Numero Maggio `11

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Maggio '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Maggio '11
Numero Maggio '11
EDITORIALE
Come forse avrete già avuto modo di notare, a partire da questo mese all'interno del
Mucchio le pagine dell'inserto “Fuori dal Mucchio” sono raddoppiate, passando da due a
quattro. Perché, anche una volta separato il grano dal loglio, sono sempre di più i dischi
italiani “emergenti” di cui ogni mese vale la pena occuparsi. Del resto, già da qualche tempo
anche nella sua appendice telematica – che state leggendo – il numero di recensioni e
interviste è sensibilmente aumentato, ché il numero di produzioni degne di nota lo
richiedeva.
Non fa eccezione questo nuovo numero, ricchissimo di band e artisti giovani e meno
giovani, e quanto mai variegato dal punto di vista dei generi trattati (indie-rock, metal,
canzone d'autore, elettronica, hip hop, prog, e via dicendo). Inutile allora stare a perdere
ulteriore tempo in preamboli; spazio alla lettura, nella speranza che sia portatrice di buoni
ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Anansi
Stefano Bannò, 22enne trentino di sangue siciliano, polistrumentista e compositore, è noto
col nome d’arte Anansi,creatura mitologica africana dalle sembianze di ragno. Anansi ha
partecipato a Sanremo 2011 sez Giovani con il brano “Il sole dentro”, che fa parte del suo
secondo album “Tornasole”. Con Stefano abbiamo realizzato la chiacchierata che segue.
Sei trentino di nascita, ma sei nato da genitori siciliani. Pensi che questo ti abbia dato
già in partenza una spiccata attitudine alla tolleranza, alla curiosità verso le
mescolanze?
Credo che il fatto di essere stato esposto fin da piccolo a due culture e due mentalità molto
diverse fra loro mi abbia insegnato ad analizzare criticamente e a comprendere il valore
della mescolanza, dell'incontro, della diversità.
Hai vissuto in Irlanda e suonato in varie città britanniche quando eri ancora
minorenne. Come mai hai scelto di andare via così giovane?
A 17 anni vinsi una borsa di studio attraverso cui ebbi la possibilità di recarmi a studiare in
Irlanda. Fin dai primi mesi di quest'esperienza, cominciai a suonare nei pub di Carlow, la
città in cui vivevo, per poi fare anche esperienze da busker, per esempio sulla celebre
Grafton Street di Dublino. La motivazione di questa “fuga” dall'Italia sta nel fatto che l'ho
colta come un'occasione per crescere prima di tutto a livello personale, ma anche
musicalmente e artisticamente.
Anche dopo sei stato in giro in Germania. Hai una vocazione girovaga? Dove vivi
adesso?
Ho avuto modo di esibirmi qualche volta in Germania, sia con Roy Paci, sia come solista.
Ora vivo a Trento, nella città in cui sono nato, ma il viaggio è sempre un tema ricorrente
nella mia vita e nella mia musica. Essere un girovago ti dà il privilegio di essere sempre in
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viaggio, ma di non dover aver per forza una meta.
A proposito, nel 2009 sei entrato nella band Roy Paci & Aretuska. Com’è successo?
Cosa ti ha dato e cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Ho conosciuto Roy nel 2009 a Milano. Io e la mia band partecipavamo a un concorso di cui
lui era un giudice. Abbiamo vinto il concorso e lui apprezzò molto il mio stile, tanto che nel
giro di un mese mi chiese di entrare negli Aretuska come MC/vocalist. Con Roy Paci &
Aretuska ho avuto il piacere e l'onore di partecipare a due tour e a un disco (“Latinista”, Ndr)
da co-interprete e co-autore.
È inevitabile che ti chieda di Sanremo. Un artista giovane come te riesce a
maneggiare il festival senza farsi manipolare? Cosa cercavi? E lo rifaresti?
Credo che la partecipazione a Sanremo Giovani sia stata un’esperienza molto formativa, in
cui ho avuto la possibilità di conoscere meglio il mondo dello spettacolo italiano, imparando
a distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi. Sanremo Giovani è indubbiamente una
grande vetrina, a cui un giovane artista deve partecipare mantenendo e difendendo sempre
la propria identità. Se si tiene questo in considerazione, non ci si fa manipolare. E credo che
per me sia stato così. Rifare l'esperienza? Sinceramente al momento non saprei rispondere.
E poi arriva l’album “Tornasole”. Dieci diverse gradazioni di colore. È attraversato da
un’anima nera ma c’è dentro di tutto, da Andrea Pesce ai Pitura Freska, dagli Africa
Unite a Frankie Hi-NRG. Qual è il tratto comune di tante collaborazioni?
Mi viene da dire che sono io! I vari generi presenti nel disco riflettono i miei ascolti, le mie
esperienze e le mie diverse anime. Qua torna il tema del viaggio, attraverso il quale il
girovago vede culture e paesaggi diversi, di cui il filo conduttore è il viaggio stesso.
Vorrei chiederti uno sforzo: quello di scomporre gli ingredienti della tua musica. Di
cosa sono fatte le tue canzoni, come temi e contenuti da una parte, e dall’altra come
stili musicali?
Sul piano dei testi, ciò che scrivo rispecchia semplicemente ciò che vedo e ciò che vivo.
Nella maggior parte dei casi, i testi delle mie canzoni nascono da discussioni con le persone
a me più care sull'attualità, sulla politica come su qualsiasi altro tema. Altrimenti nascono da
esperienze direttamente o indirettamente vissute. Musicalmente, "metto in pratica" ciò che
ascolto, cercando di assorbire e personalizzare la musica dei miei artisti preferiti e in
generale dei miei ascolti.
Appunto, quali sono gli artisti con i quali ti sei formato? I tuoi ascolti, i tuoi amori
musicali più influenti?
Il reggae di Marley,e in seguito di altri artisti,è stato il mio punto di partenza, ma l'artista che
mi ha formato di più è Ben Harper. Attraverso la sua incredibile varietà musicale e il suo
eclettismo, ho imparato ad apprezzare la musica a 360 gradi: dal reggae al blues, dal pop
all'hard rock, senza nessun pregiudizio.
In un brano si ripete la necessità di “aprire gli occhi”. Su cosa soprattutto bisogna
aprire gli occhi, oggi, secondo te?
Il brano in questione e' “La realtà”, nato in collaborazione con Frankie Hi-NRG, che chiude il
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pezzo dicendo: ”L'immagine ha rubato alla realtà l'immaginazione”. “Aprire gli occhi” in
questo senso significa comprendere e affrontare la realtà, abbandonando i sogni e le illusioni
che il sistema ci propina ogni giorno, ma creando i presupposti per altri sogni “ad occhi
aperti”, che siano invece veri e pieni di speranza.
Il futuro ti vedrà imboccare una (o qualcuna) delle dieci gradazioni di colore, oppure ti
riconosci pienamente in tutte le sfumature del tuo disco?
Ognuna di queste gradazioni meriterebbe di essere percorsa fino in fondo, ma credo che
continuerò il viaggio in modo trasversale: di colore in colore.
Contatti: www.anansi.it
Gianluca Veltri
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Calomito
“Cane di schiena” è il secondo album della band milanese che ha esordito con “Inaudito”,
uscito per Megaplomb cinque anni fa. Il loro ritorno continua sulla falsariga del debutto: un
susseguirsi di input sonori che tengono viva l’attenzione perché sorprendenti. E l’aumento
degli ascolti in un calderone avant-jazz-rock pieno di influenze e di esperienze uditive porta
ad apprezzarli ancora di più perché si arrivano ad intravedere le sottigliezze. Ne parliamo
con Tommaso Rolando: basso elettrico, contrabbasso e synth.
Come nascono i Calomito? Anche se questo è il vostro secondo album raccontateci
le vostre origini.
I Calomito nascono nel lontano 1999 in una cantina dove si montano gli strumenti, si cerca
di mettersi alla prova con materiale e composizioni originali e libere da definizioni, ci si
iscrive ad un concorso per band emergenti e perbacco lo si vince! Particolare non da poco
per dare pepe e spinta al progetto. E il nome Calomito in particolare è quello di un omino
macroencefalico nato dalla mente rigogliosa di un mio caro amico.
Il primo album "Inaudito" vi ha tolto dall'imbarazzo di iniziare e ha riscosso molti
consensi. Spesso i debutti sono un best of di un periodo medio lungo. Anche nel
vostro caso?
In realtà questa faccenda si è presentata più col secondo disco che col primo. "Inaudito" ci
ha messo parecchio a vedere la luce rispetto alle registrazioni, ma raccoglieva materiale di
un breve periodo intorno agli inizi del millennio. "Cane di schiena" è frutto del lavoro fatto dal
2007 ad oggi e raccoglie composizioni e brani di periodi molto differenti, ed effettivamente è
frutto di una vera e propria cernita tra il materiale che abbiamo avuto per le mani in questi
anni.
Com'è cambiato il vostro modo di comporre rispetto al primo disco diventando da
sestetto quintetto?
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Oltre ad aver ridotto il numero delle persone, c'è stata proprio una rivoluzione dell'organico,
pensa che solo io Tommi ed il violinista Filippo, siamo della formazione ufficiale del primo
disco. Poi abbiamo imparato a scrivere la nostra musica. Infatti per questo disco parecchie
composizioni hanno avuto una stesura su pentagramma e poche modifiche con gli strumenti
in mano, altri brani hanno avuto più bisogno di essere "manipolati" dalla band in saletta per
acquisire la forma che hanno su disco.
Qual è la base di partenza da cui partono musicalmente i Calomito? Come
auto-riconoscete di non fuggire da voi stessi?
Cacchio, noi fuggiamo proprio da noi stessi! Ovvero non partiamo proprio da un bel niente.
Foglio bianco. Nel senso che ci lasciamo aperta ogni possibilità musicale e non. La musica
ci piace tutta, ci piace masticarla tutta e filtrare quello che maneggiamo meglio. Non
escludiamo prima o poi di confrontarci con la forma canzone o il pop ma forse faremo il
prossimo disco metal.
Le idee musicali, tra giochi e trame cavalcanti e in bilico si disperdono come suoni
familiari e coinvolgenti. Come avviene soprattutto il vostro "costruire" queste storie
ricche di significato ma senza parole?
Il gioco è parte fondamentale della faccenda. Negli anni poi si va concretizzando una specie
di linguaggio. Ecco, forse la sfida è cercare di evitare che questo linguaggio cristallizzi e
smetta di rendere il gioco divertente.
Quando componete come trovate l'equilibrio condiviso? Qual è insomma il vostro
modo di essere gruppo?
Ognuno ci mette del suo, ognuno a suo modo, ognuno con i suoi tempi, c'è chi si fa di più il
mazzo e chi meno, c'è chi rompe le palle a tutti – e ammetto di essere proprio io - per
ottenere piccoli passi avanti nel lavoro di gruppo, c'è chi invece basta che dica due parole e
cambia le sorti e il destino dei progetti. Insomma, come nella vita vera fuori della saletta,
siamo un micromondo.
Dove e come è stato registrato il disco?
In modo abbastanza spezzettato, prima da Rico dei Uochi Toki nel Fiscerprais Studio di
Pontecurone, poi a Genova da Bandiani allo studio Apollo per poi essere mixato da Mattia
Cominotto al GreenFog Studio. Infine del master se ne è occupato Udi Koomran a Tel Aviv.
Qual è il consiglio migliore che vi hanno dato finora per migliorare il vostro impatto o
il vostro stile o il vostro suono o semplicemente un frammento?
Ci dicono che siamo diventati più pop.
Quali gruppi apprezzate e trovate vicini a voi e al vostro modo d'intendere la musica?
In ordine sparso per quanto riguarda questo periodo: Acoustic Ladyland, Battles, Secret
Chiefs 3, Mariposa, Jaga Jazzist, Motorpsycho, Cheval de Frise , RUNI, Zu.
Come vi descrivereste voi membro per membro con un aggettivo o un'abitudine o
un'attitudine?
Tommi, come dicevo prima, rompipalle; Marco autistico; Nando, ogni giorno sempre meglio;
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Pippo, 4'33"; e infine Nico, il ghigno diabolico.
Come presenterete questo disco dal vivo?
Stiamo già facendolo, con questa formazione con violino, trombone, basso, batteria, chitarra
e qualche amenicolo digitale. L'impatto live è bello solido.
Quest'album come l'esordio esce per Megaplomb. Cosa vi piace di quest'etichetta in
particolare?
Chet Martino della Megaplomb ormai è un amico e non ha avuto problemi a collaborare
all'uscita, che questa volta vede in prima posizione l'etichetta AltrOck di Marcello Marinone,
che ci segue e sostiene ormai da parecchio. Megaplomb rimane comunque nei nostri cuori
per essere stata la prima a rendere possibile fare uscire “Inaudito”. Inoltre abbiamo sempre
apprezzato anche i lavori degli altri gruppi che escono per Megaplomb, perché troviamo
molte affinità e un sottile fil rouge.
Per avere il disco cosa bisogna fare?
Chiedere appunto a Chet o a Marcello capi delle rispettive etichette Megaplomb e AltrOck.
Su Internet si trova tutto!
Contatti: www.calomito.com
Francesca Ognibene
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Green Like July
Atteso da più di un anno, il secondo disco dei Green Like July – pubblicato grazie a Ghost –
è un compendio di americana filtrata attraverso la lente di chi, alla fonte di quell’immaginario,
si è dissetato giorno dopo giorno. Se nella musica pop i confini sono sempre più labili, il trio
di Pavia dimostra che scrivendo canzoni con la convinzione dei propri mezzi si può andare
lontano.
“Four-Legged Fortune” è il vostro secondo disco ma il suo percorso non è stato
certo lineare.
Andrea: Il disco ha avuto una genesi particolarmente travagliata. È stato registrato nel
Maggio del 2009 e, per molti mesi, è rimasto chiuso in un cassetto. Le ragioni sono state
molte ma, essenzialmente, possono essere ricondotte alla consapevolezza di avere tra le
mani un buon disco e di volergli dare una degna casa. A tirarci fuori da una situazione di
stallo sono stati i ragazzi della Ghost e, in particolare, Marco Ragusa della Warner.
Come mai la decisione in grande e andare a fare il disco alla Saddle Creek?
L'atmosfera provinciale nostrana vi stava soffocando?
Nicola: La provincia non è stato ciò che ci ha portato in Nebraska. Per noi non è mai stato
un problema il fatto di essere una band italiana che suona folk rock americano. Nel 2007 sia
io che Andrea stavamo uscendo da un periodo di grandi frustrazioni musicali: ai nostri
progressi da un punto di vista tecnico e compositivo non corrispondevano riconoscimenti di
nessun genere. Tutto era sempre troppo faticoso e insoddisfacente. Uno dei problemi
principali erano le registrazioni: avevamo buone canzoni e buone idee ma quello che
facevamo qua ci demoralizzava. Premesso che abbiamo sempre seguito da vicino la scena
legata alla Saddle Creek, abbiamo pensato che fosse importante registrare il disco dai Mogis
più per noi che per avere un prodotto di maggiore qualità in sé: volevamo avere una volta
tanto qualcosa che davvero ci soddisfacesse. Questa non è una critica agli studi di
registrazione o ai tecnici italiani, tutt'altro: ci sono ovunque buoni o cattivi produttori ma il
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nostro percorso ci ha portato a Omaha, tutto qua.
Come sono andate le registrazioni? Quali sono le differenze principali che avete
riscontrato tra l'attitudine italiana e quella americana?
N.: Le registrazioni sono state grandiose, sia da un punto di vista professionale che umano.
Jake Bellows e AJ Mogis hanno subito abbattuto quel muro di soggezione che poteva
dividerci e questa atmosfera si riflette sul disco. Ogni giorno si discuteva degli arrangiamenti
e dell’orientamento artistico da dare al disco e poi la sera si beveva whisky o si giocava a
biliardo. Non ci sono grandi differenze sul piano tecnico tra Italia e USA: forse noi avevamo
bisogno di andare verso le radici di quel suono, di muoverci all'interno di un contesto dove la
musica folk e il rock sono dati per scontati per concentrarci di più sul resto: in Italia abbiamo
quasi sempre incontrato difficoltà a far digerire quel suono ai tecnici che hanno lavorato con
noi. Negli ARC Studios tutto è stato naturale, anzi, erano loro a dare un freno alla nostra
passione per la musica roots!
Paolo: Le differenze che ho notato rispetto all'Italia le ho riscontrate subito all'inizio, nei
suoni. Mi spiego meglio: una volta scelta e microfonata la batteria AJ ha subito trovato il
suono giusto. Ha trovato il “mio” suono.
Questo aspetto, questa facilità nel trovare il "suono" pensate sia dovuto al fatto che,
per dirla brutta, giocavano in casa?
N.: Beh certamente, intendo proprio questo. Sembra una cosa ovvia, ma il fatto di avere
quel background li facilita tantissimo: per loro il folk, il rock'n'roll, il blues sono punti di
partenza, per noi punti di arrivo.
Come sono arrivati, i Green Like July, a un disco come “Four-Legged Fortune”? La
vostra storia è abbastanza particolare.
N.: Andrea ed io ci conosciamo da una vita pur non avendo mai suonato insieme prima di
Green Like July. Nel 2004 abbiamo deciso di provare a fare qualcosa uniti da una comune
passione per la Band e Dylan. Abbiamo però iniziato con un'attitudine molto lo-fi: abbiamo
registrato il nostro primo disco e ci siamo subito accorti che quel modo di suonare ci stava
molto stretto. Nel frattempo siamo andati a vivere entrambi nel Regno Unito: io a
Southampton ed Andrea a Glasgow. Ognuno di noi ha fatto enormi progressi in questo
periodo, siamo entrati in contatto con artisti locali dai quali abbiamo appreso molto, Andrea
ha frequentato artisti del giro Reindeer Section. Tornati in Italia avevamo le idee sempre più
chiare e pezzi di cui eravamo sempre più convinti: siamo stati molto sfortunati a non trovare
in breve tempo una line up ottimale per sviluppare tutto questo. Abbiamo suonato con
diverse formazioni fino ad incontrare Paolo che ci ha dato equilibrio.
Siete passati da una forma di indie un po' calligrafica a un suono più “classico”. Ci
sento molti anni Settanta americani. Tipo il Dylan un po' meno “canonico” (e so che
uno dei vostri dischi preferiti è “Nashville Skyline”).
A.: Il prendere le distanze da certe sonorità indie è stato uno dei primi obbiettivi. Non credo
però che la classicità di cui parli sia dovuta al Nebraska. Paradossalmente, i musicisti con
cui abbiamo lavorato ci hanno aiutato a dare al disco un suono più moderno. È vero quanto
dici riguardo al nostro amore per certi suoni. Trovo che Dylan sia sempre un’enorme fonte di
ispirazione, indipendentemente dal periodo o dai singoli dischi. È vero, però: nei giorni in cui
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abbiamo arrangiato “Four-Legged Fortune” siamo stati molto ispirati da quel periodo lì: tra
“Nashville Skyline” e “New Morning”.
Nelle canzoni ci sono molti riferimenti all'idea di movimento e di viaggio. Mi sembra
che non sia solo un'ispirazione retorica ma proprio una condizione in cui vi sentite un
po' divisi.
A.: Forse la ragione principale è che questo disco è stato concepito in diversi luoghi: i testi
fotografano un periodo della mia vita caratterizzato da grandi spostamenti: le prime cose
sono state scritte quando ancora vivevo a Glasgow. È vero, però, che sono stati anni molti
travagliati anche da un punto di vista emotivo e sentimentale: non sempre le strade e le
distanze di cui parlo hanno un significato prettamente geografico. Però, “Four-Legged
Fortune” nasce da una situazione di maggiore serenità e pace con luoghi e città dove sono
nato e cresciuto. Davvero ci vedi così tanta irrequietezza?
Contatti: www.myspace.com/greenlikejulycandyapple
Hamilton Santià
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La Blanche Alchimie
Ci invitano a entrare, gentili e premurosi, nel loro mondo, lontano e fatato, Federico
Albanese (polistrumentista, che destreggia pianoforte, basso elettrico, clarinetto e chitarra, e
compositore) e Jessica Einaudi (cantante, capace di una notevole ricerca vocale, e autrice
dei testi). Giovani sono giovani, rispettivamente classe 1982 e 1983, i due che da Milano
stanno camminando in questo di mondo con il loro gruppo, La Blanche Alchimie, con cui,
mossi i primi, multilinguistici, passi, con l'album omonimo d'esordio, uscito per Ponderosa
Music & Art nel 2009, sono arrivati a toccare in tour, oltre che il resto d'Europa, gli States.
Ora riprendono la loro strada con “Galactic Boredom”, interamente in inglese, pronto di
nuovo all'attacco, oltre che all'ascolto nazionale, anche ben oltre il confine. Uscito sempre
per la Ponderosa Music & Art, con distribuzione Universal, vede alla produzione lo sguardo
attento, ma non invasivo, di Ludovico Einaudi, che, a tutti ben noto notevole musicista, è
anche padre. Entriamo nel mondo, di dolce e malinconica nostalgia, di La Blanche Alchimie.
Prima di tutto, inevitabile: perché La Blanche Alchimie? E perché proprio in francese,
per voi che avete fin qui dimostrato di trovarvi a vostro agio, oltre che con l'italiano,
appunto col francese e l'inglese?
È partito tutto in un bar di Milano una sera nel dicembre 2006. Ci siamo seduti ad un tavolo
e abbiamo visto che sopra c’era una cartolina con scritto Santa Alchimia. Dopo un paio di
mesi Federico mi ha passato su chiavetta un paio di suoi brani strumentali. Uno di questi si
intitolava “Sacred Alchemy”. Ho scritto un testo e ci ho cantato sopra registrandomi con
garage band. Il pezzo funzionava e abbiamo provato con un altro brano che abbiamo
intitolato “Contaminazione Bianca”, fino ad ora l’unica canzone in italiano che abbiamo
scritto. E poi è arrivata “Little island Girl”, un pezzo metà in inglese metà in francese. Dare
un nome al progetto a quel punto è stato semplice, è bastato unire i puntini.
Dalla vostra biografia "ufficiale" c'è scritto che “fate squadra”dal 2007. Ma cosa c'è
prima di quell'anno per Federico Albanese e Jessica Einaudi? Due strade altrove dalla
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musica, o due percorsi paralleli, nella musica, che non potevano che avere un punto
d'incontro?
Entrambi avevamo una band che faceva musica completamente diversa. Federico suonava
il basso in un gruppo rock stoner, i Veracrash, mentre io cantavo in un gruppo electro dark
pop.
Credo ci fosse in entrambi un senso di frustrazione e incompletezza, come se fossimo alla
ricerca di qualcos’altro che abbiamo trovato iniziando a lavorare insieme.
Qual è la vostra formazione musicale? E se ci sono, i vostri punti di riferimento?
Qualcuno ha scomodato, parlando di voi, il duo John Parish/PJ Harvey...
Una formazione molto varia che spazia dai Velvet Underground ai Portishead passando per
i Radiohead, Eric Satie e gli Archive, fra i tanti. Sicuramente poco italiana anche se un po’ ci
dispiace...stiamo cercando di rimediare facendoci una cultura su ciò che di interessante ha
avuto in passato e oggi da dire in musica il nostro paese. C’è tanto da scoprire.
Evocate con le vostre musiche, “pennellate di lieve decadentismo, un intimismo
parecchio romantico, lievi tinte teatrali”: vi ritrovate in questi colori, che indicano
come contenga il vostro lavoro uno sguardo di profonda umanità poetica? Jessica,
tra l'altro, sei in toto autrice dei testi, che sono vere e proprie poesie.
Sì... forse... In realtà non riusciamo a riconoscerci in nessuna definizione. Noi scriviamo
quello che ci viene naturalmente, non c’è dietro un pensiero premeditato che ci fa dire
“facciamo una canzone romantica o poetica”. Sul testo c’è sempre un gran lavoro, non mi
piace scrivere parole a caso. A volte è l’ultimo ad arrivare, perché se non ho la giusta
ispirazione, non riesco a scrivere niente e un pezzo resta incompleto anche per dei mesi.
Dopo il vostro, omonimo, album di debutto, che era attraversato dalla presenza di
canzoni cantate in italiano, francese, inglese, è ora uscito “Galactic Boredom”, scritto
solo in inglese. Come mai questa scelta “unica”, e cos'è cambiato da “La Blanche
Alchimie” al vostro secondo album?
Nel primo album eravamo più immaturi musicalmente. Avevamo il profondo desiderio di fare
un disco e abbiamo scritto come dei matti in pochi mesi per correre a registrare e fissare
quel momento di svolta importante per la nostra vita. “Galactic Boredom” è un disco più
omogeneo, più consapevole, e credo anche più ricco. Ci riconosciamo completamente nel
sound che siamo riusciti a creare...anche se di strada ne abbiamo ancora parecchia davanti
a noi.
Il video del primo singolo di lancio di “Galactic Boredom, è “Fireflies”, che vive in un
parallelismo tra sogno e realtà, in cui il mondo decide per un attimo di rivolgersi di
nuovo alla magia, dopo l'incontro, possibile, tra un uomo e una donna... ma poi
ritornerà la realtà... ed è un po' il mood di “Galactic Boredom” (ovvero noia galattica),
che già dal titolo sembra nascondere una critica nei confronti del mondo troppo
“reale” che ci circonda. Ma è fuga, presa di coscienza, rigetto nei confronti dell'oggi?
“Galactic Boredom” può essere tante cose, ci piace che ognuno ci si immerga a suo modo,
interpretandolo in base al proprio vissuto. Però, sì, per noi è una fuga dall’oggi che opprime,
che schiaccia. Quando ti rendi conto che l’unica strada è il viaggio mentale, parti e si
schiudono dei mondi strabilianti. I ricordi, i sogni e la fantasia sono una ricchezza infinita per
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chi sente il bisogno di esprimersi in ambito artistico, e non solo, forse. Non vorrei però che si
vedesse tutto questo come astrazione dalla realtà e rifiuto di vivere nel mondo. Ci teniamo a
precisare che il nostro lavoro parte dal reale e dalle sensazioni scaturite dal reale per
allontanarsi e cercare altre soluzioni più magiche e ultraterrene.
Avete parecchio girato col tour del vostro primo album, arrivando, oltre che l'Europa,
a toccare gli States. Immagino che sia un bel riconoscimento che dà valore al proprio
lavoro, che già aveva ricevuto ottime critiche, e dona quella scintilla in più per
continuare, crederci. E ora siete di nuovo in viaggio col tour del secondo. Com'è
l'incontro col vostro pubblico, e cosa avete provato incontrando un'umanità così varia
nei viaggi sul globo?
Sì, è vero, girare tanto confrontandosi con luoghi e persone diverse dà una carica
incredibile. Perché in fondo è un mestiere che richiede contatto umano, noi ne abbiamo
bisogno, è un po’ come una droga. E poi dall’altra parte ascoltare un pezzo su myspace non
può essere sufficiente per capire un musicista. C’è troppo di tutto e l’unica cosa che resta è
l’unicità dell’esperienza umana. Gran parte delle persone che ci seguono sono venute ai
concerti e hanno ricevuto e dato qualcosa. A volte è meraviglioso, il pubblico è quello giusto,
e noi ci doniamo completamente. Purtroppo, non ci si deve aspettare che sia sempre
un'esperienza top, perché altrimenti se ne esce devastati. Stiamo ancora crescendo, e non
siamo abbastanza noti da pretendere che ovunque andiamo la gente ci conosca e canti le
nostre canzoni. A volte, ci si sente come in film di David Lynch, a suonare in posti surreali
per squallide persone ubriache che preferirebbero sentire le cover di Vasco. Non facile, ve lo
assicuro.
Attualmente è difficile farsi avanti in una realtà musicale, in cui ci si dimentica, e si è
dimenticati, facilmente. Ma voi sembrate ben motivati, e convinti della scelta che avete
fatto e portate avanti. E con “Galactic Boredom” dimostrate di fare molto bene! Ma
com'è per voi, giorno dopo giorno, questa “lotta”, e cosa vedete intorno a voi,
venendo da un luogo come Milano, “piazza” molto complessa?
La convinzione ormai non ce la porta più via nessuno. Abbiamo fatto tanti incontri negativi
che hanno messo alla prova tutta la nostra passione. Ora siamo meno ingenui e ancora più
determinati. Sappiamo che è molto difficile emergere, ma forse a lungo andare le persone si
accorgono se un progetto è sincero e con una personalità autonoma, e noi ci terremmo a
essere premiati per questo. Milano è una città con grandi potenzialità, ma che dovrebbe
essere valorizzata di più. Speriamo fortemente in un cambiamento politico radicale che dia
più voce a tutti gli artisti che abitano o transitano in questa città, che meriterebbe di essere
davvero una capitale culturale.
Quanto può essere impegnativa la presenza di un genitore, di altissima qualità
artistica, come Ludovico Einaudi, che è produttore dei vostri lavori, e come vi
incontrate con lui?
Ludovico, oltre che essere genitore, è un artista con il quale c’è un'ottima intesa artistica. Ci
si è sempre confrontati sia sul nostro che sul suo lavoro, e quando abbiamo cercato un
produttore per questo ultimo disco la scelta è arrivata spontaneamente. Ci siamo chiesti
“Perché guardarci tanto in giro se vicino c’è una persona con cui abbiamo una comprensione
istintiva così forte?”.
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Detto questo magari questa collaborazione non si ripeterà...non possiamo dirlo. Siamo
ancora giovani e abbiamo il desiderio di sperimentare tante collaborazioni con persone
diverse.
Cosa vedete per il vostro futuro? Per ora concentrati su “Galactic Boredom”, o già
stanno vedendo luce nuovi progetti?
Il futuro prossimo vede uno spiraglio sul Regno Unito, dove “Galactic Boredom” uscirà in
estate e dove saremo impegnati in attività promozionali e live. Quest’estate suoneremo un
po' in Italia e fra una pausa e l’altra svilupperemo un po’ di idee su canzoni nuove che ci
frullano per la testa. E poi chissà. Non è ancora il tempo per le certezze, di sicuro quello per
le sorprese e l’avventura.
Contatti: www.myspace.com/blanchealchimie
Giacomo d'Alelio
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Numero Maggio '11
OvO
Duo caustico e terrificante, gli OvO sono tra i prodotti da esportazione di punta del nostro
paese, che con “Cor cordium” segnano un ulteriore passo in avanti, confezionando un disco
estremo nell’accezione più pura e stretta del termine. Giù le maschere per scoprire cosa si
nasconde dietro questo muro di umor nero ed atmosfere occulte.
Partiamo da “Cor cordium”, che a differenza dei vostri dischi precedenti, è
impregnato di rimandi letterari molto forti. Com’è ricaduta la scelta sull’eroe
romantico Percy Shelley?
Bruno Dorella: A dire il vero qualche riferimento letterario c’era anche prima, ma in effetti
mai così esplicito. In questo caso a colpirci non è stato tanto il poeta, né la sua biografia e la
sua morte in naufragio in acque italiane, ma la scritta sulla sua tomba: “cor cordium”, “cuore
dei cuori”. Si dice che il suo cuore sia rimasto intatto dopo la cremazione. Ma, in generale,
l’insieme di queste cose ci ha aperto molte porte a livello di immaginario, e abbiamo deciso
di farne il perno teorico del disco.
Il romanticismo, l’ignoto, i culti pagani, quale legame hanno con le vostre escursioni
musicali più estreme?
BD: Ne siamo decisamente ed inguaribilmente affascinati. Sappiamo bene che il limite tra
un approccio serio a queste cose ed uno puramente estetico e vuoto di significati è piuttosto
labile. Questo ad esempio mi sembra vero per molte black metal band. Allo stesso tempo,
da metallari quali siamo, cogliamo in maniera positiva anche gli aspetti ironici di questo tipo
di estetica. Insomma, siamo in bilico tra il reale interesse esoterico e un approccio un po’ più
divertito all’argomento. L’ironia è sempre stata presente negli OvO.
La caratteristica principale, e che balza subito all’orecchio, di “Cor cordium” è
l’utilizzo delle sovraincisioni, frutto di una maggiore cura e voglia di porre in risalto i
particolari e le sfumature del disco. E’ una semplice scelta stilistica o una decisione
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Numero Maggio '11
dettata dal cambio d’etichetta? La Supernatural Cat è famosa per il suo roster doom e
le sue produzioni “gonfie” di suoni, se così si possono definire.
BD: Le sovraincisioni in realtà non sono molte, ma il particolare è comunque importante
perché è la prima volta in assoluto che le utilizziamo. Fa tutto parte di un approccio meno
lo-fi alla registrazione. In passato abbiamo considerato i dischi come semplice testimonianza
del live, una fotografia dello stato dei nostri pezzi, che nascevano come improvvisazioni e si
formavano poco a poco. I nostri limitati mezzi economici poi non ci permettevano di dedicare
molto tempo al lavoro in studio di registrazione. Adesso invece diamo un valore al disco in
sé, ed anzi ora componiamo i brani in studio, di modo che sia il live a doversi adattare al
disco, e non viceversa. Questa trasformazione è iniziata con Crocevia, il nostro ultimo disco
su Load, registrato a New York negli studi di Bill Laswell, è continuata con il disco in
collaborazione coi Nadja, registrato negli studi degli Einstürzende Neubauten a
Berlino, ed ora con Cor Cordium, registrato nella pace di Lari (piccolo paese vicino a Pisa)
con la professionalità incredibile di Ivan Rossi. Il passaggio a Supernatural Cat è avvenuto
dopo, quando il disco era già registrato, e segna un incontro importante: la nostra musica è
diventata più “quadrata” e prodotta, la loro etichetta sta diventando più trasversale. Ci siamo
magicamente incontrati a metà strada.
La carriera di Bruno è caratterizzata da un eclettismo ed un estro musicale
sovrabbondante, che spazia dal cantautorato oscuro alle estremità doom, passando
per le suggestioni cinematografiche dei Ronin e il noise dei Wolfango. Da dove
fuoriesce tutta questa abbondanza e commistione di stili?
BD: Semplicemente ho sempre ascoltato molta musica, e non ho mai pensato che ascoltare
o suonare musica volesse dire ascoltare o suonare un solo genere o un solo strumento.
Questa domanda mi sorprende sempre, a me sembra del tutto ovvio non fossilizzarsi.
Chiederei piuttosto a chi fa una sola cosa per tutta la vita come fa a non annoiarsi.
Le esperienze presenti e passate di Bruno avranno sicuramente fornito un ottimo
punto di vista sulla scena indipendente italiana, anche tramite la sua etichetta Bar La
Muerte, che ha dato spazio a molti artisti validi (Bugo è il primo che salta in mente).
Qual è lo stato di salute in cui si trova oggi questa scena? Sembra che, rispetto al
passato, sia molto florida di gruppi interessanti ed alcuni validissimi, ma dalla qualità
media abbastanza standardizzata.
BD: La scena italiana è sempre stata forte, e lo è anche oggi. Paghiamo solo un po’ di
nostro provincialismo, e lo scarso appeal che abbiamo all’estero anche a causa del mercato,
che privilegia i gruppi anglosassoni. Ma la scena c’è e vanta gruppi veramente speciali, e per
fortuna qualcuno, grazie anche alla porta aperta prima da gruppi come Zu e poi da gruppi
come gli OvO, riesce ad ottenere rispetto anche all’estero. Questo mi rende sempre
orgoglioso.
Le vostre maschere hanno un impatto scenico molto forte. In base cosa le scegliete?
Stefania Pedretti: La scelta è dettata principalmente dall’estetica e per le nuove maschere
ci andava di avvicinarmi ancor più ad un’ estetica horror, lo si coglierà ancor più nel
videoclip che abbiamo appena girato e che sta per uscire. Poi anche la casualità detta le
scelte, mi spiego: la maschera che indossa Bruno (da luchador) l’abbiamo comprata in
Messico durante un tour che abbiamo fatto lì qualche anno fa. La mia attuale, invece, è fatta
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ad uncinetto, volevo qualcosa di maneggevole e fatto a mano, quindi ho pensato di farla ad
uncinetto e la mia ragazza l’ha fatta per me, ma non sapevo come sarebbe venuta, è stata
una sorpresa. Ho comprato il vestito da delle bambine al mercatino di Berlino e poi l’ho
riadattato a mio piacimento. Il risultato è che da pochi elementi abbiamo creato dei costumi
che ci rendono e ricordano 2 angeli della morte, Boia Bruno e Morte io...ma sempre con
l’ironia Ovo.
Stefania Pedretti è l’anima più tormentata dei due, nonché autrice dei testi e delle
nenie oscure, rivestendo al tempo stesso il ruolo di icona femminile come custode di
verità ancestrali e dalle movenze sensuali e isteriche allo stesso tempo. Cosa c’è
dietro la maschera che indossa?
SP: Sono una persona che si mette in gioco e metto nella musica e nei miei concerti tutta
me stessa, anima e corpo. Sul palco, calzando una maschera, divento altro, ma allo stesso
tempo racconto la mia vita e condivido le mie ideologie, il tutto non passando dalla mente,
non usando il linguaggio consono, ma altro; da cuore a cuore, per chi sa recepire questo...
Contatti: ovolive.blogspot.com
Luca Minutolo
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Sbizza e la Microrchestra
Sbizza è Massimiliano Bevilacqua, già cantante dei Milaus e qui con “Tinamo” è alle prese
con la sua nuova band, la Microrchestra nella quale approdare per discernere le emozioni
che gli dà il quotidiano e che con la sua sensibilità poetica rende musica. Specchiarsi nelle
sue immagini poetiche porta a una fisarmonica emotiva che si spinge all’estremo
dell’estetica della parola che racconta storie palpabili e anche no e per questo in entrambi i
sensi storie strabilianti.
Sbizza e la Microrchestra, nasce dalle ceneri dei Milaus che ascoltando il disco ho
percepito lievemente in “Adda” o “Osteoporosi”. Tu adesso ti senti lontano da loro o
forse in queste canzoni, appena nominate, tendevi l’orecchio?
A dire il vero il disco è nato da un lavoro molto intenso e profondo in cui la mia anima
poetica e di scrittore ha incontrato quella di musicista e cantante. E questo è successo nel
momento in cui ho iniziato a fare dei reading di poesia cantando anche queste poesie,
utilizzando l’italiano - perché con i Milaus si cantava in inglese - e quindi provando a fare
anche questo sforzo di dare peso e valore al cantato in italiano è uscita questa esperienza.
In questo CD però c’è sicuramente un tocco di Milaus e mi fa piacere che tu me lo faccia
notare.
Uscire dal tuo ruolo di cantante è sempre facile? Perché io non riesco ad ascoltarti
senza immaginarti il protagonista delle tue canzoni?
Perché è così. Queste canzoni sono il punto in cui nella mia vita sono arrivato a rielaborare
fortemente la mia esperienza autobiografica. Non per niente in questo CD parlo di sordità
avendo avuto entrambi i genitori sordomuti. “Tinamo farfalla” o “Adda” sono narrazioni,
racconti in chiave poetica di situazioni personaggi ambienti e sensazioni, immagini, proprio
dei luoghi che mi sono fortemente vicini quindi veramente c’è un contatto fortissimo tra il
lavoro artistico e la mia persona. E forse è anche a tratti troppo coinvolgente. Quindi, per
me, lo scopo è di trovare una sorta di equilibrio.
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Numero Maggio '11
Come hai dato a “Tinamo frafalla” l’idea del volo e del librarsi senza pronunciare nel
testo la parola volare?
Credo sia tutta la struttura della canzone e il fatto che sia un ritmo particolare che è in tre
quarti, questa parte di fiati che poi stacca e alterna credo dia proprio questa sensazione di
volo e di leggerezza. Almeno questo era il mio intento. C’è il desiderio che l’invisibile sbaragli
in quella sensazione di freddo, di monotonia, di bianco e nero che l’inverno porta con sé che
è bellissima e avvolgente e dall’altra parte però a volte può essere anche pesante,
opprimente. Quindi è un tentativo di dare leggerezza a quest’immagine.
Anche il tuo nome s’ispira all’inverno.
“Sbizza” in un degli infiniti dialetti dei paesini delle nostre parti significa brezza invernale.
Quella brezza fastidiosa tagliente. Dietro questa parola metaforicamente c’è il legame col
dialetto col nostro territorio, ma anche l’idea che la sbizza serva spesso a risvegliarmi, a
tenermi attento, a lasciarmi chiamare e intrappolare; e desiderare dalle cose che mi stanno
intorno.
Con “Sordiografie” racconti i tuoi genitori. Come hai trovato la chiave giusta?
Mi si è accesa la lampadina quando hanno pubblicato un libro che raccoglieva le foto e la
storia della Pro Mutis di Sondrio che è un istituto dove i miei genitori hanno vissuto da
quando avevano cinque anni e mia madre è stata lì fino ai ventuno anni. Ho rivisto le foto dei
miei genitori da quando avevano cinque anni a quando ne avevano venti e li ho visti scorrere
negli anni. Li ho visti vicini. In un certo senso mi ha affascinato il fatto che loro si
conoscessero da tanto tempo e che poi avessero deciso di sposarsi e allora ho provato a
scrivere delle didascalie poetiche che facessero parlare quelle foto e da lì poi una di queste
è diventata una canzone.
Tu hai una voce fresca e gioviale e sentirti cantare così come fai in un duetto con
Roberta Visioli porta ad aumentare le sfumature. Come nasce questa collaborazione e
come avete vissuto quest’incontro di voci?
È un incontro che è nato gradualmente invitando lei a dei concerti perché tante canzoni
avevano una forte componente femminile e quindi conoscendo la bellezza della voce di
Roberta, cantante dei Fuseaux, l’ho chiamata. Tra l’altro ha una voce sotto certi aspetti più
maschile e quindi è un incontro al contrario perché io ho invece una voce molto flebile con
delle tonalità medio alte e anche molto leggere ed è fantastico perché è proprio un contrario.
“Catapulte di colore” è impreziosita da degli ospiti speciali. Com’è nata
quest’esigenza della canzone?
È nata dall’energia che emana. L’immagine è quella del cielo che si costruisce con delle
catapulte di colore ed è stata ispirata da una domanda di mio figlio che mi ha fatto qualche
anno fa, il quale mi chiedeva: “papà, come si costruiva il cielo tanti anni fa?”. Di fronte a
questa domanda mi sono trovato completamente spiazzato e ho provato a rispondere con
quest’idea. Era d’obbligo provare a coinvolgere un coro di bambini che poi in alcuni concerti
ci segue e tutti con una farfalla sul petto ed è veramente magico avere dei bambini che
cantano con te.
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“Osteoporosi” riporta nella tua vita musicale Fabio Bonelli, oggi Musica da Cucina e
membro come te dei Milaus. Com’è stato riaverlo con te?
È stato bellissimo e importantissimo. Lui è un personaggio. Siamo amici dal ’92 e abbiamo
suonato in vari gruppi oltre ai Milaus e siamo sempre molto uniti. E lui è un vulcano. Ha mille
progetti e idee, ma la cosa che mi fa sentire molto legato a lui è che proveniamo dallo stesso
luogo e spesso i nostri prodotti artistici sono contaminati dai paesaggi. Averlo avuto nel cd è
stato un onore e poi ci tenevo io e ci teneva lui. Anche nei concerti capita a volte che si suoni
assieme e che lui apra a noi o viceversa. Fabio è una presenza costante.
Pensi con questo progetto d’aver trovato il tuo nuovo gruppo?
Penso di sì. Non so come si evolverà in termini musicali ma sicuramente convivo meglio
con la mia componente artistica.
Le illustrazioni mi sono piaciute molto e soprattutto l’albero rotondo che sembra un
abbraccio, ci vuoi raccontare chi le ha fatte?
Le ha fatte Lisa Ronconi. Abbiamo coinvolto lei come illustratrice e un grafico. Lei ha sentito
le canzoni e ha creato questa farfalla che è a metà tra una farfalla e una foglia e poi Ricki
Stefanelli ha preso le illustrazioni e ha applicato l’arte grafica con l’azzurro quasi
fosforescente e il marrone terra che appunto sono due colori che apparentemente cozzano
tra di loro, ma in realtà caratterizzano molto il lavoro; per la terra perché alcune canzoni
scendono anche in profondità, mentre altre come ad esempio “Tinamo farfalla” tentano di
librarsi e di andare verso l’azzurro.
Contatti: www.myspace.com/sbizza
Francesca Ognibene
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The Death Of Anna Karina
I Death Of Anna Karina, con “Lacrima/Pantera” (Unhip), abbracciano definitivamente la
lingua italiana mantenendo il proprio peculiare sguardo sul mondo: le chitarre sono sempre
affilate, la voglia di leggere la realtà e seminare dubbi acuita dai testi nella nostra lingua.
Ecco le loro risposte ai nostri quesiti.
Cinque anni di silenzio, seguiti da un ritorno totalmente cantato in lingua italiana. Una
frequentazione occasionale in passato, quella con la nostra lingua, per quale motivo
vi siete decisi a portare a compimento la svolta con questo lavoro?
Il ritorno all’italiano è stata la conseguenza - direi quasi la pulsione ineludibile - dettata
dall’insorgenza di una direzione musicale intrapresa attraverso una ricerca lunga e quasi
estenuante, che si è andata compiendo con un paziente montaggio di soluzioni operato in
sala prove. 
Nel frattempo, in corso di opera, Giulio Bursi ha portato avanti il suo
lavoro di elaborazione dei testi e delle metriche lavorando in absentia fino al momento
conclusivo della registrazione.
Da qualche tempo un certo tipo di approccio (un certo approccio al canto, una solida
base rock-noise-hc, in ogni caso robusta e "pesante") ottiene inaspettati consensi di
pubblico, si veda il Teatro degli Orrori. Credo mi possiate dire che questo approccio
non è una novità, che in area hardcore è la norma o quasi, e che tutto sommato non
siete accostabili al Teatro degli Orrori (forse c'è comunità di intenti nel perseguire
l'efficacia espressiva), ma mi pare di percepire una sorta di discontinuità positiva
nell'accoglienza da parte del pubblico, di rinnovato interesse per un certo modo di
porsi, siete d'accordo? Il vostro nuovo disco partecipa di questo slancio, di questa
voglia di comunicare ad ampio raggio, non credete?
Da quando il disco è stato pubblicato diverse riviste hanno ricorso al paragone, a nostro
avviso improprio (come tu stesso noti), con il Teatro degli Orrori. Vorrei rendere noto,
soprattutto a quei recensori che avrebbero il compito professionale di informarsi, nel
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momento in cui commentano un disco, che i pezzi di “Lacrima/Pantera” sono stati concepiti
durante un arco di tempo che porta dal 2006 al 2009. La sessione di registrazione ha avuto
luogo nell’inverno del 2009. Da quel momento il disco è rimasto in standby per più di un
anno, prima di poter raggiungere il pubblico. In altre parole, nel momento in cui stavamo
incidendo “Lacrima/Pantera”, “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori era ben lungi da
uscire. Non vi sono state in nessun modo delle influenze dirette. Al limite, potremmo forse
parlare di una certa affinità di sensibilità e gusto musicale, ma solo in termini di comunanza
di ascolti, tra alcuni membri dei due gruppi. Se “Lacrima/Pantera” fosse uscito durante la
metà del 2010 chissà... forse saremmo stati salutati come vedette o “anticipatori” di questa
ondata noise-rock (che, come lo stesso “Mucchio” ha avuto modo di osservare, importa in
Italia cose che in altre culture musicali appaiono persino sorpassate). Ora, per un mera
occorrenza della “timetable”, veniamo liquidati frettolosamente come epigoni o meri
prosecutori. Tutto questo mi sembra sufficiente, ancora una volta, per denudare la stupidità
di certe etichette disinformative che discendono da un pensiero frettolosamente
merceologico, votato ad incasellare la musica in una parvenza di tassonomia più funzionale
ai consigli per gli acquisti che all’esercizio di un magistero critico atto ad indirizzare i gusti del
pubblico.
Quanto sono ancora importanti le radici per voi? Siete stati e continuate ad essere
identificati con il termine screamo, ma mi pare - impressione suffragata dall'ascolto di
“Lacrima/Pantera” - che non vi sentiate particolarmente vincolati ad un genere, ad una
comunità, pur continuando a rivendicare l'appartenenza alla scena hardcore (con tutte
le sue ramificazioni, evoluzioni e contaminazioni), che è il luogo da cui provenite.
Le radici sono sempre molto importanti. Suoniamo più volentieri in un festival che supporta
una causa, oppure in appoggio ad un movimento di opinione preposto ad evitare lo
sgombero di uno spazio occupato, che in quelle situazioni dove il “prestatore d’opera” è
tenuto ad eseguire regolarmente il suo compito senza poter aggiungere o togliere niente a
quanto è stato prestabilito da un accordo commerciale.
I testi non hanno perso l'impronta letterario/filosofico/esistenziale ma soprattutto
politica (nel senso più nobile e civico del termine) dei lavori precedenti. Pensate che
con l'italiano certe idee possano fare un percorso più lungo? Più in generale, che ne
pensate dell'attuale stato di salute della coscienza (in senso ampio anche qui) in
Italia?
Nell’attuale congiuntura politica e sociale riteniamo sia cruciale spendersi con forza per
forzare un’uscita da questa condizione generalizzata di passività, prostrazione, malgoverno,
superficialità, violenza latente che stiamo subendo come un incubo ben riuscito, ormai da
anni. Per risponderti mi concedo alcuni stralci tolti dagli “Scritti giovanili” di Gramsci. Questo
testo, dal titolo “Il diavolo ed il negromante” è stato scritto nel 1918, ma suona così
drammaticamente attuale che vengono i brividi): “Esistevano pochi gruppi attivi della classe
dirigente, sorti e rafforzatisi [...] attraverso l’intrigo [...] per la creazione di privilegi individuali
o di ristrette categorie. [...]. Ed esisteva finalmente il popolo, il paese, una massa enorme di
individui disorganizzati in ogni senso [...] indifferenti ad ogni idealità, estranei ad ogni attività
collettiva”.
Contatti: www.thedeathofannakarina.com
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Alessandro Besselva Averame
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Thee S.T.P.
Potremmo stare ore a disquisire, leggesi “perdere tempo”, sulla necessità o meno del rock’n
roll nel 2011, io sono convinto che di un gruppo come gli S.T.P. ci sia ancora bisogno, oggi
forse più che ieri. Fortunatamente il loro letargo sonoro è finito e ci hanno consegnato
“Success Through Propaganda”, un disco solido che ha segnato qualche aggiustamento di
rotta senza stravolgere un sound ormai consolidato, ed è un piacere al solito parlarne con Il
Metius, un personaggio che potremmo definire un’ “icona”, se solo il termine non lo
infastidisse.
Un'assenza discografica così lunga ci aveva fatto temere il peggio: come mai questa
pausa? Forse era necessario ricaricare le pile per uscire con un disco come "Success
Through Propaganda"?
Terminato il tour promozionale di "Paradise & Saints", Stiv, chitarrista e membro fondatore
degli S.T.P., lasciò la band. Fu un colpo durissimo, ma decidemmo comunque di andare
avanti. Riprendemmo a suonare e scrivere con la formazione a quattro, con la quale
registrammo tre brani nuovissimi, i primi scritti senza Stiv, e una cover degli Hanoi Rocks. Di
quella session ha visto la luce solo "Annie", che è presente nella compilazione "Sounds Of
The Underground". Poco più tardi, si unì a noi Dario - già con Retarded e Radio Days - e
cominciammo a scrivere altri pezzi. Purtroppo per noi - e fortunatamente per lui - i Radio
Days cominciavano ad andare veramente forte: decise così di lasciare gli S.T.P. per
concentrarsi sul suo personale progetto power pop. E finalmente negli S.T.P. entrò Bylli, un
elemento che ha immediatamente portato nuova energia e idee brillanti nella band. Come
puoi capire, il fatto che tra "Paradise & Saints" e "Success Through Propaganda" siano
passati cinque anni è dovuto a degli assestamenti interni alla band. E naturalmente al fatto
che non avremmo mai inciso un nuovo album senza avere abbastanza belle canzoni!
Trovo che l'album nuovo smorzi un po' il rock'n'roll furioso in cambio di maggiore
varietà musicale e melodica: concordi? Sono i vostri gusti che cambiano o è la voglia
di non ripetersi?
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Diciamo che l'energia si è concentrata più sul suono e sulle atmosfere piuttosto che sulla
velocità pura. Un discorso che avevamo già iniziato con "Paradise & Saints". Oramai le
nostre porte musicali - quelle sul davanti, ma anche quelle di servizio - sono sempre
spalancate: ci piace il rock and roll, tutto il rock and roll!
Mi sembra che i brani siano un grosso lavoro di "gruppo" più che un lavoro che parte
da una sola testa... Ho preso un abbaglio?
Fino a "Paradise & Saints", i pezzi erano principalmente scritti da Stiv e me, con questo
album siamo stati costretti a rivedere tutto ed è stato necessario coinvolgere tutta la band
per costruire i nuovi pezzi.
Com'è stato lavorare con Olly al disco? Il suo è stato, secondo te, un contributo
"attivo" alla stesura del disco o si è limitato a dire la sua in sede di registrazione?
Olly è stato meraviglioso: ha lavorato con noi già in fase di pre-produzione, dandoci preziosi
consigli sulla costruzione delle canzoni e sugli arrangiamenti. Durante le registrazioni,
soprattutto quelle delle voci, è stato un produttore perfetto, generoso di buoni consigli, ma
sempre attento a non stravolgere il sound degli STP. Ha fatto un lavoro straordinario e il
successo che sta avendo come produttore, oltre che come musicista coi The Fire, è meritato
al 100 percento!
C'è stato un momento, agli inizi del millennio, che il vostro genere ha avuto
un'improvvisa popolarità che ora sembra sia passata... c'è qualcosa di nuovo ed
eccitante per voi la fuori? Hai qualche nome da farci?
C'è sempre qualcosa di buono, la fuori; chiaramente, non bisogna limitarci alle copertine
delle riviste inglesi o alle pagine web più visitate. Il rock and roll suonato come piace a noi è
vivo e super-pimpante e il pubblico continua ad amarlo alla stragrande. Anche in Italia! Dagli
inglesi Jim Jones Revue agli scandinavi Bloodlights, passando per i torinesi Hollywood
Killerz e i romagnoli Small Jackets, l'elenco delle band rock and roll che spanna culi è
lunghissimo! E il fatto che ai nostri concerti, durante tutto il tour promozionale di "Success"
abbiamo radunato così tante ragazze e ragazzi di ogni età, dimostra il fatto che le mode
vanno giusto bene per gli sfigati di città, quelli coi jeans troppo stretti e il cervello di plastica:
la fuori c'è ancora una gran voglia di vero rock and roll!
Cos'è che ti piace di più dell'avere un gruppo? Suonare? La registrazione? E c'è
qualche aspetto che proprio non digerisci di questa "passione"? Tiro ad indovinare:
le interviste?
Suonare in una rock'n'roll band è come essere sposati con quattro brutti uomini. Te li ritrovi
al tuo fianco sul palco sudati ed eccitati, ubriachi di brutto un paio d'ore dopo, impegnati a
dare la caccia a tutte le donne ancora presenti in sala dopo lo show. E te li ritrovi distrutti la
mattina dopo a colazione... Credimi, ti deve proprio piacere tanto 'sta cosa per durare per più
di qualche anno! Noi lo facciamo da quindici anni e non abbiamo ancora trovato un motivo
valido per smettere. Ci piace tutto il pacchetto, a parte giusto il sound check e lo smontaggio
del palco alle quattro di mattina, quando fai fatica a stare in piedi e a pronunciare
correttamente la maggior parte delle parole del vocabolario.
Il ricordo più bello di un concerto degli S.T.P.? Avrei un aneddoto da tirar fuori
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quando qualcuno ti fa queste domande banali, no?
Dopo quindici anni sulla strada, ce ne sarebbe da scrivere dei libri, quando suoni
praticamente ogni weekend, di aneddoti - riferibili e non - te ne succedono praticamente ogni
quarto d'ora. Cose bellissime, come dividere il camerino con Slash, a cose meno divertenti,
come la distruzione del van prima di imbarcarci per la Sardegna. Spedimmo il furgone a
casa con il carro-attrezzi e proseguimmo il tour affittando un camper al volo. A questo punto,
potrei tirarti fuori la mia citazione preferita, una frase di Lux Interior, il compianto cantante dei
Cramps; lui diceva che nel rock and roll, la musica è solo il 5 percento, ma il restante 95
percento a essere davvero importante. Forse è per questo che siamo ancora tutti qui a
eccitarci con i soliti quattro accordi.
Contatti: www.theestp.net
Giorgio Sala
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Tronco
Il loro esordio “Primo annuale e mezzo resoconto” è un vero e proprio compendio in chiave
garage punk di vissuti, flussi di coscienza ed ossessioni. Abbiamo parlato di resoconti, della
Sincope Records e di feticismo verso il prodotto musicale con Massimo Onza (aka
Truculentboy), metà Tronco e gestore dell’etichetta stessa.
Ancor prima d'inserire il disco nel lettore, balza subito all'occhio la cura nell'estetica
e nel packaging del disco. Da chi è stata disegnata, pensata e a cosa s'ispira?

Il disegno in copertina è tratto da "Abstraction" di Shintaro Kago, abbiamo fatto un "art
traking" (ricalco/plagio) cambiando colore con photo shop. Estetica e packaging sono opera
nostra. Ci piaceva molto l’idea di questo viso dolce dai lineamenti “manga” con tubi di natura
incerta che gli escono dalla bocca. Lo trovo un buon accostamento: un bel viso candido e
qualcosa che non promette nulla di buono, e il tutto espresso con un certo candore. Poi ho
una sana passione per gli impaccehtamenti dei dischi. Non credo sia solo feticismo ma
anche un certo rapporto affettivo verso forme e sensazioni tattili e visive che un oggetto del
genere porta con se. Per la maggior parte mi fa molto piacere che le confezioni siano scelte
con cura e siano parte integrante dell’espressione di quello che poi si andrà a
sentire.


Veniamo ora al disco. "Primo annuale e mezzo resoconto" è prima di tutto un flusso
di coscienza, vissuto e sensazioni che si accartocciano su se stesse. Come si è svolta
la scrittura del disco? Di cosa fate "resoconto"?

Sono molto d’accordo con quest’affermazione. “Primo annuale e mezzo resoconto”
fotografa il nostro primo anno e mezzo circa di attività. Raccoglie parte dei pezzi che
abbiamo fatto in questo largo lasso di tempo prova dopo prova, partendo da improvvisazioni
e affinando via via il tutto fino ad ottenere una forma sia musicale che testuale che ci
convincesse. Poi tra le tante alcune sono state scelte in base al loro valore affettivo
personale e in modo che esprimessero bene quello che siamo e ciò che volevamo dire. Col
senno di poi posso dirti che è stato un periodo lungo e complesso, emotivamente molto
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intenso, fatto di accordi ma anche di contrasti accesi, di cose belle e brutte come succede in
tutti gruppi e come succede in generale nella vita. Molto del vissuto del gruppo e sia molto
del vissuto personale nel bene o nel male è confluito in questi pezzi. Posso dirti che secondo
me questo disco ci riguarda più di quanto si possa pensare.


La vostra miscela garage punk prende le radici da una certa attitudine DIY tipica della
scena indipendente americana anni 80, ma si ramifica anche verso diramazioni blues
e noise fino a lambire i confini dei CCCP, di cui avete ripreso "Noia". Quali sono le
vostre influenze?

Il DIY americano degli anni ’80 ci ha influenzato molto. Ascoltare gruppi come Minutemen,
Hüsker Dü, Wire, Sebadoh, Sonic Youth, ma te ne potrei citare tantissimi, e il
seguire etichette storiche come Dischord, SST, Touch and Go, Ebullition, Gravity e
tantissime altre per me è stata una cosa importante. Sono alcune delle cose con cui sono
cresciuto e alle quali mi sento molto legato sia musicalmente e anche soprattutto dl punto di
vista dell'approccio. Quindi rientrano a pieno titolo nelle nostre influenze. Poi certo che suoni
del versante blues punk sono sicuramente tra i nostri ascolti, tipo gli Oblivians.
Personalmente poi sono molto legato anche alla scena nostrana DIY punk, hardcore e
post-punk degli anni 80 e 90. Credo che il nostro paese sia stato popolato da una delle più
creative scene indipendenti del pianeta. Solo per farti qualche nome, tra migliaia forse,
sicuramente il mio cuore batte per Kina, Wretched, Peggio Punx, Indigesti, Altro, Nuovla Blu,
Tempo Zero e come si può vedere anche dalla cover per i CCCP. Tutti gruppi che avevano
una personalità molto forte e tante cose da dire. Le parole “do it yourself” per noi hanno una
valenza particolare e un’accezione politica di scelta e non di semplice necessità.
La Sincope Records è una piccola etichetta gestita da Massimo, che spazia fra stili e
generi senza un comune denominatore preciso fra i vari gruppi che hai prodotto.
Come ricade la scelta delle tue produzioni?

Sincope nasce da un lungo percorso cominciato col fare fanzine (Empty 'zine e
Mammamiaquantosangue) sul finire dei '90 e gli inizi dell’enigmatico nuovo millennio, e di lì a
poco col cominciare a coprodurre dischi punk hard core e dopo noise, harsh, drone e
sperimentali con Mastro Titta Produzioni. Ora sincope rispecchia quello che sono adesso e
unisce due delle mie grandi passioni ovvero la sperimentazione (noise, drone, ecc. ) e il
punk in senso lato in maniera più cosciente. Del resto questi sono i generi in cui sono più
coinvolto personalmente militando nei Tronco e nel duo noise-drone Compoundead.
Sicuramente i gruppi sono scelti con molta attenzione, rifletto molto su ogni singola uscita e
cerco di capire quello che significa per me in prima persona. Ogni singola uscita di sincope
deve piacermi molto e deve dirmi qualcosa. Sicuramente cerco musica e suoni di un certo
tipo, spesso meno convenzionali del solito, e che abbiano anche una certa attitudine e un
certo impegno nell’espressione di se stessi.


Credi che produrre oggetti in pochissime copie e confezionate con il gusto di
qualcosa di raro ed irripetibile sia la giusta via di fuga da questo piattume
discografico indipendente?
Credo nell’ascoltatore attivo. Una persona realmente interessata a prendersi la briga di
ascoltare con attenzione. Come si faceva una volta quando si passavano ore in negozi di
dischi oppure a sfogliare cataloghi di mailorder indipendenti per scegliere e trovare proprio il
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Numero Maggio '11
disco che volevi sentire in quel determinato momento, per poi averlo nella propria collezione.
Mi piace che il rapporto tra chi produce e chi ascolta sia il più partecipativo possibile.
Logicamente questo implica un rapporto diverso che fa slittare la figura del consumatore
verso quella di chi partecipa alla “questione”. La cura e l’oggetto, in qualche modo unico,
credo accentui questa possibilità. Mi piace molto che ogni uscita sia in qualche modo
irripetibile e rara, qualcosa che devi avere, che non può pioverti addosso dal nulla, e che un
po’ devi cercare.
Contatti: www.myspace.com/titronco
Luca Minutolo
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Numero Maggio '11
About Wayne
Rushism
Nerdsound
Incubus, qualcosa dei Queens Of The Stone Age (“Bugs”) ma soprattutto post-grunge e
nu-metal anni Novanta. I romani About Wayne masticano wave (“V”) e muri di chitarre
elettriche, per dar vita a una musica rumorosa e a suo modo retro'. Materiale che in tempi di
revival totale come sono quelli in cui viviamo è destinata a crearsi il suo bacino di utenza ma
al tempo stesso, lo ammettiamo, non è proprio con la nostra “cup of tea”. Ce ne facciamo
una ragione, scoprendo che il lavoro alla base di questo “Rushism” è un onesto artigianato
nemmeno troppo squalificato, messo assieme con un occhio al potenziale pubblico (gli over
trenta che ancora ascoltano Deftones, Korn o se va male Nickelback, ma anche i cosiddetti
“emo”) e uno alla dignità del prodotto. Quest'ultima nobilitata da una scrittura consapevole,
innegabili doti tecniche e qualche colpo di coda, come dimostra una cover della “Eleanor
Rigby” dei Beatles meno prevedibile di quanto ci si sarebbe potuti aspettare.
Il resto
è un dispiegarsi lineare di ballad acustiche un po' piacione (“Glance Of The Others”),
cavalcate epiche di overdrives(“Caries”) e stop & go fulminanti (“Maniac Of The Seventh
Floor”), tutto fin troppo in linea con l'immaginario di riferimento.
Contatti: www.myspace.com/aboutwayne
Fabrizio Zampighi
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Numero Maggio '11
AIM
We Are Sailing
Via Audio/Venus
Tre è un numero magico. Lo dicevano i De La Soul, i Blind Melon e pure Jeff Buckley, pace
all’anima sua e a quella di Shannon Hoon. Con le dovute proporzioni, il terzo album degli
AIM (un trio, çè un lavoro ben prodotto, ben suonato e soprattutto, ottimamente scritto. A
Marco Fiorello (voce e chitarra) e ai fratelli Marco e Matteo Camisasca (rispettivamente
basso e batteria) il grande merito di aver composto e riunito 11 brani indie rock in cui gli
ascolti di riferimento (nessuna celebrità locale, a quanto pare) si colgono senza tuttavia farsi
afferrare, creando a tutti gli effetti un sound magari non nuovo ma sicuramente personale.
Nei quaranta e più minuti di ascolto, la chitarra attira spesso i riflettori su di sé, nei momenti
concitati come in quelli più ariosi, tanto da mettere in secondo piano il canto. Particolare non
da poco. Fiorello, rapito dalle sei corde, sceglie (consapevolmente?) di utilizzare la voce
come uno strumento, piegata alla melodia e non portatrice di rime, poesie e dettami tra i
piùèò dire ben vinta. Parere nostro? Non solo, a giudicare dalla numerosità di concerti oltre
frontiera con cui sono infarciti i loro tour. Dicono che dal vivo sono un portento. Anche su
disco non scherzano.
Contatti: www.myspace.com/aimitaly
Giovanni Linke
Pagina 32
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Numero Maggio '11
Airportman
Nino e l'Inferno
Lizard/BTF
Ogni anno un dispaccio proveniente dagli Airportman si materializza sul nostro stereo, e
ogni volta rimaniamo colpiti dalla limpidezza espressiva del gruppo cuneese. Dopo le ultime
divagazioni (il bellissimo disco con Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione alla voce,
“Weeds”, dedicato a una rilettura del pop anni Ottanta più o meno sotterraneo, la messa in
musica di “The Road” di Cormac McCarthy, con la collaborazione di Stefano Giaccone)
l'ensemble ritorna ad una dimensione più raccolta. Fino ad un certo punto però. Oltre al
consueto trio (Giovanni Risso, Marco Lamberti e Paolo Bergese) entra in gioco per
l'occasione il batterista Francesco Alloa, perfettamente integrato nella musica strumentale
del gruppo. La cartella stampa tira in ballo, a proposito del nuovo arrivo, gli ultimi Talk Talk e
i progetti originatisi dall'evoluzione finale della band britannica (O'Rang, Rustin' Man), e non
possiamo che essere d'accordo mentre ascoltiamo il folk atmosferico, dilatato ed etereo ma
allo stesso tempo tangibile di questi brevi quadretti strumentali, sottolineati da ritmi ovattatati,
chitarre acustiche ed elettriche, pianoforti, tastiere e riverberi atmosferici. La componente
musicale è integrata come in passato da quella narrativa: i brani sono la rappresentazione
musicale ed emotiva del racconto di Giovanni Risso che dà il titolo al disco, allegato nel
booklet e presente anche in forma di videoreading (con le voci di Stefano Giaccone e Peter
Brett) nel cd, una toccante storia di vita ai margini orgogliosa e tenace. Difficile trovare un
senso più nobile al termine post rock, inteso come attitudine che esiste al di là di forme e
stilemi, di quello che viene naturale attribuire a questo progetto.
Contatti: www.airportman.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 33
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Numero Maggio '11
Andrea Gianessi
La via della seta
Reincanto
“L'Italia brucia di incenso e solitudine, di lunghe lotte e d'idiozie, e si aspetta l'odore della
pioggia, che sale, dalla terra, antico, nel vento”. Sono versi del genere che passo dopo
passo listellano la strada che ha tramato Andrea Gianessi per costruire “La via della seta”
(uscito nel mese di aprile per la Reincanto Dischi), 45 minuti di mistica sospensione tra
sogno e realtà, il sogno evocato dai colori e sonorità (medio)orientaleggianti, partendo da
quelli del nostro mediterraneo, con strumenti esotici e freschi di magia d'altrove, su quella via
della seta ideale che collega Cina ed Europa; la realtà invece invocata dai testi che vanno
accusatori e rivelatori di una condizione attuale, “nell'attesa del crepuscolo di questa nuova
era che dispera e spara sui precari a primavera”, come recita la canzone, appunto, “Precari
a primavera” Come del resto già faceva il pezzo di apertura disco, citato in precedenza,
“Prima delle sabbie”. Testi che vanno ben concreti verso quest'oggi, dimostrando di non
voler fuggirlo ma anzi, carichi delle energie e delle speranze che un'altra realtà potrebbe far
arrivare, guardare lucidi verso a questa di realtà, per denunciarne la mancanza di promesse
mantenute, ma altresì da reclamare, com'è capace di fare, con forza e decisione, l'incedere
dei tamburi e delle percussioni, che vanno a unirsi alla varietà timbrica che rende arcobaleno
l'album, avendo dalla sua strumenti di tradizioni diverse quali bouzouki, tabla, violino, oltre a
chitarra, cajon, riqq, darbouka, flauto traverso, violoncello, fisarmonica, e altri ancora. Ma
Andrea Gianessi sa dove ben mettere le mani quando si parla di ricerca, sperimentazione,
musica. Ormai attivo da anni nel panorama indipendente italiano, come annuncia la sua
biografia è “co-fondatore del collettivo neo-psichedelico Nihil Project, con all'attivo quattro
album di cui due per la storica etichetta Materiali Sonori e uno pubblicato esclusivamente in
UK, membro della live soundtrack band bolognese Ri-ki Sun Orchestrà, del gruppo neo-folk
PsychOut Department, Andrea opera inoltre come compositore e sound designer in progetti
di teatro sperimentale e nell'ambito del video e della multimedialità”. Con un panorama
esperienziale del genere non poteva che decidere, e l'ha fatto a partire del 2008, di dedicarsi
al suo progetto, per togliersi quei piaceri creativi e di libertà completa che forse sentiva
ancora da compiersi, o da trattare fino in fondo. Di sicuro l'urgenza c'è, e tutta, in tagli da
scalpellate nette, anche se apparentemente morbide grazie alle sonorità cavalcate, essendo
invece, decise e incisive, le parole che vanno come il vento sulla via che intraprende
nell'album Gianessi. Che non si evita neppure di ricordare il G8 di Genova, e di quei
disgraziati giorni nel 2001 in “Atlantide”; e il nucleare, tema di attualità disarmante in queste
desolate settimane, in “Effetti collaterali”, la voce di George W. Bush, che a tratti prende
banco, e non poteva che esserci lui come esperto di Collateral Damage. E come dimenticare
le parole di “Profeti stanchi”, in accusa vibrante di tutti coloro che si ergono come portatori di
verità, ma che si basano solo su eccessi di egotismo narcisistico, e su basi di cartapesta?
Ma basterebbe solo l'ascolto di “La luna e la candela”, e dell'acuto umano che la innalza, con
melodie da menestrello, che ricordano un altrove anche temporale, facendo però guardare,
con una luce diversa nello sguardo, il presente che circonda, per convincere a darsi a un
attento e assorto ascolto di “La via della seta”. Seguendo lo scorrere di quel “The River”, che
conclude anche come brano il viaggio che Andrea Gianessi percorre ispirato, con compagni
di viaggio eccellenti musicisti quali Francesco Giorgi, 
Antonello Bitella, Francesco
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Numero Maggio '11
Gherardi,
Domenico Candellori, Maria Paola Balducci, Alessandro Zacheo,
utilizzando l'italiano per lo più, ma lanciandosi anche in esecuzioni in inglese. Non rimane
che mettersi in viaggio su “La via della seta”.
Contatti: www.andreagianessi.it
Giacomo d'Alelio
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Numero Maggio '11
Atome Primitif
Three Years, Three Days
Urban49/Halidon
Il nome è francese, loro sono romani, cantano in inglese. Confusi? Meglio. Non esiste stato
d’animo migliore per assaporare la musica degli Atome Primitif. Il loro album d’esordio si
chiama “Three Years, Three Days” perché tre sono le candeline sulla loro torta di
compleanno e tre sono i giorni in cui hanno inciso queste undici tracce. Nota: a giudicare
dalla cura profusa nei suoni, o mentono sul tempo impiegato in studio o abbiamo a che fare
con dei geni - o entrambe le cose, ché non c’è niente di male a rendere più esotica una
release sheet. Azzurra Giorgi, voce duttile e di rara intensità, guida il quintetto nei meandri di
un genere che partendo da melodie trip-hop si lascia infettare da chitarre distorte in puro
stile Nineties, ammesso che crediate all’assunto che un decennio possa identificarsi con uno
stile chitarristico. Nota: io voglio crederci. E dunque, come salmoni, risalgono la corrente
della memoria i nomi di Ruby, di Lhooq, dei primi Sneaker Pimps, una fetta di catalogo 4AD,
sprazzi di Cranes e molto altro ancora. Tutti nomi che si ricordano per ottimi motivi, ma che
oggi, naturalmente, non possono che ricevere ascolti distratti e distaccati. Allo stesso modo,
pur assodata la bravura della band e riconosciute le capacità compositive oggettivamente
sopra la media (esponiamoci: “Silver House” è un brano meraviglioso), "Three Years, Three
Days” rischia di subire l’“effetto nostalgia”, trovando appassionati e detrattori in parti uguali.
Questi ragazzi si meritano di meglio, ma devono guadagnarselo.
Contatti: www.myspace.com/atomeprimitif
Giovanni Linke
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Numero Maggio '11
Batisto Coco
Ciapai coe bombe
Azzurra Music
Ce lo raccontano loro stessi nelle note interne del CD: con questo antologico “Ciapai coe
bombe” i Batisto Coco sono arrivati al decimo album di una carriera che dura da venticinque
anni. Cinque lustri durante i quali hanno ideato, costruito e sviluppato il loro suono, fatto di
ritmi e timbri afro-caraibici, tra rumba, musica spagnola, flamenco e tanto altro, in un
andirivieni di influenze e riletture. La forza di questa banda, perché tale è, con i suoi dieci
elementi, è di utilizzate l’idioma veneziano, con la sua andatura cantilenante, che si incolla
perfettamente alle cadenze musicali. Chiaramente il linguaggio è graffiante, ironico e
sarcastico e ricorda i Pitura Freska, anche se qui il reggae è solo accennato e lascia spazio
a balli di coppia e figurati a suon di fraseggi latino-americani. Per questo album i Batisto
Coco sfoderano il meglio del loro repertorio e titoli come “Cucador”, “El viagra della
primavera”, “Anca massa” (modo veneto per ribadire una propria convinzione), “El
telefonin”e “Bombe”; che nel ritornello rincorre il titolo del CD, come a dire che siamo sempre
di corsa e presi da mille cose inutili; rendono bene il tenore generale dell’album, che
nell’unico inedito, l’iniziale “Feisbuk” ci regala una gemma, con la band che schernisce il
social network più famoso del mondo. Non è un segreto per nessuno che non amo questo
tipo di sonorità, ma i Batisto Coco, ci sanno fare e un sorriso e un applauso sono riusciti a
strapparli anche a me. Si dimostrano invece per nulla figli della generazione di Facebook,
non segnalando nessun tipo di contatto sul CD.
Contatti: www.batistococo.it
Gianni Della Cioppa
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Be Forest
Cold
We Were Never Been Boring Collective
Un inverno così freddo non poteva che lasciare lo strascico di un disco come “Cold” – per
l’appunto – dei pesaresi Be Forest.
Trafelati nelle nebbie più oscure ed intimiste della dark-wave, i Be Forest affondano a piene
mani dai lasciti di chi, in quella buia stagione ricca di ossessioni oscure, ne ha scritto pagine
indelebili, mantenendo comunque una buona cifra stilistica di fondo, ben custodita nei giochi
e riverberi delle chitarre ricoperte da un manto di foglie secche e bagnate da una sottile
rugiada dark. È un inverno gelido e immobile quello intagliato nelle lignee trame chitarristiche
, spezzate dalla marzialità wave delle percussioni, sempre pronte a rompere il legame
ultraterreno che tiene unite le linee melodiche del disco e gli slanci eterei delle voci, e
rendere più viscerale quella che, molto facilmente, potrebbe finire per suonare come una
derivazione diretta dei dettami stilistici del dark e della new wave più rarefatta e impalpabile.
Nove tracce che sono la sublimazione di un gusto pop umido e che penetra nelle ossa,
imbevute nelle atmosfere nebbiose di “Buck & Crow” e nell’incedere incalzante di “Florence”,
ammiccanti alle tanto compiante The Organ, meteore wave degli anni zero. E con loro
condividono più di un aspetto, che va oltre la presenza femminile nel gruppo, fino a lambire
un gusto ed un tatto derivativo, ma non invadente, e che riescono a far brillare di propria
luce oscura le linee circolari di chitarra di “Dust”, sorrette da un basso pulsante e batterie
geometriche. Esordio di tutto rispetto, che potrebbe far battere i cuori oscuri e malinconici di
stagioni passate, e non solo.
Contatti: www.myspace.com/beforest
Luca Minutolo
Pagina 38
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Numero Maggio '11
BeMyDelay

ToTheOtherSideΔ
Boring Machines
Dispiace. Soprattutto quando a separarsi sono musicisti capaci come Paolo Iocca e
Marcella Riccardi. Due che prima con i Franklin Delano e poi con i Blake/e/e/e hanno
ridefinito l'alt-country e il psych-folk nostrano e che ora procedono di pari passo ma su
progetti solisti divergenti: il primo sotto l'egida Boxeur The Coeur – imminente l'uscita
dell'esordio ufficiale -, la seconda impegnata anima e corpo nel qui presente BeMyDelay.

Il nuovo spazio creativo della Riccardi non si discosta moltissimo da quanto si
ascoltava con i Blake/e/e/e, se è vero che da quella formazione riprende il gusto per una
psichedelia profondamente legata al folk e al blues primordiale. Nell'ottica di un suono che si
fa ancor più circolare, reiterato, senza vie di fuga. Voce filtrata, droni e stratificazione di
livelli: l'universo di riferimento di BeMyDelay vive di spazi angusti e minacciosi. Con una
strumentazione che prevede percussioni, chitarra e poco altro a intrecciarsi tra le takes di
brani costruiti ad hoc sulle impalcature in crescendo del campionatore. Nonostante i limiti
formali auto-imposti l'immaginario è comunque di quelli ipnotici e appaganti, velvetiano e
“difettoso” nel suo incedere essenziale. Un mood rotto soltanto da una “Tearsandvisions”
posta quasi in chiusura che allarga temporaneamente gli orizzonti sfiorando quasi l'ambient.
Contatti: www.myspace.com/bemydelay
Fabrizio Zampighi
Pagina 39
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Numero Maggio '11
Boris Savoldelli
Biocosmopolitan
Moonjune
Un bel divertissement: non vorremo sminuire il talento di Boris Savoldelli e il lavoro che c'è
indubbiamente dietro al suo essere orchestra-per-sola-voce con questa definizione. Né
vorremmo prendere sottogamba “Biocosmopolitan”, perché se sei un album in cui sua
maestà Paolo Fresu e sua maestà Jimmy Haslip decidono di partecipare allora minimo
minimo ti va dato del lei. Tuttavia il nostro non riesce ad essere un pieno entusiasmo.
Inizialmente una sensazione istintiva, poi – visto che con l'istinto non si fanno le recensioni –
una serie successiva di ascolti ci ha confermato il sospetto che la scrittura di Savoldelli sia
educata, ma manchi di incisività. Esattamente come la sua voce: basta infatti sentire le parti
in cui il cantato-guida è tipicamente pop per capire che, calato in un progetto standard di
pop-rock, il vocalist bresciano sarebbe semplicemente uno dei tanti. Non lo è, perché già da
anni lavora sulla voce come strumento versatile ed autosufficiente, una volta disposto in vari
layer che fanno le veci di basso, chitarra, tastiere, ritmica, armonizzazioni varie. Ed è un
lavoro che lo ha portato a girare il mondo, con appunto collaborazioni e riconoscimenti
importanti. Però ecco, è più affascinante l'idea che il risultato concreto; è migliore la proprietà
di linguaggio del contenuto reale e finale. Gradevole e curioso, “Biocosmopolitan”. Ma farlo
andare oltre questi due aggettivi sarebbe un po' una forzatura. Ci vorrebbe più coraggio ed
iconoclastia, e qua non ci sono.
Contatti: www.borisinger.eu
Damir Ivic
Pagina 40
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Numero Maggio '11
Calomito
Cane di schiena
AltrOck/Megaplomb
I Calomito non possono fare a meno del respiro musicale. Quindi la tensione, lo
sdoganamento della forma banale della composizione, il repentino incedere e all’improvviso
scomparire del motivo sono tutte azioni che fanno venire il fiato corto o grandi sospiri e
soprattutto sorprendono per ogni passaggio, ogni movimento del pentagramma. Questo
rende il suono di “Cane di schiena” - secondo album della band milanese - assolutamente
fresco e immediato anche per chi non si accosta spesso all’avant-prog, intriso di sentimenti
folk e jazz. “Fungo” salta fuori subito dal primo ascolto. Una ricamata versione della stessa
melodia vista al contrario, poi di nuovo in ordine e poi scucita, ricoperta e amplificata dalla
bellezza dei fiati e poi rimessa a posto fino ad esplodere. La traccia che titola il disco ha un
approccio corale ma senza voci, bensì in un’esplosione di fiati e con una melodia astratta e
coinvolgente fino all’assolo finale della tromba. Eccellenti in tutte le loro forme aliene.
Spaziali, enigmatici, concreti, disarmanti. Il disco segue l’esordio del 2005 “Inaudito” uscito
per Megaplomb, nel quale erano ancora un sestetto, oggi infatti tornano con un membro in
meno ma questo non ha intaccato il loro equilibrio compositivo. La musica è un bene
prezioso che mani, teste, braccia dei Calomito sanno far vivere. E finché non smetteranno di
cibarsi di essa, sapendo bruciare l’energia con i loro movimenti, ci saranno un futuro florido
di belle composizioni come queste e tante ore piacevoli per noi che li ascolteremo.
Contatti: www.calomito.com
Francesca Ognibene
Pagina 41
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Numero Maggio '11
Calorifero
Mind Warp EP
We Were Never Being Boring Collective
Un EP in attesa dell’estate, così viene presentato “Mind Warp EP” dai Calorifero, nuova
reincarnazione del gruppo un tempo conosciuto come The Calorifer is Very Hot. Quattro
canzoni registrate a Oakland, California, dove il moto perpetuo dei concerti li ha portati e si
sente l’ambizione internazionale di un sound pop capace di aperture che guardano agli anni
Novanta “solari” dei Blur, agli anni Duemila spiritosi degli Ordinary Boys e al piglio
sempiterno della migliore tradizione americana che, in contrapposizione a una forma di
canzone che richiama la Gran Bretagna, da al tutto un tiro compatto e coeso. Dietro il mixer,
del resto, siede Eli Crews, già al lavoro con gente del calibro di Why? e Deerhoof. Le
canzoni: “Bright Colors Scene” è il classico pezzo che “ah, se fossero stranieri...”: un pop
perfetto, con tutte le cose al suo posto e una melodia accattivante. “Waiting for Summer” te
la immagini suonata in un bar di Camden con tutti che cantano in coro. “Starving Star” dura
meno di due minuti e si mangia a colazione la produzione di Pete Doherty. “Nice Hips
Quake” urla da tutte la parti “ballata” e riesce a mantenere le promesse. Insomma, bel
materiale. Pensate che è stato pubblicato in edizione limitata. Io, dopo un loro concerto,
l’investimento lo farei.
Contatti: www.calorifero.net
Hamilton Santià
Pagina 42
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Numero Maggio '11
Casa del Mirto
1979
Mashhh!
Il problema ormai è ricorrente: come porsi di fronte ai revivalismi vintage? Quanto è sottile la
barriera fra citazione e astuta appropriazione? Non se ne verrà mai fuori, ci saranno
sull'argomento mille opinioni e ciascuna avrà la convinzione di essere più o meno nel giusto.
Sta di fatto che ormai fa parte del panorama musicale critico questo riciclo/rimestio, molto
post-moderno, di suoni, soluzioni, atmosfere. Ascoltando “1979” veramente viene da
chiedersi se sia una ristampa di qualche (buon!) album synth-pop / italo-disco degli anni 80 o
una produzione fresca di pacca. Si capisce che la verità sta nella seconda ipotesi giusto
analizzando con cura il modo in cui sono trattati i suoni (apparentemente datati ad una prima
impressione superficiale, in realtà con un approccio e una consistenza piuttosto
contemporanei). Ma per il resto, si cavalca esattamente quel periodo, con quelle atmosfere,
quell'uso del sintetizzatore, quel modo di comporre. Ci piacerebbe che Marco Ricci – il primo
artefice del progetto Casa del Mirto – osasse un po' di più, si lanciasse in sponde più astratte
e psichedeliche. Lo fa alla fine, con “Life Is A Mess”, ed è l'episodio che ci convince di più,
anche e non solo perché è quello meno derivativo. Gli sviluppi futuri migliori possono
arrivare seguendo questa traccia. Per intanto comunque ci va più che bene questa
madeleine che non pretende di cambiare il mondo, ma accompagna l'ascoltatore in modo
soffice ed evitandosi cadute di tono (a parte forse il lamentoso cantato di “Pain In My
Hands”, anch'esso fuori dal format synth pop italo disco eccetera ma in questo caso non in
modo accattivante). Del resto, che ci sia qualcuno che porti avanti con competenza e garbo
il sapore di quanto faceva Mike Francis non è e non sarà mai un male.
Contatti: www.myspace.com/casadelmirto
Damir Ivic
Pagina 43
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Numero Maggio '11
Chuma Chums
Fest-On
Boogie/CD Baby
Non può esaurirsi in un semplice ascolto, comodi in poltrona, quello della “roba” esplosiva,
vedendo poi, in un secondo momento, di che tipo e gusto è quell'esplosività, ma questo è un
altro paio di maniche, e de gustibus... Ma, per l'appunto, non è possibile somministrarsene
una dose, in acque chete, perché quando arriva è massiccia, vigorosa... Si sta parlando
dell'onda anomala delle scariche energiche che i Chuma Chums ci metton dentro, e giù
senza pensare a risparmiarsi, e fare prigionieri, nei loro lavori, che son live performance
anche se provengono semplicemente dalle casse di uno stereo di casa. Sono uno strano
collettivo/banda di amici/buskers, provenienza, dal suono del prodotto tipico dialettale,
Veneto, con anche sapori spagnoli, inglesi, un tempo “battitori di tamburi” e qualsiasi altra
cosa da percuotere, oggi con in mano chitarre, tastiere, bassi e nella testa un mix di punk,
rock, drum’n’bass, musica elettronica, e chi più ne ha più ne metta. Basterebbe mettersi su
YouTube e guardarsi uno dei video caricati con le loro distorsioni ultrapartecipate per
rendersi conto che il concetto di stare fermi non è annoverabile: oltre 30.000 visioni per la
“collaborazione” con i Rumatera, altro gruppo veneto, col video “La Grande V.”, e parecchia
attenzione anche per la carica d'assalto, che è “Fakking Band Party”. E il terzo disco della
premiata ditta di coproduzione creativa di origine buskers dal titolo, inevitabile, “Fest-On” non
fa che ribadire il concetto, con cavalcate che se ne fregano di palati fini, ma pensano
soprattutto a divertirsi e coinvolgere, stupendo però ogni tanto per un addolcirsi di toni, come
con l'estiva “Ciao patente”, ma non poteva essere altrimenti: parlando di patenti tolte, non
era il caso di calcare troppo la mano, venendo meglio una carezza. Proprio in “Fest-On” il
progredire indiavolato di “Fakking party band”, che va a formare i 13 brani dell'album, che
hanno dalla loro la bella sorpresa di aprire a ogni pezzo una sonorità che non è uguale alla
precedente, in un arcobaleno, dirty e selvaggio, che paga pegno di coinvolgimento con la
loro origine da artisti di strada. E ne hanno fatta parecchia, di quella strada, da quando erano
solo nel 2002, data della loro nascita, con percussioni di djembè a infuocare le strade. Dopo
il loro primo album, “L'albero delle mani”, è infatti arrivata la contaminazione, con nuovi
strumenti, facendo loro fare il salto di qualità, contenuto tutto in “Take ad Ohm”, secondo
album uscito nel 2008. Sostenitori sempre e comunque del concetto “la musica deve essere
portatrice di vibrazioni positive, non di messaggi musoni”, creano nella loro casa/comune
dove vivono tutti insieme; la casa dei matti, e questo se lo dicono da soli...Come cita il
comunicato stampa, “fedeli alla linea del “do it yourself”, del fare la loro cosa lontano da tutti,
tra una seduta yoga e un’altra (sedute a cui hanno dedicato un brano dell’album; “So
ham-ham so”), cercando la sintonia zen con la gente (tanta) che li segue ai concerti”, sono
per questo assolutamente da non seguire in poltrona, come già si diceva all'inizio...Pagando
a tratti pegno ai Pitura Freska, come in “Grassie”, ma come evitarselo data anche la
provenienza regionale?, davvero pezzo dopo pezzo dimostrano una curiosità e incosciente,
giocosa e vitale voglia di sperimentare. Vincitori con nerbo nel 2009 per la miglior esibizione
al molto famoso Buskers Festival di Ferrara, partecipando a parecchi altri in giro per l'Italia e
oltre confine, non potevano che concludere l'album con un “Deliriovacca”, tutto in live, o
presunto tale, con suono sporco all'inizio, voci da fiera o da festival per strada durante, tanta
improvvisata, “sborona”, “vera” festa, un tributo alla loro vita sulla strada, tra la gente. Ma
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pochi pensieri, e più voglia di buttarsi tra la mischia: chi si ferma a pensare è perduto! Da
prendere il primo tram per il pianeta Chuma Chums, a fare festa, altrimenti ai piedi le scarpe
di cemento delle pantofole da camera. Ma come si diceva, de gustibus...
Contatti: www.myspace.com/chumachums
Giacomo d'Alelio
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Numero Maggio '11
Cinemavolta

3D(C)
Silent Groove/Audioglobe
I Cinemavolta hanno esordito ufficialmente, dopo un demo autoprodotto, nel 2005, con il
discreto ma non imprescindibile “Weekend”, prodotto da Max Casacci e uscito su
Casasonica/EMI. Tre album dopo un esordio comunque promettente, con un album-libro, un
EP e le musiche per uno spettacolo di Claudio Bisio nel mezzo, il gruppo ha compiuto un
deciso salto in avanti. Non tanto e non solo per la buona qualità della scrittura (non sempre
originalissima, ma comunque solida), ma soprattutto per la maturazione negli arrangiamenti
e nei suoni. C'è sovente una sottotrama italo-funk ad innervare i pezzi (un'atmosfera alla
Lucio Battisti di metà anni Settanta, già nel ritornello della introduttiva “Carnevale '82”, che
nella strofa iniziale non ci aveva granché impressionato), un colore sottolineato dal
massiccio utilizzo di fiati (il cui ruolo è integrato nelle maglie del suono), ad esempio in
“Migliorerrore”, e una certa vena black esplode in maniera persino più evidente nella
pulsante “Piante Grasse”. A volte il gioco si fa eccessivo, e un pezzo come “Taxidermia”,
anche se ironico, risulta un po' troppo sopra le righe. Ma è un incidente di percorso tutto
sommato prescindibile, perché i Cinemavolta hanno trovato la loro strada e la stanno
percorrendo con una certa sicurezza.
Contatti: www.cinemavolta.it
Alessandro Besselva Averame
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Corde Oblique
A Hail Of Bitter Almonds
Progressivamente/Suono
Tra le definizioni che si trovano in circolazioni per il gruppo dei Corde Oblique, “bottega
degli artisti del suono” costituita fin dal 1999 dal compositore e musicista Riccardo Prencipe,
si possono trovare in rete i termini “ethereal neofolk, darkwave, neoclassica, world music”, e
di neoclassico, tinto di onde scure, ma che si schiariscono cristalline, ci dà conferma di
intenzioni stilistiche la stessa copertina del nuovo album, il quarto, di questo megaprogetto
che ogni volta invita a collaborare musicisti e voci dalle provenienze più svariate, italiane ed
europee, scrivendo Prencipe musica su misura per ognuno di essi. La copertina di "A Hail Of
Bitter Almonds", questo il titolo dell'album, è proprio a fondo scuro, dove si staglia, gotica e
sembrando provenire dall'età dei lumi che tratteggiava Stanley Kubrick con il suo capolavoro
in costume “Barry Lyndon”, una dama con il vestito dalla gonna allargata a campana dalle
stecche, ma forse si può scomodare anche qualcuno più vicino a noi, come Francesco Rosi
con la sua sola fiaba in film, “C'era una volta”, di ambientazione partenopea.,dato che,
durante l'ascolto del cd, proprio Napoli viene nominata con calore. Uscendo in una doppia
edizione (digipack per l’edizione italiana su Progressivamente/Suono Record il 2 maggio, e
superjewelbox per quella francese su Prikosnovenie/Audioglobe il 15 maggio), l'album già
dalle prime note del pezzo, omonimo, d'apertura, è trascinante in atmosfere, mediterranee,
di altri tempi, ma andando avanti, va ad abbracciare l'Europa, con una purezza magica, in
una varietà di strumenti utilizzati, e di voci e cori che si alternano tra femminili e maschili, in
italiano e inglese. Ha una formazione in chitarra classica, Prencipe – per questo il M.stro -,
diplomatosi al conservatorio di Napoli San Pietro a Majella, e tra il progetto Corde Oblique, e
quello precedente Lupercallia, è in tutto al suo sesto album, con una collaborazione
pluriennale con l'etichetta Prokosnovenie, e realtà di altri paesi europei. E nelle quattordici
tracce che compongono quest'ultimo lavoro davvero la definizione ufficiale, che si può
trovare anche nei comunicati stampa, quella di “ethereal neofolk”, non potrebbe essere più
azzeccata, soprattutto in quel etereo, leggera brezza, che, trascinante, conquista passo
dopo passo lungo lo scorrere dei minuti dell'album, immergendo, e sospingendo, anche
mentalmente, in onde leggere, in una danza morbida, che si lascia impennare e scuotere da
accelerazioni melodiche sempre armoniose, anche se trascinanti. Ricordando idealmente la
Compagnia di Nuovo Canto Popolare, ha però quella personalità in più aggraziata dalle basi
classiche che invece di stonare, ingabbiando, permettono di viaggiare lontano, liberi.
Numerosissimi, come dicevamo, per i contatti di stima che si sono sviluppati negli anni per
Prencipe, gli artisti coinvolti. Oltre appunto a Riccardo Prencipe (chitarra classica, chitarra
acustica): dal gruppo Ashram, Alfredo Notarloberti, (violino), Sergio Panarella (voce, piano),
Luigi Rubino (piano); Alessio Sica (del gruppo Argine, alla batteria); Umberto Lepore (basso,
fretless, contrabasso); Floriana Cangiano (voce); Caterina Pontrandolfo (voce); Annalisa
Madonna (voce); Claudia Sorvillo (voce); Francesco Manna (percussioni); Franco Perreca
(del gruppo Zezi, al clarino). Con ospiti: i Synaulia, Walter e Luce Maioli (attivi da anni nella
ricerca sugli strumenti antichi, due dei loro brani usati nel film “Il Gladiatore” di Ridley Scott);
Duncan Patterson (a lungo bassista degli Anathema, ai tempi di “Silent Enigma”, ora attivo
con il suo progettto ion, qui al mandolino irlandese); Donatello Pisanello (fondatore degli
Officina Zoè, all'organetto ); Spyros Giasafakis (voce e mente dell’ensemble greco
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Daemonia Nymphe, voce). Con ispiratori Lisa Gerrard, Marcel Proust, Simone Martini, tra i
quattordici brani la sorprendente cover del brano Radiohead “Jigsaw Falling Into Place",
voce femminile alle sue corde emotive, portando una ventata di folk/pop/rock, un album da
ascoltare e da riascoltare quando il cuore e l'animo ha bisogno di cacciare via il peso dei
pensieri e la stanchezza della giornata, o semplicemente per partire con rinnovata energia
nel giorno, avvolto da nuova luce.
Contatti: www.cordeoblique.com
Giacomo d'Alelio
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Daniele Scardanelli
Il buon senso spiegato al mio cane
Snowdonia/Audioglobe
Una caracollante orchestrina di avanspettacolo è quella che il torinese Daniele Scardanelli
sembra allestire nel suo debutto discografico. In queste undici tracce sono tanti e diversi gli
stili affrontati, ma medesimo è l'approccio rétro con il quale vengono amalgamati. Sembra
quasi di sfogliare un album fotografico in bianco e nero ritraente immagini sfuocate degli anni
Trenta, tanto swinganti sono le trame strumentali sulle quali di volta in volta si aggiungono
elementi più disparati: da organetti alla Tom Waits a moderne sfumature elettroniche fino a
chitarre ora blues ora folk ora acide. Ma ciò che caratterizza fortemente questo lavoro sono i
testi senza senso di Scardanelli, per la maggior parte declamati con carica teatrale quasi
clownesca, altre volte adottando un più classico approccio cantautorale. Il problema, però, è
che le liriche e la loro messa in atto non riescono ad incidere come dovrebbero. Tutto ruota
intorno al nonsense, ma la sensazione è che esso sia decisamente troppo fine a se stesso
disperdendo così il coraggioso lavoro che sta dietro al tutto. “Il buon senso spiegato al mio
cane” si pone vicino ad un ideale incrocio tra Bugo, Dente e Iosonouncane, senza però
raggiungere la personalità artistica di quest'ultimi. Ma, come dicevamo, a Scardanelli non
manca certo il coraggio di osare (che noi encomiamo), e quando a questo riesce ad
abbinare un più contagioso gusto pop i risultati si fanno interessanti come avviene in
“Sparare al presidente”, “Per il tuo bene” e “Polvere”. Se in futuro insisterà di più su questa
strada forse meno inutile sarà “arginare il caos”.
Contatti: www.myspace.com/scardanelliscardanelli
Andrea Provinciali
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Numero Maggio '11
Devotion
Venus
Bagana/Audioglobe
Grinta ed energia da vendere per i Devotion. Un quartetto che si forma a Vicenza nel 2005
e che arriva a “Venus”, questo il titolo della loro fatica più recente, dopo un EP ed un LP che
già ne avevano messo in luce le caratteristiche peculiari. Un sound che può ricordare quello
dei Deftones e composto da riff stratificati di chitarre che sanno però aprirsi ad un'intensa
vena melodica. Per questo lavoro hanno continuato ad avvalersi dello Hate Studio - che nel
campo è ormai una garanzia assoluta - per la fase di registrazione mentre il mastering è
stato fatto da Alan Douches, nel suo curriculum gente come Mastodon e Snapcase) a New
York. Personalmente non impazzisco per queste sonorità, ma nonostante il pregiudizio
inevitabile devo dire che già con le sferzate hardcore di “Golden Axe” ho iniziato a
ricredermi; i Devotion sono assolutamente credibili nel loro cantato in inglese, ora urlato
(dove li preferisco) ed ora malinconico, e non lasciano trasparire alcuna provincialità nel loro
sound. I suoni delle chitarre e del basso sono molto studiati ed i brani aprono orizzonti sonori
sempre diversi tra loro. A voler aggiustare qualcosa la mia proposta sarebbe quella di
eliminare un paio di brani più lenti per concentrarsi sul lato più psichedelico della loro
musica, quasi ad inseguire quei Mastodon coi quali hanno in comune non soltanto il
produttore americano. L'unico dubbio, lecito, è dettato dal fatto che per una proposta di
questo genere l'Italia va molto stretta, per cui raccomando caldamente di fare un passaporto
valido oltreoceano e di puntare subito al Vecchio e al Nuovo Continente; qui regna la
Melodia con la M maiuscola, ed i Devotion, fortunatamente, guardano altrove.
Contatti: www.myspace.com/devotionsound
Giorgio Sala
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Numero Maggio '11
DJ 2P
Delivery Vibes
autoprodotto
Giovanissimo DJ 2P, alias Andrea Ciaudano, ma nei suoi ventitré anni devono essersi già
stipati parecchi buoni ascolti. “Delivery Vibes” avrebbe infatti potuto essere l'ennesimo disco
dove un turntablist fa vedere quanto è bravo, quanto scratcha bene, quanto costruisce degli
incastri ritmici “con la sola imposizione delle mani” (sul vinile), olé. Ed effettivamente Andrea
bravo lo è davvero, come prova il suo cursus honorum (DMC, ITF: il gotha del turntablism,
affrontato sempre con risultati da assoluto protagonista). Ma è ancora più bravo
nell'assemblare questo album, perché invece di investirci di virtuosismi cesella un funk
disteso, solare, molto musicale, in certi momenti simile a quanto fa oggi Deda sotto l'alias
Katzuma: space funk d'annata talmente ben fatto da non farti pesare il fatto di essere, in
teoria, una faccenda molto datata e già sentita. Scelta che denota una maturità notevole ed
istintiva. Partendo da queste basi, il futuro non può che essere dalla sua parte. I difetti di
“Delibery Vibes” sono infatti tutti risolvibili con la pratica e l'esperienza (ci vorrebbe una
maggiore densità e compattezza di suono, faccende che acquisti un po' coi soldi – potendoti
permettere mixaggi e masterizzazioni di lusso – un po' smaliziandoti nei vari trick produttivi),
i pregi invece ci sono già e parlano di un album che si ascolta molto, molto volentieri
dall'inizio alla fine, che si sia appassionati di turntablism o no. Insomma: ne vogliamo ancora
(e già così siamo decisamente contenti).
Contatti: www.myspace.com/fresh2p
Damir Ivic
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Numero Maggio '11
Dorian Gray
La pelle degli spiriti
Coconino Press/Venus-Messaggerie Musicali
Siamo convinti che alle crisi discografiche si possa rispondere soltanto con progetti artistici
curati in ogni dettaglio. Registrato per la maggior parte in un teatro e prodotto dall’ex
Afterhours Andrea Viti - impegnato persino al basso - con il leader e cantante Davide
Catinari, “La pelle degli spiriti” non può passare inosservato. Merito, innanzitutto, del
notevole artwork, realizzato dal fumettista, illustratore e architetto Manuele Fior: una
confezione digipack a forma di libro che racchiude sedici tavole in quadricromia, ripercorrenti
alcuni elementi ricorrenti nelle canzoni e provviste persino dei testi. Testi che assumono non
poca rilevanza, dato che il tema dell’intero lavoro è la dicotomia tra carne e spirito, affrontata
con approccio onirico. Abbiamo così a che fare con un cantautorato pop-rock attento alle
sfumature (tra i fiati della delicata “Desert Storm” e i synth ombrosi di “Berlino non va bene”),
che a tratti può collegarsi ai Virginiana Miller (l’iniziale “Fanfara fredda”) e a Paolo Benvegnù
(le suggestive “Auto da fè” o “Non è bellissima?”), ma che porta con sé persino influenze
new wave (una “Quinto stato” che fa pensare a dei Wall Of Voodoo all’italiana). Rimandi
che, comunque sia, lasciano il tempo che trovano, dato che la band cagliaritana si è formata
alla fine degli anni 80 e stiamo parlando del suo quinto album di studio, a seguire quel
“Forse il sole ci odia” che inaugurava un nuovo ciclo dopo quasi un decennio di inattività. Un
ritorno che si fa ben volere.
Contatti: www.myspace.com/doriangraymc
Elena Raugei
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Numero Maggio '11
Fabio Zuffanti
La foce del ladrone
Long Song/Spiral
Fabio Zuffanti non è un musicista dell’ultima ora e lo dimostra un curriculum artistico di tutto
rispetto, che a partire dal 1994, lo vede coinvolto in diverse identità, stili, formazioni
(Hostsonaten e Quadraphonic, Finisterre e La Maschera di Cera, per citarne una manciata).
È una premessa importante per poter collocare meglio la sua più recente fatica, questo “La
foce del ladrone” che in modo sfacciato omaggia a parole e immagini uno degli album più
noti di Franco Battiato e che più discretamente (e con intelligenza), coglie di quel lavoro
l’essenza musicale. L’album di Zuffanti non è un divertissement, tantomeno un’enorme
masturbazione sonora. Se è vero che come un ladrone pesca a piene mani da illustri
predecessori – da cui la foce, non necessariamente il cantautore siciliano - non si coglie la
pretesa di sfidare l’ascoltatore ad una estenuante caccia al tesoro. Al contrario, i brani in
scaletta hanno la capacità di farsi apprezzare anche, soprattutto, da chi non ha mai seguito
o amato Battiato (il quale, in maniera identica, da altre sorgenti ha sempre attinto, senza
farne mistero). “1986 (On A Solitary Beach)”, l’intensa “Se c’è lei”, il singolo “Musica strana”
sono tra i brani migliori in scaletta, ciascuno a suo modo; quando tra melodie pop e
arrangiamenti barocchi si infiltrano echi di musica prog (“In cantina”) Zuffanti raggiunge la
perfezione. Probabilmente i puristi odieranno questo disco. Noi odiamo i puristi. Uno pari,
palla al centro.
Contatti: www.zuffantiprojects.com
Giovanni Linke
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Numero Maggio '11
Federico Braschi
Tra le nuvole e l'asfalto
autoprodotto/Goodfellas
Pubblicato originariamente sul finire del 2009, soltanto adesso l’esordio del giovanissimo
Federico Braschi si è guadagnato una distribuzione “seria” come merita. Già, perché “Tra le
nuvole e l'asfalto” è indubbiamente una sorprendente prova di cantautorato italiano (sebbene
colorato di spunti a stelle e strisce), ancora di più se si tiene in conto che il suo autore ne
scriveva tutti i pezzi prima di compiere diciassette anni, ammaliato dalle sei corde non troppo
tempo prima. E se il nume tutelare ha il volto di Fabrizio De André, la scaletta è punteggiata
di ospiti che la lezione del poeta genovese l’hanno interiorizzata e declinata in maniera ogni
volta diversa: è il caso dei Gang, di Massimiliano Larocca, di Lorenzo Semprini dei Miami
And The Groovers, di Franco D’Aniello e Davide Morandi dei Modena City Ramblers.
Prodotto in trio da Antonio Gramentieri, Franco Naddei e Diego Sapignoli – che bene hanno
saputo dosare elettrico e acustico pigiando spesso su un rock molto “pieno”, stuzzicante per
palati non necessariamente avvezzi al genere – il risultato che ne esce fuori è quasi un
messaggio in codice che, a prescindere da soluzioni tecniche e di arrangiamento, invita a
inseguire una direzione (“ostinata e contraria” verrebbe da dire, per tornare a De André),
segnata da tutte le ingenuità del caso ma ancora “pura”, non avvilita da ciò che
inevitabilmente verrà dopo. E quello che speriamo è che il dopo di Federico rimanga bello,
come e più di adesso.
Contatti: www.federicobraschi.com
Carlo Babando
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Numero Maggio '11
Filo Q
FILO Q
Il bordo del buio
Micropop/Audioglobe
Lasciando da parte la raccolta di remix con Tarick1 “Italia remiscelata vol.1”, “Il bordo del
buio” è il secondo vero e proprio album di Filo Q, songwriter genovese coinvolto in parallelo
nel progetto Magellano e capace di abbinare chitarra acustica e drum-machine, tradizione
cantautorale e sonorità contemporanee. Sulla carta, un perfetto esempio di musicista che ha
l’umiltà di guardarsi alle spalle senza scordarsi di vivere il presente. Sarà per via della
cosiddetta scrittura bop, derivata dalla beat generation nell’assecondare liberamente
un’ispirazione filo-jazzistica, le dieci canzoni in programma - che a volte fanno tornare in
mente certi esponenti della scena romana, da Riccardo Senigallia a Niccolò Fabi - non
lasciano però segni profondi, come se le idee non avessero avuto il tempo di maturare a
sufficienza. Se per l’esordio “Le proprietà elastiche del vetro” del 2007 (uscito a nome Q) ci
si era fatti aiutare da Paolo Benvegnù, stavolta il collaboratore principale è il pianista e
compositore Max Morales, che contribuisce a delineare gli arrangiamenti, mentre la
produzione artistica è affidata a Giorgio Pona. Inciso a Londra, il disco si mantiene in
equilibrio fra sonorità calde, morbide e confidenziali e lievi battiti elettronici, a supporto di
parole che analizzano il senso di perdita avvertito nell’attuale società, in attesa di una nuova
luce. Da segnalare il coinvolgimento di Giuliano Dottori degli Amor Fou, Roberto Angelini,
membri dello Gnu Quartet, il batterista Pharoah Russell e altri ancora.
Contatti: www.myspace.com/noiseq
Elena Raugei
Pagina 55
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Gaspare Bernardi
Cor'n Connexion
Alfa Projects/Egea
Un pezzo di biografia personale: chi scrive ha una adorazione totale ed assoluta per Nils
Petter Molvaer, trombettista norvegese che combina jazz glaciale e malinconico con
elettronica di prima qualità. La sua fama, almeno in Italia, continua ad essere abbastanza di
nicchia, grazie anche al fantastico (anti)lavoro della major che aveva l'onore e l'onere di
promuoverlo (tradotto: non hanno mosso un dito) successivamente ai primi due dischi usciti
su ECM. Vederlo dalle nostre parti è quindi raro; ma vedere un suo concerto fissato in un
paesino dell'Appennino modenese (Pievepelago) sapeva veramente di pesce d'aprile... per
altro fuori tempo massimo, visto che si era a luglio. Bene, ora tutto torna. Non sappiamo se il
direttore della rassegna che ha lanciato l'invito a Molvaer lo adorasse assai già da prima o
ne sia rimasto definitivamente folgorato dopo aver visto il live (bellissimo, nonostante la
temperatura atmosferica gelida), sta di fatto che il suddetto direttore, noto per essere prima
di tutto poeta e chansonnier di montagna, ora ha tirato fuori un disco che è strumentale (!) ed
è veramente tanto, ma tanto molvaeriano. Con meno maestria negli arrangiamenti e meno
glaciale carisma, certo, ma dato che per noi Molvaer è semplicemente il meglio del meglio è
ovvio che arrivare al suo livello sia (quasi) impossibile. Bernardi qui si cimenta soprattutto
con l'altro suo amore oltre all'uso delle parole, il corno francese; si fa aiutare da qualche
amico fra cui l'ottimo Giorgio Li Calzi e crea una decina di affreschi tra analogico ed
elettronico, atmosferico e malinconico. Tutto scorre dolcemente ma mai in modo banale e gli
squarci poetici ci sono, senza aver bisogno di essere esplicitati a parole. Unico neo la
programmazione delle batterie elettroniche: poteva essere fatta decisamente meglio, in
modo più creativo e qualitativo, qui suona purtroppo quasi dozzinale. Ma è un peccato
venialissimo. Bel lavoro davvero, per palati fini.
Contatti: www.gasparebernardi.it
Damir Ivic
Pagina 56
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Giuseppe Righini
In apnea
Interno 4/NdA Press
Quello del riminese Giuseppe Righini è uno stile asciutto, equilibrato, in cui ogni elemento
viene soppesato e utilizzato solo se realmente funzionale al risultato finale. Discorso che
vale tanto per la sua prosa quanto per la sua attività musicale – mondi che confluiscono
armoniosamente all'interno di “In apnea”, la sua seconda prova in proprio, a tre anni dal
debutto solista “Spettri sospetti”.
Da una parte, infatti, troviamo un libretto – che peraltro può avvalersi delle suggestive
illustrazioni di Alexa Invrea – contenente oltre ai testi dei pezzi anche diciassette racconti
brevi: alcuni di una pagina, altri composti soltanto da alcune frasi, accomunati da un'attenta
osservazione della quotidianità e dalla sua potenziale trasfigurazione in qualcosa di altro. Un
susseguirsi di scenari interiori alla bisogna inquietanti e onirici, pungenti e profondi nella
sostanza quanto delicati nel tocco. Dall'altra parte, invece, dodici canzoni (o meglio, undici
più un breve recitativo) che spaziano con sicurezza tra cantautorato pop-rock di classe,
tocchi sottili di elettronica e rare deviazioni filo-waitsiane; brani in cui, come è logico, le
parole giocano un ruolo importante, ma altrettanto fondamentale è l'apporto delle melodie e
di arrangiamenti ariosi e lontani dall'appiattimento e dalla banalità che soffocano molte
proposte in qualche modo ascrivibili al medesimo ambito sonoro.
Nel complesso, un lavoro che sa essere di grande spessore, stimolante e, insieme,
sostanzialmente accessibile. Il frutto di una personalità artistica a tutto tondo e di tutto rilievo.
Contatti: www.giusepperighini.com
Aurelio Pasini
Pagina 57
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Hellekin Mascara
Wanna Be Dino
Il Verso del Cinghiale
Tenere in piedi un progetto interamente strumentale richiede, più che di particolari capacità
tecniche, fantasia ed intuito musicale che non faccia sentire la minima mancanza di voci
nelle proprie composizioni. In poche parole, la dote di riuscire a far parlare gli strumenti da
sé, senza che nessuno ci metta il becco. Con “Wanna Be Dino” la fuoriserie degli Hellekin
Mascara si ferma a metà itinerario, causa avaria del motore, rimanendo in stallo in un limbo
rock indefinito. È in questa “terra di nessuno” che il power trio riesce a creare ottime basi
strumentali rock'n'roll potenti, solide e senza troppi fronzoli ed impennate stilistiche,
dall’impatto trascinante (“Studentesse a ripetizione”) e deflagranti scorribande punk
(“Scartabellati”), senza però riuscire a reggere l’insostenibile leggerezza di alcun apporto
vocale, utile punto di fuga dalla ridondanza e dall’eccessiva compiacenza di “Wanna Be
Dino”. Come un culturista che ammira i propri bicipiti oliati e pompati da intrugli proteinici
davanti allo specchio, gli Hellekin Mascara sono ingabbiati in un eccessivo egocentrismo
musicale, che li costringe ad auto citarsi all’infinito, in un vortice narcisistico di rock
muscoloso che si ritorce su se stesso, mordendosi la coda. La strada alternativa c’è, basta
solamente portarsi un buon navigatore con se, o forse è meglio una cartina consunta.
Contatti: www.myspace.com/hellekinmascara
Luca Minutolo
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Il Generale
Veterano vibrante
autoprodotto/Goodfellas
Basterebbe questa semplice cosa: il primo autore di un 45 giri ragga in italiano è lui, Stefano
Bettini detto Il Generale. Da viverne di rendita, almeno come ascendente sulla scena dei
ritmi giamaicani qua dalle nostre parti. Ma Il Generale ha due caratteristiche davvero belle,
che sarebbero da prendere da esempio non solo dalle sue parti musicali ma proprio in
generale: la capacità di creare in una canzone dei congegni testuali narrativi ed articolati,
non solo degli sketch frammentati, e l'autoironia (figlia diretta della capacità/volontà di
ragionare, non solo di creare degli inni più o meno da dancehall). “Sto cercando di aprirti il
mio cuore / Senza curarmi di stereotipi e di falso pudore”; o anche “Sto provando a non
avere preconcetti / A decidere senza emanare verdetti”: due passi estrapolati dalla traccia
“Lungo una linea aperta” che riassumono perfettamente il piglio (e il pregio) de Il Generale,
che tra l'altro emerge nitidamente forse come mai in passato in questo album, un vero e
proprio lavoro della maturità. Nessuna vita di rendita quindi ma un lavoro convincente, che ci
prende anche nella scelta di affidarsi a vari riddim preparati da amici e colleghi, piuttosto che
affidarsi ad una backing band. Forse in alcune parti la linea vocale poteva essere eseguita
meglio, qualche scansione metrica è un po' forzata, ma sono difetti venialissimi e soprattutto
poco frequenti e poco significativi nell'economia complessiva del disco.
Contatti: www.ilgenerale.it
Damir Ivic
Pagina 59
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Il Paradiso degli Orchi
Il Paradiso degli Orchi
Orquestra
Per chi scrive ancora di musica con la spia della curiosità ben accesa è inevitabile: quando
le note biografiche citano Frank Zappa, congiuntamente a Yes, Genesis, Julian Cope,
Primus, Manu Negra e Flaming Lips, pur con le dovute cautele del caso, scatta il primordiale
motto “piatto ricco mi ci ficco”, ci si allaccia speranzosi le cinture di sicurezza per affrontare
le possibili vertigini e via. Non è peraltro frequente che si tiri in ballo tante e tali sfaccettature
e generi diversi, un gioco di equilibrismi ambizioso che i bresciani Il Paradiso degli Orchi (in
omaggio al romanzo di Daniel Pennac), pur giovani, affrontano con buona personalità e
rilevanti mezzi tecnici ed espressivi. Forse zio Frank avrebbe preferito il cantato in lingua
madre e non si sarebbe soffermato su certe, comunque fascinose, malinconiche ballate e
progressioni psych-british (“Where Is The Light”, “My Sin”, “Sad Song #51”), magari collocate
troppo presto ad inizio album, ma la scrittura, la freschezza, melodie ed impatto sono dalla
parte pregevolissima del quartetto chitarra--basso-batteria-percussioni. Quando poi innesca
le marce più veloci e dinamiche, corroborate dall’originale scelta delle percussioni, Il
Paradiso sa offrire il meglio di sé, alimentando saliscendi sul versante Mars Volta, centrando
con “Sofa” uno degli episodi più brillanti ed esaltanti. La strada dunque più impervia e
vertiginosa, ribadita in “Pig War” e “Panic Station”, pare quella che potrà raccogliere
maggiori soddisfazioni nell’affollato circo underground nazionale, con auspicabili sortite
extra-provinciali. Il giro sull’ottovolante si acquieta sulle tristi note di “Sad Song #4”,
scendiamo rinfrancati, non esausti, niente scossoni debordanti, con la sensazione di aver
incontrato una band di talento, già messa a fuoco, con importanti potenzialità in serbo,
ulteriormente da sognare e da scoprire... Nel paradiso degli orchi, naturalmente.
Contatti: www.myspace.com/ilparadisodegliorchi
Loris Furlan
Pagina 60
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Numero Maggio '11
Infarto
Sul fondo, assieme a tutti gli altri sassi
Shove/Dreams Come True/Bear Records/In Limine/Sonatine/Orchidescent/Corpocavernoso
Come recitano le note di copertina, “Sul fondo, assieme a tutti gli altri sassi” è un disco che
sta per terra, fatto di terra grezza da cui crescerà tutto il resto. Terra bruciata ed arsa
dall’hardcore violento e massacrante del quartetto bresciano, che asciutto il proprio nome
dal suffisso “Scheisse”, ha corroso il caos post-core degli esordi in una rabbia hardcore
deflagrante e dalle spigolosità martellanti. “Sul fondo...” è un disco di cuore, stomaco e nervi
tesi fino allo spasmo, in cui le chitarre si affannano in scale al cardiopalma e galoppate
ritmiche vertiginose, disseminate in sette tracce nervose, tese da una passione incontenibile
e pulsanti di un cuore in fibrillazione post-core, che stilla sangue nella lunga cavalcata
“Venticinque decibel” per poi immergersi nei meandri oscuri e le ritmiche spaccaossa di
“Richtung Kreuzberg”, affannarsi nei riff metal di “Due dite di testa, per voi” e precipitare
dalle pareti scoscese di “Il mio piano di riserva”. Voci tirate allo spasmo, ritmiche serrate e
brutalità noise-core sono l’iniezione letale che gli Infarto hanno messo assieme in un disco
fatto in casa come la buona tradizione DIY vuole e che, prima di essere un manifesto di
totale indipendenza artistica e musicale, è una dichiarazione d’indipendenza attitudinale ed
emotiva prepotente e sfrontata. Un disco di persone, luoghi, fatti ed esperienze, canalizzate
in un flusso post-core assolutamente trascinante, liberatorio e grondante di vita.
Contatti: www.myspace.com/theinfartoscheisse
Luca Minutolo
Pagina 61
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Numero Maggio '11
Laeder Braun
Dies irae
autoprodotto
Forse stanchi di aspettare qualcuno che si interessi a loro o per evitare compromessi (ma
oggi quale label – salvo una major – può imporre scelte ai propri artisti?), optano per
l’autoproduzione i Laeder Braun, che arrivano da Lecco, la città che aveva dato i natali ai
leggendari Biglietto per l’Inferno. E la citazione non è casuale perché i quattro musicisti,
richiamano proprio quell’epoca, con rimandi all’hard rock di Campo di Marte, Rovescio della
Medaglia e i citati Biglietto per l’Inferno. Un hard rock speziato di progressivo, ma che pende
decisamente per la prima soluzione, grazie alla chitarra di Simone Goretti che sceglie
soluzioni semplici ed immediate e al cantato, vagamente retorico, ma efficace di Michele
Tombini, che si districa bene con l’italiano, conferendo quel tocco di originalità che a tanti
colleghi della penisola manca, spinti per comodità a scegliere la facile strada dell’imitazione
con l’inglese. Canzoni come “Città nera”, “La fine”, “Lotta” spingono sull’acceleratore, ma il
gruppo offre il meglio quando affronta due ballate che sanguinano blues, “Sacrificio” e “Il
crepuscolo degli Dei”, dove l’utilizzo delle tastiere diventa fondamentale per amplificare la
tensione e i rimandi di Led Zeppelin si fanno carne.
Contatti: www.laederbraun.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 62
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Numero Maggio '11
LiPrando
Conseguenze
Delta Top/Self
Il casertano LiPrando (al secolo Francesco Lo Presti) arriva al traguardo dell’album solista
dopo una lunga militanza nei Bradipos, uno tra i più noti gruppi italiani di surf'n'roll.
L’informazione assume puro valore biografico dopo avere ascoltato “Conseguenze”, tanto
l’album suona lontano e in contrasto con quel mondo. Qui la cifra stilistica richiama alla
mente quel mix di rock e new wave con cui negli anni 80 si sono incendiati anche da noi
numerosi palchi. È un pregio o un difetto? Entrambi. LiPrando ha una voce prossima alla
maturazione, ma che ad oggi stenta ad emergere, rischiando di infilarsi in precoci
incasellamenti. Se a tratti ricorda Mario Castelnuovo, credeteci o meno, non è nota di
demerito, specie se l’alternativa è Piero Pelù. Parallelamente, a questo lavoro hanno
collaborato ottimi musicisti (Marco Valerio Cecilia, Francesco Andy e Claudio Bartolucci) per
i quali, anche dai solchi, si riesce a cogliere l’affiatamento e l’energia profusa in fase di
registrazione. Tale entusiasmo viene però penalizzato da un songwriting che tende ad
assestarsi su binari ampiamente collaudati. Non accollarsi alcun rischio non è
necessariamente un male, ma osare non è cento, mille volte più eccitante? E forse, data la
quantità di materiale a cui un ascoltatore può agilmente accedere, è un’opzione da prendere
seriamente in considerazione se si vuole, se non emergere, sopravvivere.
Contatti: www.myspace.com/liprando.official
Giovanni Linke
Pagina 63
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Numero Maggio '11
Max Petrolio
Telefoni Mortimer
Red Birds-Seahorse/Audioglobe
La canzone surreale: un genere nobile e troppe volte frainteso, spesso inserito a forza nella
categoria del demenziale. Il napoletano Max Petrolio, pur non abbandonando mai una
componente umoristica e paradossale, sembra concepire questo formato con totale serietà e
immedesimazione. Il ricorso ad un linguaggio fatto di accostamenti improbabili, immagini
rigogliose e ardite (ma a tratti pure un po' meccanico nell'accostare forzatamente idee e
parole contrastanti) si sposa ad un pop elettronico dalle movenze sinuose, con una attitudine
al canto che può far venire in mente un Brian Molko dal passaporto italiano. Per chi scrive è
proprio la parte musicale quella più interessante, incastonata com'è tra residui new wave, un
certo approccio artigianale da rigattiere elettronico, una versione sedata dei Subsonica e una
declinazione decisamente pop di elementi industrial dub (“Piscina con acqua salata”, per
citare un titolo). Questo il motivo per cui gli intermezzi recitati da una voce computerizzata
suonano a tratti davvero gratuiti, potenzialmente divertenti ma alla lunga semplicemente
noiosi. Nel complesso, abbiamo di fronte ad un personaggio sicuramente atipico, senza
dubbio mosso da una spontanea ricerca di originalità. La quale, va detto, non sempre viene
messa a fuoco a dovere o, meglio, non sempre funziona all'interno del contesto,
riconducibile ad un discorso coeso. La speranza è che il cantautore napoletano possa,
assecondando questa sua indole, sintetizzare una formula più convincente, poiché ha tutte
le carte in regola per riuscirci.
Contatti: www.maxpetrolio.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 64
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Numero Maggio '11
Mezzafemmina
Storie a bassa audience

Contro/New Model Label
Mezzafemmina è Gianluca Conte, cantautore proveniente dall'immediato hiterland torinese,
in precedenza componente dei Melanie Efrem, e questa raccolta di “storie a bassa
audience” rappresenta il suo debutto solista. Il disco, prodotto artisticamente e registrato da
Gigi Giancursi e Cristiano Lo Mele dei Perturbazione, ce lo mostra in una versione
cantautorale piuttosto tradizionale negli schemi compositivi e più colorata e mossa nella
scelta degli arrangiamenti, che aggiungono di volta in volta tocchi di elettricità, patine leggere
di bassa fedeltà, glockenspiel, fiati e cori. A dispetto di una espressività vocale che non
sempre convince appieno, la capacità di scrivere slogan efficaci (si prenda “Insanity Show”,
con il suo riuscito schema di botta e risposta e l'attitudine genuinamente à la Rino Gaetano,
senza scimmiottamenti) e canzoni semplici e immediate è indubbia. La leggerezza (solo
occasionalmente rivestita di una lieve patina di ironia) risiede più nella veste sonora che nei
temi, a tratti piuttosto impegnativi: è il caso di “Giochi da grandi”, che affronta il tema della
pedofilia in maniera garbata e piuttosto diretta, o la più leggera (e per certi versi più riuscita)
“Articolo 1”, che tratta di infortuni sul lavoro e sfoggia un ritornello particolarmente efficace.
“Iside” rappresenta il versante più rock del progetto e ci pare un po' meno a fuoco, non brutta
ma decisamente più ordinaria. Questo debutto è in ogni caso movimentato e vivace, e più
che un punto d'arrivo rappresenta, con tutti i pro e i (pochi) contro, un punto di partenza
molto promettente.
Contatti: www.mezzafemmina.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 65
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Numero Maggio '11
Orange
Rock Your Moccasins
GPees Productions/Audioglobe
Quanto sarebbe facile stroncare un disco del genere? È uno di quei casi in cui il contesto
danneggia il testo: il gruppo del “Nongio”, e capirai. Capirai cosa? Mi permetto un ricordo
personale. C'è stata un'estate in cui vedevo Francesco Mandelli ovunque. Erano tutti
concerti di un certo tipo, dove non si faceva presenza per far pubblicità a sé stesso. Certo,
l'immaginario degli Orange è quello – e uno non può stare tanti anni a Milano senza esserne
infettato, lo dice pure Manuel Agnelli! – ma il ragazzo è, in un certo qual modo, uno dei
nostri. Nella musica ci crede. E in "Rock Your Moccasins", al di là di ovvi limiti, ci sono anche
delle cose buone. Ma prima quel che non va: manca la "botta", lo "scarto", l'elemento
disturbante. Si limita qualunque tipo di eccesso sostanzialein gabbie di forma e struttura. Le
chitarre sono distorte ma pulitine. La voce sguaiata ma perfettina. Le melodie selvagge ma
accudite. Di contro possiamo tributare agli Orange – qui al secondo disco – una volontà,
seppur minima, di andare oltre lo stereotipo culturale del rock degli Anni Zero, quel coacervo
di pose e banalità maledette che ha fatto la (s)fortuna di Libertines e Strokes. Nella musica
di "Rock Your Moccasins" c'è un elemento rabbioso che cerca di venire fuori, delle derive un
po' QOTSA che potrebbero, in futuro, regalare cose veramente interessanti. Forse, per far
esplodere liberamente qualunque tipo di velleità, Mandelli e socio dovrebbero lasciare una
metropoli dove "la scena" sembra aver infettato ogni dove.
Contatti: www.myspace.com/orangeso79
Hamilton Santià
Pagina 66
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Numero Maggio '11
Polar For The Masses
Silence
Black Nutria
Nell'aprile 2009, recensendo il precedente lavoro dei Polar For The Masses, "Blended", si
scriveva: “I Polar For The Masses non cadono nel tranello evitando di considerarsi profeti del
verbo e limitandosi e fare il loro sporco lavoro nel miglior modo possibile”. Sembra che sia
passata una vita. Due anni e molta musica. Forse troppa. Resta però la certezza di trovarsi a
scrivere di una delle band più interessanti del recente panorama alternativo. Se in
precedenza si citavano i nomi di Fugazi e June Of 44 per descrivere un power-trio di chiara
estrazione post-punk, adesso c'è molto di più. Il "nuovo" suono dei Polar For The Masses è
avvolgente, sporcato da velleità negre e notevoli dilatazioni spaziali alla ultimo periodo dei
Modest Mouse. Va detto che a questa ricerca di espressività, coincide anche un notevole
lavoro sulle canzoni: la struttura sembra rifiutare la retorica tradizionale in favore di un
impatto quanto più possibile viscerale e "sensoriale". I testi sono spesso frammenti e parole
ripetuti che si ergono su pattern sonori reiterati e frammenti elevati a cattedrali del gusto. Ed
è un lavoro che funziona. Insomma, in un periodo di ipertrofia creativa – con una qualità
inversamente proporzionale alla quantità – i Polar For The Masses sono una notevole
boccata d'aria fresca: si intravede l'idea di un lavoro in divenire, una ricerca che non si ferma
al contentino di quattro righe favorevoli scritte su una webzine.
Contatti: www.myspace.com/polarforthemasses
Hamilton Santià
Pagina 67
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Numero Maggio '11
Riaffiora
La Marsigliese
Soviet Studio/Wondermark
Bei tipi, i padovani Riaffiora. Dopo anni di attività, affidano il loro esordio al produttore
Ronan Chris Murphy, uno che, per dire, è stato in cabina di regia con Robert Fripp a
remixare i classici dei King Crimson. Ben guidati dall’americano, i quattro si sono lasciati
condurre a registrare nelle piazze, nelle chiese. A grattare la storia delle calli veneziane, a
rubare riverberi. A scovare lo “spirito del luogo” e ricercare autenticità, per raccontare queste
storie di gente che non ce l’ha fatta, anche se ci ha provato. Il cocchiere desolato di San
Pietroburgo, la sfortunata “fine di un amore impossibile” saffico tra le lamiere di una Giulietta,
l’assassino che racconta le proprie squallide esequie.
Le prime tre tracce sono sorprendenti. La scaletta è varia, forse pure troppo. Riff elettrici
ostinati in “Mon amour” con ritornello in francese, “Lo schianto” che se ne va in giro con un
curioso sapore da West Coast (con “nomination” per Glenn Frey degli Eagles), “Alla fine”
che si sorregge su pregevoli jingle-jangle chitarristici (ma quei vocalizzi-con-svolazzo in stile
Sangiorgi non giovano). Una vera perla è la lenta, lunga traccia iniziale “L’inverno a Padova”,
ballad tenebrosa, funeraria. Un vero e proprio corteo funebre è “Requiem”, che accompagna
le spoglie di un killer. Alcuni episodi che fluttuano tra cabaret, blues e vaudeville risultano
meno freschi, forse perché “già sentiti” rispetto alle cose più originali che i ragazzi
dimostrano d’essere in grado di sfornare.
Contatti: www.riaffiora.it
Gianluca Veltri
Pagina 68
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Numero Maggio '11
Runaway Totem
Le roi du monde
Runaway Totem/Lizard
Dispiace, a fronte dell'attenzione sovente riservata a fenomeni effimeri e di scarso spessore,
riscontrare quanto poco abbiano finora raccolto i Runaway Totem. Siamo infatti al cospetto
di una band geniale, che da due decenni, dipanati con scelte coraggiose, mai scontate, dove
Magma, krautrock, musica da camera, jazz, dodecafonia e molto, si incontrano e scontrano,
in un bizzarro gioco ad incastro, che fornisce alcune possibili coordinate del passato e del
futuro della musica. Ma tant’è: siamo in Italia, e il nazionalismo non è certo il nostro forte.
Comunque, se a qualcuno interessa, i Runaway Totem, cinque elementi guidati dal
carismatico Chäl de Bêtêl (chitarra, voce, tastiere), sono arrivati al loro
ottavo album, che nello specifico è il terzo e conclusivo capitolo dei “4 elementi 5” (e già solo
questa definizione dovrebbe farvi accendere la lampadina della curiosità), e si
accompagnano con il Modern Totem Ensamble (violino, violoncello, contrabbasso, flauto,
oboe, tromba, trombone e vibrafono, oltre a poeta, pittore, webmaster e fotografo), che
amplifica la ricerca sonora e visiva. Non è musica che scorre amorfa quella dei Runaway
Totem, le due lunghe suite “Il giardino del nocciolo e del melograno” e “La città azzurra del
sole”, divise dalla breve (quasi sette minuti!) “Le marriage du Soleil et la Lune”, richiedono
attenzione e desiderio di sfida, ma una volta entrati nei meccanismi del percorso è musica
che rasserena, che abbevera la nostra curiosità e se ne percepisce fino in fondo il potere
melodico, che le voci di liriche e ancestrali di Issirias Moira Dusatti e Raffaello Regoli, non
fanno altro che amplificare. Un album coraggioso che ha le stimmate del capolavoro. Se ne
accorgerà qualcuno?
Contatti: www.runawaytotem.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 69
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Numero Maggio '11
Santo Barbaro
Lorna
Ribèss/Audioglobe
Ci sono dischi che riescono a creare un'atmosfera, per non dire un mondo, permettendo
all'ascoltatore di entrarci, accogliendolo nei propri solchi senza concedersi con troppa
facilità. E questo a prescindere dalla storia che ha alle spalle l'artista, il suo cabotaggio,
l'estensione del suo pubblico. “Lorna” dei Santo Barbaro, progetto che fa capo a Pieralberto
Valli, Franco Naddei e Diego Sapignoli, è uno di questi. Nello specifico, il “mondo” disegnato
dal trio confina con certa sensibilità post rock sporcata di bassa fedeltà (un nome su tutti: gli
Hood), le esplorazioni sonore degli ultimi Radiohead (la manipolazione di beat elettronici e
tracce vocali soprattutto) e una idea di cantautorato italiano che da De André arriva fino
Marco Parente (influenza vocale predominante, a nostro parere, ma fortunatamente non
soverchiante). Se l'incisiva “Naufragio” scivola maggiormente sul versante cantautorale, i
brevi strumentali “Carosello I” e “Carosello II” approfondiscono l'indole più sperimentale, ma
è una encomiabile via di mezzo a fare la parte del leone, perfettamente a fuoco, ad esempio,
nella conclusiva “Finisterre”. Laddove la gran parte dei gruppi avrebbe abbracciato l'una o
l'altra via, i Santo Barbaro prediligono coraggiosamente il sentiero di mezzo e la scelta li
premia con un album di cantautorato onnivoro e in costante evoluzione, le cui ambizioni
espressive sono in buona parte realizzate. Davvero una bella sorpresa.
Contatti: santobarbaro.blogspot.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 70
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Numero Maggio '11
SawaraNonEsiste
SawaraNonEsiste
Happybone
L'attitudine musicale dei lecchesi SawaraNonEsiste sta tra il cantautorato e il combat folk
(nei testi, nel trasporto vagamente retorico della voce), ma è rivestita di suoni decisamente
elettrici, oscillanti tra il rock (quello da stadio di “Midori”, le cui trame sono arricchite da un
efficace uso del piano elettrico) e un proto-reggae dalle innumerevoli sfumature (“Vale vale”,
un reggae un po' acido scandito da chitarre in levare e tastiere insinuanti, l'esempio più
limpido). L'avvicinarsi al tragico G8 genovese del 2001, argomento spinoso e di difficile
trattazione (a livello narrativo s'intende), è cauto, posato e sicuro di sé, niente affatto retorico
(il brano è “20 luglio 2001”), e questo è il pregio che accomuna la dimensione narrativa di
gran parte delle canzoni, mentre la voce maschile fornisce la necessaria originalità al
progetto. C'è tuttavia un punto debole: l'assenza di idee davvero brillanti e canzoni che si
possano dire memorabili. Insomma, se è senza dubbio pregevole e valida la scelta di
rivestire le canzoni con ingredienti non immediatamente riconducibili ad uno stile
cantautorale più o meno ortodosso è vincente, i SawaraNonEsiste dovrebbero affinare
ancora un po', questa l'umile opinione di chi scrive, la scrittura.
Contatti: www.myspace.com/sawaranonesiste
Alessandro Besselva Averame
Pagina 71
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Numero Maggio '11
Sbizza e la microrchestra
Tinamo
autoprodotto
Massimiliano Bevilacqua è uno di quei musicisti, scrittori, poeti che vorresti sempre sul
comodino mentre cerchi un contatto con il sogno, con un desiderio ineluttabile di dare
musicalità e parola alle sensazioni. E poi un bel giorno arriva davvero. Dopo dieci anni come
cantante, chitarrista, violinista nei Milaus riecco il pifferaio Max ora Sbizza - come la brezza
invernale in Valtellinese - pronto a portarci con sé tra il cielo azzurro e la terra. Questo disco
è come un vaso stracolmo di fiori diversi e caratteristici che raccoglierete e in quanto canzoni
ascolterete una alla volta per accorgervi che sono tanti e tutti diversi i tratti percorsi, così
passerete dalla storia di una farfalla in “Tinamo farfalla” per dare più importanza all’invisibile,
all’“Ora d’aria” per avere un po’ di respiro dall’indifferenza di lui e passare ad un’altra
prospettiva. Per raggomitolarsi nell’”Osteoporosi” dell’anima che è una malattia qui quando
non si riesce ad aggrapparsi all’inavvertibile e nel caso di Max alla poesia. In “Castagne e
lacrime” Sbizza duetta alla voce con Roberta Visioli dei Fuseaux in un connubio tra la
fragilità e le spalle larghe, tra un petalo e un cappotto pesante. È un altalena di suoni magici.
Un cuore di bimbo in palpitazione all’unisono in un coro che in “Catapulte di colore” di
liberano nell’aria e arrivano intorno e laggiù dove il ghiaccio aveva provato ad allargarsi. E il
pifferaio dopo averci mostrato il volto dei suoi genitori sordomuti attraverso i suoi occhi, ci
rimboccherà le coperte trasportandoci a pensare a “l’angelo che pesa” per fargli trovare la
strada e le ali.
Contatti: www.myspace.com/sbizza
Francesca Ognibene
Pagina 72
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Numero Maggio '11
Soluzione
L’esperienza segna
Jost/Audioglobe
C’è nel curriculum dei Soluzione, band veneta di Mestre sebbene capitolina d’adozione,
anche una collaborazione con Manlio Sgalambro (di cui peraltro si dovrebbero vedere i frutti
a breve). Forse è per questo che ci sembra di intuire barlumi di Denovo nella title track
d’apertura; e inserti proto-prog in più di un episodio, che forse sarebbero piaciuti al Battiato
anni 70. “Anni Settanta” (la seconda canzone in scaletta) stabilisce una rotta sonora
fondamentalmente pop, electro e giovanilista, in prevalenza parecchio anni ‘80. Un punto
d’incrocio mobile tra new wave e dance, elettronica e glam, stile cantautorale ed espansione
psichedelica. “Facili forme”, col suo intimismo orchestrale, potrebbe benissimo essere più
che un'outtake dei La Crus; la coda della languida “Luce” è un sabba stroboscopico e
confuso; “Tutto e nulla”, prima di evaporare sopra nuvole di suoni, è puro Robert Smith style.
I Soluzione confermano il momento di sensibile contatto tra pop d’autore e altre esigenze di
comunicazione artistica: il cantante Luca Nuzzolo è anche poeta e scrittore in via di
pubblicazione, mentre il di lui fratello Massimiliano, co-produttore del disco, ha già all'attivo la
raccolta di versi “Tre metri sotto terra” e il romanzo “L’ultimo disco dei Cure”, che il gruppo
negli anni scorsi si è anche dedicato a sonorizzare.
Pur senza gridare mai al miracolo, non ci si imbatte i episodi particolarmente poco riusciti.
Ma i sedici titoli vanno a costituire una scaletta prolissa, che verso i tre quarti del cd mostra
un po’ la corda. Le ultime tre tracce, alquanto valide, sono altrettante versioni alternative di
brani precedenti, impreziosite da special guest: Mao (“Anni Settanta”), Federico Fiumani
(“Gene”), Garbo (“Luce”).
Contatti: www.myspace.com/soluzione
Gianluca Veltri
Pagina 73
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Numero Maggio '11
Stella Diana
Gemini
Happy Mopy/Audioglobe
A seguire l’esordio “Supporto colore” del 2007, “Gemini” corrisponde a un ulteriore passo
avanti per gli Stella Diana, formati alla fine degli anni 90 e finalmente giunti a una line-up
stabile con i fondatori Dario Torre (voce e chitarra) e Giacomo Salzano (basso),
accompagnati da Raffaele Bocchetti alla seconda chitarra elettrica e Massimo del Pezzo alla
batteria. Un secondo album che, a dir la verità, nel 2010 aveva già visto la luce all’estero
grazie all’etichetta spagnola Siete Señoritas Gritando, a conferma sia dei buoni
riscontri ottenuti persino oltreconfine sia delle maggiori difficoltà che tuttora castrano il nostro
ambiente underground. Le nove tracce in programma fondono sonorità prettamente
influenzate dalla new wave e dallo shoegaze, con occasionali divagazioni noise. Sonorità
che non sorprendono di certo per originalità, ma che risultano comunque funzionali e
curiosamente abbinate a lodevoli testi in italiano, per quanto le parole siano sovente in
secondo piano rispetto alla musica, talvolta comprensibili a stento. L’omogeneità stilistica e
un gancio agli anni 80 forse abusato alimentano talvolta una fastidiosa sensazione di revival
e non aiutano nello stimolare ascolti reiterati, collegandosi per forza di cose a una lista di
inevitabili precursori (dalla scena fiorentina dei Diaframma e compagnia cantando in giù).
Detto e ribadito tutto ciò, gli amanti del genere potrebbero comunque individuare sufficienti
motivi di apprezzamento.
Contatti: www.stelladiana.com
Elena Raugei
Pagina 74
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Numero Maggio '11
The Secret Tape
Archive 1
Moonlight
Seguito degli Unknown Pleasures, The Secret Tape è una spumeggiante rock’n’roll band.
“Zero fronzuli”, si potrebbe dire parafrasando lo Special One. Il quartetto parmense, in
questo esordio prodotto da Dorian Bones dei Whiskey Ritual (anch’essi di Parma), infonde
l’urgenza di una gioventù venuta su a pane & garage. Se a tratti vi pare di trovarvi dentro un
disco di brit-pop, cogliereste solo una fetta di verità. Intanto, pochi scimmiottamenti moderni
(a parte qualche parentela con i Franz Ferdinand). Andrea, Lorenzo, Alessandro e Massimo,
voce, due chitarre, basso e batteria, vanno infatti più indietro, e le loro undici tracce
possiedono un’arietta d’antan, un ostinato sound a bassa fedeltà che pesca nelle esperienze
del decennio di Kennedy e Papa Giovanni, soprattutto oltreoceano. Le influenze più
archetipiche, oltre a uno scarno blues elettrico, sembrano quelle di gruppi come Chocolate
Watchband, 13th Floor Elevators, Sonics. Insomma l’ABC del garage-rock. Marchi di
fabbrica, è presto detto: predilezione per i suoni distorti − non solo le chitarre ma
anche la voce − e una tabula armonica alquanto semplice e essenziale; e poi la
concisione, la fretta dannata di arrivare al punto. Non mancano neanche dei link abbastanza
evidenti a Beatles e Rolling Stones: i Fab Four sono praticamente omaggiati nella prima
(“Me, You And Paul”) e nell’ultima traccia (“Albert”); i timbri e i vezzi di Mick Jagger sono
evocati nell’unica ballad dell’album, la nostalgica “1957”.
Contatti: www.myspace.com/thesecrettape
Gianluca Veltri
Pagina 75
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Numero Maggio '11
Uber
Northern Exposure
FromScratch
Ciò che fa rimanere perplessi, innanzitutto, è riflettere su come e perché certi dischi
vengano fuori. Non che “Northern Exposure” degli Uber sia da gettar via completamente, ma
riuscire a salvare il salvabile sembra a tratti veramente un impresa ardua. Si ha la netta
sensazione, mano a mano tramutatasi in rassegnante certezza, che “Northern Exposure” sia
composto da bozze di brani e registrazioni, vuote di qualsiasi cura negli arrangiamenti e
vagamente cervellotici nelle costruzioni, totalmente prive di fondamenta solide per poter
sorreggere i cambi ritmici improvvisi e le sincopi melodiche, conformate più come errori che
come dissonanze volute e ponderate. Sembra veramente di trovarsi avanti ad un abbozzo
ancora sommario e da processare al pro-tools (alcune falle ritmiche hanno il programma di
editing per eccellenza come unica via di salvezza), in cui le trame ritmiche sconnesse
cedono ad effetti elettronici imbarazzanti e di dubbio gusto, trapelate da giochini cinesi senza
marchio CE (le tastierine di Disposable), e voci sconnesse da Chipmunks che rasentano il
fastidio, rendendo l’impressione in molti frangenti, di ascoltare una cover band alle prime
armi dei Battles che non ha ancora imparato a girare le manopoline a dovere. I confini dello
scherzo si fanno sempre più labili e sottili, in un disco che, nel dubbio su quale direzione
intraprendere, ha inevitabilmente scelto la via sbagliata.
Contatti: www.myspace.com/instantuber
Luca Minutolo
Pagina 76
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Numero Maggio '11
Voina Hen
Voina Hen
autoprodotto
Il grunge è un germe che ha intaccato praticamente chiunque sia nato negli anni 80.
Nessuno è uscito indenne dallo spleen e dalla disperazione catartica dell’ondata “alternative”
per eccellenza. I giovanissimi Voina Hen, nonostante qualche anno di distanza all’anagrafe,
questo germe l’hanno incubato e allevato al caldo, lasciandolo libero di moltiplicarsi nei
propri embrioni musicali, e di ricoprire in questo disco d’esordio il ruolo di pregio e limite al
tempo stesso. Pregio perché nonostante la giovanissima età dei cinque, la materia è ben
calibrata e maneggiata nei suoi slanci esistenziali e critici verso un mondo in rovina,
inquadrati dall’occhio critico e vivido dei testi e sorretti da una base strumentale secca e
senza troppi fronzoli. Allo stesso tempo limitato perché una gabbia così piccola ed
asfissiante non permette di scovare vie alternative oltre l’eccessiva logorrea dei testi ed i riff
portanti che si fa fatica a distinguere in tutte le 9 tracce del disco, dove il già sentito si
nasconde tra gli anfratti di accuse sociali rimasticate e chitarre spinte da insormontabili crisi
esistenziali espiate in rabbia e frustrazione giovanile.
Disco che oscilla tra l’esistenzialismo di “Sensazioni di petrolio” e i riff graffianti à la Pearl
Jam di “Questioni di etica” o l’ammicco dallo specchietto retrovisore di “Grid”, scivolando via
indolore fra patemi adolescenziali di “Elena” ed il piglio funky di “Charles”. Grandi pretese
bisogna cercarle altrove, per chi cerca un disco lineare e pulito “Voina Hen” è un buon
compendio in formato tascabile di angst adolescenziale ben inamidato e con poche
sbavature, indubbiamente troppo poche. Bisogna sporcarsi le mani, e di tempo per farsi
male ce n’è ancora in abbondanza.
Contatti: www.facebook.com/pages/Voina-Hen/201731059848108
Luca Minutolo
Pagina 77
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Numero Maggio '11
Waines
Sto
autoprodotto/Audioglobe
Innanzitutto una banalità: è sempre un piacere quando, leggendo nella biografia di un
gruppo interessante scopri che stanno a Palermo invece di, che so, Milano. È una speranza
per tutti. Ma forse questo preambolo i Waines l'avran già letto da qualche altra parte, visto
che con il lavoro precedente, “Stu”, avevano calamitato l'attenzione su di loro e su questa
strana ed efficace contaminazione di rock'n'roll, blues e lo-fi. Ora è il momento di confermare
quanto già sentito con il nuovo lavoro, chiamato “Sto” per la gioia degli amanti delle
allitterazioni, e devo dire che il mantra iniziale di “Turn It On” è davvero divertente. Il suono si
è fatto ancora più fuzz, e il trio macina riff con ottima perizia. Quando il ritmo rallenta, come
nel caso di “Round Glasses”, possiamo gustarci anche una piacevole reminiscenza del
primo Beck, ma devo dire che quando premono sull'acceleratore, come nel caso del
divertissement “Inner View”, riescono a dare il meglio. Originali, a volte spiazzanti ma
affascinanti per la commistione di nuovo e vecchio, i Waines hanno le capacità ed i numeri
per poter intraprendere il viaggio dei Mille al contrario e portare così la loro musica anche al
nord. La terra della nebbia li aspetta a braccia aperte ed amplificatori accesi.
Contatti: www.myspace.com/3waines
Giorgio Sala
Pagina 78
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Numero Maggio '11
Zippo
Maktub
Subsound
Posto come un sigillo irrevocabile e indissolubile “Maktub”, terzo disco dei pescaresi Zippo,
sancisce una ulteriore crescita nel sound e nella complessità delle composizioni, che dallo
stoner desertico di “The Road To Knowledge” si getta più in là, verso i lidi cervellotici dei
Tool, per immergersi in spirali metal da cui è difficile non farsi risucchiare, nelle sue
ramificazioni prog e nei sobbalzi sludge. Sempre forte il legame che stringe la band ai
rimandi letterari, in questo caso volte alle pagine intimiste e sacrali de “L’Alchimista” di Paulo
Coelho, a cui le sette tracce di Maktub sono fortemente ispirate e legate da un filo
conduttore elettrico e forte di un magnetismo oscuro.
Laddove l’ombra dei Tool campeggia dietro i riff circolari e le esplosioni telluriche di “The
Omens” o nelle spirali sulfuree di “Caravan To Your Destiny”, è nei climax di “We People’s
Heart” che il cuore tormentato degli Zippo si libra impetuoso in tutta la sua eleganza e
possanza, tra arabeschi e atmosfere fumose che esplodono in vortici saturi di carica
elettrica, o nell’apporto di Ben Ward degli Orange Goblin a tinteggiare di pece le mura
vorticose di “Man Of Theory”. E il caos continua inarrestabile in “Simum”, dove il sax di Luca
T. Mai degli Zu deflagra i riff mantrici nel caos primordiale, eclissandosi in un vorticoso buco
nero sonoro.
“Maktub” è un flusso di coscienze tormentate in cui arrampicarsi fra le sue guglie tortuose
implica un esperienza catartica. Un disco metal fatto come Dio Metallo comanda. “Maktub”,
“così è scritto”, e non si torna indietro.
Contatti: www.myspace.com/zippomusic
Luca Minutolo
Pagina 79
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Numero Maggio '11
Aidoru
Teatro “Elisabetta Turroni”, Sogliano al Rubicone (FC), 7 aprile 2011
È accogliente Sogliano al Rubicone in provincia di Forlì-Cesena. Compare salendo le
campagne e i colli romagnoli, e curiosa e sonnacchiosa ti aspetta, oltre che col suo
formaggio di fossa (ebbene sì, qui le sue radici...), e l'annuncio per l'estate di un evento da
non perdere (Lou Reed in concerto il 23 luglio nella piazza principale), con il piccolo, ma
capace, teatro dedicato a Elisabetta Turroni, giovane attrice scomparsa prematuramente
anni or sono. Qui, per i Teatri in Residenza, e in resistenza, dati i tagli drastici alla cultura
che la provincia ha compiuto mettendo in rovinosa difficoltà sia le sue realtà di cultura di
ricerca che un luogo per la musica come Area Sismica di Forlì (per chi fosse in ascolto, e
volesse fare volenterosamente qualcosa, battesse un colpo...), ha trovato il suo tempo
l'unione di musica, teatro, poesia, video e animazione. È stata il 7 aprile la data che ha infatti
qui visto sul palco il “concerto per immagini, parole e sagome di cartone” dell'album “Songs
Canzoni_Landscapes Paesaggi”, l'opera più recente degli Aidoru, la band di Cesena in
grado con le sue note di evocare veri e propri paesaggi dell'anima. E hanno preso forma le
sue vibrazioni con i quattro Aidoru (Mirko Abbondanza, Michele Bertoni, Dario Giovannini e
Diego Sapignoli) in ispirata e liquida presenza, accompagnati da quella imponente, ma
morbida, dell'attore/performer Leonardo Delogu, proveniente tra l'altro da una comune
esperienza, quella del Teatro Valdoca di Cesena. Delogu era alla voce recitante i versi
ispirati di Roberta Magnani, già presenti e accennati sul book dell'album, e ritrovabili
nell'elegante ed essenziale spillato, dalla carta avorio, distribuito al teatro, impreziosito dalle
illustrazioni della bravissima Virginia Mori, anche in scena con la proiezione delle sue
animazioni sullo schermo retrostante il palco, a dominare la parete di fronte al pubblico, e
nelle sagome in movimento grazie all'azione di Delogu, responsabile appunto anche delle
trame scenografiche. A chiudere questo vortice capace di delineare gli spazi dell'uomo,
come la città, e il suo soffocante ed estenuante estendersi di cemento, che mette radici
anche dentro, i sensibili flash di sguardi a questo mondo del videomaker Daniele Quadrelli:
con immagini che passavano dal bianco latte, nebbia in cui confondersi, a sagome in
cammino, ombre difficilmente capaci di identità, piogge battenti su asfalto, e tergicristalli che,
come metronomi, cercavano di ripulire la pioggia, il tempo a scivolare via, occupava, a fasi
alterne, assieme ai tratti, puri, della Mori lo schermo. Ciò che si vedeva acquistava nettezza
nello sguardo degli spettatori, che, teatro gremito, erano seduti e immersi in trans, grazie alle
scariche sonore degli Aidoru: posizionati ai quattro angoli, quasi in ombra, del palco,
lasciavano piena azione di movimento sia alle note, in un ondeggiare di crescendi e di
momenti di quiete, che a Delogu. Quest'ultimo creava, volta per volta, con le sagome
raccolte della Mori, luoghi urbani, camminati dall'uomo, come già a suo tempo erano presenti
nelle immagini del book dell'album. In un percorso a spirale, in avanzata sul palco, che,
procedendo verso il basso, faceva sorgere un ultimo “landscape”, un bosco, dove appariva
ciò che è primordiale ed essenziale per l'uomo, il suo principio animale, carico di purezza a
recuperare ciò che invece è alto, la natura. “Se guardassi il mondo è così vivo nel
disperdersi del giorno”, dicono, nel loro incipit, i versi della Magnani. Facendosi giorno in
sala, alla fine del concerto/spettacolo, ripresosi da quel sogno così concreto, il pubblico,
assorto e commosso, applaudiva i suoi protagonisti, che avanzavano verso la platea,
Pagina 80
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Numero Maggio '11
lontane le ombre.
Giacomo d'Alelio
Non Voglio Che Clara
Arterìa, Bologna, 6 Aprile 2011
Cosa c’è di meglio che passare la prima serata di un’estate iniziata con mesi di anticipo in
compagnia dei Non Voglio Che Clara?
Scherzi a parte, c’è davvero un caldo “straniante” quando alle ventidue circa scendiamo le
scalette che conducono allo spazio dedicato al concerto: mura e colonne di pietra che
paiono – complice il fascino dell’essere antiche centinaia di anni – sfondo perfetto per le
sonorità, sempre a metà tra passato e presente, che contraddistinguono la cifra stilistica dei
Nostri. Dopo il breve set dei pugliesi Lenula, snodatosi in mezz’ora di convincenti geometrie
che si abbeverano tanto al Capossela più pulp che ai Doors dilatati in atmosfere di organo e
delay, è veloce il cambio palco che vede prendere posto Fabio De Min e sodali, mentre in
sottofondo rimbombano agghiaccianti dichiarazioni di esponenti della chiesa Cattolica
riguardo a temi decisamente forti: scelta coraggiosa, questa di schierarsi, che ce li rende
ancora più simpatici. La formazione è fissa sui quattro vertici: batteria, basso, chitarra
elettrica/acustica e piano, lasciando occasionale spazio anche a piccole tastiere nascoste e
rincorrersi di echi e riverberi. Fondamentale si rivela, in questo senso, l’ottimo lavoro di
Stefano Scariot, capace di trasformare le sue sei corde in accenni di partiture di archi e
subito dopo in una fantasmagoria di feedback e armonici, determinando a colpi di plettro i
repentini cambi di atmosfera che tanto sono piaciuti nell’ultimo lavoro in studio, “Dei Cani”.
Ma, in generale, è l’alchimia tra tutti i componenti quella che rende l’intero concerto un’ottima
prova, senza momenti di stanca e sorprendentemente più “rumoroso” di quel che ci si
potrebbe aspettare. Unico appunto in merito alla scaletta, che ha quasi ignorato l’EP
d’esordio “Hotel Tivoli”. Ma forse è solo una fissa di chi scrive, che continua a ritenerlo ciò
che di più affascinante abbia mai registrato la compagine bellunese.
Carlo Babando
Pagina 81
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