Settembre '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Settembre '11
Numero Settembre '11
EDITORIALE
Quella che si avvia alla conclusione non è stata esattamente un'estate memorabile per il
rock in Italia. Le disavventure burocratiche che hanno portato alla cancellazione dello “Here I
Stay” festival in Sardegna (forse evitabili con un briciolo di buona volontà in più da parte
delle istituzioni) e le polemiche che hanno fatto da contorno alla quattordicesima edizione di
“Voci per la libertà” (di cui riferiamo a parte) non sono che l'ennesima dimostrazione di
quanto il mondo della politica – o, meglio, di una certa politica – e delle Pubbliche
Amministrazioni sia lontano da quello della musica in qualche modo alternativa o al di fuori
degli schemi consolidati. Segno che c'è ancora davvero tanto da fare per convincere chi di
dovere della valenza culturale (oltre che aggregativa, turistica e di immagine) di determinate
manifestazioni; e purtroppo vedere nel programma degli eventi organizzati da “Il fatto
quotidiano” che gli spazi musicali sono appannaggio di cover band dei soliti noti non
rappresenta certo un bel segnale.
E però, come si dice, ciò che non uccide rende più forti. Eccoci dunque ancora qui pronti
per dare inizio con voi a una nuova annata che sarà ancora una volta ricca di dischi,
sorprese e novità. Nei prossimi mesi torneremo a parlare di MEI e del premio “Fuori dal
Mucchio”, mentre con l'arrivo del nuovo anno sono allo studio alcune importanti modifiche
strutturali. Ma avremo tempo di riparlarne. Nel mentre, il primo appuntamento che vi
segnaliamo è quello con il “SuperSound”, il festival della musica dal vivo in programma a
Faenza (RA) dal 23 al 25 settembre, al quale i curatori di questo spazio parteciperanno per
incontrare gruppi e artisti desiderosi di far conoscere la propria musica.
Approfittiamo infine per segnalare un'iniziativa a nostro avviso meritevole, ovvero la
seconda edizione de “La stagione della beneficenza”, che vede protagonisti Mike 3rd e gli Ex
KGB con un brano a testa – “Fifteen Days” e “Brightness Comes” –, in vendita in formato
MP3 su iTunes e Amazon, i cui proventi saranno devoluti rispettivamente all'AIRC e a
Greenpeace.
Ciò detto, non ci rimane che dare ufficialmente inizio alla stagione 2011/12 di “Fuori dal
Mucchio” augurandovi, come sempre, buone musiche e soprattutto buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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EVELINE
“aω”, o se preferite per esteso “Alfa/Omega”: questo è titolo del terzo album degli
Eveline di Bologna che ci rapiscono con i loro suoni caldi, ambient ma soprattutto molto rock
elettro. Frantumano i tempi e li ricompongono con la loro sensibilità interstellare per
controllare l’umore del nostro ascolto e portarci tra due guanciali. Ne parliamo con Matteo,
voce e sintetizzatori.
“aω” è il vostro terzo album. Cosa rappresenta per voi questo traguardo
musicale?
Per noi significa sicuramente molto, perché siamo in attività ufficialmente da poco prima del
2005, quando è uscito il nostro primo disco. Abbiamo subìto musicalmente parlando uno
sviluppo musicale che ci ha portati a nuove sonorità che abbiamo cercato di studiare e
approfondire proprio in questo terzo album. Quindi per noi rappresenta un punto di approdo,
dopo quasi sette anni di attività.
Come vi siete avvicinati alla musica?
Noi suonavamo già in alcuni progetti paralleli. Ci siamo incontrati a Bologna, mentre
gravitavamo attorno al DAMS. C’era chi studiava musica e chi studiava cinema e abbiamo
deciso di fondare questo progetto che fin dall’inizio ha avuto un taglio anche
cinematografico. I nostri videoclip richiamano alcuni film del cinema muto. Uno in particolar
modo è un film rimontato dell’epoca del muto, intitolato “The Great Train Robbery”. Da lì
abbiamo sviluppato il nostro progetto fino ad oggi.
Quali amori musicali ci sono nella musica degli Eveline?
Noi come puoi sentire dalle nostre produzioni siamo riusciti a spaziare dal rock di matrice
americana fino alla glitch music e alla musica elettronica della Warp Records a cavallo tra gli
anni 90 e i primi 2000. Queste sono un po’ le nostre influenze però di fatto quello che
abbiamo sempre cercato di fare è il ricercare un nostro proprio suono specifico ed originale.
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Mi ha fatto molto piacere che, soprattutto in questo terzo album, la cosa sia stata percepita
non solo dal pubblico ma anche dalla critica.
Quando vi incontrate in sala prove, come portate a termine le canzoni? Vi fate
trasportare da lunghe session e poi limate?
Dipende. Il primo album “Happy Birthday Eveline!!!” è nato da alcune composizioni dei
singoli elementi che poi sono state sviluppate da tutti gli altri e così anche il secondo,
“Waking Up Before Dawn”, anche se quest’ultimo per metà è stato proprio composto da uno
di noi: il nostro chitarrista Marco, siglato LX sull’album. Questo terzo album invece è nato da
una serie di improvvisazioni. Tutta la fase di arrangiamento si è sviluppata nei mesi
successivi alla prima stesura dei provini. Tranne però il pezzo che chiude l’album “Lunar 8”,
solo voce e sintetizzatore che è stato un mio vezzo.
Quale parte degli Eveline avete lasciato per strada in questi anni?
Abbiamo sicuramente lasciato per strada il nostro taglio più jazz che andava a ricoprire
prevalentemente il primo album che è uscito per Shyrec. Ma il jazz non è dimenticato, ma
superato in favore di altre sonorità e influenze. Non disdegniamo un ritorno a quelle sonorità
in futuro, per ora sono lì nel cassetto.
Entrando nei particolari delle canzoni del disco nuovo, ho trovato “She’s From Mars”
molto ipnotica e coinvolgente.
“Sherryy From Mars” ha una struttura molto particolare per via dei loop incastrati ad un giro
di pianoforte che nel corso dello sviluppo del brano va ad inserirsi nella struttura in levare.
Quindi è questo che dà quel taglio molto continuativo e allo stesso tempo lievemente sfasato
da punto a punto all’interno del brano. Poi abbiamo cercato proprio di ricreare in studio
l’utilizzo di una serie di effetti che ci hanno aiutato moltissimo. Andrea Sologni che è il
bassista dei Giardini di Mirò ed Enrico Baraldi in studio ci hanno aiutato a sviluppare proprio
una sonorità più riverberata e più spaziale, quindi penso sia stata l’unione di tutti questi
elementi.
“She’ From Mars” è anche un video che sta imperversando su YouTube. Vuoi
parlarcene?
Sì abbiamo realizzato questo video con Andrea Fasciani che è un regista underground
molto bravo. Ha lavorato con Herzog. È stato premiato al “Sunday Film Festival” per un suo
cortometraggio “Buyo”. Ha sviluppato questo videoclip ipnotico che ricreasse sulla nostra
canzone quell’elemento di circolarità che è fondante all’interno del brano. Il videoclip è stato
tratto da un lavoro che ha fatto proprio in occasione di un incontro che si è tenuto mesi prima
con Herzog a Londra. Da questo materiale è stato tratto il nostro videoclip che difatti è molto
semplice a livello di sviluppo narrativo, ma è nella ricerca soprattutto fotografica all’interno
del video che si è lavorato moltissimo. Quindi vi invito ad andarlo a vedere.
Il pezzo più rock e scanzonato è sicuramente “Last Time At Alpha Centauri”; com’è
venuta fuori?
È un brano che noi avevamo abbozzato in Polonia, durante il nostro tour europeo per
presentare il nostro secondo album che è uscito tre anni fa. È successo che avevamo due o
tre day off e avevamo sviluppato il giro in uno studio di un nostro amico che viveva a
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Varsavia e così abbiamo improvvisato e trovato la chiave giusta in quel momento, poi
l’abbiamo abbandonato nel corso del tempo, fino a poco tempo fa quando abbiamo deciso di
riprenderlo durante quelle session di improvvisazione di cui parlavamo per inserirlo
nell’album. È uscito un pezzo che a noi piace moltissimo. Risulta anche essere il pezzo più
movimentato dell’album che di fatto si presenta come un lavoro più meditativo, rispetto al
passato, più spaziale e più ambient in certi momenti.
Come avete conquistato la Sonic Vista Music che per la seconda volta vi produce?
Abbiamo conosciuto il label manager dell’etichetta, durante il nostro tour europeo che ha
succeduto la pubblicazione in Europa di “Happy Birthday Eveline!!!”. Era stato stampato in
Europa per Sopot Int. che pur essendo molto piccola è un etichetta prevalentemente attenta
a produzioni jazz di estrema nicchia. È comunque molto seguita in Inghilterra e da alcune
grosse distribuzioni tedesche. Da lì siamo arrivati a una distribuzione più grande che si
chiama Alive che ci ha distribuito i dischi in tutta Europa, Inghilterra, Canada, Stati Uniti e
Giappone. Durante il primo tour europeo che è stato organizzato da Sopot Int., la Sonic Vista
si è interessata al nostro materiale e da lì è nata la nostra collaborazione.
Voi nominare anche le altre etichette che producono il disco?
C’è Urtovox in primis per l’Italia, poi c’è un’altra etichetta con cui da sempre collaboriamo in
prima persona che è Locomotiv Records collegata all’omonimo locale bolognese e poi c’è
un’etichetta tedesco/polacca, la Borowka Music: estremamente interessanti e attivi.
Dobbiamo a lei, non solo, ma per gran parte a lei, il nostro ultimo tour europeo che è stato
bellissimo. Abbiamo fatto diciotto concerti in venti giorni. Abbiamo toccato dei fantastici
palchi di cui alcuni molto grandi.
Contatti: www.myspace.com/myeveline
Francesca Ognibene
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GIRLESS & THE ORPHAN
Un'attitudine punk senza fronzoli trasposta ai confini del folk condita da una sana follia.
Questa la miscela esplosiva dei Girless & The Orphan, con cui abbiamo parlato del proprio
EP d’esordio, di free-download e di accostamenti azzardati.
Prima di tutto partiamo con le presentazioni. Chi si nasconde dietro Girless e chi
dietro The Orphan?

Girless: Dietro Girless si nasconde un adolescente evitato dalle ragazze, che ha
dato il primo bacio a 17 anni suonati e che per questo e tanti altri motivi quando aveva 15
anni imbracciò la chitarra del padre e cominciò a scrivere canzoni, scegliendo un nome
d'arte adeguato. Ora, che di anni ne ha 24, non è cambiato quasi nulla: il nome è rimasto
quello, tiene in mano la chitarra per la maggior parte del suo tempo e continua a scrivere
canzoni. Però con le ragazze va un po' meglio.
The Orphan: Dietro The Orphan non si cela nient'altro che la spalla comica e silenziosa di
Girless, come per tutte le personalità di spicco e i personaggi famosi che si rispettino. Pur
avendo un passato più turbolento e avendo alle spalle performance e partecipazioni insieme
a svariate punk band cittadine, decide di abbracciare il progetto del ragazzo senza fidanzata
solo nell'estate del 2009. Da allora le cose non sono più state le stesse e ora sono proprio io
quello ad essere senza ragazza.
Come siete approdati al vostro sound folk di chiara impronta americana?
All'apparenza sembrate tutto fuorché italiani, e questo può essere un pregio ed un
difetto allo stesso tempo.
Girless: Penso che la colpa sia da imputare ai nostri ascolti passati, siamo figli di una
generazione che ha disdegnato abbastanza la scena italiana, anche perché dopo gli 883 la
consideriamo morta. Volutamente o meno, ci è riuscito più naturale avvicinarci a un sound
che si distanziasse dai canoni della musica italiana, che poi è già abbastanza varia di per sé.
E la trovo una cosa buona, in fin dei conti: preferiamo scrivere testi in inglese, e il folk
moderno al giorno d'oggi in Italia non ha ancora preso molto piede.
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The Orphan: I nostri ascolti giovanili hanno inevitabilmente influenzato il nostro modo di
intendere la musica, di concepirla e conseguentemente di suonarla e comunicarla. Se nasci
ascoltando pop o musica leggera italiana probabilmente non ti verrebbe mai in mente di
impugnare uno strumento e comunicare le tue storie e le sfaccettature della tua vita. Se
cresci ascoltando rock, indie, punk e tutto quello che ci portiamo dietro in termini di bagaglio
musicale, penso che questo sia un approdo tutto sommato inevitabile. Se poi ci aggiungi una
insana voglia per la sperimentazione e la volontà di comporre brani semplici ma allo stesso
tempo sentiti e sudati, il nostro sound è il risultato di questo percorso.
Possibile che tutti si ostinano ad accostarvi ai Neutral Milk Hotel? A conti fatti avete
ben poco in comune con la band "indie" per eccellenza.

Girless: Ecco, ti ringrazio per averlo notato! No, scherzi a parte abbiamo già detto che il
paragone ci lusinga, ma che non lo sentiamo come nostro. Io adoro i Neutral Milk Hotel, ma
non li ho mai idealizzati come fonte d'ispirazione, né tanto meno ho mai preso spunto
volutamente dalle loro canzoni. Poi, per carità, se qualcuno effettivamente ci trova qualche
punto in comune, non sta a me contestarlo: conta che a volte ci hanno paragonato ai Gogol
Bordello, ed è una band che odio. Quindi finché viene fuori il nome Neutral Milk Hotel sono
ben contento del paragone e me lo tengo stretto! Anche se penso che gli accostamenti da
fare nel nostro caso siano altri.
The Orphan: Considerando che ormai a destra e a manca ci accostano alla creatura di Jeff
Mangum, ha iniziato a sorgerci più di un dubbio sugli effettivi punti di contatto con la band
della Louisiana. Onestamente confermo di non averli mai presi come termine di paragone
per la mia musica e per il mio modo di scriverla. Rimane comunque un accostamento
prestigioso che conferisce ancora più spessore al lavoro che abbiamo portato avanti in
studio. E questo non può ovviamente che farci piacere.
Nei vostri testi, specialmente in "Wings Behind Our Backs", sfiorate i confini del
nonsense. Come nascono a da cosa sono scaturiti?
Girless: I testi li scrivo io e parlano prettamente di esperienze di vita vissuta. Non perdo
molto tempo a scrivere i testi, perché credo che debbano venire piuttosto naturali, soprattutto
se si raccontano proprie storie. In particolare quelli dell'EP hanno tutti un filo conduttore
preciso, che poi copre un lasso di tempo lungo almeno due anni. "Wings Behind Our Backs"
è un po' diverso dagli altri, è l'ultimo che è stato scritto tra i testi dell'EP, volevo racchiudere
la maggior parte dei miei pensieri in una "summa" e la maniera ironica mi è sembrata la più
adatta per chiudere il cerchio. Ho sempre amato il sarcasmo e l'ironia, e nell'EP doveva
essercene un po'.
Il vostro EP esce per la Stop! Records in download gratuito. Quali riscontri avete
ricevuto in termini di download, e di relative vendite e presenza ai concerti? Il gioco
vale veramente la candela anche per chi, come voi, esordisce nel mondo musicale?
Girless: Il gioco vale la candela, poco ma sicuro. Noi e la Stop Records siamo in perfetta
sintonia su questa politica: un artista, in particolar modo emergente, non deve puntare a
guadagnare dalla vendita dei propri dischi, semmai dai concerti live. E il free download è una
frontiera accessibile da tutti. Noi finora ne siamo molto soddisfatti, più in termini di download
che di vendite di dischi, ma alla fine il risultato finale che conta è quello di esserci fatti
conoscere da più gente possibile e notiamo che l'attenzione nei nostri confronti sta
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crescendo sempre di più. Quindi penso che sia una mossa vincente, che dovrebbe essere
seguita da tante altre band, emergenti e non.
The Orphan: L'incontro con Stop! Records è stata una possibilità fantastica per mettere su
disco la nostra musica e avere un supporto costante e continuo su tutto. I ragazzi della Stop
ci hanno accompagnato per mano in questa avventura e ci hanno supportato veramente in
ogni aspetto. Pensa che su disco hanno suonato in quasi tutti i brani e quando possibile ci
accompagnano persino dal vivo con i loro strumenti. Il loro modo di lavorare si sposa alla
perfezione con le nostre aspettative e le nostre idee in merito alla promozione del disco. Il
download gratuito di “Same Names For Different Girls” nasce proprio da queste
considerazioni e in un momento così asfittico per l'industria discografica e la musica in
generale, non è solo necessario, ma anche un'opportunità da prendere al volo per farsi
conoscere il più possibile.
"Same Names For Different Girls" dura il tempo di un coito interrotto, e si conclude
come se ci fosse ancora urgenza di dire qualcosa. Quanto dobbiamo attendere per un
disco vero e proprio?
The Orphan: La sensazione che volevamo suscitare è proprio questa. Un assaggio della
nostra musica e del nostro modo di intenderla. Incuriosire con una toccata e fuga chi ci
ascolta per la prima volta. I pezzi nuovi ci sono e siamo pronti ad entrare in studio per
concretizzare il lavoro di Girless in sede di composizione, arrangiando, sfoltendo e
aggiustando tutti i particolari per sfornare un altro lavoro qualitativamente sulla scia di “Same
Names For Different Girls”.
Contatti: www.myspace.com/girlessrock
Luca Minutolo
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JUNKFOOD
Andando a curiosare nella loro pagina Facebook, si troverebbe per il gruppo Junkfood la
seguente, fondamentale, informazione: “If this band were any cooler, they'd be
frozen!”, “Se questa band fosse più cool (tra i vari significati di cool anche fresca...), sarebbe
congelata!”... Sanno giocare, e non prendersi troppo sul serio, i quattro componenti del
gruppo che con il loro album d'esordio dal titolo così evocativo, “Transience”
(Parade/Trovarobato), hanno prodotto reazioni a più livello, e a più riprese e direzioni, di
favorevole e vitale consenso. Un atteggiamento “fresco” che va a stimolare la curiosità di
scoprire cosa si nasconda dietro quella sigla e quei nomi, Paolo Raineri, Michelangelo
Vanni, Simone Calderoni, Simone Cavina, che con le loro note, cariche di transitorietà, e dei
generi musicali i più diversi, sono capaci di portarti, morbidi ma decisi e sicuri, lontano.
Incontriamo Simone Calderoni, portavoce per le interviste su “carta” della band, per dare
qualche risposta a questa curiosità.
Partiamo inevitabilmente da una domanda di origine: perché Junkfood, a cui spesso
si aggiunge la parola “4et” che nasconde che cosa? Rigorosamente indicate di non
pronunciarlo, non solo musicalmente, in modo separato: mai e poi mai Junk Food,
insomma; ma è un nome che nasconde una volontà programmatica/politica/creativa?
E da dove viene fuori?
La scelta del nome risale al periodo di formazione del gruppo al conservatorio di Bologna, e
ha un duplice significato: da un lato la nostra tendenza onnivorica in reazione all'ortodossia
di alcuni ambienti di quella struttura, dall'altro il fatto che si finiva regolarmente a mangiare
cibo spazzatura tra una lezione e l'altra, tra una prova e l'altra. Cosa che amiamo fare
tuttora. Quel “4et” viene appunto da tale retaggio, ma lo abbiamo scelto esclusivamente nei
contatti per evitare omonimie. Avrebbe potuto tranquillamente essere “band”, “music” o
qualsiasi altro suffisso. Per cui sì, si potrebbe dire che il nome tradisca una volontà
programmatica e creativa, nel senso che il nostro intento è sempre stato quello di non porci
limiti stilistici.
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Ognuno di voi viene da varie e molteplici collaborazioni ed esperienze, come con gli
Yuppie flu, Mariposa, Calibro 35, Wu Ming... Come vi siete incontrati? E le vostre
singole esperienze, anche formative, quali sono e da quali modelli, se ci sono, si sono
lasciate trasportare e trasformare?
L'incontro tra me (Simone Calderoni), Michelangelo e Simone Cavina è avvenuto in
conservatorio, a Bologna. Paolo è arrivato in un secondo momento su mio invito, in quanto
studiava al conservatorio di Rovigo e ci conoscevamo dai tempi dei corsi di jazz alla scuola
comunale di Faenza. Abbiamo cominciato a collaborare tra di noi in contesti e organici
diversi, tra cui due bellissimi progetti sulla musica di Steve Coleman e il “Masada Songbook”
di John Zorn. Tuttavia nessun progetto ci vedeva tutti e quattro coinvolti
contemporaneamente, ci è voluto circa un annetto. Questo spero spieghi sommariamente la
nostra formazione, dal punto di vista lavorativo abbiamo anche lavorato come sidemen dal
vivo e in studio. Per una biografia più dettagliata rimando i lettori al nostro sito
www.junkfood4et.com. Sulle influenze dei singoli non mi pronuncio, perché sarebbero
troppe, limitandomi al progetto in questione direi che tutte le grandi figure della storia del
Jazz ci abbiano in qualche modo influenzato durante la nostra formazione. Tuttavia non ci
sono molte tracce di questo in termini di sonorità in “Transience”, se non nella prassi
esecutiva. Per quanto riguarda i contenuti sono molto eterogenei e riguardano circa tutto
quello che ci ha colpito come ascoltatori, di cui solo una parte è in qualche modo
etichettabile come Jazz. Volendo dare dei riferimenti a chi legge, potrei citare la scena
downtown di New York o la scena Avant Jazz scandinava, specialmente nei timbri e nell’uso
dell’elettronica.
Il vostro è un interessantissimo e ispiratissimo lavoro, tanto per abbondare di
superlativi, ma non si potrebbe fare altrimenti dato che si è parlato di “(...)un album
coinvolgente sotto il profilo cerebrale ma anche fisico(...)” in merito al vostro primo
lavoro uscito per l'etichetta Parade/Trovarobato, un “Transience”, nome che si può
ben immaginare essere anche questo carico di significati, dato che proprio all'ascolto
rende l'idea di qualcosa che si trasforma, cambiando da uno stato all'altro anche
l'umore di chi lo fruisce. È così e da dove nasce questa transitorietà, volendo portare
verso dove?
Volevamo un nome che desse ragione del divenire delle composizioni in sé come
dell'evoluzione del sound del gruppo, che continua tuttora e di cui il disco è solo
un'istantanea. Cerchiamo di dare un adeguato sviluppo alle composizioni lavorando anche
con l'improvvisazione, ma sempre in maniera molto oculata e raramente si tratta di assoli nel
senso canonico del termine. Siamo più interessati alle dinamiche di gruppo e all'interplay. E'
più una questione di parametri e modalità esecutive riguardo alle possibilità che abbiamo di
interpretare un brano sulla base di determinati gradi di libertà prestabiliti, e questo ci aiuta a
mantenere la musica “fresca”. Affianchiamo a queste condotte anche molta scrittura e
arrangiamento all'interno dei pezzi, e nel fare tutto ciò cerchiamo di essere abbastanza
concisi. Diventano in qualche modo piccole sceneggiature sonore. Questa qualità
“drammaturgica” della nostra musica viene solitamente molto apprezzata e ci aiuta ad
evitare eventuali cali di tensione o di attenzione, nostri e di chi ci ascolta.
Un album questo carico appunto di suggestioni e paesaggi, che si potrebbe ben
immaginare colonna sonora portante non solo di ogni film personale che si potrebbe
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delineare nella fantasia dell'ascoltatore, ma che anche forse appartiene a una vostra
dimensione e capacità “filmica”, dal momento che proprio la colonna sonora di un
film degli anni 50, "Dementia" (1955) è indicata come uno dei vostri primi lavori
ufficiali, forse fin qui mai pubblicato, compiuto su commissione nel 2010.
Oltre a essere appassionati di cinema, dal punto di vista strettamente compositivo si
potrebbe dire che abbiamo una concezione narrativa che ci porta a strutturare la musica in
questo modo. Abbiamo sempre in mente lo spettatore sia in fase di scrittura che in fase
d'esecuzione, dove la nostra formazione potrebbe portarci ad un approccio troppo
autoreferenziale. E questo non perché ci sia una volontà recondita di incontrare i favori del
pubblico al di là del nostro gusto personale, ma semplicemente perché una componente
enorme del nostro rapporto con la musica si svolge appunto come spettatori. Pertanto,
cerchiamo di dare agli altri ciò che vorremmo ricevere noi stessi come tali. Alla luce di
quanto detto precedentemente, l'approdo alle immagini è stato inevitabile. L'occasione si è
presentata con la proposta di una sonorizzazione live di “Dementia” di John Parker da parte
del cineclub “Il raggio verde” di Faenza. Il progetto è stato riproposto durante la rassegna
“Soundciak” presso il Leonkavallo di Milano, al festival “Lugocontemporanea” di John De Leo
e in altre location per tutto il 2010, venendo premiato dal MEI. Ci apprestiamo a riproporlo
dal vivo quest'autunno anche se non credo che lo pubblicheremo mai. È comunque possibile
vederne una buona parte in alta qualità sul nostro canale Youtube.
Com'è l'incontro con il vostro pubblico durante e post concerto? Si può immaginare
durante uno stato di trance, ma il dopo?
Di norma molto cordiale e piacevole, la nostra formazione ci ha insegnato una certa umiltà
nel lavoro. Quando ti trovi in situazioni lavorative dove sei semplicemente parte di un
ingranaggio impari a stare al tuo posto e a non montarti la testa. Senza queste esperienze e
lavorando solo sullo sviluppo della propria individualità musicale alcuni tendono a
sovrastimare il loro contributo all'arte. Non penso sia il nostro caso.
Com'è avvenuto l'incontro con Trovarobato, e quanta fatica e problemi avete dovuto
affrontare prima di questo fortunato incontro per riuscire ad avere la vostra meritata
consacrazione, e uscita ufficiale?
L'incontro è avvenuto gradualmente, in modo spontaneo. Avevamo già vagliato delle
etichette e alla fine dei conti Trovarobato era quella che ci accordava la maggior libertà su
tutti gli aspetti del prodotto. Inoltre stavano inaugurando la collana “Parade” sulle musiche
altre con “Der Maurer” di Enrico Gabrielli e ci è sembrato il contenitore giusto per questo
progetto. Ci piaceva (e ci piace tuttora) la loro trasversalità, nonché buona parte del loro
catalogo. Abbiamo individuato in ciò un'identità di vedute e il rapporto sta proseguendo con
reciproca soddisfazione.
Bologna è indicata come vostra città di appartenenza artistica come gruppo, anche
se ognuno di voi viene da una città diversa dell'Emilia con un po' di Romagna... Com'è
lo stato di salute della creatività musicale e non solo di quei luoghi? Dall'esterno e per
memoria storica quella dell'Emilia-Romagna è ancora un luogo in cui si può fare, è
possibile incontrare e incontrarsi. Ma è ancora così?
C'è moltissima Romagna! Nonostante Bologna venga spesso indicata come nostra città
d'origine, solo Michelangelo vive a Bologna, ed è comunque di Ferrara. Per il resto, io e
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Paolo siamo di Faenza e Simone è di Imola. Perciò, come vedi, i 3/4 di noi sono romagnoli!
Probabilmente Bologna viene indicata spesso come nostra città d’origine perché ha rivestito
per noi un'importanza artistica notevole, a cominciare dalla vittoria nel 2007 del “Festival
delle arti” (col quale il gruppo si è formato) per finire con Trovarobato. Per quanto riguarda le
impressioni circa l’attuale stato di salute della cultura in regione, non posso rispondere per i
miei colleghi. Personalmente penso ci siano ancora tante persone appassionate e in gamba,
sia tra i musicisti che tra gli addetti ai lavori. Il problema è che mi sembra ci siano sempre
meno spazi e meno risorse per questi soggetti. Manca soprattutto una qualche volontà
progettuale circa la cultura a medio-lungo termine. Non si tratta di fare rassegne o eventi che
possano avere una rilevanza dal punto di vista turistico o mediatico, ma di predisporre
meccanismi e strutture per lo sviluppo e il mantenimento di una scena artistica in modo
organico e integrato. A partire dalla didattica fino alla promozione dei progetti. In ogni caso
vedo questi problemi anche nel resto d’Italia, indipendentemente dalla sensibilità di partenza
delle varie regioni verso queste tematiche. In un simile contesto, anche regioni più virtuose
in questo senso, come può esserlo stata l’Emilia-Romagna, sono costrette a venire meno a
certe loro prerogative. Servirebbe una filosofia politica diversa a livello nazionale.
In corso per voi nuovi e paralleli progetti? O vi state dedicando in toto alla
promozione della vostra “Transience”?
Siamo sempre coinvolti, singolarmente o in gruppo, in altre situazioni che non riguardano la
musica del disco e la sua promozione. Ad esempio l'anno scorso abbiamo partecipato ai
laboratori di ricerca musicale permanente di Stefano Battaglia presso la fondazione Siena
Jazz. È stato un anno di lavoro molto proficuo dal punto di vista didattico e artistico. Abbiamo
lavorato principalmente sulle varie tecniche di improvvisazione radicale e parametrica, di cui
Stefano è un indiscusso maestro, nonché su vari aspetti timbrici e narrativi che si sono
rivelati importantissimi nello sviluppo della nostra musica dell’ultimo anno. Riprenderemo i
laboratori all'inizio dell'autunno e, se tutto evolve come previsto, speriamo di entrare in studio
assieme entro il 2012. Parallelamente stiamo continuando a scrivere musica per il prossimo
disco, che immagino non vedrà la luce anch'esso prima del 2012. Se avanza del tempo, ci
sarebbero anche un paio di giovani cineasti interessati a collaborare più altre situazioni
ancora troppo vaghe per parlarne. Il lavoro sicuramente non ci manca...
Contatti: www.junkfood4et.com
Giacomo d'Alelio
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LA METRALLI
La Metralli è il progetto di Meike Clarelli cantante e pluristrumentista che ha approfondito la
sua idea con il chitarrista Matteo Colombini, e assieme hanno reclutato Marcella Menozzi
alle chitarre acustica ed elettrica e Serena Fasulo al contrabbasso per completare il
quartetto che tenendo a mente la tradizione della canzone, come una colonna sonora del
quotidiano rende fruibile i suoi passi, le sue mosse, i suoi sali e scendi degli umori
sentimentali e attraversando il tempo si incontra anche la sperimentazione che segue la
danza. Ne parliamo con Meike.
Prima di tutto ti chiederei di fare un salto all’indietro nel tempo, per provare a
percepire come tutti gli elementi ti abbiano portato a La Metralli. Come ti avvicini
quindi alla musica? Più vai indietro più ci piacerà.
All’inizio, da piccolina, ho seguito un desiderio di mio padre e ho studiato sette anni chitarra
classica: smisi abbastanza giovane. Dopo cinque anni però, cominciai a innamorarmi del
lavoro sulla voce e del bel canto, amore intervallato dal desiderio di conoscere anche altri
strumenti come le percussioni e gli strumenti a fiato in generale. Poi sono diventata
insegnante di canto e ho cominciato a dirigere un coro di donne migranti. Dopo un anno ho
chiesto a Matteo, mio carissimo amico, di iniziare un progetto popolare. Lui è un bravissimo
musicista lo è sempre stato, ma prima ancora di suonarci era più un idolo per me. Abbiamo
iniziato noi due e poi si sono aggiunte le altre Marcella e Serena.
Il nome La Metralli invece a cosa si riferisce?
Ci piaceva l’idea che sembrasse il cognome di una persona e l’articolo La perché questa
persona l’abbiamo identificata come una donna, anzi come una signora, una donna anche di
una certa età perché desideriamo rimanere legati alle radici e all’antichità, ad un senso
originario del fare musica e allo stesso tempo contemporaneo. Per me contemporaneità e
antichità vanno di pari passo. Quindi in questo senso La Metralli.
L’atmosfera che crei con il tuo progetto, la senti ispirata da film, altri dischi, libri.
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Quali influenze pensi siano entrate in La Metralli col senno di poi?
Io adesso faccio dei nomi grossi, ma non voglio offendere nessuno. C’è Nino Rota, ma
anche Debussy, c’è Paolo Conte e i Radiohead. Come fare stare insieme Debussy e
Radiohead non lo so, però c’è anche Carmelo Bene, c’è Pina Bauch che potrebbe non
entrarci nulla, ma ha ispirato tanto il mio senso poetico per il linguaggio, per il teatro, per la
poesia , per la musica europea. C’è poi anche tanta Asia paradossalmente e c’è anche
amore per la Mongolia e i canti tibetani che io ho studiato e quindi in qualche modo sono
entrati e poi c’è amore per la Francia, ma anche e soprattutto per l’Italia.
Il senso della malinconia, per tutto il disco, il bisogno di definire un inizio e una fine,
il linguaggio popolare, gli intrecci vocali quanto partono da voi stessi, dal di dentro ?
O vogliono essere una strada nuova che esplorate da navigatori?
Ma l’idea, anche se è molto difficile, è quella di fare qualcosa di nuovo e con questo
desiderio forte ma anche con umiltà speriamo di lavorare in maniera originale, qualcosa che
c’è di molto colto e molto bello e anche se è difficile vorremmo riuscirci approfondendo di più
la vena sperimentale che c’è in questo disco e poi quella più elettrica, ma senza allontanarci
dal linguaggio popolare. Un disco così nella scena indipendente è un po’ difficile trovarlo. In
tutto il disco c’è una melanconia per certi versi feroce, ma anche molto ironica. “Anchora” in
questo senso è così. C’è molta anatomia in questo disco: “Cuore quantico”, “Sull’ultima
vertebra”, “D’arteria”. Tutto questo è per una passione mia per l’anatomia e la medicina
cinese.
Diversi ospiti hanno partecipato al disco, se vuoi ricordarli.
Certo. Jonathan La Thangue che ha registrato la batteria assieme a Fabio Volpini. Poi c’è
Davide Fasulo che è un grandissimo cantautore e musicista che ha registrato la fisarmonica
ed è il fratello di Simona, la nostra contrabbassista, e questi sono gli ospiti più importanti.
Tra i ringraziamenti mi ha incuriosito quello che hai rivolto a Mara Redeghieri. Come
mai?
C’è stato un bellissimo incontro tra noi e Mara un anno fa, avevamo lei come tutor per un
premio vinto, quindi abbiamo fatto varie ore di lavoro insieme. Ci siamo incontrati poi molte
altre volte al di là di questo. In “Altrove e indifferente” c’è un pezzo che è stato scritto da lei,
ci ha fatto questo regalo inserendo una variazione melodica e una sua parte di testo.
Come nasce allora la collaborazione tra Amigdala e A Buzz Supreme, che hanno
prodotto il disco?
Amigdala è un’associazione teatrale di Modena che lavora da anni e organizza un festival di
arte contemporanea. Io ho partecipato come consulente musicale in quanto direttrice del
coro Le Chemin des Femmes. E da lì c’è stato l’interessamento da parte loro per il nostro
progetto. A Buzz Supreme invece è entrata in scena all’inizio di quest’inverno. Abbiamo
contattato Andrea Sbaragli che adesso è il nostro ufficio stampa, oltre che editore. Il progetto
gli è piaciuto subito perché è stato meraviglioso, credendo tantissimo in noi e grazie a lui se
siamo riusciti ad avere il coraggio di farlo questo primo disco.
Come presentate il disco dal vivo? Ci sono delle varianti?
Di solito se riusciamo usciamo al completo cioè in sei con anche batteria e fisarmonica.
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Altrimenti solitamente usciamo in cinque o se no anche in quattro, ci arrangiamo. Dipende
anche dalla situazione. Abbiamo un repertorio che non è solo quello del disco, ad esempio
c’è un brano che si chiama “Il Mediatano” che dura dieci minuti ed è musicalmente una torta
che passa da alcune cover di brani antichi, a Nino Rota, a cose inventate e risulta
naturalmente etnicissimo. È una specie di follia all’insegna della popolarità e della
sperimentazione e questo è uno di quei brani che quando facciamo la gente impazzisce: si
mette a ballare e non riesce a smettere. È un po’ l’anima dei La Metralli. Sarebbe impossibile
registrare un roba così perché bisognerebbe chiedere a troppi i diritti.
Invece per quanto riguarda i concerti già fatti, cosa vi vengono a dire gli astanti dopo
il concerto?
Ci vengono a dire grazie di averci fatto passare dei momenti felici e questo è bellissimo ma
anche molto imbarazzante. È una sensazione molto forte. Ci sono arrivate tante mail da tutta
l’Italia ma poi da persone di tutte le età, da donne di cinquanta o sessant'anni e ragazzi
giovanissimi che ascoltano solitamente metal. Il disco taglia in maniera trasversale cercando di non banalizzare - è come se volesse essere alla portata non di tutti ma di molti
sì. Questa è una cosa che colpisce.
Contatti: www.myspace.com/lametralli
Francesca Ognibene
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SARAH SCHUSTER
Secondo album sulla lunga distanza per il trio di Vicenza, “Possibilities” (Gattorosso) guida
l’ascoltatore verso un mirabile incrocio di indie-rock e forma-canzone d’autore in inglese.
Daniela Dal Zotto (voce e chitarra), Eleonora Dal Zotto (chitarra e armonica) e Matteo
Mosele (batteria e cori) ci danno così il benvenuto nella loro piccola, vivacissima tribù.
Il titolo del vostro secondo album finisce per metaforizzare un nuovo inizio, dato che
sono cambiate non poche cose, a partire dalla line-up e dal canto affidato a Daniela in
seguito alla defezione di Lisa. Come avete affrontato le dinamiche relative alla
lavorazione di “Possibilities”?
M: Il cambio di line-up è avvenuto in modo abbastanza naturale: da tempo Lisa ci ripeteva,
con massima onestà, di non avere molte energie da dedicare alla musica, cosa che
chiaramente abbiamo dovuto affrontare quando si è iniziato a lavorare sui pezzi nuovi. Per
quanto fluido sia stato il passaggio, si è trattato pur sempre di un cambiamento importante e
ci spaventava l’idea di perdere il nostro sound. Forse proprio questa preoccupazione è stata
la molla che ci ha fatto impegnare maggiormente e ci ha fatto crescere: ci siamo tolti di
dosso i “ruoli” che avevamo prima, provando a re-inventarci, suonando strumenti diversi e
osando di più. Il suono, secondo me, ora è più compatto. Spero che si senta anche nei live.
D: Riguardo al titolo hai ragione: “Possibilities” evoca i diversi orizzonti in cui immagini la tua
musica o la tua band, ma anche le mille direzioni che può prendere un brano mentre lo
componi.
E: Il titolo è in realtà anche un nostro personale tributo alla canzone omonima, incisa per
“Rain From Mars”, il nostro esordio, dove non era però stata inserita perché eravamo
insoddisfatti della registrazione: ci eravamo ripromessi di riprovarci con il secondo album,
che da allora abbiamo sempre chiamato “Possibilities”.
Pur muovendosi sempre in ottica indie-rock, l’impressione è che abbiate
assecondato un songwriting maggiormente cantautorale e raffinato, anche grazie
all’utilizzo di una strumentazione più ampia. Era un intento ben preciso o la direzione
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è stata messa a fuoco via via?
E: Bisogna tenere conto del fatto che “Rain From Mars” raccoglie dei brani nati per essere
suonati dal vivo, una specie di raccolta di quello che era successo nei tre anni precedenti.
L’esigenza di curare i dettagli era già presente, ma era rimasta forse un po’ frustrata per
motivi economici, di tempo e anche per la nostra inesperienza. “Possibilities”, invece, ha
avuto una gestazione più meditata e i brani sono stati subito scritti con la prospettiva di
essere portati in studio: questa è una differenza abissale per la scelta degli arrangiamenti.
D: A volte ho l’impressione che in passato ci siamo un po’ nascosti dietro i nostri limiti
tecnici, che ci fornivano la scusa per stare dentro un territorio circoscritto, fatto di sonorità
famigliari (le due chitarre che suonano “così”, il set di batteria, la voce che “deve stare
qua”...). Forse scrivendo “Possibilities” ci siamo liberati da questi vincoli, e credo che così
siano venute fuori le cose migliori.
La presenza di Giovanni Ferrario, assolutamente in linea con il vostro sound, e di
Andrea Rovacchi, giova ulteriormente al respiro dei brani. So che volevate individuare
qualcuno in grado di fornire maggiore esperienza in fase di registrazione, per cui mi
domando come siete arrivati a scegliere proprio loro e che esperienza è stata
collaborare assieme.
M: Avere a disposizione persone di esperienza come Giovanni e Andrea è stato
fondamentale. Per tirare fuori il meglio da una collaborazione devi imparare a farti guidare e
non è una cosa sempre facile per i musicisti: a volte si tende a essere un po’ rigidi nel
proprio stile o nelle proprie idee.
D: Come dici tu, l’idea era quella di trovare qualcuno che ci aiutasse soprattutto in studio e
quando ne abbiamo parlato con persone di fiducia, come Andrea Sbaragli di A Buzz
Supreme, ma anche con Marta Collica che aveva ascoltato delle nostre registrazioni
“domestiche”, è venuto fuori il nome di Giovanni. In realtà con lui abbiamo lavorato molto
prima di entrare in studio, suonando insieme e riascoltando i brani, quindi il suo apporto è
stato molto più che “tecnico”.
E: Per la scelta dello studio, invece, ci piaceva l’idea di lavorare ancora in analogico e
apprezziamo il lavoro di Andrea, non solo con i Julie’s Haircut. Ci siamo capiti al volo su
cosa avevamo in mente e lui ha il grande pregio di farsi coinvolgere in quello che fa - ha
anche suonato in alcuni brani - senza essere invadente: dà ottimi consigli lasciando le
decisioni importanti alla band.
Il fatto che suoniate senza basso fa pensare in automatico a band come
Sleater-Kinney o White Stripes, mentre la cura prestata a una forma-canzone di base
elettrica e tendente alla cupezza riporta a PJ Harvey e Nick Cave. In certe tracce di
“Possibilities”, però, sfiorate persino lo stoner e il folk. Quali sono state in realtà le
influenze primarie dell’album, non necessariamente soltanto musicali?
E: I nomi che hai citato fanno senz’altro parte dei nostri ascolti. Il fatto è che i brani arrivano
in sala-prove da Daniela in forma voce/chitarra e suonano sempre come quelli di Johnny
Cash!
Poi cerchiamo di vederci dentro, di immaginare delle “possibilities” che a volte portano a
riferimenti precisi, altre volte ci fanno addentrare in zone poco frequentate. Fare riferimento
ai generi o ad artisti specifici a volte è utile per comunicare con immediatezza quello che hai
in mente, ma cerchiamo di non pensarci troppo e di farci guidare piuttosto dalla canzone che
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stiamo scrivendo.
Piccola parentesi ludica: i tre dischi preferiti di sempre a testa (so che è arduo...).
D: Bob Dylan, “Bringing It All Back Home”; Robert Wyatt, “Rock Bottom”; Neil Young,
“Harvest”.
M: White Stripes, “Elephant”; Rufus Wainwright, “Poses”; Vampire Weekend, “Vampire
Weekend”.
E: Portishead, “Dummy”; White Stripes, “Elephant”; Bob Dylan, “Highway 61 Revisited”.
Che mi dite, invece, della parte relativa alla stesura dei testi?
D: I testi di “Possibilities” li ho scritti io. Gli spunti non nascono tutti allo stesso modo: a volte
hanno origine da un’immagine, altre da una cosa letta o da una discussione. E poi sono una
discreta lettrice di letteratura per bambini, un mondo ricchissimo di suggestioni, ma ho anche
un’intensa attività onirica! Di solito inizio da una frase che armonizzo già sugli accordi. Poi,
un po’ alla volta, sviluppo il testo di pari passo con la melodia e l’ossatura del brano.
Dopo “Rain From Mars”, vi siete autoprodotti per la seconda volta. Quanto è faticoso
perseguire questa strada e che tipo di feedback state ottenendo per adesso?
M: Organizzare la produzione di un disco è molto faticoso, soprattutto se lo devi fare nel
tempo libero: gli aspetti organizzativi portano via energia e ogni tanto verrebbe voglia di
suonare per se stessi e basta! Quando però vedi che il disco ha un buon riscontro, come
fortunatamente sta succedendo con “Possibilities”, e che circola bene, è un piacere. Anche
perché riesci a portarlo in giro con i live. Così alla fine torni a focalizzarti sulla musica.
E: Riguardo all’aspetto economico, la situazione non è molto diversa per chi sta sotto
piccole etichette: c’è ancora in giro l’idea un po’ “romantica” che le etichette indipendenti
scelgano e coltivino i propri talenti, ma da quello che sento in giro sempre più indipendenti
entrano in scena solo una volta che il disco è registrato e finito, pronto per la promozione e
la distribuzione. Nessun impegno, nessun rischio. Però sicuramente avere alle spalle
un’etichetta rassicura molto sia la band che gli ascoltatori.
Che aria si respira nell’attuale scena vicentina e quali altre band italiane sentite
eventualmente affini?
D: A Vicenza si suona tanto. C’è una scena post-rock molto radicata, attorno alla quale
abbiamo gravitato anche noi, ma a parer mio è poco ricettiva e un po’ chiusa agli stimoli
esterni. Spaziando negli altri generi ci sono Eterea Post Bong Band, Casa, gli Sgrenaisade
di Gi Gasparin - che ha anche suonato nella nostra “Ghost Animals” - e Le-Li, ormai
bolognese di adozione.
M: A livello nazionale ci piacciono le realtà di “A Buzz Supreme” perché ne apprezziamo
l’attitudine sincera. E poi ognuno di noi ha delle band predilette, dai Massimo Volume agli
Zen Circus.
Chiudiamo con due parole sull’artwork, al contempo grazioso e d’impatto.
E: L’idea nasce dal testo di “Ghost Animals” e da alcuni addobbi natalizi. La canzone parla
di un branco di animali selvaggi, con zampe che martellano il terreno, “delicati come la neve
e forti come il ghiaccio”. È un immagine un po’ fiabesca un po’ gotica, che ci piaceva come
metafora della rock band. Dal vivo, infatti, la cantiamo in coro con un’intenzione che Andrea
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Rovacchi ha definito “marziale”!
D: L’idea è poi stata sviluppata da Giulia Orlando di Distillato Design e dal fotografo Claudio
Felline, due artisti vicentini, nonché amici ai quali siamo molto legati. Li ringraziamo ancora
per aver trascorso delle ore a coreografare gli orsetti di legno!
Contatti: www.sarahschuster.it
Elena Raugei
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ADAM FREI
Empty Music Industry
Seahorse/Holier Than Thou
Dalle ceneri degli anglo-italiani Afterglow, autori ormai cinque anni fa del discreto
“Decalogue Of Modern Life”, escono fuori questi Adam Frei, gruppo che riprende dal
progetto precedente le pulsioni Eighties e post-new wave: l'iniziale “I'm On”, ad esempio, è
inequivocabilmente figlia di un'epica appena trattenuta di scuola U2, una dimensione che, un
poco ampliata in direzione di un rock più marcatamente da stadio, riappare in “To My Son”. Il
frontman e bassista Dave Timson ha una padronanza del ruolo piuttosto solida e, pur
muovendosi in un oceano di riferimenti noti, mantiene il sufficiente distacco che gli consente
di restare credibile, e effettivamente canzoni come “Safe Song” sono dotate di personalità,
offrendo all'ascolto una scrittura semplice ma penetrante. Al tutto si aggiunge la ormai
collaudata esperienza di Paolo Messere in cabina di regia, che fornisce all'insieme quella
compattezza di suono e quella ricchezza di sfumature timbriche che rappresentano una
parte fondamentale della riuscita del progetto. Un disco onesto, di rock piuttosto tradizionale,
forse un po' fuori tempo massimo ma comunque di buona fattura.
Contatti: www.adamfrei.net
Alessandro Besselva Averame
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C+C=MAXIGROSS
Singar
Vaggimal/42
L'obbiettivo dichiarato di C+C = Maxigross e Vaggimal Records è quello di costruire una
sorta di psichedelica epopea folk, alpina e campestre nell'immaginario che emerge dalla
confezione e tra le righe della cartella stampa, legata tuttavia a stilemi angloamericani per
quanto concerne i suoni e l'utilizzo della lingua inglese. Insomma, si gioca molto sulla
possibilità di creare un cortocircuito tra suggestioni montanare, folk acido e sunshine pop per
ensemble allargato (vi ricordate i Polyphonic Spree?), ma il punto essenziale, al di là di
qualsiasi manifesto programmatico, è che i risultati dell'operazione sono decisamente buoni
e per niente velleitari, tanto più che le sette canzoni che vanno a comporre questo
mini-album concepito nelle valli veronesi stanno in piedi con piglio sicuro e solido pur nella
caotica atmosfera di festa che le contraddistingue. Gli ingredienti base sono una certa dose
di indolenza (“Low Sir” è a metà strada tra il primo Beck e certe follie collettive da cottage di
campagna, alla Traffic del primo periodo per intenderci, con quei colori blues psichedelici un
po' antichi, e si chiude con una coda cantata in italiano che inizialmente disorienta ma poi si
inserisce perfettamente nel flusso della musica), una predilezione per le trame acustiche e
per cori e melodie a più voci. Vista la durata ridotta, ci piace considerare questo “Singar” uno
stuzzicante antipasto, un'anticipazione di quella che potrebbe essere una portata principale
più ricca e a fuoco. L'importante è non smarrire l'aria artigianale e vagamente sperduta che
rende queste canzoni così godibili.
Contatti: www.myspace.com/cpiucmassagross
Alessandro Besselva Averame
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CATALDO PERRI E LO SQUINTETTO
Guellarè
Rewind/Venus
“In 'Guellarè' c’è uno sguardo narrativo, epico, più che struggente nei confronti del tempo
che passa e della vita in generale. Per questo motivo, più che nostalgia, mi piace definire
questo sentimento con un neologismo : ‘Struggenza’, cioè uno struggimento pieno di
potenza, che bandisce i piagnistei e le lamentele ed esalta, senza retorica, la forza della
bellezza, dell’amore, della vita.” Così parla lo scrittore Carmine Abate del nuovo, terzo
capitolo della produzione musicale del musico e dottore, dedito anche a teatro e televisione,
Cataldo Perri, calabrese DOC, che con il gruppo Lo Squintetto (Piero Gallina, Enzo
Naccarato, Nicola Pisani, Carlo Cimino, Checco Pallone) e con ospiti vari, ritaglia uno spazio
ancora significativo per i colori e i sapori del Mediterraneo. Ma di quel Mare Nostrum che di
nostro ha nell'album “Guellarè” voglia e capacità di incontro, di sorpresa, di contaminazione
che appartiene alla nostra Italia, ma che spesso è dimenticata dietro lo spettro della paura
dell'estraneo e diverso. E invece già dal titolo, “Guellarè”, bambino in arabo, parola che fa
parte stabilmente del dialetto calabrese, dimostra come nella nostra memoria ci sia più di un
colore diverso, ma mai discordante, componendo un arcobaleno che ironico, romantico,
vitale, sognante, carico di “struggenza” ci ricorda tra l'altro con “Guellarè” la lotta alla mafia;
la tragedia passata, il 1974, ma carica di presente, in cui in mare morirono dodici pescatori
nel mare di Calabria; The Social Network, e la nostra epoca carica di solitudini (“Faciepuke”).
Strumenti e sonorità sono cariche ancora e sempre di Mediterraneo, in un album che
godibile scorre, il sapore di estate che lo monta, capace di poter ambire a rompere gli argini
di questa estate i cui segnali stanno scolorendo portando all'autunno, e perché no colorando
e scaldando anche l'inverno che verrà.
Contatti: www.cataldoperri.it
Giacomo d'Alelio
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COMMA
Visionario
MKRecords/Venus
Prolifica la regione Calabria sforna dal suo bacino un nuovo cantautore italiano, che, come
viene reclamato dai lanci stampa, si rivolge anche a sonorità rock di matrice anglosassone.
Di italiana fino in fondo quella “visionarietà” che proprio dà titolo all'album di esordio di
Comma, all'anagrafe civile Pierpaolo Mazzulla: appunto “Visionario”, dieci tracce supportate
dalle parole di Andrea Orlando, che ci scaraventano nella normalità di ogni giorno, che in
quanto tale quando viene ricordata, anche se filtrata dalla poesia, è comunque
sorprendente, ricordandoci come ancora esista. E con il suo visionario “Visionario” Comma
ricorda come a questo mondo l'esclusione da un amore, da una condizione, dalla vita,
introducendosi nel dolore, in poche e spicciole parole dalla propria storia, esista e persista,
portando a ergere con il brano “L'escluso” a eroe contemporaneo ancora una volta quel
“L'uomo senza qualità” di cui l'alone e l'afa circola nell'aria del nostro tempo. Messaggio che
con le trame sonore molto orecchiabili, godibili, a tratti trascinanti, come la voce di Comma
che sale in coinvolgenti crescendi, sembra essere stato ben accolto e compreso, tant'è che
proprio il singolo di lancio “L'escluso” è risultato primo in classifica Download di Mondadori
shop per più di un mese... Alla produzione artistica Valter Sacripanti (Nek, Ivan Graziani,
Eugenio Finardi), batterista nell’intero album. E con imputabili parametri di riferimento
artistico interpretativo Ivan Graziani, Moltheni, Mario Venuti, e perché no?, a tratti i
dimenticati, ma oltremodo compianti, La Sintesi, va la voce e lo stile di Comma, a tratti
incespicando in una voce troppo rotta (sarà perché la traccia s'intitola “Anime”?), ma nella
sua totalità un bell'esordio, piacevole all'ascolto, con la richiesta di star dietro alle parole, e
se si trova poesia, di non storcere troppo la bocca, ma di aprire il cuore.
Contatti: www.myspace.com/ilcomma
Giacomo d'Alelio
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DEAD ELEPHANT
Thanatology
Riot Season
La tanatologia studia le cause ed accertamenti legati al decesso di un individuo, ed analizza
i mutamenti dello stato cadaverico di un corpo. I Dead Elephant, per l’appunto, mutuano il
proprio stato molecolare dopo la furia post-core di “Lowest Shared Descent” - esordio datato
2007 – in umor nero e denso di doom, condensato nei quattro pesanti solchi che
compongono “Thanatology”, disco che segna un periodo di transizione sia dal punto di vista
sonoro che attitudinale, passando alla label inglese Riot Season, che imbastisce per il trio
italiano una produzione ineccepibile. Ne va di conseguenza che il sound venga traghettato
verso i labirintici meandri sabbathiani in cui scorgere la via d’uscita risulta impresa ardua,
non per intrinseco senso opprimente che ammanta le tracce di “Thanatology”, ma per
immutata e povera fantasia di scrittura, fin troppo monocorde e prevedibile nei suoi slanci
saturi di distorsioni e lento incedere, mantenendo comunque una buona dose di denso e
nero doom mefitico, in cui le soluzioni dei Dead Elephant risultano fin troppo prolisse ed
autoreferenziali, sublimate in una nebulosa informe terrificante, ma ormai ammaestrata nel
corso degli anni. La pesante veste doom non calza alla perfezione sulle spalle forti dei Dead
Elephant, e liberarsi delle sue asfissianti gabbie potrebbe rendere il tutto più accessibile
anche verso chi, a questo genere, non è poi così avvezzo. Un vestito adatto per l’occasione
bisogna ancora trovarlo.
Contatti: www.deadelephantband.com
Luca Minutolo
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DO NASCIMIENTO
EP
autoprodotto
Annata da riportare sugli annali per l’emocore italiano, in cui i Do Nascimiento, quartetto di
stanza genovese, sancisce e pone l’ennesimo tassello di un puzzle brulicante e quanto mai
vivo. Un EP, sei tracce titolate con nomi di oggettistica varia che sembrano trafugati dalla
lista di un negozio di casalinghi di provincia, come quelli gestiti da anziani in locali
piccolissimi e dai prezzi imbarazzanti, ricolmi di roba accatastata l’una sull’altra, così come,
in una raccolta così piccola, i Do Nascimiento accavallano l’una sull’altra sensazioni e
pulsioni gettate in download gratuito sulla pagina Bandcamp del gruppo. Una furia emocore
fulminante, arsa da una voce che sembra trafugata dai Blood Brothers registrata su di un 4
piste rovinato e gracchiante, ed un pugno di canzoni q.b. per riversare passioni ed ansie su
nastro. Come nell’apertura “Bicicletta”, in cui quel “sono pronto ad altre mille salite con te”
farebbe sciogliere il cuore di qualsiasi donzella, ed al contempo risulta adatta ad una
dichiarazione d’amore incondizionato verso il proprio mezzo a pedali. Dicotomia perfetta che
racchiude in se tutta la poetica nuda e spicciola dei Do Nascimiento, fatta di simbologie ed
oggetti – per l’appunto – semplici e banali. Un EP vivo e pulsante, dove si possono
distinguere chiaramente i colpi di tosse ed il plettro che grattugia le corde con ignoranza (
l’irruenza acustica di “materasso”), registrato in bassissima fedeltà eppur mai così vicina al
vero, facendo sembrare a tratti che il suono filtri dalla parete accanto. Un'attitudine DIY che
caratterizza gli errori e le imperfezioni di questo EP d’esordio, andando a comporre un
quadro generale che si delinea come caratteristica pregnante del gruppo, piuttosto che come
mancanza di dovizia, da cui i quattro genovesi prendono il proprio tratto d’unione e di forza.
Così lontani dalla tecnica, così vicini al cuore.
Contatti: http://donascimiento.bandcamp.com/album/do-nascimiento
Luca Minutolo
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ELEVEN FINGERS
To Remind You
In The Bottle/Audioglobe
Album di debutto per gli Eleven Fingers, formazione di origine modenese che raccoglie
elementi provenienti da varie esperienze (in primis Fragil Vida, ma anche Fourire, Duner o
Crudelia).
Le voci e il pianoforte di Anna Cavazza e David Merighi contraddistinguono canzoni
comunque arricchite da chitarre (Andrea Grazian), synth, glockenspiel (Stefano Bortoli,
responsabile del mixaggio), basso (Stefano Zerbini) e batteria (Daniele Merighi), senza
scordare l'apporto degli ospiti del caso, tra cui nominiamo almeno Enrico Pasini, già alla
tromba per Beatrice Antolini.
L'apertura con tasti e voce cullante di “Again” può rimandare a certe soluzioni degli ...A Toys
Orchestra, mentre la title track abbina andamento indie-rock e giri di corde vagamente alla
Fugazi, “White Boots” sfodera fiati solari, le più aggressive “Dear Tom” ed “Everything Is Far
Away” alzano il tiro delle elettriche, “Behind Our Best” veste la melodia con arrangiamento di
classe, “One Day” è ballad con echi di Calexico e “Like A Dog Without Bone” chiude con
ampio sipario filo-post. Insomma, “To Remind You” non sarà esattamente un disco
memorabile, ma procede con misurata eterogeneità, valorizzando una band a suo agio nel
maneggiare differenti ingredienti senza perdere mai la bussola. In parallelo con il dispiegarsi
delle note, si parla “di separazioni e di ritrovarsi, di crolli e ricostruzioni, di terremoti e
mancanze, di parole e silenzi”. Per adesso, pollice mediamente alzato.
Contatti: www.myspace.com/elevenfingersband
Elena Raugei
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GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS
General Stratocuster And The Marshals
Horus Music/Audioglobe
Concepito come un vinile, con tanto di lati A e B, questo esordio non è un album che può
passare inosservato. Infatti il quartetto è una sorta di – come si amava dire una volta –
supergruppo, guidato dal chitarrista Fabio Fabbri, noto sessionman e che veste i panni del
General Stratocuster, a cui si sono affiancati il batterista Alessandro “Nuto” Nutini della
Bandabardò, il bassista Richard Ursillo, un pezzo di storia del pop italiano dei 70 (Campo di
Marte e Sensation’s Fix) e l’asso nella manica Jack Meille, cantante di razza, che offre la
sua ugola anche ai Mantra e soprattutto agli inglesi Tygers Of Pan Tang, idoli del metal anni
80. Come dicono loro stessi, è iniziato tutto per scherzo, ad una festa di compleanno, ma poi
la faccenda si è fatta seria e dopo aver suonato al Pistoia Blues dello scorso anno, hanno
deciso di ufficializzare la loro unione con un album. E sin dalla confezione, un digipack con
copertina stile cowboy, questo CD ha tutto per soddisfare gli appassionati di rock classico,
che ama perdersi anche in sonorità più grosse e grasse, con l’Hammond di “All Because Of
You”, i fiati ondeggianti di “Highway” e “Fortunate Son” dei Byrds, unico rifacimento
dell’album e con il piano dal gusto americano di “Sweet Sandy” e “Good Ol’ Time Blues”, se
invece volete un a scarica di adrenalina, ascoltate l’iniziale “Gifts And Gold”. Niente di nuovo,
ma la classe dei protagonisti garantisce una base solida di freschezza, che lo rende
imperdibile per chi ama questo tipo di sonorità. E dal vivo promettono scintille.
Contatti: www.generalstratocuster.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 27
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Numero Settembre '11
HIDDEN PLACE
Weather Station - Early Works
Twilight Records
Forte dei buoni riscontri di critica ottenuti un paio d'anni or sono da "Punto luce", la Twilight
Records ristampa pressoché simultaneamente l'album d'esordio degli Hidden Place "Fantasia meccanica" uscito nel 2007 sotto il marchio Hellektro Empire - e il loro primo demo
"Weather Station" (2005), arricchito con un paio di brani anch'essi risalenti ai primi anni di
vita della band.
L'opera di recupero si rivela encomiabile sia per la qualità di queste ipnotiche composizioni
elettroniche - che emerge a dispetto della produzione artigianale - sia per offrire al gruppo
lucano l'opportunità di farsi apprezzare ancor più all'estero, in particolar modo in Argentina,
dove ha sede l'etichetta che li tiene sotto contratto e dove le riviste specializzate hanno già
avuto modo di encomiarli.
All'epoca dei fatti Fabio Vitelli, Sara Lux, Giampiero Di Barbaro e Antonio Losenno erano
fedeli seguaci dei canoni stilistici delineati dai Kirlian Camera a cavallo degli anni 80 e 90 e
ben definiti da quell'oscuro capolavoro dei T.A.C. che fu "La nouvelle art du deuil" (Discordia,
1995).
Melodie gentili, in un'elegante alternanza di voci maschili e femminili, ritmi cadenzati su testi
in inglese, in italiano e in tedesco; malinconiche visioni che - pur nel sacrificio
dell'innovazione - colpiscono e appassionano.
Contatti: www.myspace.com/hiddenplaceitalia
Fabio Massimo Arati
Pagina 28
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Numero Settembre '11
J.C. CINEL
The Light Of A New Sun
Andromeda Relix/Black Widow
Impresa lunga e non semplicissima quella di tracciare le coordinate della carriera di J.C.
Cinel, sia alla guida o all'interno di altre formazioni che come solista. Meglio concentrarsi sui
contenuti di questo suo nuovo lavoro in proprio, una raccolta di canzoni che hanno il sapore
del rock più classico, stradaiolo al punto giusto, impolverato ma tutt'altro che polveroso. Flirta
col blues Cinel, tinge le sue composizioni di elettricità sudista per poi staccare (almeno in
parte) la spina e mostrarne il cuore acustico e roots, salvo virare ulteriormente e planare
dalle parti della West Coast illuminata dal sole al tramonto. In altre parole, pur muovendosi
all'interno di un ambito stilistico ben preciso, gli undici brani qui contenuti si fanno
apprezzare per la relativa varietà delle soluzioni, senza per questo che la personalità del
padrone di casa smetta di farsi sentire. Da una parte, convince la scrittura, solida e non priva
di riuscite aperture melodiche; dall'altra, piacciono non poco gli arrangiamenti, specie per
quanto concerne le chitarre, nei loro intrecci e negli assolo fulminanti, frutto di una tecnica
notevole sempre però messa al servizio dei pezzi e degli stati d'animo da essi veicolati. E, a
dare al tutto uno spessore ancora più internazionale, i contributi alle tastiere del veterano
Johnny Neel. Ora, va detto, chi tali sonorità non le mastica abitualmente difficilmente si
convertirà grazie all'ascolto di “The Light Of A New Sun”; chi però in certe atmosfere si trova
a proprio agio e, in generale, chi nel rock cerca i sentimenti e la passione più che l'adesione
alle mode e la novità a tutti i costi non potrà che apprezzare.
Contatti: www.jccynel.com
Aurelio Pasini
Pagina 29
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Numero Settembre '11
KARL MARX WAS A BROKER
Alpha To Omega
Escape From Today/A Buzz Supreme
C’è molto da dire riguardo ai pistoiesi Karl Marx Was A Broker, il che è un’ottima premessa
in tempi di passatempi improvvisati senza arte né parte. Trattasi di un duo costituito da
Marco Filippi (basso e amore per funk, prog degli anni 70, metal e jazz) e Gianluca Ingrassia
(batteria e un background a base di indie-rock, new wave, post-punk, disco ed elettronica).
Incontratisi nell’aprile 2009, i due musicisti hanno adottato un bizzarro ossimoro per sigla
sociale ispirandosi alla sconclusionata situazione economica dei giorni correnti. La fusione
delle rispettive influenze ha poi forgiato composizioni strumentali massicce ma al contempo
attente alle sfumature, in virtù di una ricerca del suono individuata non a caso come “centro
nevralgico”. Dopo un omonimo EP che ha innescato numerosi concerti (persino al fianco di
nomi a tratti affini come Zu, Appaloosa o Bologna Violenta), “Apha To Omega” è un esordio
sulla lunga distanza che condensa sin dal titolo l’essenza del progetto, a procedere tra
stratificazioni di corde, drumming roccioso ed effetti, distorsori e amplificatori di vario tipo.
Come se non bastasse, il disco - registrato da Lorenzo Stecconi dei Lento in quel di Roma si presenta in una splendida confezione digipack realizzata da Stefano Piacenti, una sorta di
concept-artwork sulle foto dell’antropologo Cesare Lombroso. Si possono definire un piccolo
colpo di genio, infine, i testi dello scrittore Marco Carlesi, pensati come atipica
rappresentazione visiva dei pezzi.
Contatti: www.karlmarxwasabroker.com
Elena Raugei
Pagina 30
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Numero Settembre '11
KRIKKA REGGAE
Liberati
Etnagigante Ingegni/Goodfellas
Avevo perso i contatti con la Krikka Reggae ormai tre anni fa, quando il precedente lavoro
“Na soluzion” aveva messo in luce ottime qualità. Li trovo quindi con piacere con questo
“Liberati”, prodotto in casa ed uscito grazie alla Etnagigante di Roy Paci, tra l’altro uno dei
molti ospiti presenti nell’album. Non è facile uscire dagli stilemi, ormai consolidati, del reggae
italiano; il successo (relativo, ma notevole) di band come Africa Unite o Sud Sound System
ha come “normalizzato” la musica in levare, per cui distinguersi è più difficile ma essenziale.
L’uso del dialetto lucano va proprio in questa direzione, ma anche una certa vena di poesia
leggera, quella ad esempio della title track, è un elemento nuovo, mai sfruttato appieno in
precedenza. Più musicali e meno militanti, ma questo non vuol dire senza coscienza civile,
la Krikka Reggae riesce a prendere il volo, ed anche gli arrangiamenti più vari rispetto al
passato sono una piacevole novità. Gli ospiti poi, dall’immancabile Bunna fino ai Franziska,
sono un valore aggiunto che fa piacere e non distrae. E sarà anche scontato dirlo, ma in
quest’estate in Italia non è uscito lavoro migliore nel genere.
Contatti: www.krikkareggae.it
Giorgio Sala
Pagina 31
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Numero Settembre '11
LA MUGA LENA
Strani pupazzi umanoidi senza faccia
autoprodotto
La pigrizia è una brutta malattia. E credo che una buona fetta dei fruitori di musica di questo
millennio, soprattutto quelli della vecchia guardia, siano sopraffatti da questa patologia. Sono
infatti prigionieri delle loro lamentale malinconiche: che una volta era meglio, che ieri c’era
più coraggio e via dicendo. Peccato che non vogliano uscire dai loro gusci nostalgici, perché
potrebbero scoprire tanta buona musica, che però richiede un po’ di impegno e di voglia di
capire, elementi che forse essi non hanno più. Prendete questi La Muga Lena: quattro
ragazzi di Messina che sin dal loro esordio omonimo del 2003, hanno avuto l’audacia di
scegliere un percorso impervio, fatto di saliscendi e strutture musicali dai connotati variegati.
Quindi tante e non sempre identificabili le influenze dei La Muga Lena, che con questo CD,
un concept dedicato alla loro città, giungono al quinto lavoro, ma “Strani pupazzi umanoidi
senza faccia”, è anche la loro opera più coraggiosa e matura: un frastagliato viaggio
psichedelico tra Hawkwind e Swervedriver, con impennate hard progressive e non mancano
riferimenti alla cosmic music tedesca, con tappeti di synth e percussioni. Un sarcasmo
solare, affianca una vincente imprudenza, che genera otto canzoni di spessore, con le due
gemme malate di “La morte di Abu Mazen” ed “Ester Coraro”. Musica per menti aperte e
ricettive.
Contatti: www.myspace.com/lamugalena
Gianni Della Cioppa
Pagina 32
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Numero Settembre '11
LABRADORS
The Roger Corman EP
Il Verso del Cinghiale
Nato dalle ceneri dei Suinage, il trio dei Labradors ha poco più di anno di vita. Un gruppo di
indie-pop che sogna di essere trasmesso da una college radio negli anni 90, prima dei
Pavement e dopo i Weezer con in mente Burt Bacharach, come nella equilibrata e sfavillante
al tempo stesso “Just To Begin” che ha i colori giusti, se questo è davvero il loro intento. Un
buon risultato per iniziare, che li porta a mettere sul piatto una certa spontaneità che è innata
spesso e volentieri, come sembra nella fresca e lucida “Hawaii”. Posso essere chiunque ed
essere in qualunque posto se solo lo desiderassi, sembrano dire positivamente. Così ci
ritroviamo in un luna park a mangiare zucchero filato o in una stanza piena di poster dei
nostri eroi con le spillette che riempono il nostro zainetto. “Roger Corman” è il titolo del loro
primo EP che esce per Il Verso del Cinghiale, prima solo su vinile e poi su CD. La voce di
Filippo Colombo ci riporta in mente vecchie glorie, ma dopo un po’ che la sentirete potreste
percepire che non è solo una bella foto sbiadita dal tempo ma è anche tanto altro. Il suo
passaggio attraverso il mezzo con cui conoscerete il suono di questo disco, rimane nell’aria
e si adagia come una farfalla su un fiore. Un album leggero e perfetto per spazzare via i
malumori. Le loro influenze di matrice americana e inglese di fine anni 70 li stanno portando
a crescere insieme come gruppo per portarsi verso il traguardo dell’originalità. Oltre Filippo
alla chitarra e voce, Fabrizio Fusi suona il basso ed è alla seconda voce e Filippo Riccardi è
alla batteria.
Contatti: www.myspace.com/labradors666
Francesca Ognibene
Pagina 33
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Numero Settembre '11
LE BORG
Einstein 2012
Videoradio/Self
Così come la musica dei Le Borg è indissolubilmente legata all'elettronica tedesca degli
anni 70, l'immaginario del loro nuovo album è pervaso dal sentore escatologico, che in
quell'epoca era giustificato dal terrore atomico e che oggi si fonda non solo sulle
problematiche ambientali del nucleare ma anche sulle varie teorie relative alla fine del
mondo; tra queste la profezia dell'inversione dei poli terrestri nel 2012, nota anche ad Albert
Einstein.Sostituito Felice Lechiancole con il percussionista Francesco De Chicchis, la band
propone tredici nuovi episodi strumentali, a tratti segnati da interventi di vocoder.
Gli
intrecci sonori elaborati dal terzetto (Paolo Di Cioccio e Ivano Nardi completano l'organico)
sono scanditi da una ritmica spesso incalzante, ai margini della dance music, su cui
sequencer e sintetizzatori tessono enigmatiche armonie.
Un lavoro questo secondo del gruppo romano che non definisce certo nuove rotte
espressive ma piuttosto vive egregiamente nella sua ortodossia stilistica.
Contatti: www.paolodicioccio.it
Fabio Massimo Arati
Pagina 34
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Numero Settembre '11
LE CLUB NOIR
Le Club Noir
Mono
Giovani son giovani i componenti de Le Club Noir, gruppo che nasce nel 2007 per mano e
voglia di Gianluca Veronal (voce/chitarra) e Joe La Iena (basso), a cui si uniranno l'anno
seguente Federico Toma alla batteria e ai cori, e Lord Byron Vivona al piano, synth e cori.
Età media ventidue anni, che con entusiasmo (ovvio!) presero l'interesse di una major non
ben identificata di pubblicare la loro opera prima, disponibilità passata poi nel dimenticatoio
con eccessiva nonchalance come spesso capita, tanto da spingerli ad autoprodursi
nell'uscita del loro album omonimo, una croce nera sulla copertina, per onorare la corrente
artistica suprematista di Kazimir Malevich, autore nel 1915 proprio della “Croce nera su
fondo bianco”. Nome della band dettata dalla passione di Veronal per il cinema di Hitchcock
e ai film noir, pop infarcito di rock'n'roll, Le club noir per ora si aggira per lo più in tournée
nell'hinterland milanese, come si può vedere nel loro sito, e ha dalla sua una freschezza e
immediatezza energetica, contro però all'ingenuità che ne deriva in pezzi che
entusiasticamente vanno, ma forse un po' troppo. Amore che attraversa i nove pezzi (otto
più ghost track), rivolto a più livelli e piani di interesse, tra la vita, suoi derivati, e l'amata
oggetto non bene identificato ma ben presente e spesso distante, nella cui attesa si spera
struggenti. Seguiti fin dall'inizio dal produttore Enea “Il Conte” Bardi, che li ha accompagnati
negli arrangiamenti e nella ricerca del suono, con il contributo di Andrea Rock di Virgin Radio
in “Quelli Come Noi”, e con i Ministri in “Il Bel Paese”, conducono i 35 minuti di metraggio e
durata dell'album, che ha nel pezzo di apertura, proprio “La croce nera”, la sua linea d'intenti,
e di volontà di provarci fino in fondo, come dimostra quando dice “la croce di chi ci crede
ancora e non si dà pace...”. Chapeau per la grinta e la voglia di intraprendere la strada e
farlo in tutti i modi, con convinzione, e di sicuro con questo punto di forza a loro merito
potranno crescere ancora, spaziando e osando sempre di più in tematiche e sonorità, non
cadendo in versi come “il Bel Paese non ci merita..., il Bel Paese sogna l'America...”,
dimostrando come l'episodio della major scotti parecchio, ma non poteva essere altrimenti (e
come dargli torto...), in attesa della prova del nove della seconda, augurata, uscita.
Contatti: www.leclubnoir.com
Giacomo d'Alelio
Pagina 35
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Numero Settembre '11
LEIBEI
In cauda venenum
autoprodotto
Impatta grezzo, con aperture in trame di velluto più paziente e morbido, come non può che
essere l'attesa e il rimpianto d'amore contenuto in “Nessun momento”, l'opera prima di Silvia
Raggetti, Serena Sacchetti ed Erica Martini, bolognesi DOC, che nel 2006, stanche di far
cover con la loro precedente band, le Daffoldis, diventano le LeiBei (“bei” in dialetto veneto
“bevi”...), per perdersi in un rock indie alternativo, con attacchi di stoner, genere portato dalla
presenza alla lavorazione dell'album “In cauda venenum” di Riccardo Brusori (già con i
Sideroxylon) alle batterie, con l'altra presenza di peso di Cristiano Santini (ex Disciplinatha,
già collaboratore e produttore dei C.S.I.), che, registrando, mixando, masterizzando il tutto
nel suo Morphing Studio, ha dato una mano importante a rendere compatte le loro canzoni,
che, come ammettono, è “ruvida, immediata, malinconica”, una miscela appunto di
“alternative rock, stoner, grunge, ma ascoltiamo anche cantautrici/cantautori italiani”. Undici
tracce che scorrono veloci, parole e suoni che picchiano, anche quando accarezzano un
ricordo, attaccando con temi che trasversali vanno a toccare politica, denuncia sociale,
intima rivendicazione e nostalgia. A parte l'incursione english in “Sticky Man”, cantate in
italiano, omaggiato prendendo una poesia di un nostro grande, Salvatore Quasimodo, “Alle
fronde dei salici”, che qui diventa la conclusiva “Alle fronde”, un viaggio sonoro, ancora
nell'insegna dell'impegno, contro la guerra, che solo la poesia è capace di trasmettere, fiera,
immediata e necessaria. Aperto con un battito d'ali carico di tornado come quello contenuto
in “Sussurro di ali”, guardando oltre oceano, ma col cuore vicino, in “Argentina mon amour”,
graffiando ironico e sprezzante con “Gringo”, fanno ben sperare per i prossimi appuntamenti
le LeiBei, di certo non da aspettare comodamente in poltrona.
Contatti: www.leibei.it
Giacomo d'Alelio
Pagina 36
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Numero Settembre '11
LEMMINGS
Teoria del piano zero
La Grande Onda/Audioglobe
“Teoria del piano zero” è il secondo album dei romani Lemmings, e le canzoni che lo
compongono sono riferibili ad un rock un po' generico che denuncia ascolti anni 90 e
frequenta un cantautorato un po' ombroso con qualche accenno di retorica folk, irrobustito
da chitarre angolari e solide ma tutto sommato rassicuranti, apprezzabilmente senza fronzoli
da un lato ma contemporaneamente privo (eccessivamente privo) di sfumature. Un disco
che definiremmo onesto, senza troppe pretese, che non riesce quasi mai a scrollarsi di
dosso del tutto un immaginario già percorso. Poco male, se a bilanciare determinate scelte
stilistiche ci fosse una scrittura particolarmente brillante od originale. Così non è: come
abbiamo detto su questo disco troviamo della musica onesta ma sostanzialmente povera di
guizzi e scarti, anche se brani come “Laura”, una ballata vagamente alla De André, appena
sporcata di elettricità, o la veloce folk-punk “E così sia”, sono senza dubbio dotati di
personalità ed espressività. Condizione sufficiente per avere qualcosa da dire e dirla con
convinzione. Insufficiente, nel complesso, per offrire una musica appetibile e capace di
suscitare curiosità, al di là della inequivocabile sincerità di fondo.
Contatti: www.facebook.com/pages/Lemmings/118828245561
Alessandro Besselva Averame
Pagina 37
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Numero Settembre '11
MANETTI!
Manetti!

Sangue Disken
I Manetti! (con il punto esclamativo, per non distinguerli dal famoso duo di registi romani),
sono una band comasca dedita al post-rock con escursioni vocali nei territori di una
slacker-new wave che potrebbe regalare qualche momento di felicità all’ascoltatore casuale.
Esistono da un po’ di tempo ma il loro MySpace non sembra regalare molte informazioni a
riguardo. Poco male. Atteniamoci a quanto c’è in questo disco omonimo. Un lavoro che se
da un lato rivela una onesta mancanza di ambizione e, quindi, una mancanza di
pretenziosità, dall’altro ha l’indubbio pregio di lasciar trasparire una certa onestà. Si sente
sono canzoni fatte per amore di un certo tipo di musica e un certo tipo di sonorità e attitudini.
Non c’è niente di male, per carità, come non c’è niente di male nel registrare, uscire e
rimettersi al giudizio della critica perché in effetti è anche giusto sapere cosa se ne può
pensare fuori dal circuito degli amici. Ora: il problema è che da queste canzoni non si deve
pretendere più di quanto già non ci sia. Una scrittura pulita. Un’esecuzioni calligrafica. Una
ricerca diligente ma, a conti fatti, compilativa. “!” è il lavoro di chi ha ascoltato troppi
Explosions in The Sky e troppi Modest Mouse e, folgorato sulla via della new wave, ha
cercato di riprodurne una versione in sedicesimi.Questione di esigenze.
Contatti: www.facebook.com/manettimanetti
Hamilton Santià
Pagina 38
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Numero Settembre '11
MARYPOSH
La luna insegue il sole
Totally Unnecessary Records
Non sono in grado di dirvi se la collaborazione tra i Maryposh, che si erano già distinti con
un mini-CD un paio di anni di anni fa e la cantante/polistrumentista Veronica Marchi (due
applauditi all’album all’attivo, numerosi contributi a spettacoli teatrali e molto altro) sia una
situazione conveniente a entrambi o il risultato di una vera scintilla creativa, scoccata in
qualche modo. E questo nonostante io sia un concittadino delle due parti, a dimostrazione
che nel caos dell’attuale panorama, anche restare sintonizzati con la semplice scena
musicale locale, è impresa praticamente impossibile. Detto ciò, prendiamo atto che,
qualsiasi stimolo ci sia alle radici di tale incontro, il risultato ha giovato ad entrambi: la band
ha acquistato quella sicurezza interpretativa che forse prima mancava, mentre la Marchi si è
alleggerita e può fornire un’immagine di sé meno seriosa e più rock, con il risultato che le
dodici tracce che addobbano questo esordio sulla lunga distanza, dicono che i Maryposh ora
sono in grado di spaziare dal riff solido di “Angelo nero” che apre l’album, all’indie rock di
“Guinzaglio”, “Vino rosso” e “Odio e ragione” che rievoca rimandi di CocoRosie e – strano a
dirsi – Blur, fino a certe ballate alla Jeff Buckley, dove l’impronta della nuova cantante
appare lampante. Una possibile hit? Io punterei su “Gelosia”. Ascoltateli, l’impressione è che
i Maryposh siano veramente motivati.
Contatti: www.maryposh.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 39
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Numero Settembre '11
MUSIC FOR NO MOVIES
Violent Zen
Fluttery
Forse non si potrà parlare di “scena” bolognese, ma certo è che Federico Fantuz – ai più
noto come chitarrista di Beatrice Antolini - qualche analogia con il concittadino
“massimovolumiano” Egle Sommacal ce l'ha. A partire da un interesse, la chitarra, talmente
pressante da trasformarsi in un progetto solista vero e proprio, un po' per sancire uno spazio
creativo libero da legacci, un po' perché la sperimentazione sul suono è evidentemente un
chiodo fisso per entrambi. 
Fantuz, diversamente da Sommacal, vira però verso una
contemporaneità cinematica e trasversale, tanto da arrivare a definire Music For No Movies
come un “progetto a rovescio composto da tracce 'orfane', pensate come colonna sonora, in
cerca della loro 'maternità. Un modo intrigante per sottolineare come i richiami stilistici di
“Violent Zen” siano contestualizzabili alla bisogna e tra i più disparati, fatta eccezione per un
Brian Eno sottotraccia che sembra caratterizzare un po' tutta l'opera.
In questo
senso crediamo debba essere letto il mosaico in reverse di un brano come “Earth Job” e il
blues ancestrale di “The Dog And The Downpour”, la frontiera sudamericana di “Fire & Sky”
e l'ambient vagamente fennesziana di “Arvo Moon”, le liquide densità di “Waterquake” o
l'Oriente sospeso di “Air Games”. Come un fluire strumentale che narra una storia ancora da
scrivere, in un disco concentrato soprattutto sul mood.
Contatti: www.myspace.com/musicfornomovies
Fabrizio Zampighi
Pagina 40
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Numero Settembre '11
PIER FOSCHI
Pier Foschi
Sounday
Il nume che tutela l’esordio a proprio nome di Pier Foschi è Piero Umiliani. Il grande
compositore, autore di colonne sonore memorabili, ha ispirato il batterista con il celeberrimo
“Mah-Nà Mah-Nà”, risalente al 1968 (dal film “Svezia, Inferno e Paradiso”). Le dodici tracce
messe in fila da Foschi sono godibilissime. Il primo motivo risiede probabilmente nella
percezione netta che egli stesso ne tragga parecchio diletto. Sono la batteria e la voce i
protagonisti assoluti di questo disco, che vede il musicista per la prima volta fare ditta col
suo nome dopo venti anni dietro casse e piatti per conto di Jovanotti, Terence Trent D’Arby,
Celentano, Pelù e molti altri.
Come dice lo stesso Foschi, che è l’artefice di gran parte dei suoni dell’album, “voce e
batteria vengono impiegati come dei matti solitari che si sostengono a vicenda”. Un connubio
fatto di reciproche influenze. Voce utilizzata in modo percussivo, e percussioni piegate in
forme vocalizzanti. L’uomo-tamburo declina con mezzi sobri, e magistrale controllo, le tinte
cangianti di una tavolozza che sfuma di volta in volta verso jazz, soul, funky, lounge, samba.
Si passa quindi dalla davisiana “Daba Dabà” (Maurizio Piancastelli alla tromba), alla
brasilera “E.B.”; in “Penso a Prince” (Filippo Trincati alla voce) lo scat onomatopeico è un
mantra ritmico ossessivo: groove a palate. In “Questa vecchia batteria” – che ricorda certe
vecchie scorribande dei Weather Report – le parole ricalcano la filastrocca “Nella vecchia
fattoria”. “Bo Boom Bom” è insolente e negroide, “7+” è una bossa elegante che potrebbe
essere emersa da un film di altri tempi (ecco, vedete Umiliani?). Bravo Foschi, un
divertissement intelligente.
Contatti: www.pierfoschi.com
Gianluca Veltri
Pagina 41
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Numero Settembre '11
PLAYONTAPE
A Place To Hide
La Rivolta
Nella biografia che i Playontape pubblicano sul loro sito web si può leggere: “figli di un
rapporto con l’immaginario new wave fiorito negli Eighties, e che ritorna oggi fondendosi con
il rock post-moderno”. C’è un po’ di confusione. A leggere Simon Reynolds, la new wave era
esattamente specie di corrispettivo musicale del post-moderno. Inoltre, il post-moderno
rappresentava – tra le altre cose – l’idea che la storia fosse destinata a ripetersi due volte:
prima come tragedia, poi come farsa. Ecco. Se il post-moderno era già una farsa della
storia, il post-moderno di un post-moderno cosa diventa? Grande farsa? Post-farsa? Non so.
Come detto, c’è parecchia confusione. Non musicalmente, invece. In questo, i Playontape
sembrano sapere già benissimo dove e come guardare. La loro nota spiega, effettivamente,
tutto. Sono canzoni che si rifanno alla componente revivalistica di quella new-new wave che
ai tempi aveva fatto gridare gli amici gonzi del “New Musical Express” al miracolo di una
nuova età dell’oro per la musica pop. Ora i negozi stanno chiudendo, i dischi non si
comprano più e forse investire dieci euro in una copia carbone degli Editors non è
esattamente al top delle esigenze dell’ascoltatore appassionato. Che poi, intendiamoci, è
sempre il solito problema. È anche roba degna di essere ascoltata – per esempio, una
canzone come “To The Other Side”gli Editors se la sognano – ma che non trova un’attuale
collocazione o un senso specifico al di là del bel compitino nell’effettivo e incasinatissimo
panorama contemporaneo.
Contatti: www.playontape.it
Hamilton Santià
Pagina 42
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Numero Settembre '11
RAEIN
Sulla linea d'orizzonte tra questa mia vita e quella di tutti
autoprodotto
Eravamo rimasti al in attesa trepidante di un disco nuovo del sestetto forlivese dallo scorso
numero, e torniamo a distanza di un paio di mesi dalla raccolta “Ah, As If”, con le aspettative
pienamente ripagate. Tre anni trascorsi da quel “Nati da altri padri” che dal basso aveva
scosso le fondamenta della scena alternativa italiana, dieci anni dall’esordio omonimo, e nel
mezzo singoli sterminati seguiti da tour estenuanti, tra (poche) date italiane e (incessanti)
concerti all’estero, il quarto disco giunge sottovoce in download gratuito ma anche in una
limitata edizione su vinile. Anzitutto “Sulla linea d’orizzonte tra questa mia vita e quella di
tutti” custodisce già da titolo una linea netta tra passato e presente, ovvero l’utilizzo
esclusivo della lingua italiana. Qui però sommersa da un onda indomabile di strati
chitarristici e squassata da un growl che riesce a malapena far scorgere le liriche dense di
pathos ed angosce esistenziali, sommerse da una sezione ritmica serrata. Eppure tutto
l’insieme risulta, se pur coperto dal solito mood lo-fi verso cui i Raein sono totalmente devoti,
più aperto nelle proprie soluzioni, che tra questi solchi ammiccano alle aperture emocore
fatte di accordi intensi intervallati da cavalcate trascinanti, lasciando intravedere bagliori
laddove nei dischi precedenti non ve n’erano. Un passo in più verso un attitudine
“emozionale” nella sua accezione più pura del termine, ovvero di cavalcate hardcore a cuore
aperto, come nella salita da nodo in gola di “Nirvana”, corollata da liriche che spurgano
passione da ogni ferita (“innescheremo la macchina della volontà, per porci domande che
spostino cattedrali/affinché tutto accada di nuovo oltre che nulla vada perduto”), o
nell’incedere trascinante di “Costellazione secondo le leggi del caso”, questo disco solca una
linea netta e precisa che attraversa tutte le dieci tracce che lo compongono, legate da un
senso di apertura e liberazione definitiva. Non più la furia grindcore di un tempo, ma in
questa veste i Raein riescono a far ancora più male di quanto non abbiano mai fatto in
passato, sublimando in una catarsi collettiva ogni singola goccia di sangue che tracima da
questo disco.
Contatti: www.raein.eu
Luca Minutolo
Pagina 43
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Numero Settembre '11
REVGLOW
9th Chrysalis
KrisaliSound
A nemmeno un anno di distanza da “Digital Frame”, album con cui il personalissimo
progetto Apart riceveva nuova linfa e il nostro plauso, torniamo a parlare di Francis M. Gri. Il
polistrumentista di Pordenone ha infatti approfittato del periodo estivo per dare alla luce il
secondo lavoro dei RevGlow, come sempre accompagnato ai microfoni da Lilium, figura
nota dell’underground milanese, nome naif e voce di rara purezza. “9th Chrysalis”, secondo
disco del duo e seguito di “Liquid Pearls” del 2009, è l’eccellente risultato della loro
particolare alchimia, una fusione che nella sua articolata amalgama sonora, riesce a
mantenere distinti i tratti di ciascuno. Francis e Lilium sono due mondi affini ma fortemente
caratterizzati e lo dimostrano di brano in brano, quando tra tappeti di synth e beat sgranati,
la voce vola alta e si insinua in ogni dove; il pianoforte non la insegue e si limita a disegnare
su spartito 4 mura e un tetto in cui ospitarla. Illuminanti in tal senso “Out-Side” e “Chrysalis”,
per altro già presentate nell’interlocutorio “Chrysalis EP” dello scorso febbraio. Numerosi
sono i riferimenti a cui l’ascoltatore distratto può appigliarsi: l’eterea presenza dei Cocteau
Twins, la ruvidezza del trip-hop di Ruby, la pulizia melodica dei Saint Etienne, sprazzi di
Emiliana Torrini. Tutti pezzetti di storie musicali, importanti o meno, sicuramente di carattere,
che nelle mani dei RevGlow, rifioriscono e si rinnovano. L’album si chiude con “Invisible” ed
invisibile ma presente è la promessa di un progetto in costante evoluzione, da seguire con
attenzione e ancora di più, con piacere.
Contatti: www.myspace.com/revglow
Giovanni Linke
Pagina 44
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Numero Settembre '11
TEMPLE OF VENUS
Messiah Complex
autoprodotto
Nati a Bologna nel lontano 1984, i Temple of Venus sono una band a cavallo tra la
leggenda e l’anonimato e credeteci, è un vero peccato. Il loro nuovo album, “Messiah
Complex”, seguito del precedente “Endless?” (2003) e di un promo del 2004 intitolato
sorprendentemente “Promo 2004”, è il frutto di quattro anni di lavoro e una formazione
oltremodo essenziale, con il fondatore Piero Lonardo e Alessandro Montillo quali unici
testimoni di una modesta ma felice rivoluzione sonora. Le vere rivolte sono quelle che non
fanno clamore ed ecco perché a sentire la sequenza di brani contenuti in questo album, si
coglie una sensazione di già sentito mista ad una eccitazione tipica di chi sa scorgere del
nuovo e del bello nei dettagli. È vero: le influenze paiono eccessivamente smaccate, tutte
riconducibili a quell’unico, onnivoro e smisurato cappello che risponde al nome di new wave
inglese, ma al tempo stesso sono evidenti gli innesti personali, le evoluzioni che ne fanno un
disco ben sopra la media. L’impressione è che siano riusciti con un piede a tenere aperta
una porta affacciata sul passato (o sul portone della Factory Records), intenti con le mani a
a coltivare il presente. Non tutte le canzoni in scaletta sono state baciate dalla musa con pari
generosità e faremmo volentieri a meno di sapere che si tratta di un concept album, ma
concedendo a “Messiah Complex” più di un ascolto casuale, sarà facile perdonare qualche
ingenua ridondanza. Brani come “Goodnight”, “Anything Inside Me” o la conclusiva “Tonight
Can Be Done” meritano tutta la vostra attenzione.
Contatti: www.templeofvenus.it
Giovanni Linke
Pagina 45
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Numero Settembre '11
THE CYBORGS
The Cyborgs
INRI/Audioglobe
L'idea di base è semplicissima, al limite del didascalico: suonare il blues elettrico con un
piglio d'altri tempi (la fine degli anni Sessanta ad esempio) facendolo passare attraverso il
filtro dell'elettronica, con synth che fanno il verso alle chitarre, voci deformate, impianti ritmici
che suggeriscono una jam tra Jack White e Daft Punk. L'esordio dei piemontesi The Cyborgs
è esattamente questo, prendere o lasciare. Chi scrive prende con il beneficio del dubbio (che
senso può avere una operazione del genere nel 2011, e quanto potrà durare il gioco senza
sembrare già sentito? Questione destinata probabilmente a restare aperta), ma prende
senz'altro, perché l'esordio dei Cyborgs è fresco, ben scritto, solido, e ascoltando tutti i brani,
uno dopo l'altro, quella che inizialmente pareva una pur divertente velleità assume le forme
di qualcosa di più articolato e ricco di sfumature. A volte (“Human Face”) il gioco viene fuori
fin troppo facile e derivativo, altre volte (il più delle volte, a partire dall'autoreferenziale
“Cyborg's Boogie” messa in apertura) funziona bene. Certo, non sono i Black Keys prodotti
da Danger Mouse, ma non nutrono neppure un'ambizione del genere, e sanno il fatto loro. In
coda troviamo anche un paio di remix che nulla aggiungono a quanto detto
precedentemente, limitandosi a ribadire l'assunto di fondo con minore efficacia.
Contatti: www.thecyborgs.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 46
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Numero Settembre '11
THE ROCK'N'ROLL KAMIKAZES
Tora! Tora! Tora! (Tora!)
Volume!
Personalmente apprezzo moltissimo la sincerità di Andy MacFarlane: siccome le cose con
gli Hormonauts sono congelate - scioglimento? pausa? - uno come lui poteva fare il
disoccupato o mettere su un’altra band. Per sua fortuna, e per il nostro piacere, ha scelto la
seconda opzione, ed ecco quindi i Rock’n'Roll Kamikazes ed il loro esordio “Tora! Tora!
Tora! (Tora!)”. Un disco registrato in cinque giorni che ripropone senza troppe variazioni
quella che è La formula di Andy: rockabilly che flirta col punk che gioca con Elvis.
Praticamente una formula magica per ballare, bere e far casino ai concerti, che sono poi il
vero fulcro di questa band. Band che comprende anche Guy (Specialisti) al sax, Peppe e
Nico (Gatta Molesta) Kamizake alla sezione ritmica, ed è proprio il sax e l’armonica di Guy il
vero valore aggiunto di una band nata da poco ma con un’esperienza alle spalle come pochi
in Italia. Qual’è il retro di questa bella medaglia? Che di nuovo, se escludiamo l’inserimento
dei fiati, c’è quasi niente, ma in fondo se una formula è perfetta perché cambiarla? Questa è
la lezione dei Ramones, ed Andy e soci l’han capita davvero bene. E ora bando alle
chiacchiere, via alle danze!
Contatti: www.myspace.com/therock-n-rollkamikazes
Giorgio Sala
Pagina 47
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Numero Settembre '11
THEGIORNALISTI
Vol. 1
Boombica/Goodfellas
Il piglio è quello di un gruppo “bitt” dei nostri anni Sessanta, con qualche ascolto chitarristico
indie in più e, naturalmente, tutto il citazionismo più o meno inconsapevole dovuto al fatto
che l'esordio dei Thegiornalisti è targato 2011 e non 1968. “Una canzone per Joss” crea un
legame tra la scena italiana indie partorita dal nuovo millennio e infatuatasi ad un certo punto
dell'italiano e il primo Battisti (quello che, per l'appunto, scriveva i pezzi per i gruppi “bitt”),
ma non è l'unico brano che tratta le radici con il dovuto rispetto e la dovuta umiltà, e,
soprattutto, non è neppure il brano più originale del lotto: prendiamo, ad esempio, il basso
alla Minutemen che dà il via alla adeguatamente post-punk “E meno male”, la quale si apre
improvvisamente ad un ritornello melodicamente italico che più italico non si può (viene in
mente certo cantautorato anni Settanta). Altrove è invece il passato a vincere a man bassa,
come in “E allora viva!”, lento dal sapore bandistico un po' torch song e un po' ballata,
iperclassica nell'incedere e nella scelta delle melodie. Il resto di questo “Vol. 1” non è
altrettanto impressionante, ma la freschezza complessiva gioca tutta a favore del quartetto,
e ascolto dopo ascolto quel che resta in memoria supera abbondantemente gli episodi che ti
scorrono addosso. A conti fatti, un esordio più che discreto, scaltro e ispirato in egual
misura.
Contatti: www.thegiornalisti.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 48
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Numero Settembre '11
TM SKY
Carne al vento
Peter's Castle
Da ormai quasi dieci anni (si sono formati nel 2002) gli emiliani TM Sky mescolano
chitarroni metal, elettronica, rock, tastiere vagamente prog e voce femminile cantilenante alla
ricerca di un sound personale. Il risultato, su questo “Carne al vento”, ricorda nei momenti
peggiori un incrocio tra i Prozac + e gli Evanescence, in quelli migliori quella visione rock
casereccia (in senso buono, a scanso di equivoci) propria di gruppi come
Üstmamò'inserto funk-metal con tanto di basso slappato che parte a due terzi del
brano, tecnicamente pregevole ma privo di un sano senso della misura), un'anima che salta
fuori di tanto in tanto ma non riesce ad avere il sopravvento sul resto. Resto che si
manifesta, prendendo il sopravvento, attraverso chitarre epiche e tastiere solenni, oppure
trasformando le interessanti idee di parten meriterebbe approfondimento adeguato, il taglio
obliquo di certe soluzioni in primo luogo, e molte (troppe) divagazioni strumentali che per chi
scrive sono tecnicamente complesse ma davvero poco comunicative. In breve, c'è ancora da
lavorare parecchio, ma i risultati sono, con un po' di sforzo, a portata di mano.
Contatti: www.myspace.com/566420882
Alessandro Besselva Averame
Pagina 49
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Numero Settembre '11
UGO MAZZEI
Mezzogiorno o giù di lì
Interbeat/Egea
Ugo Mazzei possiede la generosità dell’artigiano paziente e genuino. Dote di quei
songwriter cavallereschi che non hanno paura delle cose semplici. Siracusano, al secondo
album dopo “Pubblico e privato”, lavoro – quello – nel quale assai più che in questo si
avvertivano semi un poco acerbi della chanson d’Oltralpe, oggi Mazzei è folgorato sulla via
di un folk-rock di stampo americano, da una parte. Dall’altra, continua ad attingere linfa dalla
poesia di Garcia Lorca. Sicilia e Andalusia. “Miracolo a Compostela” è canzone di
sperdimento ed esilio; in “Feste gitane” c’è “Cordova che si specchia nel Guadalquivir”. Lo
stampo, in generale, è piuttosto classico, più pop che indie. A rischio di qualche cliché di
troppo, o di qualche aria che sa di déjà vu. Ma la crescita di questo cantautore – dal quale
attendiamo una svolta di ancora maggiore personalità – va comunque salutata con piacere.
Le sue storie contengono personaggi singolari, come Marilina (“briscola sesso e naftalina”);
in “La notte sempre accesa”èà che accoglie e non giudica.
Mazzei, che già si definiva “un cantautore di musiche senza frontiere”, è cantastorie di una
Sicilia a stelle e strisce, con una scrittura che si situa tra un Bubola e un Pollina, con qualche
spruzzata di Locasciulli.
Un’efficace sezione ritmica può contare sulla batteria di Derek Wilson e sulle percussioni di
Toni Cercola.
Contatti: www.myspace.com/ugomazzeiband
Gianluca Veltri
Pagina 50
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Numero Settembre '11
Voci per la libertà
Stadio di rugby, Villadose (RO), 21-25 luglio 2011
Uno pensa che i diritti umani non abbiano schieramento politico, e che il buon senso possa
prevalere sugli interessi e le polemiche di partito. Un'utopia, purtroppo. Almeno da queste
parti. Basti pensare a ciò che è successo a Villadose in occasione della più recente – la
quattordicesima – edizione di “Voci per la libertà”, festival rock incentrato proprio sui diritti
umani e patrocinato da Amnesty International. Già al momento dell'annuncio del vincitore del
premio “Una canzone per Amnesty”, Simone Cristicchi con “Genova brucia”, la locale
amministrazione comunale ha voluto prendere le distanze dal riconoscimento perché,
secondo l'assessore alla Cultura Ilaria Paparella (area di appartenenza: centrodestra), il
testo della suddetta rifletterebbe un unico punto di vista, col risultato di accendere
ulteriormente gli animi e rinfocolare le polemiche. Una motivazione semplicemente
allucinante: già che ci siamo, allora, perché non smettere di parlare anche di Monte Sole o di
Sant'Anna di Stazzema? Ma tant'è, e tanto basterebbe. Invece no, perché a kermesse
terminata un locale esponente del Pdl, Vittorio Novo, ha richiesto a gran voce la creazione di
un comitato per l'abolizione del festival, sottolineandone “l'inutilità culturale per Villadose”, in
quanto “manifestazione prettamente sinistra” (sic). Ragionamento discutibile – sarebbe
come dire che Messi è un brocco perché non gioca nell'Inter – e che volutamente dimentica
come negli ultimi anni Villadose sia assurta agli onori delle cronache nazionali proprio grazie
a “Voci per la Libertà”. E però, nonostante tutto, gli organizzatori – a cui va tutta la nostra
solidarietà – non sembrano essere disposti a cedere, tanto che siamo certi l'evento avrà
luogo anche il prossimo anno, al limite in una sede diversa. Perché si tratta di una realtà
importante e dalle basi solide, un appuntamento ormai imprescindibile per l'estate rock
italiana. Così come è importante il concorso per band che ne rappresenta l'ossatura, e che
ha visto quest'anno il romano Areamag, cantautore dallo stile multiforme e dalla spiccata
teatralità, aggiudicarsi il “Premio Amnesty emergenti” con il brano “Tana libera tutte”,
incentrato sui temi della prostituzione e dell'immigrazione dai paesi dell'Est europeo. Il
premio della critica è invece stato appannaggio degli istrionici Puntinespansione, mentre
quello del pubblico ha avuto come vincitori gli Heza e il loro roccioso rock d'autore. Un
terzetto di proposte di livello notevole, così come non sono affatto dispiaciuti gli altri due
finalisti, i metallici (ma non per questo privi di raffinatezza) Repsel e il teatro-canzone di
Emanuele Bocci; bei nomi, più forti, con la loro musica e le loro liriche, dell'ipocrita chiusura
mentale di chi la parola “cultura” neanche dovrebbe permettersi di pronunciarla.
Aurelio Pasini
Pagina 51
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Numero Settembre '11
DÉMODÉ
Vincitori alcuni mesi fa di “Musica nelle aie” grazie a un approccio al folk particolarmente
eclettico e originale (lunghe e proficue puntate in territori jazz e cameristici, qualche vaga
reminiscenza progressive, in particolare sul versante Rock In Opposition), i friulani Démodé
danno alle stampe un breve e omonimo saggio di brillante capacità esecutiva e compositiva,
intrecciando con una certa maestria sezione ritmica rock, clarinetto, sax, violino e pianoforte
in quattro brani ricchi di cambi di tempo e sfumature. In particolare “Tango!” colpisce
immediatamente per l'abilità nel restare sempre al di qua del confine del già sentito, e
“Tristeza” mette sul piatto la voglia di giocare con i codici trasformandoli in mattoncini da
montare e smontare in continuazione senza perdere il filo della comunicatività. Davvero
molto bravi.
Contatti: www.wearedemode.com
Alessandro Besselva Averame
IN VINO VERITAS
Attivi fin dalla fine degli anni 90, in curriculum un primo demo autoprodotto datato 2002, in
bilico tra soluzioni rock mainstream (“D+”, un po' sul versante del già sentito ma più che
dignitosa), musica d'autore, atmosfere folk e noir e un eclettismo che pur osando parecchio
non arriva mai a strafare (per dire, si va da “Nu Bossa”, un bell'esempio di ibrido tra
cantautorato italiano e ragnatele post-lounge, a “La banana flambé”, che pare un Gaber
rocker demenziale d'annata, probabilmente il momento più leggero e parodistico, ma anche
il più divertente), i lombardi In Vino Veritas sembrerebbero più che pronti per trovare un
produttore e un'etichetta che possa farli approvare a un pubblico ben più vasto. Basta
ascoltare “Settembre”, ballata con violino che marcia decisa schivando la retorica, per
rendersene conto.
Contatti: www.psychetilica.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 52
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Numero Settembre '11
TINY TIDE
Brillantemente intitolata “There's A Girl That Never Goes Out”, la nuova fatica dei romagnoli
Tiny Tide – disponibile sulle principali piattaforme digitali oppure su CD-R marchiato Kingem
Records – è una sorta di concept incentrato sugli amori impossibili. Le dieci canzoni al suo
interno parlano infatti del più nobile dei sentimenti e del suo mancato compimento, vuoi
perché non ricambiato, vuoi perché rivolto a personaggi irraggiungibili (specie musicisti:
Charlotte Hatherley, Marina Diamandis) quando non di fantasia (Amelia Pond, l'attuale
“companion” del Doctor Who), per non parlare di una “When Gary Met Putih” che vede
coinvolti nientemeno che la protagonista di una favola malese e Giuseppe Garibaldi.
Un'unità tematica che ha come controparte pratica un'indie-pop gradevole e frizzante,
irrobustito da variabili dosi di elettronica. Nell'insieme un lavoro di assoluta piacevolezza,
curato con spirito artigianale e frutto di un entusiasmo notevole così come di un innegabile
passione per la musica e tutto ciò che le gira intorno. Chi ha nel cuore determinate sonorità
non manchi il contatto.
Contatti: www.tinytide.com
Aurelio Pasini
Vernon Sélavy
I Vernon Sélavy sono un duo il cui nome forse non vi dirà nulla, ma sicuramente sapere che
ne fanno parte Vincenzo Marando dei Movie Star Junkies e Roberto Grosso Sategna dei
Ten Dogs vi illuminerà la via. Basta semplicemente far scorrere le tre murder ballads viscide
e striscianti di questo 7'' d'esordio per comprendere che una buona fetta di Movie Star
Junkies converge in questo progetto parallelo ingurgitando i beat minimali del nostro Ten
Dogs a morsi di chitarre riverberate ed atmosfere narcotiche e notturne, mosso da un
andamento ed una atmosfera di sensualità oscura che ammalia nel suo sinistro e malato
mood decadente e fuori dal tempo, fatto di ballate sghembe e fumose. Le classiche murder
ballads a cui siamo abituati, farcite di fuzz, ritmi spezzati post-alcolici e lontani lamenti
d’organo, mantenendo il blues come perno su cui far ruotare il trittico ballate notturne che
compongono questo breve singolo d’esordio. Non sappiamo se tutto questo avrà un seguito
sulla lunga distanza, ma nel mentre godiamo di questi tre diamanti grezzi germogliati nelle
paludi su cui la luna si specchia ondeggiando sinistramente. Coronano il tutto il marchio
Shitmusicforshitpeople e l’artwork dal retrogusto atavico-decadente di Mojomatt Bordin dei
Mojomatics, ovvero un sigillo di sporca qualità.

Contatti: www.facebook.com/pages/Vernon-Sélavy/135214233207161
Luca Minutolo
Pagina 53
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