Note del coreografo Reform Club è uno spazio di attraversamento, in cui sperimentare la scrittura di linguaggi non riconducibili ad uno stile predefinito; piuttosto viene messa a punto una grammatica il cui tratto fondamentale è il potere di scambio, cioè l'intercambiabilità dei suoi componenti e la sua traducibilità. Al corpo che cerca questa qualità poliglotta ogni movimento può apparire utile, non importa quanto il suo design sia stereotipato o sofisticato. La danza si offre come condizione esplorativa dell'identità, non placata dalle forme ma dal cambiamento costante e dalla mobilità assoluta. Un territorio “creolo”. In una coreografia il tempo è tutto; il rapporto tra l'anatomia individuale e la costruzione di un universo linguistico è dichiaratamente una questione di tempistica: molte decisioni vengono prese in tempo reale per facilitare l'adattamento e la negoziazione della propria presenza in un ambiente in cui agiscono altri corpi. Il lavorio dei performer è costante. Così lo spettacolo indaga il senso di appartenenza che il corpo cerca fuori da sé, nel suo movimento verso l'esterno – outdoors - o comunque al confine tra ciò che è casa e ciò che è campo aperto. In ogni caso la spedizione avviene nell'immanenza del crollo. Il Reform club è il luogo immaginario dove il protagonista de Il giro del mondo in ottanta giorni di Verne accetta la scommessa di circumnavigare il globo in tempi strettissimi. Il viaggio pieno di imprevisti è affrontato con imperturbabile distacco e fiducia illimitata in un ordine che sembra iscritto nella Terra stessa, ma a ben guardare è anche un'allegra accettazione del carattere labirintico del mondo. Come dice il geografo, “l'antropologia tende sempre più a considerare il tradizionale villaggio rurale come la sala d'aspetto di un aeroporto: a ritenere cioè lo spostamento, il viaggio, la migrazione non come un semplice accidente dell'esistenza umana, come un evento fortuito e accessorio, ma al contrario come la pratica costitutiva dell'identità del soggetto, anzi di ogni espressione culturale”. Michele Di Stefano