Management e cultura: risorse strategiche dell’India
35
December 2014
Author:
Alberto Cossu
Language:
Italian
Keywords:
Indian management culture
Cross-cultural management
Innovative way of
management
ISSN: 2281-8553
© Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
ABSTRACT
Since the early 1990’s India has taken significant steps toward a
market-oriented economy. A management culture, whose roots
can be traced to the multicultural features of the Indian society,
had an active role in achieving this goal. This paper is aimed to
explore how deeply the roots of the Indian modern philosophy of
management are a result of the Hindu values and the influence
they still exert in India today.
The aim of this study is to emphasize the need to create a new
understanding and innovative way of management to include the
cultural differences of a multi-polar world, that are in accordance
with the recommendations of UN and European Council.
A broad analysis of the world literature about the topic was
accomplished. The main finding was that Hindu values permeate
the Indian management style, exerting a strong impact. The Indian
style of management and India’s ancient culture are and will
continue to be some of the most important assets of the country in
the near future.
The Indian capacity of doing things with limited resources,
thinking out of the box, and the ability of managing different
cultures will be important in a multi-polar and multi-cultural
world and could represent a pattern to follow. India could become
one of the four largest powers in the world in the next decades,
gaining a stronger position in the Asian and global geopolitical
scenarios. One of the strongest points of India is being on the
verge of becoming a trendsetter in different fields such as culture
and management style which could make India a dynamic and
proactive player on the world stage.
ALBERTO COSSU
Senior Management Consultant, certified by Apco (Italian Institute of Management Consultants).
Master in Business Administration, Sogea, Genoa.
[email protected]
Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
2
Premessa
Oggetto del presente articolo è la nuova
cultura di management che si è sviluppata in
India negli ultimi venti anni. Essa ha
contribuito alla crescita del Paese portandolo
ai vertici mondiali nel settore dell’information
technology (IT) e delle nuove tecnologie.
Questa nuova cultura costituisce una risorsa
su cui l’India potrà contare per il futuro. Essa
è il risultato di un mix originale di valori della
cultura indiana e di tecniche occidentali che
hanno generato una visione positiva delle
prospettive economiche dell’India.
Siamo consapevoli che l’India è il Paese
delle contraddizioni e delle grandi
dimensioni, per cui come sostiene Bill
Emmot: «tutto ciò che si pensa dell’India è
corretto. Ma anche l’opposto è a sua volta
vero»1. Perciò, se è vero che l’India
rappresenta l’avanguardia mondiale nelle
nuove tecnologie informatiche, come già nel
2004 sosteneva il celebre editorialista del
“New York Times” Thomas Friedman nel suo
libro The World is flat2, è vero anche che
continua a essere un Paese in cui la povertà è
alta, gli agricoltori si tolgono la vita per
debiti, la corruzione è diffusa, l’analfabetismo
compromette lo sviluppo del Paese, la sanità
pubblica è in condizioni deplorevoli, lo stato
delle infrastrutture è precario e rallenta la
crescita industriale.
Prendiamo quindi atto delle contraddizioni
dell’India ben descritte da Amaratya Sen nel
suo ultimo libro intitolato Una Gloria incerta.
L’India e le sue contraddizioni3, coscienti che
non esistono modelli in grado di fornire facili
interpretazioni per un Paese caratterizzato da
diversità religiose, culturali, antropologiche,
geografiche e diseguaglianze economiche
enormi.
1
B. Emmot, Asia contro Asia. Cina, India, Giappone e
la nuova economia del potere. Rizzoli, Milano, 2008,
p. 174.
2
T. Friedman, The world is Flat, London, England,
Penguin Books, pp. 5-12.
3
J. Dreze, A. Sen, Una Gloria incerta. L’India e le sue
contraddizioni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano,
2014.
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L’articolo intende, dunque, gettare luce
sull’emergere di una cultura di management
che trova le sue radici nel sistema di valori
indiani e che presenta forti elementi di
originalità anche rispetto ai modelli dominanti
in Occidente. Essa è ancora circoscritta ad
alcune élite economiche e urbane, ma si sta
lentamente diffondendo anche in altri strati
sociali e nelle aree rurali4. Abbiamo scelto di
focalizzarci su quello che riteniamo sia un
punto forte del sistema economico indiano,
ma su cui la letteratura scientifica non si è
sufficientemente
soffermata,
perché
costituisce una risorsa strategica per il futuro
economico dell’India. Infatti, se è vero come
sostiene Subhash Sharma5 che l’India ha
subito da parte dell’Occidente una forte
colonizzazione intellettuale, soprattutto nel
campo del management, negli ultimi venti
anni è cresciuta una diversa consapevolezza.
È emersa una nuova cultura che dimostra
come l’India può percorrere una strada
relativamente autonoma nel disegnare le sue
prospettive di sviluppo, ispirandosi anche
all’esempio del Giappone che è riuscito a
coniugare tecniche occidentali con il sistema
di valori giapponesi6.
Abbiamo rinunciato a entrare nel dettaglio
dei punti deboli del sistema come la povertà,
la corruzione, l’analfabetismo, ecc., in quanto
la letteratura scientifica vi dedica sufficiente
attenzione.
Nel
corso
dell’articolo
rimandiamo ai principali studi in materia.
Infatti, l’economia dell’articolo non ci
permette di soffermarci più del necessario, se
4
N. Radjou, J. Prabhu, S. Ahuja, Jugaad innovation,
Jossey-Bass A Wiley Imprint, San Francisco, 2012, p.
1-3.
5
S. Sharma, Indian ethos, Indian culture and Indian
management: towards new frontiers in management
thinking, in “Indian culture and management”,
conference proceedings of the ICSSR (Indian Council
of Social Science Research) and COSMODE
workshop, held in Hyderabad, April 14th – 16th, 2005.
6
P. Puddinu, La cultura giapponese incontra la
tecnologia occidentale, in A.A.V.V., Umanesimo in
Asia. Le culture non tecnologiche parlano
all’Occidente, Università degli Studi di Sassari,
Sassari, p. 160.
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3
non in funzione dei nostri obiettivi.
Un gruppo di docenti e ricercatori della
Wharton
School
–
University
of
Pennsylvania7 ha tentato di definire i tratti
salienti del modello di management indiano
ed evidenziato i seguenti elementi: gestione
olistica dell’organizzazione, creatività e
adattabilità, senso di dovere nei confronti
della comunità.
Le aziende che s’ispirano a questo modello
dimostrano di avere uguali successi
economici rispetto a quelle occidentali. Esse
mettono al primo posto i collaboratori,
tengono conto della comunità e della
sostenibilità. Il modello occidentale, in
particolare statunitense, mette invece al primo
posto i profitti e remunera principalmente gli
azionisti. In questo senso si sostiene che il
management ispirato dal sistema di valori
indiani costituisce un modello da tenere
presente anche in Occidente in quanto ha
caratteristiche che possono rappresentare il
futuro del management8. L’India con
un’economia dinamica e con l’impegno a
creare ricchezza in modo partecipativo e
sostenibile può costituire un “paradigma
alternativo” che merita di essere approfondito
e considerato al di là dei molti stereotipi che
ancora oggi pesano sull’economia di questo
Paese9.
1. La crescita economica dell’India
L’India è stata per lungo tempo chiusa agli
scambi e agli investimenti internazionali fino
alla fine degli anni ‘70, quando è iniziata una
lenta liberalizzazione, che è divenuta
sistematica e profonda dall’inizio degli anni
‘90. Fin dai primi anni dopo l’indipendenza
dal Regno Unito l’intervento dello Stato
nell’economia è stato preponderante e si è
sviluppato attraverso lo strumento dei piani
7
P. Cappelli, H. Singh, J. Singh, M. Useem, The India
Way, Harvard Business Press, Boston, 2010, cap. 1.
8
D. Kirkpatrick, The world most modern management:
in India, “Fortune”, April 14th, 2006.
9
M.
Kamdar
India.
L’invasione
mite,
Sperling&Kupfer, Milano, 2007, pp. 6-8.
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quinquennali10. La crescita è stata molto lenta
rispetto agli altri Paesi asiatici proprio a causa
di un modello economico eccessivamente
autarchico e fortemente basato su principi
socialisti11. Con l’inizio degli anni ‘90,
l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del
Commercio (OCM) e la progressiva destatalizzazione, l’India ha inaugurato un
periodo di sviluppo economico sostenuto. La
forte crescita economica a partire dagli anni
‘90 ha comportato un cambiamento del
contributo dei principali settori del Prodotto
Interno Lordo. Infatti, si registra una notevole
crescita del settore terziario, una marcata
riduzione del settore primario e una lieve
crescita del settore secondario industriale12.
Il modello economico dell’India si
caratterizza, pertanto, per un forte sviluppo
del terziario e in particolare dell’IT. L’India ha
costruito un sistema in grado di accogliere e
sviluppare forme di outsourcing sempre
crescenti, dalla semplice catalogazione di dati
alla progettazione, sviluppo e manutenzione
di software13. Nelle forme più evolute questa
industria ha compreso i cosiddetti IT service, i
servizi fruibili attraverso il web globale.
Quella che inizialmente si configurava come
l’esternalizzazione di attività circoscritte è
diventata gradualmente un fenomeno che ha
riguardato interi processi: il Business process
outsourcing (Bpo). Si sono sviluppate inoltre
call center di banche, assicurazioni e
multinazionali occidentali principalmente di
origine statunitense e britannica. Inoltre, si
10
R. Dietmar, Storia dell’India, Il Mulino, Bologna,
2007, p. 95; si veda anche A. Armellini, L’elefante ha
messo le ali, Università Bocconi, Milano, 2008 pp.
277-298; sulle vicende economiche e politiche più
recenti: M. Torri, Ripresa economica, conflitti sociali e
scandali politici in India, in Asia Maior, Osservatorio
Italiano sull’Asia, 2010, I libri di Emil, Bologna, 2011;
M. Torri, Rallentamento dell’economia e debolezza
della politica, in Asia Maior, Osservatorio Italiano
sull’Asia 2012, I libri di Emil, Bologna, 2013.
11
S. Chiarlone, L’economia dell’India, Carocci, Roma,
2008, pp. 9-10.
12
R. Orlandi (a cura di), L’India tra i grandi della
terra, Il Mulino, Arel, Bologna, 2009, p. 26.
13
S. Chiarlone, Ecco dove l’India può battere la Cina,
“Eastonline”, n. 4, 2007, pp. 16-22.
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4
possono considerare attività di back office
quali la gestione dati, la certificazione di
bilancio, la movimentazione dei conti bancari,
l’amministrazione delle paghe, attività legate
all’editing e all’editoria in generale, fino a
servizi professionali e tecnici, nella ricerca,
sviluppo e ideazione dei prodotti14.
Gurcharan Das15 ripercorre l’evoluzione
economica di questi ultimi trenta anni,
scrivendo che nel 1980 l’atteggiamento verso
il settore privato ha iniziato gradualmente a
cambiare. Infatti, grazie agli sforzi del Primo
Ministro Rajiv Gandhi, sono state messe in
atto diverse politiche rivolte a riformare il
sistema economico che hanno avuto l’effetto
di far crescere il PIL del 5,6%. Tuttavia, nel
1990 l’India si è trovata nel mezzo di una crisi
fiscale che ha condotto il Paese a promuovere
delle riforme più radicali verso le
liberalizzazioni che hanno consentito una
maggiore integrazione nell’economia globale
e hanno aperto la strada ad alti tassi di
sviluppo. L’architetto di queste riforme è stato
il Ministro delle Finanze Manmohan Singh,
poi futuro Primo Ministro negli anni 20042014.
La politica di liberalizzazione è stata la
conseguenza da un lato del contesto
economico internazionale caratterizzato da
un’accelerazione
della
globalizzazione
dell’economia e dall’altro delle richieste del
FMI di privatizzare e deregolamentare, ridurre
la presenza dello Stato, favorire l’iniziativa
privata, diminuire la spesa pubblica con tagli
agli aiuti e incoraggiare investimenti nazionali
ed esteri16.
Queste politiche hanno contribuito a
definire il modello di sviluppo indiano
fondato su settore terziario, tecnologie
avanzate, consumi interni e imprese nazionali
che lo hanno differenziato da quello cinese,
incentrato, invece, sull’export e sul settore
industriale.
In questo contesto si è affermata una classe
imprenditoriale e manageriale portatrice di
una nuova visione del management e con un
approccio internazionale. Nei settori dell’alta
tecnologia, in particolare informatica,
biotecnologie e telecomunicazioni, sono
emerse nuove imprese come Infosys, Wipro,
HCL, Biocon, Bharati Telecom, Dr. Reddy e
Rambaxy che operano a livello globale e
rappresentano il nuovo volto dell’India nello
scenario internazionale17. Sono quelle aziende
che fanno affermare al giornalista del “New
York Times” Thomas Friedman, dopo la visita
al quartier generale di Infosys, che il mondo è
piatto, nel senso che qualsiasi servizio è
erogabile attraverso le nuove tecnologie
perché è possibile farlo da qualsiasi parte del
mondo18.
Le nuove imprese indiane sono capaci di
muoversi in un contesto globale, di generare
innovazione con risorse molto limitate e di
essere competitive con quelle occidentali. Per
la prima volta una parte del sistema
economico dell’India si presenta al mondo
come avanguardia delle tecnologie19.
Adam Segal ha sostenuto sulla rivista
“Foreign Affairs” che il vantaggio tecnologico
degli Stati Uniti e del mondo occidentale
basato sulla velocità di sviluppo di nuove
tecnologie si sta riducendo e sono i Paesi
dell’Asia, principalmente India e Cina, a
mettere in discussione questo primato,
diventando poli globali d’innovazione. In
questo contesto, il competitivo costo del
lavoro diventa solo uno dei fattori di successo
delle economie asiatiche20.
17
14
F. Mazzei, V. Volpi, Asia al centro, Università
Bocconi, Milano, 2006, p. 209; O. Kenichi, Il prossimo
scenario globale, Etas, Milano, 2005 cap. 6.
15
D. Gurcharan, The India Model, “Foreign Affairs”,
July/August 2006; dello stesso autore, India grows at
night, “The Globalist”, January 11th, 2013,
www.theglobalist.com.
16
V. Castronovo, Un passato che ritorna. L’Europa e
la sfida dell’Asia, Editori Laterza, Bari, 2006, p. 240.
www.istituto-geopolitica.eu
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, Etas,
Milano, 2008, p. 24; D. Smith, Il dragone e l’elefante,
Il Sole 24 Ore, Milano, 2007, cap. 5, L’economia
digitale dell’India, pp. 172-226.
18
T. Friedman, The world is Flat, cit., pp. 1-5.
19
H. L. Sirkin, J. W. Hemerling, A. K. Bhattacharya,
Globalist. Competere con tutti ed in ogni luogo, Etas,
Milano, 2008, pp. 38-42.
20
A. Segal, Is America losing its edge?, “Foreign
Affairs”, November/Dicember, 2004.
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5
Tutto questo accade, come molti
osservatori sostengono, nonostante il peso
soffocante di una burocrazia che sembra
paralizzare il Paese. Ecco come Das
Gurcharan descrive la situazione dell’India, il
cui sviluppo è frenato da un apparato
burocratico che grava pesantemente sulla
società civile:
«what is most remarkable is that rather
than rising with the help of the state, India is
in many ways rising despite the state. […]
Today, Indians believe that their bureaucracy
has become a prime obstacle to development,
blocking instead of shepherding economic
reforms»21.
L’India ha uno Stato percepito debole e
penetrato da una corruzione diffusa, ma una
società civile forte che trascina, nonostante
tutto, il Paese verso una prospettiva di
sviluppo. In base all’indice di corruzione
percepita, l’India figura al 94° posto su 175
Paesi presi in considerazione con un
punteggio che la colloca nella fascia bassa, fra
quelli a più alta intensità di corruzione22.
Se è vero che lo Stato costituisce il più
delle volte un freno allo sviluppo, altrettanto
non si può dire per la crescita del settore
informatico che, come riconosce David
Smith, è il risultato anche «del successo di
una strategia pubblica che ha inteso dare
priorità a questo settore»23.
Infatti, l’industria informatica indiana
moderna è venuta alla luce quando il Governo
ha cominciato, già negli anni ’50, a investire
in ricerca e sviluppo in precisi settori, come
difesa,
nucleare
e
spaziale24.
Successivamente negli anni ’70 il Governo ha
portato avanti un progetto d’indigenizzazione
21
D. Gurcharan, India grows at night, cit.
Tansparency International corruption perceptions
2013, Berlino, www.transparency.org; si veda anche
Global Corruption Barometer 2013, Berlino,
www.transparency.org.
23
D. Smith, Il dragone e l’elefante, cit., p. 180.
24
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cit., cap.
3, Breve storia dell’industria indiana del software, pp.
47-62.
22
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del settore strategico dell’elettronica che ha
comportato l’assemblaggio dei computer in
India. Gradualmente si è creata nel Paese
un’industria informatica che nel 1974 ha
iniziato a esportare software come nel caso di
Tata Consultancy Services (TCS), che è oggi
una delle principali aziende di software
dell’India. Nel 1977 il Governo ha deciso di
espellere dal Paese diverse multinazionali
statunitensi, come per esempio IBM. Questa
decisione è divenuta la molla per una rapida
crescita dell’industria del software indiano.
Negli anni ’80 sono nate Wipro e Infosys che,
grazie
alla
politica
d’incentivi
per
l’esportazione di software attuata dal Governo
di Rajiv Gandhi, si sono affermate a livello
internazionale. Ed è in questi anni che le
grandi multinazionali statunitensi ed europee
iniziano a interessarsi all’India come centro
mondiale di sviluppo di software, non solo
perché il costo del lavoro è basso, ma anche
perché ci sono le competenze tecniche e una
cultura predisposta positivamente verso le
nuove tecnologie. Negli anni ’90 il Governo
ha istituito i Software Technology Park (STP)
che forniscono infrastrutture di livello
internazionale a tutto il comparto informatico.
Inoltre, le agevolazioni fiscali previste hanno
contribuito ulteriormente a far decollare
definitivamente il settore a livello globale.
Secondo NASSCOM, l’associazione indiana
delle aziende dell’IT25, il settore ha generato
un fatturato di 100 miliardi di dollari nel 2012
con un export pari al 77% del valore della
produzione, che rappresenta circa il 25%
dell’export totale dell’India. Tutto questo è
stato possibile anche grazie a politiche mirate
del Governo rivolte a sostenere l’IT, al basso
costo del lavoro, alle capacità imprenditoriali
del
settore
privato,
all’educazione
universitaria e ad alcune scuole tecnologiche
di eccellenza che hanno trovato un terreno
fertile nel sistema culturale indiano.
25
NASSCOM,
www.nasscom.in.
Annual
Report
2011-2012,
www.geopolitica-rivista.org
India
Cina
Settori economici
PIL % (2012)
Occupazione % (stima 2011)
PIL % (2012)
Occupazione % (stima 2011)
Agricoltura
17,4%
47,20%
10,1%
34,8
Industria
25,8%
24,70%
45,3%
29,5%
Servizi
56,9%
28,10%
44,6%
35,7%
Tabella 1. India e Cina a confronto. The World Fact Book CIA 2012.
Infatti, come sostengono T.R.N. Rao e S.
Kak26 dell’università della South West
Louisiana nel libro Science in Ancient India,
la storia del software indiano potrebbe avere
le sue radici negli antichi Veda. Queste
scritture, infatti, esaltano il pensiero astratto
logico e razionale e costituiscono la base
dell’istruzione degli Indiani. La matematica
vedica è basata su sedici sutra, o formule di
parole, che descrivono il modo in cui lavora la
mente umana. I primi programmi software,
intesi come frasi logiche per risolvere
problemi astratti furono scritti da matematici
e astronomi indiani tra il 476 d.C. e il 628
d.C. Certamente non s’intende spiegare in
questo modo il grande successo dell’IT e del
Bpo indiani, cui hanno contribuito come
precedentemente descritto diversi fattori, ma
evidenziare come il potenziale indiano in
alcuni settori sia strettamente collegato con le
radici culturali27.
Se si compara la composizione del PIL
dell’India e della Cina si comprende
immediatamente quanto diversi siano i due
modelli di sviluppo. Emerge che in India il
peso dei servizi è molto più significativo
rispetto alla Cina:
«L’India risponde in inglese alle esigenze
di multinazionali e consumatori. Ne sono
espressione diffusa i call center, i centri di
ricerca, le software house, le aziende di
progettazione. La Cina ha, invece, conquistato
un ruolo manifatturiero unico. È la maggiore
destinazione d’investimenti produttivi al
mondo»28.
L’India in questi ultimi anni sta investendo
26
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cap. 3,
Breve storia dell’industria del software, pp. 47-48,
citazione 2.
27
D. Smith, Il dragone e l’elefante, p. 179.
28
R. Orlandi (a cura di), L’India tra i grandi della
terra, cit., p. 26.
risorse per far crescere il settore industriale
che accanto a settori come il tessile, la
pelletteria,
può
vantarne
alcuni
all’avanguardia come la farmaceutica, la
meccanica, l’automotive e l’aerospaziale29.
Pertanto, se è vero che l’India è l’ufficio del
mondo e forse continuerà a esserlo nei
prossimi anni, bisogna però dire che questa
espressione sembra riduttiva alla luce dello
sviluppo industriale più recente30.
L’economia dell’India con un PIL pari a
1.841 miliardi di dollari è fra le dieci
economie più grandi al mondo, secondo i dati
della World Bank31 aggiornati al dicembre
2012. L’India precede il Canada, l’Australia e
la Spagna. Nei prossimi anni supererà l’Italia
dalla quale la separano meno di 200 miliardi.
La crescita è basata su consumi,
investimenti ed export ed ha raggiunto un
tasso medio intorno all’8% nel quinquennio
dal 2004 al 200832. L’economia dell’India,
secondo dati dell’ Economist Intelligence Unit
e della Banca Mondiale, è cresciuta nel 2004
del 7.9%, nel 2007 ha raggiunto il 9,8% per
rallentare poi a 3,9% nell’anno 2008 segnato
dalla crisi finanziaria mondiale. Nel 2010 ha
toccato una punta di sviluppo del 10,5% per
poi rallentare nuovamente negli anni
successivi. Il FMI33 prevede che se il tasso di
crescita si dovesse attestare intorno al 7%
annuo l’India sarebbe in grado di raggiungere
29
F. Mazzei, V. Volpi, Asia al centro, cit., pp. 207212.
30
Per i più recenti sviluppi del settore manifatturiero in
India: The masala Mittelstand. Manufacturing is taking
off in India, “The Economist”, August 11th, 2012;
Special Report Business in Asia, “The Economist”,
May 31st, 2014.
31
World
Bank
Indicators
database,
www.worldbank.org.
32
The Economist Intelligence Unit, 2008, World Bank
Indicators database.
33
Vedi sito www.imf.org e PricewaterhouseCoopers
LLP, World in 2050. The Brics and beyond prospects,
challanges and opportunities, January 2013.
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7
il PIL di Italia e Regno Unito in pochi anni,
fra il 2015 e il 2020, e nel decennio
successivo avvicinare il PIL di Giappone e
Germania attestandosi al terzo posto tra le
grandi economie mondiali. Sebbene tra il
2011 e il 2013 l’economia indiana abbia
faticato non poco a crescere, le previsioni
della Banca Mondiale la rivedono ritornare a
tassi di sviluppo apprezzabili (7%) tra il 2015
e il 2016 tanto da confermare le previsioni del
FMI e della società PricewaterhouseCoopers
che la ipotizzano nel gruppo di testa delle
economie mondiali nel 2030. Stessa
previsione viene formulata nel Global Trend
2030 pubblicato dal NIC degli USA che
scrive: «In 2030 India could be the rising
economic powerhouse that China is seen to be
today»34.
La forte crescita economica, basata su un
modello trainato dai settori avanzati, ha
generato evidenti ineguaglianze di reddito,
un’accentuazione della disomogeneità dello
sviluppo nel Paese tra aree sviluppate e
arretrate, e si è dimostrata incapace di creare
sufficienti posti di lavoro, generando una
crescita senza lavoro (jobless growth)35, e
d’incrementare in misura minima i redditi dei
settori tradizionali. Questo, secondo Sen36, è
accaduto «perché la crescita è stata fortemente
concentrata in settori a elevata professionalità
piuttosto che in quelli tradizionali ad alta
incidenza di manodopera». Questo fatto ha
consentito allo strato più istruito della forza
lavoro di guadagnare stipendi e salari molto
più alti, ma ha penalizzato coloro che, invece,
sono impiegati nell’agricoltura e nei servizi
tradizionali.
Bisogna, però, precisare che anche i settori
a più alta intensità di manodopera, per via di
un’automazione spinta, stanno creando posti
di lavoro inferiori alle attese sia nei Paesi
avanzati che nelle economie dei Paesi
emergenti. Questo vuol dire che:
34
National Intelligence Council, Global Trends 2030,
December 2011, www.dni.gov/nic/globaltrends.
35
J. Dreze, A. Sen, Una Gloria incerta. L’India e le
sue contraddizioni, cit., p. 43, nota 27.
36
Ibid.
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«the real winner of the future will not be
the providers of cheap labor fortune will
instead favor those who can innovate and
create new products, services, and business
model»37.
In questo senso l’India, almeno nei settori
avanzati sembra essere in linea con questa
tendenza che vede una classe creativa
«capturing most of the rewards and a long tail
consisting of the rest of the participants»38.
Lo sviluppo di questi anni ha permesso di
attenuare il fenomeno della povertà, come
dichiara il rapporto della Banca Mondiale39,
ma non di sradicarlo. Come diversi studiosi
riconoscono si tratta di uno dei punti
maggiormente controversi perché si arriva a
contestare i metodi di determinazione della
povertà da parte dello Stato indiano. In questa
direzione si muove Michelguglielmo Torri, il
quale sostiene che «la soglia di povertà quale
è quella definita dallo Stato si è
progressivamente trasformata in un indice
statistico privo di significato»40. Non è certo
questa la sede per affrontare una tale
controversia, possiamo solo citare ancora una
volta Sen, il quale afferma che:
«indipendentemente da dove si tracci la
soglia, il ritmo di riduzione della povertà
negli ultimi venti anni circa è stato molto più
lento in India che nell’insieme dei Paesi in via
di sviluppo, nonostante la crescita economica
sia stata molto più rapida in India»41.
37
E. Brynjolfsson, A. McAfee, M. Spence, New world
order. Labor, Capital, and Ideas in the Power Law
Economy, “Foreign Affairs”, July/August 2014, p.1.
38
Ibid.
39
Perspective on poverty in India, The World Bank,
2011, p.4; «India has continued to report steady
progress in reducing consumption poverty. Focusing on
the experience of the last 20 years and using the official
poverty lines, in 2004-05, 28 percent of people in rural
areas and 26 percent of people in urban areas lived
below the poverty line, down from 47 percent and 42
percent, respectively, in 1983».
40
M. Torri, I costi sociali dello sviluppo, R. Orlandi (a
cura di), L’India tra i grandi della terra, cit., p. 249,
nota 14.
41
J. Dreze, A. Sen, Una Gloria incerta. L’India e le
sue contraddizioni, cit., p.41.
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8
Il modello di sviluppo incentrato su
politiche neoliberali ha mostrato i suoi limiti
tanto da far dichiarare al Primo Ministro
Singh:
«Perché, anche dopo anni di sviluppo e
tassi di crescita sempre più elevati, non siamo
stati in grado di mettere fine alla povertà di
massa e di dare lavoro a tutti? Perché alcune
regioni del Paese continuano a rimanere
indietro? […] L’India non può diventare una
nazione con isole di forte crescita e vaste aree
non toccate dallo sviluppo, una nazione dove i
benefici della crescita tornano esclusivamente
a vantaggio di pochi»42.
Il premio Nobel per l’economia Amartya
Sen comparando i risultati dell’India con
quelli di altri Paesi asiatici dichiara che:
«L’India non ha avuto difficoltà a innalzare
il tasso di crescita economica eliminando
vincoli e restrizioni e sfruttando le
opportunità offerte dal commercio. Gran parte
della società indiana rimane, tuttavia, esclusa
dal benessere economico»43.
Il tasso di alfabetizzazione, ancora molto
basso nel 2010 – 63% della popolazione
adulta – costituisce un vincolo che rallenta il
pieno dispiegamento delle potenzialità del
Paese, come la Tabella 2 evidenzia in
rapporto, soprattutto, ai Paesi dell’Asia
orientale44. Lo stesso autore, evidenziando le
carenze del sistema educativo indiano e la
bassa alfabetizzazione della popolazione
adulta mette, però, in evidenza «come un gran
numero di Indiani – una minoranza, ma pur
sempre numerosa – riceve un’eccellente
istruzione in patria»45. Ci sono scuole,
università, centri di formazione di assoluto
valore come gli Indian Institutes of
technology (IITs) e gli Indian Institutes of
Management (IIMs) in grado di fornire
formazione di alta qualità di cui le aziende
indiane si avvalgono per essere competitive
non solo nei lavori a medio-bassa
qualificazione ma anche in quelli che
implicano
ricerca,
innovazione
e
progettazione. Geograficamente lo sviluppo
economico ha toccato principalmente i poli
urbani di Mumbai, Nuova Delhi, Calcutta e
Chennai; quest’ultima ha costituito un asse
industriale con Bangalore e un corridoio
privilegiato con Hyderabad, considerata la più
grande High Tech City dell’Asia. Questi poli
attirano tradizionalmente la maggior parte
degli investimenti esteri e costituiscono centri
tecnologici e di alta formazione di livello
mondiale46. Nel 2012 l’India risultava essere
la quarta destinazione mondiale per gli
investimenti esteri (superata solo da Stati
Uniti, Cina e Regno Unito) generati
dall’Europa per il 38,6%, dagli Stati Uniti per
il 19,7%, dal Giappone per il 10% e ancora a
livello poco significativo dalla Cina per
l’1,5%. Principalmente essi si concentrano nel
settore dell’IT e in misura minore nel
manifatturiero; in particolare nelle città di
Chennai con una quota di circa il 13,3%
dell’ammontare totale d’investimenti nel
periodo 2007-2012, Mumbai 8,1%, Pune
5,9%, Nuova Delhi 10%, Bangalore 12,9% e
Hyderabad circa 6%; quest’ultima sta
attirando quote crescenti d’investimenti dal
Giappone e dalla Cina47.
42
Bill Emmott, Asia contro Asia, Rizzoli, Milano,
2008, p. 189.
43
Franco Mazzei, Vittorio Volpi, Asia al centro, cit., p.
209, nota 30.
44
Jean Dreze, Amartya Sen, Una Gloria incerta.
L’India e le sue contraddizioni, cit., pp. 125-127.
45
Ivi, pp.140-141.
www.istituto-geopolitica.eu
46
Franco Mazzei, Vittorio Volpi, Asia al centro, cit., p.
211.
47
EY’S attractiveness survey. India 2014. Enabling the
projects, Enerst&Yung Global Limited, UK
www.ey.com/growingbeyond.
www.geopolitica-rivista.org
1960
1980a
2010b
India
28
41
63
Bangladesh
22
29
57
Nepal
9
21
60
Pakistan
15
26
55
Sri Lanka
75
87
91
Cina
n/d
65
94
Indonesia
39
67
93
Malaysia
72
83
95
Asia Meridionale
Asia Orientale
Filippine
72
83
95
Thailandia
68
88
94
Vietnam
n/d
84
93
Tabella 2. Tasso di alfabetizzazione tra adulti (% di persone alfabetizzate nella fascia di età a partire da 15 anni).
a: 1981 per Bangladesh, India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka; 1979 per il Vietnam; 1982 per la Cina. b: 2006 per l’India;
2009 per l’Indonesia e il Pakistan; 2008 per le Filippine; 2005 per la Thailandia. World Bank, World Development
Report 1980 tab. 23, per i dati 1960; World Bank, World Development indicators per gli altri anni.
In questo contesto gli Stati interni
dell’India come, per esempio il Bihar, hanno
stentato, invece, a dare impulso a una crescita
con tassi elevati e dispongono di un reddito
pro capite quattro volte inferiore a quello
degli Stati più ricchi. Questo quadro, però, si
sta modificando come sostiene su “Foreign
Affairs” Ruchir Sharma, capo economista per
i mercati emergenti di Morgan Stanley, il
quale disegna una situazione in cui lo
sviluppo si sta spostando verso Nord e può
contare su leadership forti in alcuni Stati
come il Gujarat e il Bihar48.
Lo sviluppo economico indiano si basa su
una struttura politica democratica. I valori che
la animano si possono rintracciare nella
matrice multiculturale indiana, costituita da
un mix unico di diverse culture, dal buddismo
al sikhismo, che come sostiene lo storico
Fernand Braudel, ha nell’induismo l’asse
portante, tanto da fargli affermare che «more
than a religion or a social system, it is the core
48
R. Sharma, The rise of the rest of India, “Foreign
Affairs”, September/October 2013.
of Indian civilization»49. Sir Monier
Williams, docente di sanscrito all’Università
di Oxford, ne spiegò i punti forti in questo
modo:
«esso (l’induismo) è del tutto tollerante
[…]. Ha il suo aspetto spirituale e il suo
aspetto materiale, quello esoterico e quello
popolare, quello soggettivo e quello
oggettivo, quello razionale e quello
irrazionale, quello puro e impuro. […] Ha un
lato per l’elemento pratico, un altro per quello
rigorosamente morale, un altro per quello
devozionale e immaginifico, un altro per
quello sensibile e sensuale e un altro ancora
per quello filosofico e speculativo»50.
Come sostiene lo scrittore bengalese Nirad
Chaudhuri è difficile avere un’idea ben
49
S. P. Huntington, The Clash of Civilizations.
Remaking of World Order, Touchstone, New York,
1996, p. 45, nota 5. F. Braudel, On History, University
of Chicago Press, Chicago,1980, p. 226.
50
Z. Fared, L’era post-americana, Rizzoli, Milano,
2008, p. 161.
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10
definita dell’induismo, che rappresenta un
sistema di valori che non dà risposte ma
solleva domande, come si può evincere dai
Rig Veda, dove nell’Inno alla Creazione un
passo recita:
«Chi conosce veramente e può giurare di
sapere, come è avvenuta la creazione, quando
o dove! Anche gli dei sono comparsi dopo il
giorno della creazione. Chi conosce
veramente, chi può davvero dire quando e
come la creazione ha avuto inizio? Ne è stato
Lui l’artefice? Oppure no? Egli solo lo sa, lo
sa, forse; o forse non lo sa nemmeno Lui»51.
Questo fatto contribuisce a creare negli
Indiani, in particolare induisti, un profondo
spirito pratico che rende gli uomini d’affari
capaci di fare compromessi con la realtà e
prosperare in diversi continenti dall’Africa,
all’Est europeo all’America.
L’India ha dunque costruito un modello di
sviluppo economico nel quale la società dei
servizi ha generato e messo in moto la crescita
economica. Anche se nel futuro il settore
manifatturiero rappresenterà un motore per
l’economia indiana, il settore terziario
avanzato costituirà sempre l’asse centrale. Il
sistema multiculturale di valori, che sviluppa
un’elevata flessibilità cognitiva capace di
conciliare la spiritualità con la ricerca di
elementi materiali come il denaro, fornirà la
base su cui si poggerà la crescita dell’India. In
questo contesto si può pertanto citare
Rajendra Pawar, amministratore delegato
della società informatica NIIT, il quale
sostiene:
«l’Occidente
ha
creato
ricchezza
attraverso la rivoluzione industriale; l’Asia
occidentale attraverso il petrolio. Ora è la
volta dell’India. Loro l’hanno creata usando
l’abbondanza che la natura ha offerto
all’uomo, ma noi Indiani la creeremo usando
ciò che è in noi stessi, nella mente dell’uomo.
Nel XXI secolo, che passerà alla storia come
il secolo della mente, l’India avrà la rara
51
Ivi, p. 162.
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opportunità di riconquistarsi con orgoglio la
sua posizione tra le nazioni del mondo»52.
La cultura millenaria degli antichi testi
Veda che ha concorso in modo “invisibile” a
determinare
la
grande
affermazione
dell’industria del software e del settore dei
servizi avanzati, come abbiamo detto in
precedenza, continuerà a formare il sostrato
culturale su cui si potrà fondare il successo
economico indiano.
aspetti
interculturali
del
2. Gli
management indiano
In questa parte del report ci proponiamo di
comprendere il sistema di valori induisti,
quali sono le origini e come influiscono sul
management, coscienti che la cultura indiana
è caratterizzata da una tale complessità da
rendere difficile ogni generalizzazione. La
difficoltà deriva dal fatto che il sistema dei
valori dell’India ha una natura multiculturale
e deriva dal contributo rilevante che anche le
componenti minoritarie forniscono all’identità
indiana, fattore indipendente dalla consistenza
numerica, come nel caso del buddismo o del
giainismo.
Inoltre, una serie di influenze che vanno
dal dominio islamico al colonialismo
britannico
e
più
recentemente
la
globalizzazione si aggiungono a rendere più
complesso il sistema di valori indiano.
Tuttavia, nonostante queste influenze, ci
troviamo d’accordo con Fernand Braudel, nel
sostenere che le basi della cultura indiana
ruotano intorno ai principi fondamentali
dell’induismo, che rappresenta la religione
maggioritaria, l’80% dell’intera popolazione.
L’induismo ancora oggi forma il pensiero e il
comportamento della maggioranza degli
Indiani, ma ha anche una straordinaria
capacità di pervadere gli altri sistemi di valori
e a sua volta di farsi influenzare53.
Ci sembra opportuno, prima di entrare
nell’analisi del sistema di valori indiano,
52
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cit., p.
47.
53
Ivi, p. 65.
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11
definire che cosa intendiamo per management
e il rapporto con la cultura. Una definizione
classica identifica il management come un
complesso di attività rivolte a conseguire
degli obiettivi organizzativi attraverso
l’impiego di risorse umane e materiali54. Il
management che in italiano si può tradurre
con gestione e/o direzione comporta prendere
decisioni relative a che cosa fare, come farlo,
quando farlo, dove farlo, chi deve fare e,
elemento più importante di tutti, se fare o no
qualcosa. Perciò le funzioni classiche di
un’attività manageriale in organizzazioni
private e pubbliche si possono identificare
nelle seguenti:
•
•
•
•
programmazione: definisce ciò che
deve essere fatto e gli obiettivi da
raggiungere;
organizzazione:
decidere
come
utilizzare
risorse
tecnologiche,
economiche e umane, e chi deve fare
ciò che è stato programmato;
direzione: realizzare le attività
programmate motivando le persone
che devono fare ciò che è stato
stabilito;
controllo: monitorare le persone e il
loro lavoro per verificare che le cose
stabilite siano fatte.
Queste attività sono svolte in linea di
massima in tutte le organizzazioni e in
differenti Paesi. Pertanto si può dire che ciò
che fanno i manager è uguale in tutto il
mondo. Tuttavia, come giustamente sottolinea
Peter Drucker55, come essi lo fanno è
condizionato dalla cultura del contesto in cui
vivono e operano. Il management, inteso
come complesso di strumenti di gestione, ha
una certa omogeneità in molti Paesi sia
occidentali che orientali. Cambia, però, la
modalità in cui quegli strumenti vengono
utilizzati poiché il loro uso è influenzato dalla
cultura. A proposito di cultura il dibattito
scientifico si polarizza su due approcci: il
primo sostiene che il ruolo della cultura è
marginale perché i manager si comportano
nello stesso modo in tutti i Paesi in quanto
guidati da uno stesso approccio razionale
incentrato sul profitto; il secondo sostiene
invece che il ruolo della cultura è rilevante nel
determinare
differenti
comportamenti
organizzativi e di gestione56.
In questo articolo si propende per la
seconda tesi la quale prende atto che le
differenti culture organizzative, nazionali,
regionali, danno luogo a molteplici
comportamenti gestionali anche in presenza di
strumenti e metodi manageriali simili.
La letteratura scientifica registra numerose
definizioni del termine cultura, in quanto esso
viene interpretato da discipline differenti:
l’antropologia, la sociologia, la filosofia, fino
alle discipline manageriali. Per un’ampia
panoramica della letteratura in materia poiché
non è nostro obiettivo entrare nel dettaglio del
dibattito scientifico in merito al concetto di
cultura, si rimanda al primo volume del libro
Cross cultural management curato da G.
Redding e B. W. Stening in cui la complessità
e la vastità della tematica è affrontata nella
sua interezza57.
Una delle più efficaci definizioni che si
ritrova nella letteratura del cross-cultural
management, poiché è in grado di concentrare
in poche parole il significato di cultura, è
quella elaborata da Geert Hofstede, che la
paragona ad un programma di computer che
distingue un gruppo organizzato da un altro e
che agisce in modo sottile e spesso a livello
inconscio ed è in questo modo in grado di
determinare
i
comportamenti
di
58
un’organizzazione .
La letteratura manageriale ha considerato
per un certo periodo le differenze culturali
56
54
M. S. Colby, Selig Alkon, Introduction to business,
Harper Collins Publishers, New York, 1991, p. 77.
55
P. Drucker, Il futuro che è già qui. La professione del
dirigente nella società post-capitalista, Etas, Milano,
1999.
www.istituto-geopolitica.eu
G. Redding, B. W. Stening, Cross cultural
management. The theory of culture, Vol. I and II,
Edward Elgar Publishing Limited, UK, 2003, p. 12.
57
Ibid.
58
M.J. Gannon, Global-Mente, Baldini Castoldi Dalai
Editore, Milano,1997, p. 29.
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12
come una fonte di problematiche per le
organizzazioni
piuttosto
che
come
un’opportunità
per
migliorare
il
funzionamento organizzativo e indirizzarlo
verso prestazioni di eccellenza59.
Essa, almeno nel passato, si è concentrata
nello studio degli aspetti negativi delle
differenze culturali considerandole come
“sabbie mobili” in grado di paralizzare e
portare alla rovina le organizzazioni. Solo più
recentemente la prospettiva è cambiata e le
differenze culturali sono viste come una fonte
di vantaggio competitivo capace di generare
dei benefici e non più come un ostacolo allo
sviluppo60.
In questo senso l’India può essere un buon
modello da osservare per trarre utili
indicazioni su come gestire al meglio le
diversità derivate dalla multiculturalità della
sua società.
L’India è, infatti, il Paese delle diversità,
certamente una delle nazioni più eterogenee al
mondo dal punto di vista geografico, etnico,
linguistico e culturale. Per la vastità delle sue
dimensioni è la settima nazione al mondo,
mentre è la seconda per popolazione. Le città
indiane di Mumbai, Chennai, Bangalore,
Calcutta, Nuova Delhi, Hyderabad sono tra
gli agglomerati urbani più popolosi del
pianeta. Tuttavia, l’eterogeneità religiosa è
uno dei tratti distintivi dell’India come si può
evincere dalla Tabella 3:
Religione
%
Induista
80,5
Musulmana
13,4
Cristiana
2,3
Sikh
1,9
Buddista
0,8
Altre (Ebrea, Parsi, Bahai, Animista)
0,7
Giainista
0,4
La vita religiosa costituisce il tema centrale
e il cardine attorno a cui ruota la nazione61.
Tutte le maggiori religioni al mondo sono
presenti in India, sia le orientali che quelle di
tradizione monoteista, comprese alcune
scomparse nei luoghi di origine come il
cristianesimo siriaco-nestoriano o l’antica
religione zoroastriana dei Parsi62. Il Paese è
allo stesso tempo un’antica civiltà e una
nazione moderna e democratica. L’India è
anche un’enorme babele linguistica poiché
accanto all’hindi, la lingua ufficiale, e
all’inglese, che ha unificato il Paese, ce ne
sono altre ventidue riconosciute dalla
Costituzione indiana. Tuttavia, assieme alle
lingue nazionali vi sono un centinaio di lingue
parlate da oltre 10.000 persone e 234 lingue
parlate da meno di 10.000 persone63. L’India
presenta anche una marcata diversità
antropologica nella sua popolazione. Infatti, i
quattro principali Stati dell’India meridionale
(Tamil Nadu, Andhra Pradesh, Karnataka e
Kerala) sono abitati da etnie di origine
dravidica, un ceppo proto mediterraneo che si
ritiene migrato in India tra il terzo e il quarto
millennio a.C. Le lingue hanno struttura e
alfabeti assai diversi rispetto a quelle del
Nord, che hanno invece derivazione dal
sanscrito64. Il Nord e il centro dell’India sono
abitati da popolazioni di ceppo indo-ariano,
emigrate dall’Asia centrale nel Nord
dell’India intorno al XVI secolo a.C.
sospingendo le popolazioni di origine
dravidica verso sud e distruggendo la loro
avanzata civiltà urbana. L’India è anche il
Paese con il più grande aggregato di
popolazioni tribali al mondo, 84 milioni di
persone, l’8,2% della popolazione totale. Il
numero di tribù censite è di 635 costituite da
popolazioni autoctone, precedenti alle
migrazioni ariane e dravidiche65.
Tabella 3. Religioni dell’India. India Census 2001.
59
C. Hamden-Turner, The boundaries of business: the
cross-cultural quagmire, Harvard Business Review,
September-October 1991.
60
L. Hoecklin, Managing cultural differences:
strategies for competitive advantage, Economist
Intelligence Unit/Addison Wesley, London, 1995.
www.istituto-geopolitica.eu
61
R. Orlandi (a cura di), L’India tra i grandi della
terra, cit., p. 35.
62
Ivi, pp.35-70.
63
Ivi, p. 59.
64
Ivi, p.62.
65
Ivi, p.64.
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13
Nehru, uno dei padri dell’India, scrisse:
«la diversità dell’India è tremenda; è
ovvia; si trova in superficie […] ed è
immediatamente visibile a tutti […]. Ma un
sogno di unità ha occupato la mente dell’India
fin dalle origini della civiltà. Questa unità non
è stata concepita come qualcosa imposto
dall’esterno, una standardizzazione esteriore e
di credenze. Era qualcosa di più profondo e
nel suo ambito era praticata la più ampia
tolleranza di credenze e di costumi e ogni
diversità veniva riconosciuta e anche
incoraggiata»66.
Lo
stesso
Nehru
all’indomani
dell’indipendenza dell’India affermò che il
compito principale della classe politica non
era solo lo sviluppo economico, ma anche
l’integrazione emotiva e psicologica delle
popolazioni indiane. A sessant’anni di
distanza si può dire che il risultato è stato
conseguito ed è stata sconfitta l’idea di
Churchill, il quale considerava l’India una
mera “espressione geografica”67.
Le forti diversità esistenti in India hanno
sviluppato in una parte degli Indiani un senso
di grande rispetto, tolleranza, umiltà e
altruismo. Alcune componenti della società
indiana credono nel Sarva Dharma
Sambhavana68, cioè nell’eguale rispetto di
tutte le religioni e culture.
Per duemila anni l’India è stata quasi
completamente induista, ma anche il
buddismo e il giainismo hanno giocato un
ruolo rilevante. Nell’ultimo millennio la
cultura di questo Paese ha subito diverse
influenze, da quella musulmana a quella
britannica e occidentale che hanno prodotto
rilevanti cambiamenti. Perciò se non si può
affatto sostenere che la cultura indiana sia di
matrice esclusivamente induista, non si può
comunque prescindere dalla cultura induista
se si vuole comprendere questo Paese. Il
termine induismo fu utilizzato per la prima
volta dagli Inglesi nel XIX secolo per indicare
il credo e i valori di coloro che non erano né
cristiani né musulmani69. L’espressione indù
era, invece, utilizzata principalmente dai
persiani per indicare le popolazioni che
vivevano lungo il fiume Indo verso il VI
secolo a.C. Una caratteristica dell’induismo è
stata la capacità di inglobare in sé idee di altre
concezioni tanto da diventare una religione
che ha da dare e dire qualcosa a tutti, dalla
classe dei bramini alle masse70. L’induismo
propone una concezione onnicomprensiva
della realtà e per questo è difficile capire quali
siano effettivamente i contorni, dandone una
definizione. Da un’altra prospettiva non
pretende di offrire risposte certe, anzi si
mantiene nell’ambiguità, e per queste sue
caratteristiche porta a sviluppare un forte
carattere di tolleranza, non rifiutando gli
apporti esterni, ma incorporandoli in sé. Le
fondamenta dell’induismo sono contenute in
un corpo di scritture religiose denominate
Veda (“conoscenza”) e in particolare
nell’ultimo dei Veda, l’Upanishad. Nella
cultura tradizionale induista, i Veda sono
considerati impersonali e senza inizio o fine.
Ciò significa che le verità contenute nei Veda
sono eterne e non un’invenzione umana71.
L’India vedica si costituì intorno alla metà
del secondo millennio ad opera degli arya una
popolazione
di
lingua
indoeuropea
proveniente
dall’Asia
centrale.
Essi
costruirono una società di caste, che è rimasta
nei secoli uno degli elementi distintivi
dell’India fino ai giorni nostri, distinta in
quattro gruppi sociali detti varna: sacerdoti
(bramini), guerrieri, principi, grandi signori
(ksatrya), mercanti, artigiani (vaisya),
contadini (sudra) ed, infine, vi è la categoria
dei “senza casta” perché impuri e quindi
69
66
Ivi, p. 36.
67
Ibid.
68
V.N. Saxena, Indian Management, Thoughts and
Practices, Himalaya Publishing House, Mumbai, 2012,
p. 4.
www.istituto-geopolitica.eu
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, p. 65 e
H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’Asia, Mondadori,
Milano, 2001.
70
F. Zakaria, L’era post-americana, cit., pp. 161-162.
71
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cit., p.
65.
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14
intoccabili (dalit)72. Come sostiene Franco
Mazzei, in questo modo
«la società indiana fin dai tempi più antichi
ha assunto specifiche caratteristiche, quali la
separazione, l’esclusione e l’ineguaglianza,
ma ha anche sviluppato, una forte tolleranza e
capacità di integrazione»73.
L’elemento della tolleranza e del dialogo
viene inoltre sviluppato, come precisa
Amartya Sen nel suo L’Altra India, dal
giainismo e dal buddismo. Questi valori sono
stati
successivamente
radicati
con
l’Imperatore buddista Askoka e consolidati in
tempi più recenti con l’Imperatore
musulmano Akbar74.
L’induismo crede in una realtà ultima
trascendentale chiamata Brahman75, che è
l’opposto dell’illusione (maya) propria del
mondo fenomenico in cui siamo immersi ogni
giorno. L’energia vitale (atman) di Brahman è
in ogni cosa, l’uomo deve cercare di
congiungere il proprio io interiore con la
realtà ultima di Brahman. Questo è il dovere
di ogni induista che costituisce il cuore della
spiritualità dell’induismo. Un concetto
cardine dell’induismo è la dottrina del Karma
che ha un’influenza diretta sui comportamenti
degli Indiani. In breve, essa sostiene che le
persone nella vita futura saranno premiate per
le buone azioni e punite per quelle cattive.
Chi ha un buon Karma potrà aspirare a
liberarsi dal mondo illusorio e conquistare la
liberazione (moksha) cioè il congiungimento
con Brahman e interrompere la catena dei
ritorni; coloro, invece, che hanno un cattivo
Karma rinasceranno in contesti sociali
peggiori rispetto al precedente e il
raggiungimento della liberazione sarà più
difficile76. Questa dottrina può indurre
comportamenti fatalistici e pessimisti. Forse
ha certamente pesato sull’atteggiamento degli
Indiani, tuttavia, il fatto che il futuro dipenda
dai comportamenti attuali e non solo dal
passato costituisce un elemento di speranza
che genera ottimismo, come acutamente
coglie
Dominique
Moisi,
fondatore
dell’Institut
Francais
de
relations
internationales (FRI), quando scrive:
«il contrasto tra i poveri del Marocco e i
poveri dell’India è nettissimo: mentre i primi
percepiscono la globalizzazione come una
sfida persa in partenza, gli altri, contro ogni
probabilità, la considerano un’opportunità
[…]. Umiliazione a Ifrane, speranza a
Mumbai»77.
La speranza nel futuro è, infatti, il
principale fattore che sta alla base del
successo economico indiano.
L’induismo ha un forte orientamento verso
la spiritualità che condiziona la vita degli
individui tanto da regolarla in quattro fasi che
sono quella dello studente, della persona
sposata, dell’allontanamento dal mondo del
maya e, l’ultima, quella della rinuncia al
mondo78. Ancora oggi nel mondo induista
queste fasi sono seguite fino alla preparazione
spirituale per il congiungimento con il
Brahaman.
Un altro concetto importante per
comprendere la mentalità induista è quello di
dharma che si riferisce al comportamento
moralmente giusto a cui l’individuo si deve
attenere. Esiste un dharma universale e un
dharma specifico che l’individuo deve avere
l’abilità di adattare alla situazione particolare.
Da qui deriva spesso una certa indulgenza
anche nei confronti di chi si distacca dal
dharma che può essere perdonato e ritornare a
una vita virtuosa. Questo messaggio di
72
A. Armellini, L’elefante ha messo le ali, cit., pp. 6970.
73
F. Mazzei, V. Volpi, Asia al centro, cit., pp. 191193.
74
A. Sen, L’Altra India, cit., pp. 17-44.
75
H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’Asia, cit., pp.
280-377.
www.istituto-geopolitica.eu
76
R. Kumar, A. K. Sethi, A. K., Fare affari in India,
cit., p. 66.
77
D. Moisi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti,
Milano, 2009, pp. 17-18.
78
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cit., p.
67.
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15
tolleranza applicato con una troppa
indulgenza può aver contribuito a creare un
ambiente favorevole alla giustificazione della
corruzione che è uno dei mali che affligge la
società indiana79.
La corruzione in India è alimentata da
diversi fattori tra cui l’assenza di sistemi di
accountability e d’informazione efficaci, la
difficoltà di esercitare l’azione penale, ma
anche, come sostiene Sen, da un ambiente
sociale
di
tolleranza
dei
misfatti,
indipendentemente da quanto “morali” le
persone tendano a considerare tali reati80.
Quello che si vuole mettere in evidenza in
questa sede è la convinzione diffusa che la
corruzione sia un “comportamento normale”
che trova le sue radici nel sistema di valori
indiano e in una certa indulgenza. Gli Indiani
hanno un’idea di ciò che è giusto o sbagliato,
come sostiene Pavan Varna81, più legata
all’efficacia che non a nozioni assolute di
moralità. Questo fatto porta loro a valutare la
corruzione in funzione dei risultati che genera
e spesso a giustificarla.
Tra le virtù del sistema di valori indiano ci
sono la capacità di condurre una vita generosa
e altruista, la sincerità, la capacita di limitare
la propria bramosia e il rispetto per gli
anziani. In India gli anziani svolgono un ruolo
di guida spirituale nei confronti dei più
giovani dando spesso origine a forme di
paternalismo che è ancora oggi molto diffuso,
così come il patronage82.
Un ultimo concetto che caratterizza l’India
è quello della gerarchia. Gli Indiani credono
che il cosmo e ogni cosa siano disposti in
ordine gerarchico. La classificazione ad
esempio delle caste rappresenta un sistema
stratificato, chiuso, in cui la mobilità verticale
è quasi impossibile. La società e le
organizzazioni hanno un orientamento
collettivista: è il gruppo che prevale e
quest’aspetto si manifesta con una forte
adesione ai valori di un’impresa, ma anche
con il rispetto nei confronti della gerarchia.
L’Indiano obbedisce tanto da creare una
forma di dipendenza dal proprio capo che è
uno degli elementi che caratterizza la cultura
organizzativa indiana. Sinha scrive che la
genesi della strategia comportamentale di
rendersi completamente dipendenti dai propri
superiori in modo da responsabilizzarli e
obbligarli moralmente a prendersi cura dei
loro subordinati, ha una lunga tradizione nella
storia dell’India e deriva dai Veda83. La
dipendenza totale la si ritrova nel rapporto tra
guru (maestro) e shishya (studente), nel quale
quest’ultimo deve avere una fede incrollabile
nel maestro84.
Se è vero che il senso della gerarchia è
molto forte in India, corre però l’obbligo di
ricordare che le cose stanno cambiando
rapidamente e soprattutto nelle multinazionali
indiane sta emergendo un orientamento molto
forte alla valorizzazione delle risorse umane.
“Harvard Business Review”85 riporta una
ricerca effettuata su un campione composto da
circa un centinaio di dirigenti di grandi
imprese indiane dalla quale è emerso che:
«nessuno di coloro che sono stati
intervistati ha dichiarato che la propria
azienda ha avuto successo grazie alla propria
personale genialità in fatto di strategia o agli
sforzi del top management […]. Quasi senza
eccezione tutti hanno detto che la fonte del
loro vantaggio competitivo si trova nel
profondo delle loro aziende: nel personale
[…]. La stragrande maggioranza delle
imprese indiane intreccia strategia e missione
sociale»86.
Nell’avanguardia
delle
imprese
79
Ivi, p. 97.
J. Dreze, A. Sen, Una Gloria Incerta. L’India e le
sue contraddizioni, cit., pp. 108-109.
81
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, p. 97,
nota 6. P. Varma, Being Indian, Peguin/Viking, India,
2004.
82
B. R. Virmani, The challenges of Indian
Management, Response Book, New Delhi, 2007, p. 28.
80
www.istituto-geopolitica.eu
83
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, pp. 8285.
84
H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’Asia, p. 62.
85
P. Cappelli, H. Singh, J. Singh, M. Useem, Lezioni di
Leadership dall’India, “Harvard Business Review”,
Marzo 2010, p. 81.
86
Ibid.
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16
multinazionali indiane si scorge un modello di
management che acquisterà forza nel futuro e
che sta ripensando alcuni valori del sistema di
valori indiano per stimolare la creatività,
l’innovazione e creare strutture organizzative
più dinamiche rivolte alla valorizzazione delle
risorse umane e della missione sociale
dell’impresa. L’induismo ha una visione
olistica e organicistica del mondo per cui gli
induisti tendono a entrare in comunione con la
natura e diventare un tutt’uno con essa perché
questa è la naturale forma di relazione
dell’essere umano con il mondo87. In questo
senso l’induismo non ha una concezione
lineare del tempo ma circolare, in cui il tempo
è una pura illusione della mente umana e non
è altro che una successione di cicli. Un altro
elemento che caratterizza la cultura induista è
la concezione del lavoro, che deve essere
svolto con il massimo impegno, ma non
pensando ai risultati e ai benefici materiali
che se ne possono ricavare88. In questa
concezione si ritrova ancora un forte
orientamento spirituale.
Un altro elemento interessante che emerge
è l’improvvisazione89. Jugaad è un termine
hindi che vuol dire capacità di risolvere un
problema di vario genere con l’inventiva.
Jugaad implica la capacità di pensare fuori
dagli schemi e rifiuto di modelli prestabiliti,
ma anche capacità d’inventare soluzioni con
mezzi limitati. È questa capacità che l’India
sta utilizzando per far crescere il suo sistema
economico e le sue aziende che generano
soluzioni innovative con investimenti
finanziari esigui. Questo tipo di approccio del
management indiano nasce dalla convivenza
con una burocrazia soffocante, infrastrutture
fatiscenti, scuole e altri servizi pubblici
inadeguati. Questo tipo di contesto ha fatto
maturare nel management ostinazione,
capacità d’improvvisazione e creatività90.
87
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cit., p.
70.
88
M. Gannon, Global Mente, cit., p. 407.
89
R. Kumar, A. K. Sethi Fare affari in India, cit., pp.
94-96.
90
P. Capelli, H. Singh, J. Singh, M. Useem, Lezioni di
Leadership dall’India, cit., p. 87.
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Queste capacità si sposano con la flessibilità
cognitiva che permette di conciliare aspetti
della vita che spesso sono contrastanti come il
perseguire obiettivi materiali come il denaro
e, nello stesso tempo, aspirare ad una vita
spirituale.
Per quanto riguarda lo stile comunicativo,
che definisce alcune peculiarità della cultura
nazionale, come nelle altre culture asiatiche, è
fortemente contestuale: dipende dalla natura
dei rapporti tra le persone e dalla situazione in
cui ci si trova91. Per esempio in un contesto
organizzativo indiano, dove domina la cultura
gerarchica,
il
dipendente
terrà
un
atteggiamento molto deferente verso il
superiore e sarà molto riluttante ad avviare
una comunicazione diretta e fornire
informazioni. Questo tipo di stile è spesso
indiretto. Per esempio non è opportuno dire
“no” apertamente per paura di offendere la
controparte
e
non
viene
affrontato
direttamente un cliente, cosa che a volte porta
a situazioni imbarazzanti come ritardi e
generazione di costi eccessivi. Quando si
sente dire molto spesso da un Indiano che non
c’è nessun problema si vuole in realtà dire che
«lo so che ci saranno problemi, ma da parte
mia farò il mio meglio», quindi viene adottato
uno stile che deve essere costantemente
interpretato da parte dell’interlocutore. Lo
stile comunicativo indiano è molto elaborato
piuttosto che breve e rapido. Gli Indiani
amano infatti parlare molto e spesso a lungo,
esaminando nel dettaglio tutte le possibili
sfaccettature di un problema. Spesso la loro
gestualità può indurre confusione e comunica
un messaggio che è in contrasto totale con
quello che comunemente viene accettato dalla
cultura occidentale.
Lo studioso di management Virmani92 ha
analizzato in una ricerca su campo le
specificità della culturale manageriale
indiana. Egli sostiene che, sebbene il
management indiano sia tributario di quello
91
R. Kumar, A. K. Sethi, Fare affari in India, cit., p.
139.
92
B. R. Virmani, The challenges of Indian
Management, cit., pp. 11-16.
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statunitense, giapponese e in genere
occidentale, e gran parte della classe dirigente
sia stata formata in scuole di business
occidentali o che si ispirano ad esse, l’India
rimane un Paese duale in cui ciò che è
insegnato spesso non viene messo in pratica e
il sistema di valori indiano prende il
sopravvento su idee e metodologie
importate93. L’executive director di Tata Sons
ha spiegato questo elemento in maniera
efficace, riferendosi ai manager indiani: «we
think in English and act in Indian»94.
In India sempre di più si sta sviluppando la
consapevolezza che la cultura indiana può
fornire l’impalcatura capace di reggere un
nuovo modo di concepire il management,
auspicato anche da Gary Hamel95 nel suo
ultimo libro Il Futuro del management. L’idea
di alcuni studiosi indiani di management è che
l’approccio olistico dovrebbe essere integrato
nel moderno management, così come la
dimensione spirituale e sociale. La cultura
rappresenta il terreno su cui l’India potrà
affermarsi. Inoltre, il mondo delle imprese, in
particolare negli Stati Uniti, ha iniziato a
scoprire e apprezzare alcuni aspetti della
visione manageriale indiana. Una serie di
cosiddetti “guru” del management stanno
introducendo nelle business school e nelle
aziende un nuovo approccio di gestione. Più
attenzione al ruolo allargato dell’impresa, cioè
non solo agli azionisti ma anche ai
consumatori, alle comunità, all’ambiente, ai
dipendenti. Apprezzamento del profitto, ma
con una certa moderazione e, in concreto, il
rifiuto di considerarlo come un valore
assoluto. La novità è inoltre rappresentata dal
fatto che sono Indiani i fautori di questo
nuovo modo di fare impresa. Swami
Parthasarathy, per esempio, è un autore molto
conosciuto in India di testi di Vedanta,
un’antica scuola di filosofia induista che si
occupa della natura della realtà. Recentemente
93
B. R. Virmani, P. Mahurkar, Dualism in Indian
Management, in www.indianmanagement.org.
94
P. Cappelli, H. Singh, J. Singh, M. Useem, The India
Way, cit., p. 14.
95
G. Hamel, Il futuro del management, Etas, Milano,
2008.
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ha visitato diverse business school degli Stati
Uniti per insegnare come si gestisce lo stress
e ha incontrato uomini d’affari per spiegare
loro la differenza tra il fare fortuna e il
raggiungere la felicità. Il 10% dei professori
delle Università di Harvard, Michigan e
Kellogg sono di origine indiana, come riporta
la rivista americana “Business Week”,
definendo questo fenomeno come Karma
Capitalism96. L’India non è dunque solamente
l’ufficio del mondo, ma un luogo dove spesso
si elaborano valori e cultura gestionale che
una parte dell’Occidente sta accettando
d’importare.
Sembra ormai un dato di fatto non più una
previsione, ciò che è stato sostenuto dalle
colonne del “The Economist”:
«Un giorno saranno loro (le imprese
indiane) a insegnarci le nuove regole del
mestiere d’impresa, proprio come nell’ascesa
del Giappone la Toyota divenne l’azienda
pilota mondiale, che rivoluzionò il modo di
fare automobili»97.
Il contributo alla teoria del management da
parte dell’India è recente. Esso si sviluppa
negli ultimi anni in particolare attraverso
studiosi, quali per esempio C. K. Prahalad98,
che descrivono da un lato le nuove pratiche
manageriali delle imprese multinazionali
indiane e dall’altro formalizzano alcuni
modelli come nel caso di Vijay Govindrajan99.
In particolare, quest’ultimo ha teorizzato un
modello di gestione strategica del business100,
applicato
da
Infosys,
che
s’ispira
dichiaratamente a concezioni radicate nel
sistema di valori induista e nello specifico alle
tre divinità Brahma, Shiva e Vishnu,
96
P. Engardio, J. McGregor, Karma Capitalism,
“Business Week”, October 30th, 2006.
97
F. Rampini, La speranza Indiana, Mondadori,
Milano, 2007, p. 31.
98
Per
un
profilo
biografico,
http://en.wikipedia.org/wiki/C._K._Prahalad.
99
Per
un
profilo
biografico,
http://en.wikipedia.org/wiki/Vijay_Govindarajan.
100
V. Govindarajan, C. Trimble, Il ruolo del Ceo nella
reinvenzione del business model, “Harvard Business
Review”, Gennaio-Febbraio 2011.
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rappresentanti le dimensioni di creazione,
distruzione e conservazione, e che vengono
applicati alla gestione del cambiamento
strategico.
Nel libro The India Way101 gli autori
definiscono un modello del sistema di
management indiano su quattro variabili. Esso
è stato ricavato da una ricerca diretta su
campo che ha riguardato le maggiori imprese
indiane, ossia le protagoniste dello sviluppo
economico. Esso è costituito dalla seguenti
dimensioni:
gestione
organicistica
dell’organizzazione, cura e attenzione alla
risorsa umana, creatività e improvvisazione, e
infine responsabilità sociale. In questo senso
si può sostenere che il modello di
management indiano nei termini in cui lo
abbiamo descritto rientra in alcune delle
tendenze future del management delineate da
Hamel102 di cui citiamo solo le principali:
•
•
•
il lavoro e la gestione delle
organizzazioni sarà orientato a fini
più elevati: le prassi manageriali
del futuro si concentreranno sul
conseguimento di obiettivi nobili e
socialmente rilevanti;
il management incorporerà i
concetti di comunità e cittadinanza
riconoscendo l’interdipendenza di
tutti i gruppi di stakeholder;
il management svilupperà e gestirà
la diversità che è fonte di creatività,
innovazione e cambiamento, fattori
vitali
in
un
sistema
di
globalizzazione
sempre
più
avanzato.
Il sistema di valori indiano, che poggia
sulla multiculturalità, costituisce una risorsa
su cui l’India potrà contare nei prossimi anni
perché è in grado di alimentare la creatività
manageriale, generando nuovi modelli spesso
all’avanguardia nel settore della gestione delle
imprese. La capacità di gestire situazioni
multiculturali, in un mondo sempre più
globalizzato, è, infatti, un fattore che potrebbe
avvantaggiare l’India anche in una prospettiva
esterna, soprattutto, in aree in cui la
conflittualità minaccia la sicurezza e la
stabilità del Paese. Un esempio che si può
considerare in questo contesto è l’industria
cinematografica indiana, potente strumento
attraverso cui vengono diffusi i valori
culturali indiani in tutto il mondo. Come
sostenuto
dallo scrittore indiano Shashi
Tharoor:
«Bollywood is Indian secret weapon,
producing five times as many films as
Hollywood and taking India to the world, by
bringing its brand of glitzy entertainment not
just to the Indian diaspora in the USA or UK
but to the screen of Syrian and
Senegalese»103.
La forza della cinematografia indiana è
quella di avere un forte appeal sulle
popolazioni islamiche, in quanto è capace di
superare le barriere culturali che dividono
indiani musulmani e indiani induisti.
Questa capacità di costruire ponti tra
culture diverse non è riscontrabile alla stessa
maniera nell’industria cinematografica di
Hollywood. Osservando ai prodotti offerti dal
cinema indiano si può, pertanto, sostenere
che:
«there is something unique about Indian
culture; a spirit of inclusiveness and tolerance
pervades the Indian culture. While the West
often tries to discuss the world in black and
white terms, distinguishing itself from either
the evil empire or axis of evil, the Indian
mind is able to see the world in many
different colors»104.
Le novità che il management indiano sta
apportando fanno ipotizzare che esso possa
101
P. Cappelli, H. Singh, J. Singh, M. Useem, The
India Way, cit.
102
G. Hamel, Le grandi sfide per il management del
XXI secolo, “Harvard Business Review”, Aprile 2009.
www.istituto-geopolitica.eu
103
K. Mahbubani, The New Asian Hemisphere, Public
Affairs, New York, 2008, p. 170.
104
Ivi, p.172.
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costituire una nuova frontiera su cui anche
l’Occidente si dovrà misurare.
3. Conclusioni
Negli ultimi venti anni l’economia
dell’India per effetto di vaste riforme è
riuscita a crescere a ritmi sostenuti. L’India è
stata in grado, attraverso un modello
economico fondato sulla crescita del terziario
e dei servizi basati sull’IT a sviluppare una
knowledge
society
che
ha
trainato
successivamente
anche
l’industria
manifatturiera, sia quella tradizionale basata
sul tessile, la pelletteria e la gioielleria, che
quella avanzata (farmaceutico, aerospaziale,
biotecnologie,
automotive,
industria
cinematografica). L’India, nonostante i ritmi
di crescita sostenuti, non è però ancora
riuscita a risolvere alcuni dei principali
problemi che ostacolano lo sviluppo di vaste
aree interne. Diversi apparati infrastrutturali
rimangono ancora arretrati anche se per i
prossimi anni sono previsti ingenti
investimenti per il loro miglioramento; la
burocrazia onnipresente e corrotta costituisce
un freno alla crescita economica; le
diseguaglianze
sociali
permangono
e
sembrano allargarsi. Tuttavia, il modello di
sviluppo indiano poggia su basi solide ed è
trainato dall’entusiasmo e dalla fiducia che gli
Indiani hanno per il futuro. In questo senso, i
valori tradizionali della società indiana
possono contribuire a generare un’atmosfera
positiva e di fiducia nel Paese e nei singoli,
esprimendosi in particolare in una nuova
cultura di management. Oggi l’India esporta
non solo servizi tecnologici avanzati, ma
anche tecniche manageriali che si stanno
diffondendo tra le aziende statunitensi e solo
in parte tra quelle europee. In questo contesto
il continente africano sta diventando un luogo
dove il soft power105 indiano si sta lentamente
affermando come descritto nel rapporto della
società di consulenza McKinsey, Joining
hands to unlock Africa’s potential, in cui
l’India si accredita come solutions partner per
105
R. D. Mullen, S. Ganguly, The rise of India’s soft
power, “Foreign Policy”, May 8th, 2012.
www.istituto-geopolitica.eu
i Paesi africani106. Un’altra area strategica
sulla quale l’India esercita una certa
influenza, attraverso management e cultura, e
nella quale gode di una buona reputazione, è
quella rappresentata dai Paesi del Golfo107.
Nuova Delhi ha interessi economici rilevanti
nel settore delle costruzioni, dell’IT e della
sanità. Il commercio bilaterale ha raggiunto
un valore di 159 miliardi di dollari tanto che
questi Paesi sono tra i maggiori partner
commerciali dell’India108. In quest’area
l’India sta investendo in particolare nel settore
privato del management di strutture
sanitarie109.
Certamente, nei prossimi anni, almeno in
Europa, si dovrà abbandonare i tipici
stereotipi legati all’India e abituarci invece a
un modello in cui spiritualità, capacità
gestionale e perseguimento degli obiettivi in
un’ottica rispettosa dei valori sociali
dell’impresa si affermerà sempre più.
L’India sembra essere, in questo contesto,
il paese leader della nuova fase di
“globalizzazione sorvegliata”110 perché la
cultura manageriale e i valori ereditati dal suo
passato le consentono di interloquire con le
multinazionali occidentali da una posizione di
autonomia con una maggiore consapevolezza
della responsabilità sociale d’impresa tanto da
disegnare
le
nuove
regole
della
globalizzazione. Tra i Paesi dell’Asia, l’India
appare dunque quello con le maggiori
potenzialità per fornire nuovi modelli di
management a livello globale.
106
McKinsey Asia Center, Joining hands to unlock
Africa’s potential, March 2014; R. D. Kaplan, Center
Stage for the 21st Century, “Foreign Affairs”, MarchApril 2009.
107
O. M. Mohamed, India-GCC ties can boost regional
stability, “Gulf News”, June 7th, 2014.
108
GCC as an investment destination, “Alpen Capital”,
November 2013.
109
V. Govindarajan, R. Ramamurti, Delivering World
Class Health Care, Affordably, “Harvard Business
Review”, November 2013.
110
I. Bremmer, Le nuove regole della globalizzazione,
“Harvard Business Review”, Gennaio-Febbraio 2014.
www.geopolitica-rivista.org