbane10. GLI INDICATORI COMUNI EUROPEI Iniziative recenti (e sicuramente degne di nota), in materia di indicatori sociali e di qualità della vita, sono quelle avviate dalla Commissione europea. Più precisamente, ci si riferisce all’iniziativa di monitoraggio della sostenibilità su scala europea, Verso un quadro della sostenibilità a livello locale – Indicatori comuni europei (Commissione Europea, 2000), sviluppata con un ‘approccio dal basso’ da un gruppo di lavoro11 esperto dei temi dell’ambiente urbano di concerto con altri enti locali europei. L’iniziativa va posta in relazione con i recenti sviluppi del quadro politico europeo. Infatti, l’attività di monitoraggio della sostenibilità affonda le proprie radici in un decennio di politiche europee a favore dell’ambiente e sempre più orientate verso l’adesione ai temi della sostenibilità (politiche quali il Quinto programma d’azione europeo a favore dell’ambiente, gli accordi di Rio del 1992, la Carta di Alborg del 1994, la Relazione sulle città sostenibili del 1996, la comunicazione Quadro d’azione per uno sviluppo urbano sostenible nell’Unione europea del 1998 ecc.). In linea con questa tendenza di crescente attenzione verso le città e verso l’apporto che tali entità territoriali posso dare nella ricerca di una condizione di sostenibilità a livello globale, si inserisce l’iniziativa europea di elaborazione di un set comune di indicatori (di sostenibilità), attraverso i quali ricavare informazioni sull’andamento e sui risultati degli interventi ‘pro-sostenibilità’ avviati in Europa. Il fine è quello di sostenere gli sforzi degli 10 11 Per ulteriori informazioni sull’argomento, la metodologia con la quale sono state raccolte le informazioni ed i dati inerenti le singole città dei differenti paesi dell’Unione è riportatata nel Urban Audit Manual (sito internet http://www.inforegio.cec.eu.int/urban/audit/src/intro.html). Il gruppo di esperti sull’ambiente urbano che coopera a questa iniziativa di monitoraggio è lo stesso che era stato inizialmente istituito dalla Commissione europea, nel 1991, con il compito di valutare come inserire gli obiettivi ambientali nelle future strategie comunitarie di pianificazione a livello urbanistico e del territorio e di fornire indicazioni alla Commissione su come sviluppare la dimensione dell’ambiente urbano all’interno della politica ambientale comunitaria. In seguito, nel 1993, questo stesso gruppo era anche stato il promotore, assieme alla Commissione Europea, del progetto ‘città sostenibili’ (Commissione Europea, 2000) . 17 enti locali per raggiungere la sostenibilità e fornire, allo stesso tempo, informazioni obiettive e comparabiili sui progressi conseguiti in materia. La ricerca basata sugli indicatori sociali in Italia In Italia, l’attenzione per gli indicatori sociali – sia da parte del mondo accademico, sia da parte dell’apparato pubblico di produzione dei dati (ISTAT) – si è sviluppata considerevolmente più tardi che in altri paesi. Come per gli altri paesi occidentali, così anche in Italia, per tutti gli anni ottanta il movimento degli indicatori sociali non conosce una particolare evoluzione, almeno sotto il profilo dell’elaborazione concettuale. Nonostante ciò, si assiste in quello stesso periodo alla pubblicazione di un gran numero di rapporti; rapporti in gran parte realizzati da istituti regionali di ricerca con la collaborazione di singoli studiosi (sociologi e economisti, in genere, di matrice accademica)12ed incentrati sull’analisi delle condizioni socioeconomiche delle Regioni. In particolare, si evidenzia il fatto che, nel nostro paese: - - - nei rapporti regionali si passa da un’attenzione prevalente per l’analisi di dati di natura economica, ad una crescente rilevanza assegnata agli aspetti sociali, da impiegare nell’elaborazione delle valutazioni e degli interventi di politica sociale (rilevanza di tipo, quindi, ‘normativo’); in tutti i rapporti, l’inserimento degli indicatori sociali non è concettualmente giustificato nell’ambito di uno schema generale interpretativo della realtà, né è concettualmente giustificata la scelta degli indicatori; se ne ricava che il ricorso agli stessi indicatori sociali risulta, almeno in apparenza, casuale e dettato dalla disponibilità dei dati; l’attività degli enti locali in questo campo non ha riferimenti importanti a livello nazionale. A livello nazionale, a partire soprattutto dalla metà degli anni ottanta, oltre ad un utilizzo più ampio ed articolato di dati, si assiste ad una crescente attenzione verso dati di tipo soggettivo, risultanti da indagini empiriche campionarie su porzioni di universi. Anche il CENSIS, si avvia sulla strada già percorsa da altri paesi occidentali e che porta ad integrare, ampliare ed approfondire, attraverso dati di tipo soggettivo, quanto le informazioni oggettive, fornite dalle fonti ufficiali, non sono in grado di cogliere. In questo stesso filone interpretativo vanno riportati i due volumi di statistiche sociali dall’approccio molto pragmatico pubblicati dall’ISTAT nel 1975 (il primo) e nel 1981 (il secondo). Oggi, in Italia, il panorama statistico si caratterizza, almeno sotto il profilo quantitativo, per una certa ricchezza di informazioni; informazioni che, però, non vengono ancora organizzate in un sistema coerente (Golini, 1981) né rispetto alla fase della progettazione, né, tanto meno, rispetto alla fase della produzione e trasformazione dei dati in indicatori. Nell’analisi della situazione italiana, d’altrocanto, vanno tenute presenti due considerazioni. Da una parte, occorre considerare il ruolo dell’ ISTAT, della sua lenta, se pur continua, evoluzione verso una progressiva democratizzazione dell’informazione, ma anche del non ancora adeguato livello di modernizzazione e sviluppo tecnologico raggiunto dall’istituto. Dall’altra, non si può prescindere dalle specificità della cultura amministrativa (eccessivamente lenta, settorializzata e burocraticizzata) del nostro paese. In qualunque ente pubblico locale (comune, provincia, regione) ci troviamo così in presenza di una rilevante massa di indagini e studi (e quindi di dati e informazioni) inerenti a problemi e temi di interesse 12 In particolare, meritevoli di nota sono lo studio sugli indicatori sociali per la Regione Toscana condotto da Renato Curatolo e quello sui bilanci sociali di area (BSA) condotto in Lombardia (Guala, 2000). 18 locale, senza, tuttavia, che si produca un processo di accumulazione della conoscenza. Il risultato di tutto ciò è anzi una situazione di grande frammentazione che, a sua volta, determina e favorisce una scarsa utilizzazione dei risultati delle ricerche. Uno dei settori della ricerca sociale nel quale più spesso ritroviamo questo problema è quello inerente la misura del livello di benessere e di qualità della vita di una comunità: ambito di ricerca che nel nostro paese non ha ancora trovato una piena legittimazione scientifica e che, spesso, si presenta sottoforma di indagini conoscitive sulla situazione socio-economica. Quello di ‘indicatore sociale’ è un termine largamente e comunemente diffuso, alle volte persino abusato: per ogni rapporto o studio che contenga una qualche minima percentuale su temi sociali si parla comunque di indicatori sociali. In altre parole, questo termine viene usato in modo piuttosto convenzionale per definire qualunque tipo di statistica sociale, mentre scarso è lo sforzo per coniugare singole statistiche sociali ad un sistema, a un modello complessivo di indicatori. I concetti di ‘benessere’ e ‘qualità della vita’ sono stati spesso oggetto (soprattutto in Italia) di un uso spregiudicato ed indiscriminato, senza che alla loro diffusione abbia pertanto corrisposto una precisa definizione né sul piano concettuale né su quello della sua operativizzazione. Emerge soprattutto una lacuna dal punto di vista della combinazione degli indicatori riguardanti le condizioni di vita degli individui (oggettive o percepite) ed i modelli esistenziali condivisi dagli stessi in un’ottica più generale, che tenga conto di un processo di autovalutazione o, meglio, di autodefinizione del benessere. In merito agli indicatori di sviluppo e qualità della vita elaborati nel nostro paese, per il livello locale, si possono menzionare quelli de “Il Sole 24 Ore”, appositamente costruiti per valutare e classificare la situazione di sostenibilità urbana posseduta dai singoli comuni italiani. Tale rilevazione annuale sulla qualità delle città italiane, costituisce infatti materiale interessante sia per la modalità di costruzione degli indici, sia per la rilevazione del trend in atto nello sviluppo degli indicatori nel tempo. A livello sovralocale (provinciale), gli indicatori vengono per lo più elaborati a partire da “indagini di tipo comparato, basate su dati secondari ed orientate a misurare la qualità della vita” (Guala, 2000, p. 459); tra queste, si ricordano Qualità della vita e cultura nelle Province italiane (G. Botta, a cura di, 1986), che però si sofferma esckusivamente sul livello provinciale senza riuscire a cogliere le differenze tra comune capoluogo e resto della provincia, e quella di Luigi Dall’Osso (1987) che utilizza dati disaggregati a livello comunale per giungere ad una comparazione delle “città dove si vive meglio”13. Sempre relativamente agli indicatori sociali e alla qualità della vita, Martinotti ed altri (1988), partendo dal presupposto che nessun modello appare completo (data la complessità delle variabili chiamate in causa, la variabilità delle tecniche di misurazione e di classificazione, la discreta probabilità di successo nel gestire le ‘analisi dei fattori’, l’interferenza di ipotesi di lavoro e criteri personali ecc.) teorizza la necessità di operare contemporaneamente a livello di dati secondari, opportunamente elaborati, ed a livello di indagini empiriche sulla popolazione, in modo tale da stimare la ‘domanda reale’ della popolazione (o di alcune sue fasce specifiche di popolazione) rispetto alla ‘domanda potenziale’ teoricamente resa attraverso dati secondari a sfondo territoriale. Indagini empiriche ad hoc permettono, infatti, di comparare le misurazioni oggettive con variabili di atteggiamento e comportamento di tipo 13 Si tratta di un’indagine sulle città italiane del centro nord basata su 49 indicatori, desunti da dati oggettivi e trattati in sei macroaree di analisi (la demografia, il settore abitazioni, benessere e consumi, il welfare, attrattive, elementi di negatività legati al clima e all’ambiente ed elementi di crisi connessi con il mercato del lavoro). Nelle sei grandi aree considerate viene stabilita una graduatoria per tutte le città e ad ogni città viene assegnato il grado (rank) occupato nella graduatoria, seguendo il criterio secondo cui si assegna sempre 1 al valore migliore, 2 al secondo e così via. 19 personale, cercando così di ovviare ai limiti imposti dalle fonti secondarie (Guala, 2000). A tal proposito, si ricorda il discorso avviato da Martinotti (1986) sui Bilanci Sociali di Area (progetto avviato a Milano nel corso degli anni settanta): “nella filosofia dei BSA si doveva creare un circuito quasi automatico di dati sulla popolazione, dati di dotazione delle circoscrizioni, raccordo tra domanda reale e potenziale, decisione politica e allocazione delle risorse” (Guala, 2000, p. 465), circuito che doveva essere gestito e aggiornato periodicamente da un’apposita struttura amministrativa. L’esperienza milanese dei BSA viene ripresa successivamente anche da altre entità territoriali, come nel caso delle iniziative di ricerca e programmazione dei servizi sociali della Regione Liguria, nel caso del Progetto Torino e Progetto Torino Internazionale, nel caso delle indagini settoriali condotte dall’IRER e di ulteriori indagini empiriche condotte sulla qualità della vita a Milano. Per quel che riguarda l’esperienza torinese in materia di indagini sulla qualità della vita, si ricorda che “nel corso del 1986 e del 1987, a Torino, è stata svolta una vasta ricerca sui consumi culturali e, più in generale, su comportamenti, attese e valutazioni della popolazione e di gruppi sociali e professionali privilegiati. La maggior parte dell’indagine è stata dedicata a quelle che sono state definite le ‘componenti culturali della qualità della vita’ nell’area metropolitana torinese” (Guala, 2000, p. 467). Il lavoro si è sviluppato in diverse direzioni: i) una survey generale sulla popolazione; ii) una survey più specifica su solo 500 casi; iii) un censimento ragionato; iv) un’analisi della ‘cultura tecnologica’ presente presso gruppi professionali e testimoni privilegiati; v) un’analisi dei mercati culturali rilevabili; vi) un’analisi del sistema universitario torinese. La filosofia di questo lavoro non è dissimile da quella del BSA, e verrà in seguito ripresa in alcuni altri lavori portati avanti dall’università di Torino e il suo Dipartimento di Scienze Sociali14. Un aspetto particolare dell’indagine sociologica connessa con la ricerca di quantificazione della qualità della vita è quello connesso con il diffondersi di studi di tipo psicografico15. Le prime sperimentazioni si hanno negli Stati Uniti vero la fine degli anni sessanta, mentre in Italia lo sviluppo di tali psicografie trova un referente, intorno alla metà degli anni settanta, nel Progetto Sinottica dell’Istituto di ricerche Eurisko (Calvi, 1977). Altri esempi di analisi dei comportamenti e delle attese del consumatore che adottano come criterio di base il concetto di stile di vita sono la ricerca Fabris e Mortara (1986), denominata Monitor 3SC , in cui i dati derivano da una serie di sondaggi finalizzati a ricostruire la tipologia degli orientamenti socioculturali, ed il programma Common Choice, svolto per l’Italia da parte dell’Istituto di ricerche Young & Rubican, con lo scopo di studiare “i valori socialmente diffusi e condivisi e di definire segmenti di mercato aventi in comune una serie di valori.” (Guala, 2000, p. 485). 14 15 Ci si riferisce ai casi studio di Alessandria (1990-91) e di Genova (1992-93), in cui l’indagine sociale sul tema della qualità della vita si è però focalizzata su pochi argomenti specifici (la condizione femminile, nel primo, le possibilità di avviare processi di riconversione (turistica e culturale) e strategie di sviluppo per la città a partire dai processi di smantellamento industriale, nel secondo) (Guala, 2000). Lo studio di Genova, in particolare, consente una riflessione sul dilagare del fenomeno dei city users e, di conseguenza, sul sempre maggior successo di strategie territoriali di city marketing, finalizzate ad attirare finanziamenti ed insediamenti produttivi, a migliorare i servizi, le infrastrutture e l’arredo urbano ed a promuovere a livello nazionale e internazionale l’immagine di una città e le opportunità che è in grado di offrire. “Si tratta di complesso piuttosto eterogeneo di studi e ricerche nelle quali le variabili tradizionalmente inquadrate in termini anagrafici e di struttura sociale o di classe vengono rilette e trattate per riconfigurare stili di comportamento, modelli di atteggiamento, tipologie di valori comuni a nuove forme di aggregazioni sociali: i comportamenti diventano l’elemento comune di tali aggregazioni gli orientamenti ‘attraversano’ gruppi e classi e formano un ‘collante’ di nuovo tipo. Questi stili di comportamento incidono anche sulla sfera dei valori, ma la loro caratteristica fondamentale è che sono nati nell’ambito delle indagini di marketing e quindi hanno senso specialmente in indagini orientate al consumo, anche se ovviamente gli effetti indiretti di tali aggregazioni ricadono in varia misura in ambito familiare, lavorativo, politico”(Guala, 2000, pp.480-481). 20 BIBLIOGRAFIA Allardt E. (1981) Experiences from the Comparative Scandinavian Study, with a Bibliography of the Project, European Journal of Political Research, 9, 101-111. Allardt E. (1983) Il bilancio sociale inun’area periferica. Popolazione, salute, servizi in Valchiavenna, IRER, Angeli, Milano. Andrews F. (1990) Evolution of a Movement, Journal of Public Policy, 9, 401-405. Bauer S. A. (1966) Social Indicators, MIT Press, Cambridge. Botta P. (1986) Qualità della vita e cultura nelle province italiane, Edizioni Lavoro, Roma. Calvi G. (1977) Valori e stili di vita degli italiani, ISEDI, Milano. 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In particolare, si tratta della parte del sito in cui sono scariucabili le pubblicazioni sui risultati di urban audit, si tratta di tre volumi (disponibili in lingua inglese e francese) in cui si illustrano: i trend urbani emergenti in Europa e le differenze più evidenti che si riscontrano tra le varie città (volume I); i risultati degli indicatori calcolati per ogni singola città che ha partecipato alla sperimentazione (volume II); la metodologia impiegata nella raccolta ed elaborazione dei dati (The Urban Audit – volume III). Sul sito è inoltre possibile consultare tali risultati operando una ricerca per dominio o per città http://www.sustainable-cities.org/indicators A questo indirizzo siposso ottenere informazioni sull’ECI (The European Common Indicators), ovvero sull’iniziativa di monitoraggio, avviata dalla Commissione europea, incentrata sulla valutazione della sostenibilità a livello locale. ECI è il risultato della collaborazione di differenti organizzazioni e livelli amministrativi che si stanno impegnando nella ricerca di un sistema comune condivisibile e comprensibile di dati sulla sostenibilità della comunità locali di tutta Europa. Con tale scopo sono stati elaborati dieci common local sustainability indicators che sono al momento sperimentati da più di novanta autorità lovcali e regionali. http://www.sustainable-cities.org/sub2.html A questo indirizzo, nel sito (about the campaign history and structure) si tracciano le fasi salienti dell’iniziativa finora portate avanti e quelle che si sono già state programmate. Inoltre, si fornisce il quadro della struttura ‘burocratico-amministrativa’ preposta al programma. http://www.unchs.org e http://www.unhabitat.org/default.asp A questi due indirizzi si forniscono informazioni sul programma delle Nazioni Unite “the United Nations Human Settlements Programme”, meglio conosciuto come “UN-Habitat”. Originariamente, il programma si chiamava “the United Nations Centre for Human Settlements” (da qui UNCHS), ma, a partire dal 1 gennaio 2002, è stato trasformato come detto sopra. Il programma sipropone come mucleo foicale per la coordinazione degli insediamenti umani e per il coordinamento delle loro attività all’interno del sistema delle Nazioni Unite. http://www.undp.org/index.html A questo indirizzo si forniscono informazioni sul programma delle Nazioni Unite “the United Nations Development Programme”. Lo scopo di tale programma è quello di intervenire a livello mondiale in favore: della diffusione di forme democratiche di governo; della riduzione della piaga della povertà; della prevenzione delle crisi ; dell’energia e dell’ambiente; della diffusione delle tecnologie cella comunicazione; contro il diffondersi dell’HIV/AIDS. Più precisamente, il programma UNDP fornisce fondi, aiuta i paesi in via di sviluppo ad attrarre risorse e finanziamenti ed a impiegarli in maniera efficace, promuove la cooperazione tra paesi del sud del mondo. 23