la crisi finanziaria ed economica internazionale 2008

LA CRISI FINANZIARIA ED ECONOMICA INTERNAZIONALE 2008-2012
LA CRISI DEL DEBITO DELL’EUROPA E DELL’ITALIA
Indice
I - LA CRISI FINANZIARIA ED ECONOMICA INTERNAZIONALE 2008-2012
1 - Le crisi intrinseche all’economia capitalistica
e le crisi causate dalla politica..................................................................................................
2 - La speculazione finanziaria e i suoi due ruoli ...........................................................................
2.1 - La crisi del 2000. I legami tra la borsa e l’economia reale
Gli aspetti positivi della speculazione finanziaria.......................................................................
2.1.1 - Perché i governi non intervengono: i legami tra la borsa e l’economia reale..........................
2.1.2 - Gli aspetti positivi della speculazione finanziaria, che deve essere regolata
ma non può essere eliminata..................................................................................................
3 - Il ruolo del dollaro nell’economia mondiale
e la crescita della liquidità internazionale .................................................................................
4 - Una crisi determinata dalla politica ..........................................................................................
4.1 - I mutui subprime e le obbligazioni spazzatura Abs e Cdo; i Cds ................................................
4.2 - Il ruolo della politica .................................................................................................................
4.3 - La crisi delle carte di credito .....................................................................................................
4.4 - Nota sui timori di svalutazione del dollaro e sulle ipotesi circa i legami tra la crisi
e la guerra in Iraq ......................................................................................................................
4.5 - Il capitalismo produce beni e servizi. La politica produce regole ...............................................
4.5.1 - La diversa funzione delle regole nel settore produttivo ed in quello finanziario .....................
4.6 - Le conseguenze della crisi e il paragone senza fondamento con la Grande Crisi
degli anni Trenta ..............................................................................................................................
4.6.1 - Le conseguenze della crisi. E’ finito (per sempre?) un modello di consumo ...........................
1. Una svolta nella storia del consumo ...................................................................................
4.6.2 - La sostanziale diversità dalla crisi degli anni Trenta.............................................................
4.7 - Le misure adottate per contrastare la crisi..................................................................................
4.8 - “Perché i cittadini dovrebbero pagare per salvare le banche?” ...................................................
4.9 - Vi è l’esigenza di regole per impedire truffe e rischi eccessivi, tuttavia non siamo
alla fine del capitalismo............................................................................................................
1. La truffa delle cartolarizzazioni confezionate apposta per guadagnare dal sicuro crollo
del loro valore ......................................................................................................................
4.10 - “Il trionfo dello Stato sul mercato”, ovvero la vecchia retorica statalista..................................
5 - I pericoli delineati dai salvataggi imposti dalla crisi.................................................................
5.1 - Eccesso di regolazione e controllo politico dell’economia .........................................................
5.2 - Blocco della privatizzazione dei servizi pubblici
e abbandono della normale prudenza nell’assunzione del rischio ...............................................
6 - La crisi non è finita: il pericoloso indebitamento degli Stati,
il ristagno dell’occupazione e i timori di una seconda recessione ........................................
1. Le pesanti conseguenze sociali del perdurare della disoccupazione.........................................
2. L’indebitamento frena gli investimenti nelle energie rinnovabili..............................................
7 - La discussione sulle operazioni finanziarie consentite dalle leggi ..........................................
7.1 - Le banche utilizzano il denaro dei clienti per speculare in proprio .............................................
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7.2 - La speculazione mediante i Cds: assicurare titoli che non si posseggono,
ovvero scommettere sul fallimento dei debitori (Stati e imprese) ...............................................
7.3 - La speculazione con i Cds prende di mira gli Stati finanziariamente più fragili,
e manipola le borse....................................................................................................................
7.4 - La funzione positiva della speculazione mediante i Cds:
sono un severo guardiano del buon governo degli Stati e delle imprese .....................................
8 - Le nuove regole che si dovrebbero imporre, e gli interessi che le ostacolano
Il rischio di svalutazioni competitive come alternativa al protezionismo.................................
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II - LA CRISI DELL’EURO: I MERCATI FINANZIARI INTERNAZIONALI TEMONO
IL FALLIMENTO DI ALCUNI STATI EUROPEI. L’INADEGUATEZZA DEI PARLAMENTI
DEMOCRATICI AL GOVERNO DELLE CRISI ECONOMICHE
9 - In Europa: debito in crescita, fisco pesante, fuga dei capitali,
aumento della disoccupazione. I cittadini e i parlamenti ignorano le nuove esigenze
poste dalla globalizzazione ........................................................................................................
9.1 - Perché la fiducia nell’Europa si è dileguata ...............................................................................
9.2 - Per ripristinare la fiducia: ridurre il deficit e il debito, e promuovere la crescita.
L’inadeguatezza dei parlamenti democratici al governo delle crisi.............................................
9.3 - L’incapacità dei parlamenti democratici di affrontare le crisi economiche .................................
1. Nota sulle conseguenze e sul significato della svalutazione della moneta...............................
2. Nota sul “cinismo” della Germania e della Francia..............................................................
9.4 - I cittadini non accettano la riduzione del tenore di vita
Lo stretto rapporto tra la conoscenza e la democrazia ..............................................................
9.5 - Il mito della “decrescita”. Una costante crescita economica è indispensabile
per combattere la disoccupazione. La sua possibilità non conosce limiti
nella società della conoscenza, della comunicazione e dei servizi ..........................................
9.6 - La situazione delle banche e la carenza di liquidità....................................................................
9.7 - In Italia la pressione fiscale sulle imprese è l’ostacolo principale
alla crescita economica. I fattori che ne impediscono la riduzione............................................
9.8 - Il governo Monti: cosa può e cosa non può fare.........................................................................
1. Evasione fiscale.....................................................................................................................
2. Corruzione ............................................................................................................................
9.9 - Addio al “posto fisso”: il nuovo rapporto tecnologia-insicurezza
Il lavoro precario e la riforma della legislazione sul mercato del lavoro ...................................
9.10 - La fragilità delle imprese italiane e la loro dipendenza dalle banche. Perché i nostri salari
sono mediamente inferiori a quelli delle categorie corrispondenti negli altri grandi Paesi
europei ....................................................................................................................................
9.11 - In Europa sono assenti le condizioni necessarie per una duratura crescita economica .............
9.12 - Conclusioni sull’Italia 52
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LA CRISI FINANZIARIA ED ECONOMICA INTERNAZIONALE 2008-2012
LA CRISI DEL DEBITO DELL’EUROPA E DELL’ITALIA
I - LA CRISI FINANZIARIA ED ECONOMICA INTERNAZIONALE 2008-2012
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L’esame dell’attuale crisi inizia dal paragrafo 4. E’ opportuno far precedere l’analisi da una
sintetica descrizione dei diversi tipi di crisi economiche (par. 1) e delle funzioni della speculazione (par. 2), nonché del ruolo del dollaro nell’economia internazionale (par. 3).
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Nota di rimando. Questo testo, in relazione ad alcuni argomenti, rimanda
ad un lavoro su internet sul quale tali argomenti sono sviluppati più estesamente.
Al testo su internet si accede seguendo il percorso
www.uciimtorino.it > scuola on line > globalizzazione, no global, ecc.
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1 - LE CRISI INTRINSECHE ALL’ECONOMIA CAPITALISTICA
E LE CRISI CAUSATE DALLA POLITICA
L’economia di un Paese o di un gruppo di Paesi o del mondo intero, viene definita in crisi
quando la produzione complessiva di ricchezza ristagna o diminuisce, le borse calano, gli investimenti, l’occupazione e i profitti si riducono; se il calo prosegue per diversi mesi, si dice che
l’economia è in recessione.
Prima di analizzare l’attuale crisi, iniziata nel 2008, si deve richiamare un principio fondamentale ma generalmente trascurato:
Il capitalismo, fondato sulla spinta alla ricerca del profitto, si autodistruggerebbe se la politica
non imponesse regole per impedire gli esiti disastrosi di questa ricerca: è totalmente infondata
l’idea che il mercato capitalistico sappia autoregolarsi. La “mano invisibile” regolatrice del
mercato che Adam Smith aveva teorizzato, in realtà non è mai esistita. L’esigenza di regole è
determinata dalla natura stessa del capitalismo: la lotta per il profitto, alimentata dal rischio
di venire espulsi dal mercato, tende a fare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri,
spinge le imprese a ridurre i costi di produzione in qualsiasi modo, sfruttando i dipendenti,
trascurando i pericoli per la salute, i rischi di incidenti, la sofferenza delle persone e i danni
per la collettività; le spinge a dilapidare, avvelenare e distruggere le risorse naturali
e ambientali, a falsificare i bilanci, evadere il fisco, corrompere gli uomini politici
e gli amministratori per lucrare sulle forniture o per ottenere finanziamenti, esenzioni o vantaggi
illegali; spinge chi opera in borsa a manovre che possono mettere a rischio l’intera economia,
come è accaduto con la crisi iniziata nel 2008. Soltanto le regole possono
tutelare le persone, evitare i danni alla collettività e impedire le truffe.
Una crisi può essere determinata, anziché dall’assenza di regole o da regole errate -e di ciò è responsabile la politica- da meccanismi intrinseci al capitalismo, quando in numerosi settori si verifica un eccesso di capacità produttiva. Si tratta di un fenomeno inevitabile che da sempre caratterizza
l’economia capitalistica: le imprese sono inclini a sovrastimare il consumo dei loro prodotti, e
quindi eccedono negli investimenti; ad un certo punto l’accumularsi di merci invendute le costringe
1
a frenare la produzione: calano i profitti, gli investimenti e l’occupazione, generando i ricorrenti cicli di espansione-recessione dell’economia e delle borse.
Negli altri casi le crisi sono determinate dagli interventi errati dei politici, o dal loro sottrarsi alla necessità di intervenire.
1) Eccesso di liquidità (politica monetaria espansiva): le autorità politiche mettono in circolazione una quantità eccessiva di moneta per stimolare l’economia: poiché il denaro costa poco, diminuiscono i costi di produzione1 e quindi crescono la produzione, gli investimenti e l’occupazione;
una delle conseguenze, in alcuni casi, può essere l’aumento dei prezzi delle merci e dei servizi (inflazione)2. La moneta si svaluta3 (facilitando le esportazioni, divenute meno costose per gli acquirenti stranieri, e riducendo le importazioni, divenute più care per gli acquirenti nazionali). Inoltre,
essendo il denaro a buon prezzo, molti ne prendono in prestito per investirlo in borsa: il valore dei
titoli sale in continuazione senza che vi sia un rapporto con la loro redditività attuale o futura, perché chi acquista dei titoli oggi è certo di poterli rivendere più avanti ad un prezzo più elevato. Inevitabilmente ad un certo punto la crescita si ferma, la borsa crolla e anche l’economia reale va in
crisi, perché i privati e le imprese restano impoveriti dalla diminuzione del valore dei titoli che posseggono, e quindi gli acquisti rallentano: calano la produzione, gli investimenti e l’occupazione.
L’eccesso di liquidità è stato l’indispensabile premessa anche della crisi iniziata nel 2008: senza il
basso costo del denaro la sequenza dei fatti descritta nel par. 4.1 non avrebbe potuto verificarsi.
2) Scarsa liquidità (politica monetaria restrittiva che fa aumentare i tassi di interesse): le autorità politiche riducono la quantità di moneta in circolazione per due motivi:
a- frenare una fuga di capitali all’estero4, trattenendoli con il tasso di interesse aumentato;
b- frenare un’economia troppo vivace che sta generando inflazione: facendo diventare il denaro
più caro, aumentano i costi di produzione e quindi diminuiscono la produzione, gli investimenti e
l’occupazione. La moneta si rivaluta (e quindi calano le esportazioni e aumentano le importazioni).
L’economia rallenta e la borsa cala, anche perché il caro-denaro rende meno conveniente prenderne
a prestito per acquistare titoli. La politica monetaria restrittiva viene praticata dai governi solo in
questi due casi in cui appare ildispensabile. (Le sue numerose conseguenze negative sono descritte
nel par. 2.1.1).
3) Prelievo fiscale e oneri sociali a carico delle imprese troppo elevati5, per compensare il rifiuto dei governi di ridurre la spesa pubblica che assicura il consenso dei cittadini; ne consegue la
riduzione dei profitti, degli investimenti, della produzione e dell’occupazione.
4) Ostacoli alla concorrenza e alla libertà di mercato, che fanno salire i prezzi e frenano lo sviluppo. Questi ostacoli vengono posti o mantenuti dai politici per favorire singole imprese, o interi
settori economici, o società pubbliche oppure legate a enti pubblici, che temono la concorrenza perché si ridurrebbero i loro profitti; naturalmente i beneficiati finanziano i protettori politici.
5) Salari eccessivamente bassi, e quindi debolezza della domanda interna di merci e servizi.
Può accadere soltanto nelle dittature, nelle quali non esiste il diritto di sciopero e i sindacati non
1
I costi di produzione diminuiscono perché le imprese, con poche eccezioni, devono ricorrere con continuità al credito
delle banche o dei risparmiatori (quando emettono obbligazioni). Se cala il costo del denaro, diminuisce anche il costo
di questi finanziamenti.
2
Eccesso di moneta significa che la gente ha più denaro da spendere, e quindi aumenta la domanda di un gran numero
di beni e di servizi; ma ci vuole tempo perché aumenti anche la produzione di questi beni, e nel frattempo, non essendo
possibile soddisfare interamente la domanda accresciuta, i compratori vengono selezionati aumentando i prezzi.
3
Se c’è abbondanza di denaro, il suo valore (come avviene per qualsiasi merce) diminuisce (svalutazione).
4
I capitali fuggono da un paese quando temono il verificarsi di fatti economici o di decisioni politiche che metterebbero
a rischio la possibilità di fare profitti, oppure la sicurezza del rimborso dei crediti.
5
Generalmente a causa del deficit di bilancio.
2
hanno potere. Si comprimono i consumi interni allo scopo di incrementare le esportazioni. Esemplare il caso della Cina, che sfrutta i lavoratori tenendo bassi i salari per ridurre i costi di produzione
e incrementare le vendite all’estero. (La crisi attuale, e quindi il relativo calo della domanda mondiale dei prodotti cinesi, sta costringendo il governo ad accrescere il potere d’acquisto dei cittadini:
a questo fine all’inizio di novembre 2008 è stata decisa una generale riduzione delle tasse per incrementare i consumi interni, e nel 2010 il salario minimo è stato aumentato del venti per cento).
Va segnalato un equivoco del quale molti sono vittima in questo periodo di difficoltà dell’euro.
Non si deve confondere il caso dei salari troppo bassi imposti da un governo dittatoriale (il quale
può facilmente decidere di alzarli quando pare opportuno, come appunto sta avvenendo in Cina)
con ciò che invece accade in molti paesi caratterizzati da una “economia di trasformazione” -quale
ad esempio è l’Italia- privi di risorse energetiche e di materie prime, e con una produzione agricola
insufficiente, costretti quindi a massicce importazioni che a tutti i costi devono essere bilanciate
dalle esportazioni. La concorrenza tra prodotti analoghi sul mercato globalizzato costringe tutti
quelli che vogliono esportare a ridurre i costi di produzione per poter ridurre i prezzi. Soltanto i paesi che investono nella ricerca scientifica, producendo con continuità brevetti per nuove merci o
nuovi metodi produttivi, che per qualche tempo non verranno imitati, riescono ad esportare a prezzi
molto rimunerativi (perché non ancora soggetti alla concorrenza) e quindi possono mantenere buoni
salari. Invece nei paesi che producono prevalentemente merci e servizi soggetti alla concorrenza (e
tra questi, ancora una volta, vi è l’Italia, a causa dei ridottissimi investimenti nella ricerca scientifica) il contenimento dei salari è una misura indispensabile per ridurre i costi e riuscire ad esportare. Non si può, nei paesi economicamente evoluti con un livello di benessere medio-alto, fare come
in Cina: aumentare il potere d’acquisto dei salari per vendere all’interno ciò che non si esporta: non
si può perché mentre nei paesi poveri l’innalzamento dei salari promuove gli acquisti di merci in
gran parte prodotte all’interno, nei paesi come l’Italia l’esperienza insegna che una parte significativa degli aumenti salariali viene indirizzata all’acquisto di merci importate, aggravando il problema
anziché risolverlo. Quindi hanno torto quelli che vorrebbero che si imitassero i cinesi e si oppongono alle misure di austerità adottate dai governi europei a partire dal 2010 per fronteggiare la crisi
dell’euro (misure che riducono i salari e i benefici sociali); questi critici sostengono che queste misure aggraveranno la crisi, mentre in realtà il contenimento della spesa pubblica e dei salari è
l’unico modo per fronteggiarla accrescendo le esportazioni, a costo purtroppo di un periodo di sacrifici che non sappiamo quanto sarà lungo.
Queste cinque cause non sono intrinseche al capitalismo (modo di produrre) ma dipendono da
una sua cattiva regolazione da parte della politica. La cattiva regolazione (o l’assenza di regole necessarie) può avere diverse motivazioni:
a) in moltissimi casi è dettata dalla ricerca del consenso elettorale da parte dei politici;
b) in altri casi dipende da loro errori compiuti in buona fede;
c) altre volte dipende da connivenze criminose tra politici e imprenditori, che procurano vantaggi ad alcuni a danno di tutti gli altri;
d) sovente vi è un intreccio tra i diversi motivi: la crisi attuale, come vedremo, è un esempio di
questo intreccio.
2 - La speculazione finanziaria e i suoi due ruoli
La speculazione finanziaria può avere un ruolo importante nelle crisi di borsa, ed è stata decisiva anche in quella attuale. La sua forma più semplice è la contrattazione a termine, che consiste in
una scommessa su eventi futuri: ad esempio un operatore che ritiene probabile un rialzo del valore
di uno o più titoli (in gergo: un rialzista), ne acquista allo scoperto al prezzo del momento, con pagamento e consegna differiti. Se quei titoli effettivamente si valorizzano, al momento della scadenza
3
del contratto egli vende al nuovo prezzo più elevato una eguale partita degli stessi titoli; con il ricavo di questa vendita paga i titoli che ritira dal precedente venditore e li consegna al nuovo acquirente, lucrando la differenza di prezzo. Se invece un operatore ritiene che l’andamento di uno o più titoli sarà negativo (un ribassista) li vende allo scoperto al prezzo del momento, con pagamento e
consegna differiti. Se i titoli perdono effettivamente valore, al momento della scadenza del contratto
egli li acquista al nuovo prezzo ribassato, e li consegna alla vecchia controparte lucrando la differenza fra il prezzo cui li aveva venduti e quello di acquisto. Oltre a questa elementare forma, sono
previsti numerosi altri tipi di contrattazione (specialmente future e opzioni), che possono avere come oggetto non solo azioni, obbligazioni di imprese private e titoli di Stato, ma anche titoli detti
“derivati” perché consistono in “pacchetti” di altri titoli (dai quali appunto derivano), o in pacchetti
di “impegni di pagamento” (come ad esempio i mutui immobiliari), oppure oggetto delle previsioni
possono essere indici azionari (si scommette sul loro andamento complessivo), oppure si scommette
sul prezzo futuro di alcune merci (petrolio, grano, cotone, oro, altri metalli, ecc., che si comprano e
si vendono allo scoperto come i titoli). All’origine di tutti questi contratti non vi è altro che il lecito
tentativo di prevedere il valore futuro di titoli o di merci, perciò la connotazione negativa universalmente associata al termine “speculazione” è del tutto impropria: andrebbe riservata a un diverso
tipo di operazioni (descritte nel par. 7), che non tanto “prevedono” la perdita di valore di titoli o di
merci, quanto artificiosamente la provocano per lucrare profitti.
A volte le scommesse degli speculatori possono determinare significative conseguenze
sull’economia reale, e soltanto le scommesse possono spiegare molte repentine e consistenti oscillazioni del prezzo di alcuni titoli e di alcune merci. Un esempio dell’andamento delle quotazioni del
petrolio nel 2008 chiarisce il reale funzionamento della speculazione. La crisi aveva prodotto un calo del 3,2 per cento della domanda cinese di petrolio, ma il prezzo del barile di greggio era precipitato in pochi mesi da 147 a 40 dollari al barile. Come è stato possibile? Dove va a finire l’equilibrio
tra la domanda e l’offerta?
“La spiegazione in questo caso va cercata nel ruolo perverso della speculazione finanziaria. Il mercato dei futures,
il casinò dove si puntano scommesse sul futuro, amplifica e ingigantisce i movimenti dell’economia reale. Fino
all’estate del 2008 il casinò guardava alla crescita della Cina, la proiettava nei decenni futuri, e usava quel trend per alimentare una folle corsa al rialzo. Poi i giocatori d’azzardo hanno cambiato scenario, tutta la loro attenzione è stata
monopolizzata esclusivamente dalla recessione. E così una riduzione modesta dei consumi petroliferi asiatici è stata
amplificata fino a provocare il tracollo del greggio”6.
La maggior parte degli operatori finanziari non posseggono gli ingenti capitali che mettono in
gioco: possono operare solo con il sostegno delle banche, e ricorrere ai loro prestiti è più o meno
conveniente a seconda del costo del denaro, che viene deciso dall’autorità politica. Come si è visto,
se la liquidità è abbondante e il denaro costa poco, la speculazione opera più intensamente. Vedremo nei par. 2.1.1 e 2.1.2 le sue importanti funzioni positive.
Naturalmente anche gli speculatori più esperti sbagliano a volte le loro previsioni, e quindi perdono i capitali investiti.
2.1 - La crisi del 2000. I legami tra la borsa e l’economia reale
Gli aspetti positivi della speculazione finanziaria
L’azzeramento dell’inflazione imposto dalla globalizzazione7, il conseguente contenimento dei
disavanzi pubblici e il calo dei tassi di interesse, hanno fortemente ridotto in tutto il mondo le rendite dei possessori di titoli a reddito fisso (è diminuito l’interesse delle obbligazioni e dei titoli di
6
F. Rampini, Slow economy. Mondatori, Milano, 2009, p. 48.
La globalizzazione, creando un mercato unico, mette in concorrenza i produttori di tutto il mondo. Se in un paese c’è
inflazione, l’aumento dei costi di produzione che essa provoca costringe ad aumentare i prezzi di vendita, e quindi i
prodotti di quel paese non vengono più acquistati.
7
4
Stato8), e quindi molti di loro si sono indirizzati al mercato azionario, attirati dalla prospettiva di
maggiori rendimenti. Ne è conseguita una progressiva sopravvalutazione di tutte le borse: sui mercati azionari continuano a riversarsi flussi di denaro provenienti dal crescente numero dei delusi dal
reddito fisso, ed inoltre la liquidità internazionale viene alimentata dalla stampa di dollari resa possibile dallo speciale ruolo del dollaro nella finanza internazionale e dalle politiche espansive che esso consente ai governi americani9. Fino alla primavera del 2000 (inizio del calo delle borse) i nuovi
investitori non si curavano di un dato che dovrebbe essere invece il fondamento della valutazione di
un titolo: il suo rendimento. Il prezzo della maggior parte delle azioni aveva perso qualsiasi legame
con il loro rendimento attuale o con quello prevedibile in futuro, perché gli operatori erano certi di
poter vendere successivamente con un buon guadagno i titoli che acquistavano. A partire dalla primavera del 2000 è sopravvenuto l’inevitabile crollo di tutte le borse, dovuto non soltanto
all’arrestarsi delle insensate speranze in un perenne rialzo, ma anche all’eccesso di capacità produttiva che si era determinato in numerosi settori. Gli indici azionari si sono relativamente stabilizzati
su valori fondati non più sulla speculazione al rialzo, ma su più realistiche valutazioni della capacità
delle imprese di generare profitti; fortunatamente le conseguenze sulla produzione sono state meno
rovinose di quanto la maggior parte degli analisti avesse previsto.
Tuttavia, a partire dal 2001 e in tutto il mondo, sull’economia e sulle borse gravano le incognite
relative agli sviluppi della guerra al terrorismo e all’aumento del prezzo del petrolio e delle materie
prime. A partire dal 2008 si è sviluppata una nuova e più grave crisi, tuttora in corso, originata soprattutto, come vedremo nel par. 4.2, dagli “errori” dei politici americani, errori dettati dalla caccia
al consenso degli elettori mediante la creazione di un benessere fasullo fondato sul debito.
2.1.1 - Perché i governi non intervengono: i legami tra la borsa e l’economia reale
Sorge a questo punto un interrogativo: poiché sono largamente prevedibili i crolli dovuti ai calcoli di chi punta ad un perenne rialzo o a un prossimo ribasso, oppure agli speculatori (in questo caso davvero tali, in senso negativo) che creano artificialmente un ribasso, come mai i governi non intervengono per tempo, sia riducendo la liquidità (la quale, come si è visto, favorisce il rialzo insensato delle quotazioni), sia ponendo limiti legislativi ad alcuni tipi di contratti? La risposta è duplice:
1- alla limitazione per legge delle contrattazioni di borsa si oppone tutto il mondo della finanza,
che vedrebbe ridotte le possibilità di fare profitti10;
2- alla riduzione della liquidità si oppone la valutazione delle numerose e pesanti conseguenze
negative della politica monetaria restrittiva:
a- la riduzione della quantità di moneta in circolazione e il conseguente aumento dei tassi
di interesse fanno aumentare per le imprese il costo di tutte le forme di finanziamento, costituendo
un freno per l’economia;
b- la scarsità di moneta e l’aumento del costo del denaro arrestano la corsa degli indici azionari perché riducono gli acquisti di titoli effettuati con denaro preso a prestito; ma se la borsa inizia a scendere le banche, inquiete sulla sorte dei prestiti garantiti da titoli, premono sui titolari di
questi prestiti affinché riducano l’indebitamento; questi sono costretti a vendere i loro titoli, e ciò
8
L’interesse è diminuito perché se il disavanzo pubblico si riduce, lo Stato chiede meno denaro in prestito ai risparmiatori. Essendo il denaro, per certi versi, una merce come le altre, se la sua richiesta diminuisce cala anche il suo prezzo,
che ha come riferimento il tasso di sconto praticato dalla Banca centrale di ciascun paese quando presta denaro alle altre
banche. Alle variazioni del tasso di sconto si adeguano necessariamente tutti gli altri tassi di interesse (interesse sui prestiti concessi dalle banche, interesse delle obbligazioni emesse da imprese private, e naturalmente tassi di interesse per
le varie tipologie di titoli di Stato).
9
Si veda il par. 3.
10
Comprese le banche, che oltre a lucrare le commissioni che percepiscono per ogni operazione, operano anche in proprio.
5
amplifica l’ondata ribassista. Naturalmente si riduce, per tutte le imprese, la possibilità di ottenere
nuovi crediti garantiti dal possesso di pacchetti di titoli;
c- Il calo dei valori borsistici fa saltare i bilanci delle banche e delle imprese che avevano
in portafoglio consistenti quantità di titoli.
d- il calo della borsa riduce sia la ricchezza delle famiglie, sia gli utili dei fondi pensione
e quindi il reddito dei pensionati; ciò si traduce in un generale calo dei consumi, aggravato dalle restrizioni al credito per consumi concesso dalle banche alle famiglie. La riduzione dei consumi viene
accentuata dal generale clima di perdita di fiducia nel futuro che si viene determinando;
e- la riduzione del credito alle imprese e ai privati, il maggior costo del denaro e la contrazione dei consumi, determinano la riduzione degli investimenti e il calo della produzione in tutti
i settori: in tal modo cresce la disoccupazione. Negli Stati Uniti queste conseguenze negative sono
più accentuate che negli altri paesi, nei quali le vendite a credito sono molto meno diffuse. Le crisi
dell’economia americana determinano una generale crisi di fiducia su tutti i mercati, e quindi rappresentano un potente colpo di freno alla crescita dell’economia mondiale. Queste conseguenze
toccano naturalmente anche l’Europa e l’Italia, le cui esportazioni negli ultimi anni hanno largamente approfittato del boom dei consumi americani;
f- il rallentamento dell’economia riduce il gettito fiscale, costringendo i governi a ridurre
la spesa sociale proprio quando sarebbe invece necessario accrescerla per l’aumento del numero dei
poveri e dei disoccupati; oppure i governi accrescono l’indebitamento dello Stato, facendo ulteriormente aumentare i tassi di interesse e quindi il freno all’economia reale.
In sintesi, nessun governo ama ridurre la liquidità praticando strette monetarie che deprimono
la borsa, la produzione, i consumi e l’occupazione. Questa riduzione viene praticata soltanto nei
due casi descritti al punto 2 del par. 1: quando è necessario “raffreddare” un’economia troppo vivace che minaccia l’inflazione, e quando si deve frenare una fuga di capitali all’estero.
2.1.2 – Gli aspetti positivi della speculazione finanziaria, che deve essere regolata
ma non può essere eliminata
Una visione non parziale dei fenomeni impone sia di considerarli in tutte le loro conseguenze,
sia di collocarli in una prospettiva storica. In questo modo ci si accorge che la precedente descrizione della crescita insensata e poi del crollo della borsa come disastroso risultato dell’eccesso di liquidità e delle errate previsioni, è soltanto una parte della verità:
“La ‘bolla’11 non è stata solo speculazione e irrazionalità. Perfino gli eccessi della finanza hanno avuto un ruolo
positivo, fecondo, probabilmente insostituibile. Nella storia delle rivoluzioni industriali è già accaduto più volte: col boom delle ferrovie alla fine dell’Ottocento, o con l’industria automobilistica negli anni Venti. A ognuno di questi grandi
balzi della tecnologia e dello sviluppo economico si è accompagnata una febbre speculativa di borsa (poi regolarmente
conclusasi in un crack). La psicosi collettiva dell’arricchimento facile è una ‘manifestazione secondaria’ della malattia
della crescita. E’ in qualche modo indispensabile per fare affluire capitali in abbondanza verso quelle imprese che si avventurano sui sentieri rischiosi dell’innovazione. (...) Se l’allocazione di capitali fosse sempre logica, saggia e prudente,
ci saremmo perse parecchie rivoluzioni tecnologiche, le cui scintille originarie si sarebbero spente senza trovare finanziatori”12.
“La bolla di Internet del 1996-2000 si è caratterizzata per fenomeni assurdi di rigonfiamento dei valori potenziali
ed è implosa devastando il settore. Ma senza quella sovracapitalizzazione irrazionale oggi, probabilmente, non avremmo tanta e tanto diffusa nuova tecnologia della comunicazione. L’euforia ha creato competenze e società dal niente e ha
accelerato, per chi è sopravvissuto al crollo dei valori, l’evoluzione del settore. Molti altri dati mostrano che nel ciclo di
distruzione/creazione del capitalismo tende a prevalere la seconda”13.
11
Si riferisce alla crisi del 2000, descritta nel par. 2.1.
F. Rampini, Dall’euforia al crollo, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 27-28. (Corsivi aggiunti).
13
C. Pelando, “Il Foglio”, 31-3-10.
12
6
Queste citazioni evidenziano come la corsa al profitto, il rischio corso nella speranza di futuri
guadagni, il puntare su possibili evoluzioni di un’impresa o su attività nuove e perciò ricche di incognite, siano il motore del capitalismo, e i crolli, le crisi e i fallimenti siano il prezzo della crescita
economica.
1) Il capitalismo senza regole degli inizi si sarebbe effettivamente autodistrutto, sia per
l’esasperato sfruttamento dei lavoratori14 che ne avrebbe provocato la ribellione, sia perché la crescente capacità produttiva -che via via si stava orientando dalla prevalente produzione di macchine
e impianti verso quella di beni consumo- non avrebbe trovato sbocco sui mercati a causa
dell’infimo potere d’acquisto dei salari, non sufficientemente compensato dalle esportazioni. A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, in tempi e modi diversi nei diversi paesi, ai capitalisti vennero
imposte regole per ridurre gli orari di lavoro e aumentare i salari, mentre l’aumento del prelievo
fiscale su tutti i cittadini capienti, e dei contributi sociali a carica dei datori di lavoro, consentirono
l’avvio delle provvidenze dello Stato sociale. Il “liberismo selvaggio” non esiste più da oltre un secolo: nei paesi democratici dove tutti i cittadini godono di una effettiva libertà di voto, i governi
hanno dovuto imporre regole che non solo impediscono lo sfruttamento dei lavoratori, ma addirittura, in alcuni paesi europei tra i quali l’Italia, portano il costo del lavoro, e quindi il prezzo dei prodotti, a livelli incompatibili con la concorrenza internazionale determinata dalla globalizzazione.
Quest’ultima non solo è l’unico strumento che sta consentendo ai paesi del Terzo mondo di uscire
dalla miseria mediante la partecipazione al mercato mondiale, ma è anche, come si vedrà nel par.
4.6, punto 1, il fattore che avendo allargato il mercato moltiplicandone gli operatori, ha attenuato la
gravità delle crisi degli ultimi vent’anni rispetto a quelle del passato.
2) Si deve a questo punto distinguere meglio il capitalismo senza aggettivi, che ricava un profitto dalla produzione di beni e di servizi, dal “capitalismo finanziario”, che tenta di indovinare il futuro andamento positivo o negativo dell’economia del mondo intero (o di un singolo paese, o di un
gruppo di Paesi, o di un settore economico, o di una singola azienda, o di una merce) e investe o disinveste capitali allo scopo di ricavare un profitto dal realizzarsi delle previsioni. Operare in borsa
con i contratti a termine o con le altre sofisticate15 forme di contrattazione, o prestare denaro a soggetti a rischio16, in un certo senso è come giocare a poker: si può guadagnare ma si può egualmente
perdere il proprio capitale.
I governi potrebbero facilmente eliminare queste operazioni vietando per legge alcuni tipi di
contratti: in tal modo nessuno potrebbe più speculare al rialzo o al ribasso e il valore dei titoli e delle merci sarebbe lo specchio fedele delle previsioni sul reale andamento delle imprese e dei mercati, e non di quelle sull’andamento delle borse, spesso influenzate pesantemente sia da fattori irrazionali che da manovre speculative; le crisi di borsa sarebbero assai meno intense, riflettendo il corso dell’economia reale e non i calcoli a breve degli operatori. Insomma le borse cesserebbero di essere case da gioco come in parte oggi sono, e diverrebbero luoghi nei quali effettuare investimenti a
14
Non si deve però dimenticare che un periodo di intenso sfruttamento della manodopera è stato per tutti i paesi occidentali -e lo è tuttora per i paesi del Terzo mondo che decidono di partecipare al mercato globale- un strumento indispensabile per l’iniziale accumulazione di capitale, senza la quale non si avvia uno sviluppo autonomo indipendente,
almeno in parte, dai capitali stranieri.
15
I contratti “sofisticati”, generalmente demonizzati come pura speculazione, hanno in realtà lo scopo di bilanciare e
ridurre il rischio connesso alle sottostanti previsioni sul futuro andamento dei prezzi di alcune merci o di alcuni titoli; è
ovvio che qualunque previsione implica un rischio, ma questi contratti cercano di ridurlo, e svolgono l’importantissima
funzione di stimolare l’economia reale, attirando -con la prospettiva di un buon guadagno- capitali disposti a sopportare
un certo margine di questo rischio. Naturalmente, come è stato possibile provocare danni enormi partendo dal più semplice dei contratti -la stipulazione di un mutuo immobiliare (si veda il par. 4.1)- egualmente si possono creare danni con
gli altri tipi di contratti, cercando di allargare sempre più il giro d’affari aumentando il rischio (anziché contenerlo) per
accrescere i guadagni. Come nel caso dei mutui subprime, delle obbligazioni Cdo e delle polizze Cds (descritte nel citato paragrafo), è compito della politica porre dei limiti ad operazioni che possono creare situazioni eccessivamente pericolose per l’economia nel suo complesso. Si veda nel par. 8 l’esame dei motivi che ostacolano questa regolazione.
16
Ciò che hanno fatto le banche e le agenzie che concedevano i mutui subprime: si veda il par. 4.1.
7
lungo termine, “logici, saggi e prudenti”; tuttavia le conseguenze sarebbero quelle descritte nelle
precedenti citazioni, perché la speculazione convoglia capitali freschi nella produzione di beni e di
servizi, capitali che altrimenti resterebbero inutilizzati nei depositi bancari: infatti le banche, le quali
operano non con denaro proprio ma con quello depositato dai clienti, non possono (o almeno non
dovrebbero) assumere i rischi che assumono invece gli operatori finanziari privati che operano con
denaro proprio o di clienti disposti al rischio. Non si dimentichi che lo sviluppo dell’economia di un
paese non dipende soltanto dalla capacità delle sue aziende di innovare, dall’efficacia della scuola e
dell’università, e dalla capacità di trasformare idee e brevetti in imprese produttive: dipende anche
da
“una finanza pronta a sostenere imprenditori nuovi, anziché far credito solo a chi possiede un immobile da dare in
garanzia”17.
“Le moderne economie di mercato non sono dicotomiche: non c’è un sistema reale al quale si sovrappone un sistema monetario e finanziario. I due aspetti sono interconnessi. Senza i mercati finanziari non ci sarebbe stato il progresso tecnologico di questi decenni. Senza la finanza non si potrebbe avviare una nuova impresa, non si potrebbe espandere la propria azienda”18.
Da quando è iniziata la crisi nel 2008, l’accusa alla speculazione di essere la causa di tutti i mali
è un luogo comune nei discorsi dei politici che vogliono nascondere le loro responsabilità, nonché
degli economisti e dei giornalisti economici al loro seguito. Sono poche le voci isolate, come quelle
citate, che dicono in modo chiaro come realmente stiano i fatti. Senza la roulette delle borse gran
parte delle moderne industrie non sarebbero mai nate. La speculazione svolge quindi un ruolo indispensabile19, tuttavia l’attuale crisi ha dimostrato che la finanza, oggi, ha bisogno di qualche regola
in più.
Resta il fatto che le conseguenze delle periodiche e inevitabili crisi, drammatiche per le famiglie, non compromettono tuttavia il futuro dell’economia mondiale: crisi rovinose hanno sempre
accompagnato la crescita del capitalismo, in America e altrove:
“L’America è arrivata dove si trova dopo due secoli di violenti cicli di espansione e contrazione dell’industria ferroviaria, crisi bancarie, fallimenti rovinosi, creazione e distruzione di monopoli, crisi del mercato azionario (come quella del 1929) e crisi delle Casse di Risparmio (come quella degli anni Ottanta)”20.
3 - IL RUOLO DEL DOLLARO NELL’ECONOMIA MONDIALE
E LA CRESCITA DELLA LIQUIDITÀ INTERNAZINALE
Uno dei fattori più importanti della prosperità dell’economia mondiale è stato finora costituito
dal ruolo di grande consumatore assunto dagli Stati Uniti, i quali importano assai più di quanto riescano ad esportare21, compensando in tal modo le fasi di calo della domanda in altre parti del mondo. Ciò accade perché, malgrado l’enorme deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti e la
crescente massa di dollari in circolazione, questi vengono universalmente accettati come mezzi internazionali di pagamento, oppure tesaurizzati come moneta di riserva (di solito acquistando titoli di
Stato americani) perché gli operatori economici e i governi continuano a considerare gli Usa (sia
17
F. Giavazzi, “Corriere della Sera”, 20-9-08.
S. Trento, “Corriere Economia”, 22-9-08. (Corsivo aggiunto).
19
E’ molto facile, ed è anche molto popolare, trascurare questo ruolo positivo e proporre facili ricette per eliminare la
speculazione, senza naturalmente menzionare le conseguenze che ne deriverebbero; si vedano, ad esempio, le irrealistiche proposte di L. Napoleoni, in La morsa. Chiarelettere, Milano, 2009, pp. 172-175.
20
T. Friedman, Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, p. 201-202.
21
Si tratta di un fatto a prima vista sorprendente, data la forza dell’economia Usa; la causa, come si vedrà più avanti, è
la politica monetaria espansiva praticata dai governi degli Stati Uniti, allo scopo di mantenere elevato il tenore di vita
di una parte maggioritaria dei cittadini. Questa politica monetaria, in concorso con altri errori della politica Usa, è anche la causa di fondo della crisi finanziaria del 2008.
18
8
pure con dubbi crescenti) al riparo sia dal rischio di una consistente inflazione, sia da crisi economiche tali da costringerli ad una forte svalutazione della loro moneta22. Questa convinzione è il risultato della solidità dell’economia americana, della stabilità sociale e della possibilità che hanno i governi Usa di adottare, nei momenti di crisi, politiche economiche efficaci per superarli, anche
quando implicano sacrifici per i cittadini23. Inoltre i dollari con i quali gli americani pagano gli
acquisti all’estero tornano in buona parte negli Stati Uniti, investiti nell’economia reale,
nell’acquisto di obbligazioni di imprese private, e soprattutto nell’acquisto di titoli di Stato, non solo perché ritenuti un investimento a basso rischio, ma anche perché in questo modo la Cina, il Giappone e altri paesi asiatici sostengono le loro esportazioni negli Usa. Infatti i governi americani possono rimettere in circolazione i dollari tornati in patria, continuando la politica monetaria espansiva
che mantiene alto il tenore di vita dei cittadini.
Questo speciale ruolo del dollaro presenta per gli Stati Uniti ulteriori e consistenti vantaggi:
1) tassi di interesse relativamente contenuti, a causa appunto dell’afflusso di capitali da tutto il
mondo;
2) possibilità di risolvere temporanee difficoltà di bilancio stampando moneta senza che essa si
svaluti, perché è molto grande la quantità complessiva già in circolazione (sia per le dimensioni
dell’economia americana, sia perché essa viene utilizzata dagli altri paesi come mezzo di pagamento e riserva di valore), e quindi la quantità aggiuntiva rappresenta soltanto una piccola e ininfluente
frazione dello stock complessivo;
3) scompare quindi (naturalmente solo entro certi limiti, come vedremo) il problema del deficit
commerciale: anche l’eccedenza delle importazioni viene pagata stampando moneta.
L’utilizzo del dollaro nelle transazioni commerciali dei prodotti energetici e delle altre materie
prime, viene messa in discussione sempre più spesso, soprattutto dai paesi del Golfo, dalla Russia e
dalla Cina, e si avanzano proposte per sostituire la valuta Usa con un paniere delle altre principali
monete; finora però non sono state avviate iniziative concrete.
Tuttavia questa situazione, per gli Stati Uniti, non presenta soltanto dei vantaggi: il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha scritto che “noi (americani) esportiamo buoni del Tesoro anziché automobili, ed esportare titoli del debito non crea lavoro”24.
Alcuni ritengono che l’euro avrebbe la possibilità di diventare, con il tempo, un mezzo di pagamento internazionalmente accettato e una moneta di riserva alla pari con il dollaro, godendo degli
stessi vantaggi di cui oggi gode la valuta Usa, ma purtroppo l’Europa non è l’America, e oggi
(2011) molti prevedono addirittura “la fine dell’euro”, ritenuto un’artificiosa “moneta unica” che
non può durare perché manca (e nemmeno appare realizzabile in un futuro non troppo remoto) un
“governo unico”, almeno della politica economica.
Sta di fatto che il costante aumento dei dollari in circolazione ha alimentato la liquidità mondiale, dando un significativo contributo all’eccessiva crescita delle borse.
Il prestigioso The economist ha definito il cambio euro-dollaro “il prezzo più importante del
mondo”25, ed infatti il rapporto fra le due monete ha il potere di cambiare il valore reale dei salari e
dei risparmi di centinaia di milioni di persone, crea o distrugge occupazione, influenza il successo o
la crisi di interi settori industriali, modifica le scelte delle folle di turisti. Dopo la sua nascita (gen22
Inflazione e svalutazione diminuiscono entrambe il potere d’acquisto della moneta.
Possibilità che per i governi europei è assai più limitata: in tutti i popoli europei perdura infatti una forte diffidenza
verso i provvedimenti di qualsiasi governo, anche degli attuali governi democratici; la diffidenza è radicata in una plurimillenaria esperienza di inganni e di oppressione da parte di chi, nelle forme più diverse, ha esercitato il potere politico. In America invece questa diffidenza non esiste, perché gli Stati Uniti sono l’unico paese nel mondo che non ha mai
sperimentato un potere oppressivo, estraneo al popolo, essendo stato governato fin dal suo inizio da politici scelti dai
cittadini e da questi revocabili. Questa unicità viene ampiamente esaminata su internet nel capitolo VIII, paragrafo 29,
del lavoro citato all’inizio.
24
Citato da F. Rampini in La fine del dollaro? “Aspenia”, n. 47- 2009, p. 86. (Corsivo aggiunto).
25
Si veda l’articolo di F. Rampini su “La Repubblica” del 9-12-2003.
23
9
naio 1999), l’euro aveva costantemente perso valore rispetto al dollaro: dal cambio iniziale di 1,18
era sceso al minimo storico di 0,83 dollari nel novembre 2000. A partire dalla fine del 2002 ha iniziato una graduale risalita, però con diverse e consistenti oscillazioni, fino a toccare 1,58 dollari
nell’aprile 2008, ma i ricuperi non rispecchiano la forza dell’economia europea, bensì dipendono
dalle fasi di debolezza del dollaro.
4 - Una crisi determinata dalla politica
L’attuale crisi non è una delle inevitabili crisi del modo capitalistico di produzione26: vedremo
che è invece il risultato di una serie di decisioni irresponsabili della classe politica degli Stati Uniti,
che ha creato una liquidità eccessiva, ha incoraggiato l’indebitamento e la speculazione finanziaria
mantenendo bassi i tassi di interesse, ed ha smantellato i controlli sulle banche e sulle attività finanziarie, allo scopo di acquisire consensi elettorali regalando al paese una sensazione fasulla di benessere.
4.1 – I mutui subprime e le obbligazioni spazzatura Abs e Cdo; i Cds
1) Negli Stati Uniti, fino al 2003 le banche concedevano un mutuo immobiliare soltanto a chi
dimostrava di avere un reddito sufficiente per garantire il pagamento delle rate. Era la regola, ovvia,
praticata in tutto il mondo. Per acquisire popolarità, nel 2003 il governo fece approvare una legge
che sussidiava in parte l’acquisto di abitazioni, che per il resto veniva finanziato dalle banche e dalle agenzie immobiliari concedenti il mutuo, senza che l’acquirente dovesse sborsare un dollaro e
soprattutto senza che dovesse dimostrare di essere in grado di osservare le scadenze dei pagamenti
(si tratta degli ormai famosi “mutui subprime”). Nel 2004 le due più grandi agenzie erogatrici di
mutui, Fannie Mae e Freddie Mac27, ricevettero dal Governo federale l’esplicito mandato di aumentare i prestiti ad alto rischio: si voleva dare la casa al maggior numero possibile di americani. La
forte crescita della domanda di abitazioni ha determinato un abnorme aumento del loro prezzo: tra il
1997 e il 2006 il valore delle case è salito del 124%.
2) Nella maggior parte dei casi le banche e le agenzie immobiliari cartolarizzavano il mutuo,
creando nuovi titoli di credito (denominati “derivati”) formati da “pacchetti” di mutui, che venivano venduti ad altre banche, a fondi di investimento o ad altre istituzioni finanziarie. Il diritto della
banca ad incassare le rate che via via il mutuatario avrebbe dovuto pagare si trasferiva al possessore
del derivato, sul quale naturalmente si trasferiva anche il rischio di un’eventuale insolvenza. La cartolarizzazione consentiva alla banca di ricuperare il denaro prestato, utilizzandolo per erogare un
nuovo mutuo e incassare una nuova commissione: crescevano il giro d’affari e i profitti. A loro volta gli acquirenti dei derivati li “impacchettavano” in nuove obbligazioni (denominate Abs28), che
vendevano ad altri investitori; i rischi di insolvenza restavano suddivisi tra un gran numero di soggetti. La Fed29, insieme a molti esperti economisti, riteneva che lo “sparpagliamento” minimizzasse
il rischio, ma si trattava di un errore madornale, all’origine delle drammatiche conseguenze che si
sono determinate.
3) Le cartolarizzazioni e le operazioni successive hanno enormemente dilatato i rischi, anziché
ridurli. Le Abs (giunte al fantastico ammontare di 4.200 miliardi di dollari) sono state in parte reimpacchettate, insieme ad altri titoli di credito di sicura solvibilità, in nuove obbligazioni denomi26
Si veda la descrizione dei diversi tipi di crisi nel par. 1.
Si tratta di due colossi finanziari che non erogano mutui ma li acquistano dalle banche e li cartolarizzano (si veda il
punto 2); in tal modo le banche riacquistano liquidità e possono concedere nuovi mutui.
28
Asset Backed Securities.
29
Federal reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti.
27
10
nate Cdo30 (ce ne sono in giro per un ammontare complessivo di 4.000 miliardi di dollari) che fino
all’inizio del 2007 erano valutate positivamente dalle agenzie di rating perché si riteneva che il prevalente contenuto in titoli solvibili rendesse trascurabile il rischio connesso ai mutui subprime che
pure ne facevano parte. In realtà, se è comprensibile (anche se non giustificabile) la superficialità
dei politici e dei banchieri e affini -mossi gli uni dal desiderio di acquisire consensi e gli altri dal
proposito di allargare il giro di affari e i profitti- non si spiegano invece i giudizi positivi delle agenzie di rating31, il cui compito specifico è quello di indagare e denunciare i rischi di insolvenza, anche quelli remoti: si spiegano soltanto con il loro plateale conflitto d’interessi, reso possibile da leggi che non impediscono che le stesse persone che nelle agenzie di rating controllano i bilanci di una
banca o di una società finanziaria siano contemporaneamente a libro paga delle stesse con la qualifica di “consulenti esterni” 32.
Risultato finale: attraverso le Abs e le Cdo il rischio dei mutui subprime è penetrato nei portafogli titoli delle banche, delle compagnie di assicurazioni e dei fondi di investimento -anche dei
fondi pensione- di tutto il mondo, ma la misura di questo rischio non è quantificabile: non esiste
tecnicamente la possibilità di calcolare il rischio contenuto nelle obbligazioni create dagli impacchettamenti. Le insolvenze si sono estese dai mutuatari già in partenza valutabili a rischio, a quelli
inizialmente ritenuti buoni pagatori, e ciò a causa dell’aumento dei tassi di interesse Usa, che dal
2004 sono progressivamente saliti (attraverso 17 piccoli scatti) dall’1% al 5,25%, manovra cui la
Fed ha dovuto ricorrere per evitare fughe dal dollaro, dettate dai timori di una sua consistente svalutazione33. Due sono state le conseguenze dell’aumento dei tassi di interesse:
a) trattandosi generalmente di mutui a tasso variabile, è aumentato l’importo delle rate che
il mutuatario deve pagare;
b) la facilità con la quale le banche concedevano mutui, faceva ovviamente crescere la
domanda di abitazioni, aumentandone il valore. Ciò consentiva al mutuatario di rinegoziare il mutuo, ottenendo dalla banca un’ulteriore somma proporzionale all’incremento di valore della casa,
che egli utilizzava per pagare le rate e sostenere altri consumi. L’aumento dei tassi di interesse ha
provocato -insieme all’aumento dell’importo delle rate- la diminuzione del valore delle case34, ponendo fine alla rinegoziazione e mettendo in difficoltà anche i buoni pagatori.
4) I principali acquirenti delle obbligazioni Abs e Cdo sono le banche, i fondi di investimento,
le assicurazioni e i fondi pensione, ma sono state soprattutto le banche a soffrire per il crollo delle
cartolarizzazioni, che avevano acquistato sia direttamente, sia tramite società di comodo fuori bilancio (per occultare l’eccessiva presenza di questi titoli nei loro portafogli).
5) Le crescenti insolvenze dei mutuatari e la non valutabilità del rischio hanno prodotto
un’ondata di panico in tutto il mondo, che si è estesa non solo a tutte le cartolarizzazioni -anche a
quelle completamente estranee ai mutui subprime- ma anche ad ogni genere di titoli, azioni e obbligazioni, causando un crollo generalizzato delle borse. Le vendite, oltre che dal panico (come sempre
accade quando le borse vanno giù) sono alimentate da altre due fonti:
- le banche sono in crisi di liquidità perché i titoli in portafoglio, alla cui vendita ricorrono
normalmente quando devono procurarsi denaro liquido per poter concedere prestiti, hanno perso va30
Collateralized Debt Obligation.
Le agenzie di rating hanno il compito di valutare sia la solidità finanziaria delle società per azioni, sia il rischio connesso all’acquisto di azioni, obbligazioni, titoli di Stato di tutti i paesi, fondi di investimento, derivati di qualsiasi tipo
(comprese quindi le obbligazioni Abs e Cdo). Le tre maggiori agenzie nel mondo sono Standard & Poor’s (S&P), Moody’s e Fitch.
32
Sulle cause degli “errori” delle agenzie di rating si veda il capitolo XV, paragrafo 59.2, del citato lavoro su internet.
33
Timori giustificati dalla crescita del deficit commerciale e del debito pubblico.
34
L’aumento dei tassi di interesse altro non è che l’aumento del costo del denaro. Se il denaro costa di più, ce n’è di
meno in circolazione, la gente ne ha di meno, riduce gli acquisti, e quindi acquista anche meno case; diminuendo la
domanda di abitazioni, il loro prezzo (il loro valore) diminuisce.
31
11
lore e quindi devono venderne maggiori quantità;
- inoltre la crisi pesa sulle famiglie, costringendole a liquidare i risparmi in titoli; tutti riducono
i consumi, con riflessi negativi sui profitti di ogni tipo di impresa e quindi sul valore della azioni e
delle obbligazioni anche delle migliori società.
6) I fatti fin qui ricordati sono tuttavia soltanto metà della storia degli inizi di questa crisi.
L’altra metà riguarda i Cds35: si tratta di polizze che assicurano contro il rischio di insolvenza di
qualunque tipo di obbligazione. Sono emessi dalle banche, da alcuni tipi di fondi di investimento e
dalle assicurazioni, a fronte del pagamento di un premio: se un’obbligazione non viene onorata, il
suo possessore, se si era assicurato acquistando un Cds, viene rimborsato dall’emittente di questa
polizza. Naturalmente se il rischio di insolvenza del debitore è considerato elevato, cresce l’importo
del premio che si deve pagare.
Fino al 1999 vi erano pochissimi Cds in circolazione, e ancora nel 2001 il loro ammontare totale era di 630 miliardi di dollari, ma da quell’anno le emissioni sono aumentate vertiginosamente,
giungendo a fine 2007 all’incredibile cifra di 62 mila miliardi di dollari, molto più del Pil del mondo intero36. La regola che presiede all’emissione dei Cds, come di qualunque polizza assicurativa,
stabilisce che l’emittente deve possedere un patrimonio in grado di far fronte alle richieste di pagamento ragionevolmente prevedibili. A questo scopo negli Stati Uniti, fin dal 1975, erano richiesti
agli emittenti determinati parametri patrimoniali (più o meno simili a quelli in vigore in tutti gli altri
paesi): il rapporto tra i debiti assicurati e il capitale proprio doveva essere di 5 o 6 a 1, e solo eccezionalmente veniva accordato dalle autorità di vigilanza un rapporto di 15 a 1; chi oltrepassava i limiti stabiliti era costretto a cessare l’attività.
4.2 - Il ruolo della politica
A partire dal 1999 la politica entra pesantemente in gioco. Sulla scia della liberalizzazione del
sistema bancario (meno regole e meno controlli) attuata in quell’anno dal governo di Bill Clinton
(partito democratico)37 l’anno successivo viene deregolamentato38 il commercio dei prodotti finanziari derivati, incluso quello dei Cds: meno controlli sui rischi che le banche e le altre agenzie finanziarie assumono, maggiore facilità per questi enti di allargare il giro d’affari e arricchirsi emettendo obbligazioni e polizze. Nel 2002 il governo di G.W. Bush (partito repubblicano) vara il piano
per allargare il mercato dell’acquisto della prima casa anche a chi ha bassi redditi; nel 2004 autorizza Fannie Mae e Freddie Mac ad estendere il commercio delle cartolarizzazioni ad alto rischio39, ed
infine le cinque grandi banche di investimento40, tra l’altro specializzate nell’emissione dei Cds,
vengono esentate41 dal dover rispettare i tetti massimi stabiliti, giungendo ad un folle rapporto (tra il
rischio assunto e il capitale proprio) di 30 a 1, o addirittura di 40 a 142. Ciò naturalmente è accaduto
perché fin quasi alla fine del 2007 quasi nessuno aveva previsto la crisi dei mutui e il conseguente
crollo immobiliare, e quindi assicurare un credito mediante una polizza Cds costava pochissimo
perché le società emittenti operavano nella convinzione che non avrebbero mai dovuto rimborsare i
valori assicurati.
Sono due i motivi del comportamento della classe politica:
35
Credit Default Swap.
La proliferazione dei Cds e le manovre speculative che la legge consente di implementare mediante queste polizze,
sono esaminate nei par. 6.2 e 6.3.
37
Si è trattato della più radicale riforma bancaria attuata negli Stati Uniti dopo la Grande Crisi degli Anni Trenta.
38
Ancora dal governo Clinton.
39
Come si è visto nel par. 4.1, punto 1.
40
Lehman Brothers, Goldman Sachs, Bear Sterns, Merril Lynch e Morgan Stanley.
41
Sempre dal governo Bush.
42
Nel caso della Lehman Brothers, la prima grande banca entrata in crisi, il rapporto era di 67 a 1! La Lehman è stata
l’unica banca che il governo non ha aiutato, lasciandola fallire: è stato un grave errore che ha contribuito a diffondere il
panico.
36
12
-dare al paese un’impressione illusoria di benessere economico, illusoria perché fondata sul
debito, per conquistare o mantenere il consenso degli elettori;
-ottenere denaro dalle istituzioni finanziarie che traggono profitto dallo smantellamento delle
regole43. A questo proposito un recente rapporto curato da due organizzazioni americane senza fini
di lucro, Essential Information e Consumer Education Foundation, stima che
“le istituzioni finanziarie (tra cui le banche commerciali, le banche di investimento, gli hedge fund e le compagnie
di assicurazione) hanno speso nel periodo 1998-2008 circa 5 miliardi di dollari in contributi a campagne elettorali e in
attività di pressione sul congresso e sull’amministrazione statunitense, allo scopo di abolire gran parte della normativa
finanziaria che era stata adottata dai tempi della Grande depressione”44.
Ovviamente la crisi delle obbligazioni Abs e Cdo ha moltiplicato le richieste di rimborso da
parte degli acquirenti di Cds, richieste alle quali le grandi emittenti non sono più state in grado di
fare fronte. Sono tutte finite nella voragine della crisi, mentre la maggior parte degli altri cinquemila
piccoli emittenti di Cds, costretti a rispettare i limiti di indebitamento, hanno evitato il disastro.
4.3 - La crisi delle carte di credito
L’interesse delle banche e delle agenzie finanziarie ad allargare il giro d’affari moltiplicando i
prestiti, oltre alla crescita dei mutui subprime ha prodotto una patologica diffusione delle carte di
credito tra i cittadini degli Stati Uniti: all’inizio della crisi l’esposizione complessiva aveva raggiunto i 950 miliardi dollari. Il problema ha la stessa radice di quello dei mutui: l’incoraggiamento a indebitarsi venuto dai politici mediante l’allentamento dei controlli, che ha consentito alle banche e
alle società finanziarie45 di concedere una carta di credito a chiunque ne facesse richiesta, senza alcun accertamento sulla sua solvibilità. Mentre le carte in uso in Europa hanno un limite allo scoperto e ne prevedono il rimborso ad ogni fine mese, negli Stati Uniti l’85 % delle carte sono le cosiddette revolving card, che non richiedono il rimborso a fine mese ed equivalgono all’accensione di
una linea di credito ad un tasso stabilito; si paga con comodo, non ci sono limiti temporali rigidi. La
conseguenza è l’abitudine a indebitarsi anche per gli acquisti meno necessari, e sono molti gli americani che per pagare gli interessi sullo scoperto di una carta ne accendono un’altra con una banca
diversa: milioni di cittadini hanno quattro, cinque o più carte di credito.
Come avevano fatto con i mutui, le banche e le finanziarie emittenti hanno cartolarizzato i loro
crediti, mettendo in circolazione in tutto il mondo 365 miliardi di dollari di obbligazioni “appoggiate” su questi crediti, e detenute da banche, finanziarie, fondi di investimento e fondi pensione.
Il rischio di insolvenza per le carte di credito è dovuto in parte anche alla caduta del valore degli
immobili e alla stretta creditizia, che impediscono ai proprietari l’accensione di un mutuo sulla propria casa per pagare gli interessi sulle carte di credito, prassi che in precedenza era considerata del
tutto normale.
4.4 - Nota sui timori di svalutazione del dollaro e sulle ipotesi circa i legami tra la crisi
e la guerra in Iraq
Una moneta si svaluta quando in giro per il mondo ve n’è una quantità che eccede la richiesta
da parte degli altri paesi: come per ogni altra merce, se l’offerta di dollari (che dipende dalle decisioni del governo degli Stati Uniti) supera la domanda estera, il dollaro si svaluta. Come si è visto
nel par. 3, la domanda mondiale di dollari ha diverse cause: il dollaro viene utilizzato come mezzo
di pagamento nel commercio internazionale e come riserva di valore perché ritenuto al riparo da inflazione e svalutazione consistenti, a causa della solidità dell’economia americana, della stabilità
sociale e della possibilità che hanno i governi degli Stati Uniti di adottare, nei momenti di crisi,
43
Si veda anche il par. 8.
L. Bini Smaghi, Le regole per salvare il capitalismo. “Aspenia”, n. 47-2009, p. 143. (Corsivo aggiunto).
45
Alcune finanziarie hanno come unico oggetto della loro attività l’emissione di carte di credito.
44
13
politiche economiche efficaci per superarli, anche quando implicano sacrifici per i cittadini46. Inoltre i dollari con i quali gli americani pagano gli acquisti all’estero tornano in buona parte negli
Stati Uniti, per i motivi esaminati nel citato paragrafo. Tuttavia negli ultimi anni le difficoltà di bilancio degli Usa da temporanee sono diventate permanenti, e il deficit commerciale ha continuato a
crescere, alimentato anche dalle spese militari. Per scongiurare il rischio di una possibile consistente
svalutazione del dollaro, a partire dal 2004 il governo degli Stati Uniti è stato costretto ad aumentare gradualmente il costo del denaro dall’1 al 5,25 per cento47. Questi fatti non hanno nulla a che vedere con l’ipotesi -avanzata dai critici della politica estera americana- che sia stato l’accrescimento
delle spese militari -determinato a partire dal 2001 dalle guerre in Afghanistan e poi in Iraq- la principale causa dell’attuale crisi finanziaria. I dollari spesi all’estero per le esigenze militari si sono
semplicemente aggiunti all’enorme deficit commerciale causato dall’eccesso di liquidità; per evitare
la svalutazione, i governi hanno gradualmente aumentato i tassi di interesse, cioè il costo del denaro, e quindi dei mutui, rallentando la politica del denaro facile senza la quale non ci sarebbe stata
la crisi. Questa è dovuta, come si è visto, all’eccesso di liquidità e alla dissennata politica di smantellamento delle regole iniziata nel 1999, continuata con la colossale truffa dei mutui subprime impacchettati nelle Cdo, e culminata con la moltiplicazione dei Cds oltre ogni regola di prudenza48,
tutte cause che nulla hanno a che vedere con la politica estera.
4.5 - Il capitalismo produce beni e servizi. La politica produce regole
“L’avidità, l’esasperata ricerca del profitto, l’ideologia liberista, il mercatismo, e naturalmente
la globalizzazione, ultimo velenoso frutto dell’economia capitalistica”: queste le cause dell’attuale
crisi secondo l’opinione della grande maggioranza delle persone, anche di quelle non pregiudizialmente avverse al capitalismo. Ma è facile dimostrare che si tratta di un’opinione radicalmente errata, perché trascura il fatto che sia il concreto svolgersi dell’economia, sia le sue conseguenze per la
società e le persone, dipendono dalle regole imposte dalla politica.
Il capitalismo -e la globalizzazione, sua fase attuale- è soltanto un modo di organizzare
la produzione di beni e di servizi, più efficiente di tutti gli altri modi sperimentati nella storia
perché la molla del profitto, la proprietà privata, la concorrenza sul mercato libero e il rischio
del fallimento mobilitano le energie intellettuali e fisiche di tutti gli individui
(ciò che non fanno gli altri sistemi economici); tuttavia,
in assenza di regole adatte, il capitalismo si autodistrugge, e le regole le fa la politica.
(L’analisi delle cause della superiorità economica del modo di produzione capitalistico si trova
nel capitolo XV, par. 52, del citato lavoro su internet).
La denuncia dell’avidità e della sete di guadagno degli imprenditori, dei banchieri e dei possessori di grandi capitali, non serve a comprendere le cause dell’attuale crisi: è noto da sempre che
quasi tutti gli esseri umani, quando la possibilità di arricchirsi appare a portata di mano, l’afferrano
senza curarsi delle conseguenze negative per le altre persone e per la collettività, ed è fondamentale
compito della politica porre dei limiti all’avidità e impartire severe punizioni a chi li oltrepassa.
Nella vicenda dei mutui subprime e in tutto ciò che ne è seguito, l’avidità e l’ideologia liberista
(vale a dire la naturale insofferenza dei capitalisti per le regole) hanno generato la crisi solo perché i
governi e i parlamenti degli Stati Uniti non hanno adempiuto i loro doveri. Vediamo in che modo e
perché.
1) E’ facile attribuire la colpa alla troppa gente che ha voluto comprarsi la casa senza preoccu46
Possibilità che per i governi europei è assai più limitata: i motivi di questa importante differenza sono esaminati nella
nota 23 del par. 3.
47
L’aumento del tasso di interesse stimola l’afflusso di dollari verso gli Usa.
48
Sulle manovre che le leggi consentono mediante i Cds, si vedano i par. 7.2, 7.3 e 7.4.
14
parsi di come l’avrebbe pagata; in realtà, come si è visto nel par. 4.2, è la politica che tra il 1999 e il
2004 ha progressivamente smantellato i controlli sulle operazioni finanziarie, consentendo agli operatori l’assunzione di rischi crescenti.
2) Questi fatti vanno visti all’interno di un generale clima di abbandono delle regole di una sana gestione finanziaria, clima che si esprime soprattutto nelle politiche monetarie espansive e
nell’incoraggiamento del consumo a debito per mantenere alti i profitti delle imprese e il tenore di
vita di una larga maggioranza della popolazione. Negli Stati Uniti, molto più che nel resto del mondo, il risparmio delle famiglie si è quasi azzerato: vivere a credito è un normale stile di vita, le banche concedono prestiti con grande facilità a basso tasso di interesse e quindi non sorprende che
molti comprino una casa senza essere certi di poterla pagare. Ancora una volta la responsabilità per
questo clima è della classe politica che lo coltiva, perché oltre ad essere gradito ai cittadini, moltiplica gli affari e accresce i profitti delle banche, delle società finanziarie e delle imprese produttive,
che ricambiano garantendo consistenti finanziamenti ai partiti, agli uomini di governo e ai singoli
parlamentari.
3) In Europa le famiglie, generalmente, risparmiano anziché indebitarsi, tuttavia l’orgoglio degli europei di essere formiche anziché cicale come negli Stati Uniti, si ridimensiona di fronte a due
fatti indiscutibili:
a) lo Stato sociale fornisce agli europei -gratuitamente o a prezzo contenuto- beni e servizi
indispensabili che gli americani devono invece procurarsi a prezzo di mercato;
b) l’eccesso di importazioni degli americani stimola la produzione in Europa e in tutto il
mondo, creando occupazione e benessere; da molti anni gli Usa sono la locomotiva dell’economia
mondiale. Insomma le cicale fanno comodo, e le formiche vivono in parte alle loro spalle.
4) Infine anche l’insensata moltiplicazione delle cartolarizzazioni rischiose e dei Cds è colpa
della politica che l’ha autorizzata. Perché questo colossale “errore”? Errore tra virgolette, perché
anche in questo caso è evidente che si è trattato di un errore calcolato, dato che questa moltiplicazione accresce il giro d’affari e gli utili delle grandi banche emittenti. Voci critiche si sono levate a
denunciare i rischi connessi all’insensata deregolamentazione finanziaria, ma sono state ignorate
dalla politica e anche dalla grande stampa.
4.5.1 - La diversa funzione delle regole nel settore produttivo ed in quello finanziario
Si è visto che l’economia capitalistica non può fare a meno di regole, e che l’attuale crisi evidenzia l’esigenza di una sua più efficace regolazione; tuttavia, relativamente al rapporto con le regole, è necessario distinguere il settore che produce beni e servizi dal settore finanziario.
Le regole imposte alle imprese produttive hanno soprattutto lo scopo di tutelare i consumatori
circa la qualità e la sicurezza delle merci e dei servizi offerti; tuttavia un’eccessiva regolazione, la
necessità di troppi permessi e autorizzazioni che dilatano i poteri della burocrazia e della politica,
aumentano i costi per le imprese e scoraggiano l’investimento di nuovi capitali nei settori iperregolamentati, riducendo quindi la concorrenza (e in tal senso le troppe regole sono gradite agli imprenditori già presenti sul mercato, che temono l’ingresso di nuovi operatori che inevitabilmente ridurrebbero le loro quote di mercato).
Le regole imposte al settore finanziario hanno invece lo scopo di impedire che la ricerca del
profitto spinga gli operatori ad assumere rischi eccessivi, che nel caso di gravi errori di previsione come appunto è accaduto con l’attuale crisi- possono provocare disastri. Ovviamente tutti gli operatori del settore detestano queste regole, ed esercitano forti pressioni sui politici per ottenerne lo
15
smantellamento, o almeno per impedire, come invece è attualmente necessario, l’imposizione di
nuovi limiti alle loro scommesse49.
4.6 - Le conseguenze della crisi e il paragone senza fondamento con la Grande Crisi
degli anni Trenta
4.6.1 - Le conseguenze della crisi. E’ finito (per sempre?) un modello di consumo
re.
Le conseguenze dell’attuale crisi sono molto pesanti, e si manifesteranno per molti anni a veni-
- Crollano i bilanci delle banche a causa della perdita di valore dei titoli che avevano in portafoglio;
- le banche, a corto di liquidità, stringono i freni alla concessione di nuovi crediti anche alle imprese più sane, e in molti casi sollecitano il rientro di quelli già erogati;
- di conseguenza le imprese sono costrette a ridurre o cancellare alcuni investimenti previsti: si
riducono la produzione, l’occupazione e i profitti;
- la minore occupazione, la riduzione delle pensioni erogate dai fondi che hanno in portafoglio
quantità rilevanti di titoli spazzatura, e i timori per il futuro, riducono i consumi delle famiglie, con
ulteriori conseguenze sulla produzione, sull’occupazione e sui profitti;
- inoltre, negli Stati Uniti, le famiglie proprietarie della loro abitazione riducono i consumi anche perché si sentono impoverite dalla consistente perdita di valore della loro abitazione, valore che
veniva inteso come una riserva sulla quale poter contare per accendere un mutuo in caso di necessità;
- una delle conseguenze più gravi è la generale scomparsa della fiducia: l’attività economica si
basa sempre su una certa aspettativa che i prestiti vengano ripagati, che il denaro sia al sicuro, che le
banche sopravvivano. Se tale fiducia svanisce, i mercati e le banche rischiano il collasso.
L’interrogativo che attende una risposta è relativo all’effetto che la perdita di fiducia potrà avere nel
medio periodo sui comuni cittadini, sull’economia ‘normale’ fatta di negozi, fabbriche e uffici.
“Il rischio più insidioso e potenzialmente devastante, è rappresentato dalla mancanza di fiducia a tutti i livelli: banche, investitori, risparmiatori, imprese. Il sistema finanziario, come è noto, è basato sulla fiducia. Senza fiducia tutto si
blocca”50.
E’ stato dovuto alla reciproca assenza di fiducia nella solvibilità delle banche il gravissimo
blocco dei prestiti interbancari, assenza di fiducia determinata dall’impossibilità di conoscere quanti titoli a rischio ci fossero nel portafoglio di ciascuna banca. I movimenti di denaro a breve termine
tra una banca e l’altra sono il quotidiano lubrificante del loro operare, e l’arresto di questi prestiti
aggrava la crisi di liquidità accentuando l’inaridirsi del credito alle imprese; inoltre la sfiducia spinge le banche, quando prestano denaro ad altre banche o alle imprese, a pretendere un tasso di interesse elevato, anche quando il governo lo riduce per accrescere la liquidità;
- la stretta del credito blocca naturalmente anche i progetti di investimento delle amministrazioni e degli enti pubblici, aggravando la crisi delle imprese e causando il peggioramento dei servizi
erogati;
- la diminuzione delle vendite e dei profitti potrebbe causare il fallimento di un numero crescente di imprese, che coinvolgerebbe le loro fornitrici, innescando una serie di fallimenti a catena.
1. Una svolta nella storia del consumo. Esamineremo nel successivo paragrafo i motivi
dell’infondatezza del paragone dell’attuale crisi con quella degli anni Trenta: sono diverse le cause
49
50
Si veda il par. 8.
D. Siniscalco, “La Stampa”, 5-10-08.
16
e sono diverse le reazioni dei governi, i quali hanno imparato dall’esperienza e stanno evitando gli
errori di allora. Tuttavia va rilevato un interessante elemento in comune: un significativo cambiamento nello stile del consumo.
“Il paragone è con la Grande Depressione degli anni Trenta: anch’essa segnò una lunga ritirata dei modelli di vita
consumistici, l’emergere di una nuova frugalità, l’esaltazione della virtù austera del risparmio. Non è più soltanto un fenomeno economico, ma un ribaltamento di valori, un cambiamento culturale. L’inversione di tendenza rispetto a decenni di euforia consumistica. Una retromarcia favorita dal fatto che vi si adeguano anche i ceti più abbienti, quelli che storicamente ‘fanno tendenza’ perché i loro stili di vita diventano i modelli da imitare”51.
“Le famiglie a basso reddito tagliano le spese perché sono costrette a farlo. Ma anche nei ceti medioalti la tendenza è alla rinuncia. Anche loro si sentono meno ricchi. Inoltre esibire lo spreco e i consumi di lusso non è più socialmente accettabile”52.
Naturalmente alle spalle della trasformazione culturale ci sono i cambiamenti economici fin qui
descritti, ma anche tra le persone rimaste molto ricche, l’ostentazione dell’opulenza si è ridotta perché, appunto, viene oggi percepita come segno di cattivo gusto.
4.6.2 - La sostanziale diversità dalla crisi degli anni Trenta
In tutto il mondo i governi hanno reagito finanziando le banche per evitarne il fallimento, e in
molti casi hanno soccorso anche le imprese produttive. L’abusato paragone con la Grande Crisi degli anni Trenta -al quale ricorrono con accenti catastrofici i critici del capitalismo e della globalizzazione- non ha fondamento perché tra le due situazioni vi sono alcune fondamentali differenze.
1) Superata la crisi del 1920-1921 (discesa dei prezzi all’ingrosso del 34%, 4.750 mila disoccupati nel momento peggiore), l’economia americana inaugurò un periodo di forte espansione. Crescevano gli investimenti e le emissioni azionarie, e si scatenava la speculazione, facendo salire in
modo sconsiderato le quotazioni dei titoli:
“L’indice generale dei prezzi dei titoli azionari che tra il 1922 e il 1927 era salito da 100 a 200, sale tra il ’27 e il
’29 da 200 a 580, e compie la parte maggiore di questo rialzo negli ultimi 12 mesi, in cui si assiste ad una vera frenesia
di speculazione”53.
Cresceva la domanda interna, sia per il costante aumento della popolazione, sia per la politica degli alti salari e della vendita a rate inaugurata da Henry Ford, tuttavia questa domanda non era
sufficiente per assorbire la crescente produzione, ed era quindi necessario aumentare le esportazioni. Il capitalismo americano, tramite le grandi banche, prestava denaro ad altri paesi per consentire
ai governi, agli enti pubblici e alle industrie di acquistare i prodotti americani, ma nemmeno le esportazioni furono sufficienti a scongiurare una classica crisi di sovrapproduzione, naturalmente
accompagnata dal crollo delle borse. La crisi provocò una contrazione del 25% del volume del
commercio internazionale, accompagnata da una drammatica discesa dei prezzi: il valore complessivo annuo di tutte le esportazioni, che nel gennaio 1929 era di 5.350 milioni di dollari, era sceso a
4.260 milioni nel gennaio 1931 e a 1.785 nel gennaio 1933, registrando in quattro anni una perdita
del 70%! Nell’intento di alleviare la crescente disoccupazione, in tutto il mondo i governi aumentarono le tariffe doganali allo scopo di far produrre all’interno ciò che prima veniva importato, ma in
tal modo si bloccarono ovunque le esportazioni, aggravando ulteriormente la crisi.
Uno scenario del genere oggi non è immaginabile, anzitutto per una serie di differenze oggettive: grazie alla globalizzazione, sono molto più numerosi i paesi coinvolti nel commercio internazionale, le loro economie sono maggiormente specializzate e quindi dipendono vitalmente
dall’import-export, rendendo impossibile un ricorso generalizzato al protezionismo. Inoltre alcuni
51
F. Rampini, Slow economy. Mondatori, Milano, 2009, p. 16.
M. Zandi, citato da F. Rampini in Slow economy. Mondatori, Milano, 2009, p. 17.
53
G. Luzzatto, Storia economica, vol. II. Cedam, Padova, 1960, pag. 513.
52
17
di questi nuovi paesi (soprattutto l’India e la Cina, ma anche il Brasile e il Sudafrica) sono mercati
immensi, il commercio globale, rispetto agli Anni Trenta, si è molto accresciuto, e quindi l’attuale
gravissima crisi, pur implicando un calo della produzione e dei consumi, inciderà assai meno sugli
scambi complessivi. Appare quindi niente più che una sciocchezza l’affermazione, continuamente
ripetuta, che la crisi sarebbe una conseguenza della globalizzazione.
“Quello che attenuerà la recessione è la globalizzazione che in vent’anni ha consentito a un miliardo di persone di
uscire dalla povertà e iniziare a consumare. Altro che colpa della globalizzazione!”54.
2) Forse ancora più importanti sono alcune differenze nella comprensione della natura della
crisi e quindi nell’individuazione, da parte dei governi, dei rimedi necessari: alcuni errori capitali
non sono stati né saranno ripetuti perché i politici e gli economisti hanno imparato la lezione del
passato; del resto questa lezione l’aveva imparata già negli Anni Trenta il grande presidente Roosevelt.
Nel 1929 era presidente degli Stati Uniti il repubblicano Hoover; egli e il suo partito, volendo
restare fedeli ai principi liberisti di politica economica e finanziaria (secondo i quali lo Stato deve
intervenire il meno possibile nei meccanismi del mercato) commisero alcuni errori:
a) non impegnarono le finanze federali nella lotta contro la rapidissima crescita della disoccupazione;
b) tentando di rilanciare la produzione interna e frenare la discesa dei prezzi, nel giugno
1930 raddoppiarono il livello medio dei dazi protettivi portandolo dal 26 al 50%;
c) inoltre vi erano numerosi paesi privi di capitali che stavano sviluppando le loro economie
grazie ai prestiti degli Stati Uniti; Hoover decise la cessazione di questi prestiti, determinando il
quasi totale azzeramento del commercio internazionale di quei paesi;
d) in generale, come ho già ricordato, tutti i paesi accentuarono il protezionismo, sperando,
come gli Stati Uniti, di combattere in questo modo la disoccupazione.
Nelle elezioni del 1932 Hoover venne sconfitto dal democratico F.D. Roosevelt, che subito dopo
il suo insediamento alla Casa Bianca nel febbraio 1933 iniziò una eccezionale politica di interventi
dello Stato nell’economia, senza curarsi del crescente debito pubblico e del rischio di inflazione:
- svalutò il dollaro per favorire le esportazioni;
- nazionalizzò alcuni servizi essenziali;
- attuò un grandioso programma di lavori pubblici per combattere la disoccupazione55;
- adottò provvedimenti per far risalire i prezzi dei prodotti agricoli, che erano precipitati rovinando milioni di famiglie di agricoltori;
- intervenne per migliorare il potere di acquisto degli operai, assicurando loro piena libertà di
associazione e di lotta, riconoscendo il valore legale dei contratti collettivi, considerando illegali
tutte le manovre dei datori di lavoro contro i diritti dei lavoratori, ed infine creando un sistema (sia
pure insufficiente rispetto agli standard attuali) di assicurazioni obbligatorie per gli infortuni, la disoccupazione, la malattia e la vecchiaia, assicurazioni che negli Stati Uniti ancora non esistevano.
4.7 - Le misure adottate per contrastare la crisi
Tutti hanno imparato da Roosevelt, e nessuno ha ripetuto gli errori di Hoover. Oggi i governi
sanno che sarebbe controproducente ricorrere al protezionismo, ed hanno capito che il rimedio essenziale per superare l’attuale crisi è iniettare liquidità nel sistema e mantenere bassi i tassi di inte-
54
F. Giavazzi, “Corriere della Sera”, 4-7-08.
E’ rimasto un modello di efficacia dell’intervento pubblico l’operato della Tennessee Valley Administration per lo
sfruttamento idroelettrico, l’irrigazione e la bonifica agraria del bacino del fiume Tennessee.
55
18
resse56:
1- dopo il gravissimo errore iniziale del governo degli Stati Uniti, che non è intervenuto per impedire il fallimento della grande banca d’affari Lehman Brothers, negli Usa e in tutto il mondo si
sono impediti ulteriori fallimenti di banche, mediante due tipi di misure:
- in alcuni casi lo Stato ha ricapitalizzato le banche in difficoltà diventandone azionista
(anche azionista di maggioranza, cioè il vero proprietario) per garantire la liquidità di tutti i conti
bancari ed evitare la corsa al ritiro dei fondi da parte dei depositanti (privati e imprese) che avrebbe
provocato un caos ingestibile e il crollo totale del sistema economico; naturalmente a risanamento
avvenuto lo Stato dovrà ricollocare le sue azioni sul mercato. Agli scettici occorre ricordare che ciò
è già stato fatto con successo alcuni anni fa dal governo svedese, che a seguito di una crisi delle
banche locali divenne azionista di maggioranza di gran parte di esse, le risanò, e infine le rivendette
ai privati con un buon guadagno.
- Lo Stato ha garantito totalmente i prestiti interbancari, ripristinando la fiducia tra le banche.
2- In questo modo i governi hanno evitato che le banche, a corto di liquidità, restringessero eccessivamente il credito alle imprese, anche a quelle sostanzialmente sane che tuttavia avrebbero rischiato il fallimento per il sommarsi della stretta creditizia all’inevitabile calo della domanda. Si deve aggiungere che in questo periodo le banche, anche quando dispongono di ampia liquidità, sono
molto prudenti nel concedere crediti alle imprese, e quindi da più parti vengono accusate di ostacolare la ripresa dell’economia. L’accusa è infondata perché il ruolo delle banche è quello di amministrare al meglio il denaro dei depositanti, e poiché la crisi economica è tutt’altro che superata, nemmeno le imprese più sane hanno la garanzia di un futuro positivo, e quindi per le banche è doveroso
adottare, nella concessione di crediti, criteri più restrittivi di quelli utilizzati normalmente.
3- In alcuni casi lo Stato, oltre ad aiutare tutte le imprese mantenendo molto basso il costo del
denaro (riducendo in tal modo il costo dei finanziamenti), ha aiutato direttamente alcuni settori economici mediante misure di sostegno alle vendite (rottamazioni, riduzioni fiscali sui consumi di
determinati prodotti), e in qualche caso vi è stata la sua diretta partecipazione al capitale di alcune
grandi imprese, per evitarne il fallimento. Questa misura è tuttavia molto discussa per alcuni possibili risvolti negativi (esaminati nel par. 5).
In Italia, rispetto ad altri paesi europei, le banche e le altre istituzioni finanziarie detengono minori quantità di titoli a rischio, e non hanno dovuto ricorrere a consistenti aiuti pubblici. A proposito
di questi aiuti, non si deve dimenticare che l’Italia, a differenza degli altri grandi paesi europei il cui
debito pubblico rientra all’incirca nei parametri del Trattato di Maastricht, si troverebbe in gravi difficoltà se diventassero necessari salvataggi per importi rilevanti, a causa del suo già enorme debito57, il cui ulteriore accrescimento solleverebbe l’opposizione degli altri paesi dell’Unione.
Non è invece al momento prevedibile la gravità delle conseguenze a lungo termine della crisi
per molte imprese che stanno subendo un calo della domanda interna e delle esportazioni.
4.8 - “Perché i cittadini dovrebbero pagare per salvare le banche?”
In molti casi i costi dell’intervento pubblico per salvare le banche e le imprese non saranno ricuperati, e verranno quindi a pesare sui cittadini. Inoltre, indipendentemente dal possibile successivo ricupero, nell’immediato in ciascun paese le tasse aumenteranno o non verranno ridotte (come
56
Del tutto diverso il discorso relativamente alla crisi del debito europeo, iniziata nel 2011, che viene esaminata nel secondo capitolo.
57
Il Trattato di Maastricht, costitutivo dell’Unione monetaria europea, stabilisce che in ciascun paese il debito pubblico
complessivo non deve superare il 60 per cento del Pil, mentre in Italia è attualmente di circa il 120 per cento.
19
sarebbe necessario per fronteggiare la concorrenza internazionale), saranno cancellati investimenti
che avrebbero accresciuto la produttività delle imprese e l’occupazione, e ci saranno riduzioni della
spesa sociale (scuola, sanità, pensioni, ecc.). Crescerà l’indebitamento degli Stati, con conseguenze
che ricadranno anche sulle successive generazioni. Sono quindi in molti a chiedersi perché i cittadini dovrebbero pagare un così alto prezzo per gli errori e l’avidità delle banche; paghi chi ha sbagliato, lo si lasci fallire: non è forse questa una regola fondamentale del capitalismo? Tuttavia questa
domanda dimentica che il fallimento delle banche travolgerebbe l’intera economia mondiale, e
quindi i sacrifici si fanno non per salvare i banchieri ma per difendere l’occupazione ed evitare il
crollo del tenore di vita di tutti i cittadini.
Se il salvataggio delle banche è indispensabile (malgrado alcune conseguenze negative che esamineremo fra poco), più discutibile appare invece l’aiuto dello Stato alle imprese private. Tra gli
economisti i pareri divergono, non esistono regole e ogni caso va esaminato e deciso nella sua singolarità.
4.9 – Vi è l’esigenza di regole per impedire truffe e rischi eccessivi, tuttavia non siamo
alla fine del capitalismo
Ci vogliono nuove regole perché non ha senso concedere un mutuo di importo pari al 100 per
cento del valore attuale dell’immobile, dato che una delle frequenti crisi del mercato immobiliare
può ridurre drasticamente questo valore, e nel caso di insolvenza del mutuatario l’ente mutuante
perderebbe buona parte del suo investimento. Tanto meno ha senso concedere un mutuo a chi già in
partenza non offre garanzie sulla sua capacità di pagare le rate; ma soprattutto si è dimostrato un colossale errore consentire di “impacchettare” i mutui subprime (o qualsiasi altro titolo di credito rischioso) insieme a titoli di solvibilità certa, creando nuove obbligazioni vendute come sicure, con le
conseguenze che abbiamo esaminato.
Le nuove indispensabili regole non segneranno tuttavia “la fine del capitalismo”: anche questa
volta resteranno delusi i critici che da un secolo e mezzo ad ogni crisi profetizzano l’imminente
crollo finale dell’economia capitalistica, travolta dalle contraddizioni che nascono dalla ricerca del
profitto e dal “liberismo selvaggio” privo di regole. Come in passato l’aumento del prelievo fiscale
e contributivo e l’avvio dello Stato sociale posero fine allo sfruttamento dei lavoratori, così oggi le
nuove regole dovrebbero porre fine allo sfruttamento dei risparmiatori, ingannati dalle obbligazioni spazzatura che le banche e le altre agenzie finanziarie hanno continuato a vendere come titoli
privi di rischi. Continuerà naturalmente la speculazione borsistica, ma verranno posti dei limiti58 a
operazioni che a volte sconfinano nella vera e propria truffa59. Tutto ciò segnerà il rafforzamento
del capitalismo, non la sua pronosticata fine, essendo il capitalismo non un programma politico,
non l’usbergo della democrazia, non la tutela delle libertà, non il portatore della giustizia sociale,
tutte cose di enorme valore ed importanza, la cui realizzazione spetta tuttavia alla politica, mentre il
capitalismo serve esclusivamente a produrre ricchezza, lasciando alla politica il compito di regolare
questa produzione e di distribuirla e utilizzarla secondo criteri elaborati appunto in sede politica. Lo
hanno capito anche i comunisti cinesi, che pur mantenendo una ferrea dittatura lasciano liberi gli
imprenditori di perseguire il profitto all’interno di una cornice di regole stabilite.
1. La truffa delle cartolarizzazioni confezionate apposta per guadagnare dal sicuro crollo del
loro valore. Numerose banche in tutti i paesi hanno continuato a vendere titoli tossici agli ignari risparmiatori anche quando avevano la certezza che il loro valore sarebbe crollato, ma le indagini avviate nell’aprile 2010 a seguito del rischio fallimento della banca americana Goldman Sachs hanno
rivelato un’altra e più sofisticata strategia truffaldina. La grande banca di investimento ha confezionato un particolare tipo di Cdo, piazzandoli ad alcuni grandi clienti, tra i quali la banca olandese
58
Sui limiti che sarebbe necessario imporre alla speculazione finanziaria si veda il par. 8.
Sulla speculazione finanziaria, sulle sue funzioni non soltanto negative, e quindi sulla necessità di controllarla senza
però eliminarla, si veda l’intero paragrafo 2.1.
59
20
Abn Amro e la tedesca Ikb, convinti che il mercato immobiliare americano avrebbe continuato a salire. Invece arrivò il crollo, e le due banche registrarono perdite consistenti, che sommate alle altre
determinate dalla crisi le costrinsero a richiedere l’intervento di salvataggio dei rispettivi governi.
Tuttavia fin qui nulla di illecito: anche i più avveduti a volte sbagliano le previsioni e ne pagano il
prezzo. La truffa è consistita nel fatto che la Goldman ha nascosto ai clienti che i titoli ipotecari “insaccati” in quei Cdo erano stati scelti, d’accordo con la banca, da J. Paulson, capo di un fondo di investimento che avendo previsto il crollo del mercato immobiliare aveva scelto tutti i peggiori debitori, e poi aveva puntato, mediante contratti a termine, sulla loro pressoché certa insolvenza, ignorata dagli acquirenti dei Cdo. Risultato: la Goldman ha guadagnato 150 milioni di dollari di commissioni e il fondo di Paulson ne ha guadagnato poco meno di un miliardo60.
4.10 - “Il trionfo dello Stato sul mercato”, ovvero la vecchia retorica statalista
Si è visto che in alcuni paesi lo Stato, unico soggetto in grado di ricapitalizzare le banche in difficoltà, ne è divenuto il maggiore azionista, vale a dire il proprietario. I critici del capitalismo amano
interpretare questo fatto come definitivo fallimento del libero mercato: l’economia mondiale, dopo
una parentesi di liberismo durata circa due secoli, deve tornare ovunque sotto il controllo delle autorità statali. Se ciò avvenisse, si tratterebbe davvero della fine del capitalismo, le cui molle sono la
proprietà privata, il rischio che si corre sfidando la concorrenza sul mercato libero, e la responsabilizzazione degli attori che ne deriva. La statalizzazione delle banche -e, indirettamente, la dipendenza di tutte le imprese dallo Stato, essendo il credito bancario la linfa vitale del sistema economicononché l’eventuale proprietà pubblica di alcune imprese produttive, non sono auspicabili perché
ovunque prevarrebbero gli obiettivi extraeconomici che servono ai partiti politici per finanziarsi e
per procurarsi consensi elettorali; anche le imprese non statalizzate, per accedere al credito, dovrebbero piegarsi a quegli obiettivi. Rallenterebbero l’innovazione, il progresso economico, la produzione di ricchezza e il benessere di tutti.
In realtà le cose andranno diversamente perché non c’è stato alcun fallimento del “mercato capitalistico”. Questa negazione può apparire sorprendente, dato che l’interpretazione dell’attuale
momento come ovvio esempio del fallimento del mercato si è diffusa fin dal primo manifestarsi della crisi, ma si tratta di un luogo comune completamente falso. Se si vuole davvero comprendere ciò
che è accaduto, è necessario in primo luogo chiarire che cos’è il libero mercato capitalistico.
“Mercato libero” significa che tutti i produttori di beni e di servizi possono offrirli sul mercato
ai potenziali acquirenti; ha successo chi offre i prodotti migliori, oppure -a pari qualità- a minor
prezzo. La ricerca del profitto spingerebbe ciascun produttore a risparmiare sui costi offrendo prodotti scadenti mimetizzati da prodotti di qualità, ed è proprio da questa naturale tendenza alla truffa
commerciale che nasce l’esigenza di regole e di controlli per tutelare gli acquirenti e i consumatori
di qualsiasi prodotto o servizio. La descrizione di ciò che si offre deve corrispondere alle qualità intrinseche del prodotto, e la legge deve punire chi inganna. Questo vale per tutte le merci e per tutti i
servizi. Naturalmente è lecito vendere prodotti di minore qualità a un prezzo più basso, ma la descrizione non deve nascondere all’acquirente le vere caratteristiche di ciò che acquista. Insomma, a
fondamento del libero mercato capitalistico vi è la regola “Vietato ingannare”. Poiché anche gli imprenditori tendenzialmente più onesti sarebbero costretti dalla concorrenza di quelli senza scrupoli a
violare questa regola, è compito fondamentale dello Stato impedirlo.
Tornando alla crisi attuale, è perfettamente lecito che una banca o un’agenzia immobiliare conceda un mutuo ad un debitore a rischio insolvenza, ed è egualmente lecito che cartolarizzi il credito
vendendolo ad un altro soggetto, il quale però deve essere messo al corrente del rischio connesso.
Ciò che invece è accaduto -qui descritto nel par. 4.1- è l’occultamento del rischio mediante
l’”impacchettamento” dei crediti cattivi con altri ottimi, ottenendo per le nuove obbligazioni così
create la massima valutazione delle agenzie di rating. In questo modo l’acquirente delle obbligazio60
Su questa truffa si veda: M. Onado, “Il sole 24 Ore”, 25-4-10; F. Rampini, “Affari e Finanza”, 26-4-10.
21
ni veniva ingannato sulla natura di ciò che acquistava: si trattava di operazioni ben diverse dalle
operazioni costitutive del libero mercato capitalistico fondato sulla concorrenza, e la concorrenza è
per definizione una gara tra prodotti di caratteristiche note. Se si inganna sulla qualità e sui rischi
non c’è concorrenza e quindi non c’è mercato capitalistico. Negli Stati Uniti, a partire dal 1999, la
politica ha reso possibili gli inganni mediante la serie di provvedimenti che abbiamo esaminato,
quindi è la politica che ha violato la regola fondamentale del mercato. Paradossalmente rispetto alla
vulgata corrente, si può affermare che l’attuale crisi finanziaria è una conferma della validità del libero mercato capitalistico, essendo stata causata dalla violazione della sua regola costitutiva.
Oggi non assistiamo quindi al trionfo dello Stato sul mercato, ma soltanto alla necessità, per
tutti gli Stati, di intervenire temporaneamente per impedire un disastroso estendersi dei danni causati dalla classe politica degli Stati Uniti, e per consentire ad un mercato meglio protetto dalle truffe di
continuare a produrre ricchezza.
Non ci si deve tuttavia illudere che questa sia l’ultima delle crisi determinate dall’avidità della
finanza e dalla sua connivenza con la politica: è possibile che questa associazione -eludendo anche
le nuove regole che verranno imposte- generi in futuro altre truffe e altre crisi, le quali però, come
quella attuale e come le inevitabili e ricorrenti crisi di sovrapproduzione, non segneranno la fine del
capitalismo. Le crisi sono un meccanismo grandioso di “distruzione creatrice”, come diceva
Schumpeter, uno dei più geniali studiosi della società e dell’economia del secolo scorso; servono ad
eliminare le imprese gestite male che non sanno rinnovarsi, e servono a correggere o a istituire le
regole necessarie.
Restano da segnalare alcuni pericoli per la libertà di mercato, che potrebbero concretizzarsi a
seguito delle attuali misure anticrisi; essi richiedono un’attenta vigilanza, per evitare un altrimenti
possibile soffocamento morbido dell’efficienza dell’economia capitalistica.
5 - I PERICOLI DELINEATI DAI SALVATAGGI IMPOSTI DALLA CRISI
I salvataggi di banche e imprese operati dai governi creano diversi tipi di rischi che devono essere attentamente controllati.
5.1 - Eccesso di regolazione e controllo politico dell’economia
Non certo la fine del capitalismo ma l’indebolimento della sua efficienza, potrebbe essere causato -in Europa assai più che negli Stati Uniti61- da un eccesso di regole e da un controllo politico
dell’economia divenuto permanente, imposto dai partiti politici approfittando dell’attuale crisi che
esige invece un rafforzamento soltanto temporaneo del potere degli Stati. La regolazione eccessiva
del settore finanziario porrebbe un freno all’afflusso di capitali disposti ad affrontare il rischio degli
investimenti per creare nuove imprese o rinnovare quelle esistenti.
Un altro pericolo si concreterebbe se l’attuale intervento degli Stati nel capitale delle banche e
di alcune industrie si prolungasse nel tempo oltre lo stretto indispensabile. Questa situazione sarebbe assai gradita ai partiti politici, perché, pur limitando la creazione di ricchezza, accrescerebbe
enormemente i loro poteri.
Questi pericoli vanno evitati perché, come abbiamo visto, una buona parte dello sviluppo scientifico e industriale in tutti i settori si deve al gusto per il rischio di chi investe denaro speculando sul
futuro. La crescita economica è avvenuto soltanto nei paesi nei quali le vicende storiche hanno consentito ai produttori di sottrarsi al controllo della politica. Ripristinare quel controllo -come alcuni
sperano di poter fare approfittando dell’attuale crisi- significherebbe fermare lo sviluppo, come ha
dimostrato il fallimento del comunismo nell’Unione Sovietica, che aveva appunto ripristinato il to61
Negli Stati Uniti si pensa che lo Stato, che detta le regole all’economia, non debba tuttavia intervenire direttamente
nel processo economico.
22
tale controllo del governo sulla produzione. Le regole che oggi è necessario imporre non dovranno
soffocare lo spirito imprenditoriale.
5.2 - Blocco della privatizzazione dei servizi pubblici
e abbandono della normale prudenza nell’assunzione del rischio
L’intervento degli Stati nel processo economico sta dando fiato, in tutto il mondo, ai sostenitori
della superiorità dell’economia pubblica. In Italia questo nuovo clima rende meno probabile la privatizzazione di alcuni importanti servizi pubblici gestiti dalle amministrazioni locali. Queste privatizzazioni, che dovrebbero tradursi nella diminuzione dei costi per gli utenti se accompagnate da
una reale concorrenza tra diversi soggetti sul mercato liberalizzato62, da sempre sono osteggiate dai
partiti politici, essendo la gestione di questi servizi una delle principali fonti del loro potere63. In Italia le imprese e gli enti pubblici, con poche eccezioni, funzionano male e producono sprechi, inefficienze, abusi e corruzione. Le cause sono molteplici, ma tutte riconducibili al fatto che nelle imprese pubbliche gli amministratori, a differenza dagli imprenditori privati, non hanno come scopo
principale quello di realizzare profitti. Fare profitti è il motore dell’economia capitalistica fondata
sulla proprietà privata, ed il fattore “rischio” è la causa dell’efficienza delle imprese: in qualsiasi
momento l’imprenditore rischia di fallire e di perdere il capitale investito perché qualcun altro porta
sul mercato merci o servizi migliori o a minor costo di quelli che egli produce, ed è questo rischio
che mobilita la sua intelligenza e le sue energie; eguale rischio corrono i lavoratori dipendenti -dal
direttore generale all’ultimo operaio- che possono essere licenziati o adibiti a mansioni meno retribuite se a loro volta non impegnano le loro capacità o non sono adatti al ruolo che svolgono.
Nell’economia pubblica questi stimoli non esistono: non importa a nessuno se l’impresa macina
perdite anziché profitti, perché i bilanci in rosso vengono pareggiati con i soldi dei contribuenti. Ciò
che soltanto importa è che l’impresa pubblica realizzi gli obiettivi extraeconomici che la classe politica le assegna, indipendentemente dai costi: sistemare nei ruoli dirigenziali personaggi politici o i
loro parenti e amici, creare occupazione clientelare, mantenere buoni rapporti con i sindacati, regalare denaro agli amici mediante finte consulenze, scegliere fornitori (di materiali e di servizi) che
siano amici dei politici, i quali naturalmente da queste scelte ricaveranno tangenti. Inoltre questa situazione, riducendo il ruolo dei manager pubblici a quello di esecutori di ordini, li priva della possibilità di esprimere le loro qualità, e il risultato -salvo rare eccezioni- è che quasi tutti i migliori, indipendentemente dai compensi, vengono attratti dalle imprese private, in Italia e all’estero. Un’altra
fondamentale causa di inefficienza è il potere dei sindacati, che nelle imprese pubbliche, assai più
che in quelle private, svolgono il ruolo di protettori dei pigri e degli incapaci, ulteriore ostacolo per
quei manager che eventualmente volessero tentare di migliorare l’efficienza.
Vi è infine un altro pericolo, di carattere più generale. L’intervento dei governi potrebbe essere
inteso come l’inaugurazione di una nuova filosofia in politica economica: “Nessuno deve fallire,
nessuno fallirà”64. La convinzione che lo Stato interverrebbe comunque, significherebbe
l’annullamento dei criteri razionali che banchieri e imprenditori applicano normalmente nella valutazione dei rischi che intendono assumere. E’ necessario invece chiarire che gli attuali interventi
dello Stato dipendono dall’eccezionalità della crisi e non dovranno essere prolungati né ripetuti.
62
I prezzi per i consumatori e per gli utenti non diminuiscono, e la qualità dei beni e dei servizi prodotti non migliora,
se la privatizzazione di un’impresa pubblica non si accompagna alla creazione di un mercato nel quale più soggetti si
fanno un’effettiva concorrenza (se cioè l’impresa privatizzata continua a restare monopolista nel suo settore).
63
Lo Stato, le Regioni, le Provincie e i Comuni grandi e medi hanno per legge la possibilità di costituire società con capitale interamente o parzialmente pubblico, con lo scopo di svolgere alcune delle attività di competenza dell’ente pubblico nel settore dei servizi (energia, trasporti, raccolta rifiuti, ecc.). Alcune volte la costituzione di queste società è pienamente giustificata, ma nella maggior parte dei casi la loro vera funzione è quella di assicurare ai partiti la gestione a
proprio vantaggio di ingenti risorse.
64
L’impossibilità di fallire delle aziende e degli enti pubblici, in Italia è la causa originaria della loro pessima gestione,
orientata, come si è appena visto, agli interessi dei partiti anziché a quelli degli utenti, dei consumatori e degli eventuali
azionisti privati di minoranza.
23
6 – LA CRISI NON È FINITA: IL PERICOLOSO INDEBITAMENTO DEGLI STATI,
IL RISTAGNO DELL’OCCUPAZIONE E I TIMORI DI UNA SECONDA RECESSIONE
******
Questo paragrafo e i due successivi descrivono la situazione come appariva
nel settembre 2011. Gli importanti sviluppi successivi sono esaminati nel secondo capitolo
******
Le vicende degli ultimi mesi hanno reso evidente la pericolosità dell’indebitamento cui da lungo tempo fanno ricorso quasi tutti i governi democratici per stimolare l’economia e l’occupazione, e
quindi mantenere il consenso dei cittadini. L’indebitamento è stato ulteriormente accresciuto dalle
misure ovunque attuate per attutire le conseguenze della crisi. Crescono i dubbi sulla solvibilità di
un numero crescente di paesi europei, incapaci di controllare la spesa pubblica: i governi, anche
quello italiano, per emettere nuovi titoli o per rinnovare quelli in scadenza sono costretti a maggiorare l’interesse pagato ai creditori per compensare l’aumento del rischio di insolvenza; ma in tal
modo si sottraggono risorse allo Stato sociale e alla crescita economica, senza la quale non è possibile frenare l’aumento della disoccupazione. Inoltre nel momento in cui scrivo rimane in dubbio la
possibilità di evitare il fallimento totale della Grecia65, grazie agli aiuti delle istituzioni finanziarie
europee; di questi aiuti hanno bisogno anche il Portogallo, la Spagna e l’Italia, per evitare un insostenibile aumento del tasso di interesse che altrimenti questi Paesi dovrebbero pagare per finanziarsi. Gli aiuti consistono in finanziamenti ai governi, oppure in acquisti dei titoli pubblici, appunto per
evitare l’aumento dei tassi. Su questi aiuti è in corso una accesa discussione tra chi sostiene che è
indispensabile aiutare i paesi a rischio perché il loro fallimento segnerebbe quello dell’Unione europea, una gravissima crisi dell’euro e forse la sua scomparsa, e chi invece ritiene preferibile
un’Unione ristretta ai paesi economicamente più solidi, anche (o forse soprattutto) perché i cittadini
di questi paesi non ne vogliono sapere di dover pagare per il malgoverno altrui. D’altra parte, secondo calcoli attendibili, la fine dell’euro costerebbe ai cittadini dei paesi ricchi (soprattutto della
Germania) più dei salvataggi che si ostinano a rifiutare. Ma c’è dell’altro: alcune banche europee
(soprattutto tedesche e francesi) hanno in portafoglio grandi quantitativi di titoli greci e di altri paesi
a rischio, che diverrebbero carta straccia se questi paesi fallissero; quindi i governi non solo si trovano di fronte ad una pesante alternativa (aiutare i paesi in crisi -anche contro il volere dei cittadinio lasciarli fallire mettendo a rischio l’euro) ma dovranno anche salvare comunque66 le proprie banche, naturalmente a spese dei contribuenti.
Anche l’indebitamento degli Stati Uniti cresce in modo preoccupante, mentre si moltiplicano le
critiche al ruolo del dollaro come riserva di valore internazionalmente accettata, ruolo fondato sulla
solidità dell’economia Usa, che invece comincia ad essere messa in discussione.
In tutti i Paesi si è ormai consapevoli dell’esigenza di fermare la crescita del debito tagliando
la spesa pubblica, ma si sta delineando un drammatico circolo vizioso: tagliare questa spesa significa infatti ridurre le prestazioni dello Stato sociale, e quindi la capacità di spesa dei cittadini; e significa inoltre ridurre gli investimenti pubblici e gli altri stimoli all’economia; il risultato di entrambe
le misure è un freno alla crescita economica e un aumento della disoccupazione, proprio l’opposto
di ciò a cui si tende. Al taglio della spesa non costituiscono alternativa né l’aumento delle tasse,
che deprime l’economia, né la giustamente invocata riduzione dei “costi della politica”, moralmente
indispensabile ma la cui incidenza sarebbe tuttavia quantitativamente insufficiente. Purtroppo soltanto i tagli allo Stato sociale e agli investimenti pubblici danno risultati certi, consistenti e immediati, mentre tutte le altre misure (lotta alla corruzione, all’evasione fiscale e agli sprechi), pur essendo indispensabili, hanno tuttavia esiti incerti e soprattutto differiti, mentre l’assoluta urgenza di
65
Un accordo tra il governo greco e i creditori è già stato raggiunto per un fallimento parziale: il capitale da rimborsare
verrà in parte tagliato, e si riduce l’interesse annuale pagato ai possessori di titoli greci.
66
L’indispensabile salvataggio delle banche è stato esaminato nel par. 4.8.
24
fermare l’aumento dei tassi di interesse esige misure che diano risultati immediati. Crescono anche i
timori circa la tenuta della stabilità sociale di fronte ai pesanti sacrifici che il taglio della spesa imporrà a breve a tutti i cittadini.
___________________
A partire dal 2010 la produzione è ripresa ovunque, ma senza slancio; si tratta di una ripresa
“drogata” dagli interventi pubblici senza precedenti descritti nel par. 4.7, e negli ambienti finanziari e politici circolano numerosi timori:
-i governi, a causa delle spese sostenute per fronteggiare la crisi, non sono in grado di mettere
in campo le risorse finanziarie occorrenti per una decisa ripresa dello sviluppo economico; nessun
paese -nemmeno gli Stati Uniti, nemmeno la Germania- è in grado di adottare quei robusti stimoli
alla domanda interna che sarebbero necessari per accelerare la ripresa;
-di conseguenza l’economia globale potrebbe vegetare o crescere stentatamente per un lungo
periodo;
-non si può nemmeno escludere che all’attuale timida ripresa faccia seguito una seconda ondata
recessiva, che i governi avrebbero difficoltà a fronteggiare essendosi già enormemente indebitati
nella fase precedente: molti osservatori la ritengono inevitabile, e il 20 settembre 2011 anche il
Fondo monetario internazionale ha formulato previsioni pessimistiche sulle possibilità di tenuta
dell’economia mondiale;
-i prezzi di molte materie prime agricole e minerarie, dopo la pausa determinata dalla crisi,
hanno ripreso a salire sotto la spinta della crescente domanda dei paesi emergenti.
Non sembra invece probabile che alcuni governi (soprattutto quello degli Stati Uniti) possano
deliberatamente fare ricorso all’inflazione per risolvere il problema del debito pubblico67-68.
I timori sono confermati da alcuni tipi di indicatori:
-stanno aumentando i crediti in sofferenza, e ciò incide sui bilanci delle banche;
-secondo le stime del Fondo monetario internazionale, nel 2014 il debito federale degli Stati
Uniti salirà al 108 per cento del Pil, e quello europeo al 96 per cento, il doppio rispetto al 2006,
mentre invece molti paesi emergenti -con in testa Cina e Brasile- hanno deficit annuali e debiti
complessivi molto più contenuti;
-sono tornati ad aumentare i tassi interbancari -i tassi ai quali le banche si prestano denaro a vicenda- e ciò significa che si nutrono dubbi sulla veridicità dei bilanci, apparentemente risanati;
-stanno aumentando i prezzi dei Cds sul debito degli Stati, anche di quelli finora ritenuti finanziariamente solidi (e sui quali nessuno tenterebbe di speculare); questi aumenti rispecchiano i diffusi timori di future difficoltà se dovesse manifestarsi una seconda recessione;
-negli Stati Uniti non solo il governo centrale69, ma anche i governi dei diversi Stati, allo scopo
di acquisire consensi hanno continuato per molti anni a regalare ai cittadini un benessere fondato
sull’indebitamento anziché su risorse reali. La crisi li ha costretti ad accrescere consistentemente i
già imponenti debiti pubblici accumulati, destando serie preoccupazioni negli osservatori e nei mercati:
67
Si veda: D. Lachman, La minaccia da non dimenticare: gli squilibri globali. “Aspenia”, n. 48-2010, pp. 170-171.
Se c’è inflazione, gli interessi sul debito e il rimborso dei titoli in scadenza vengono effettuati con moneta svalutata, e
ciò significa, per tutti i creditori, la perdita netta di una parte del capitale prestato, e per tutti i debitori un netto guadagno; da ciò la perenne tentazione, per i governi, di provocare l’inflazione per ridurre il peso dell’indebitamento. Una
delle conseguenze positive della globalizzazione consiste proprio, come si è visto nel par. 2.1, nota 7, nell’aver posto un
freno a questa tentazione, perché l’inflazione, cioè l’aumento di tutti i prezzi, accresce i costi di produzione, e quindi
frena le esportazioni e facilita le importazioni dai paesi senza inflazione.
69
Come si è visto nel par. 4.2.
68
25
“Dopo l’estate, l’attenzione dei mercati (e degli speculatori), fin qui concentrata sull’Europa, si potrebbe trasferire
sugli Usa dove, più ancora dell’elevatissimo deficit federale, a far temere un nuovo ‘caso greco’ sono proprio alcuni degli Stati più importanti dell’Unione. Sono in molti a ritenere che, dopo l’estate, i guai, fin qui sottovalutati, della finanza
locale Usa, potrebbero alimentare una pericolosa instabilità nel mercato dei municipal bonds, fino al rischio di default
sulle obbligazioni emesse da entità diverse dal Tesoro federale”70.
Il generale rallentamento dell’economia mondiale ha conseguenze particolarmente pesanti per i
paesi poveri: calano le loro esportazioni e quindi aumenta il numero degli affamati, perché i governi
sono costretti a ridurre le già scarse risorse destinate ai sussidi alimentari. Inoltre diminuiscono gli
aiuti gratuiti dei paesi ricchi, mentre le restrizioni del credito accrescono le difficoltà per ottenere
dei prestiti. Ulteriori problemi sono creati dal consistente riflusso dell’emigrazione, inevitabile conseguenza della generale crescita della disoccupazione.
Riguardo agli aiuti gratuiti, nella riunione all’Aquila del luglio 2009, i vertici del G8 avevano
solennemente promesso il dono di venti miliardi di dollari per la lotta contro la fame. In realtà i miliardi erano soltanto sei, mentre per i restanti quattordici si trattava di una furbesca ridenominazione
di precedenti promesse di aiuti, mai erogati; infine il segretario generale della Fao71 ha denunciato
che dopo un anno erano stati versati soltanto 900 milioni di dollari!72
Si deve sottolineare che la ripresa produttiva, anche nei paesi in cui si manifesta con maggior
vigore73 non è accompagnata da una soddisfacente ripresa dell’occupazione. Infatti nei periodi di
crisi le imprese, oltre a ridurre il personale, migliorano le tecnologie e l’organizzazione, e sono
quindi in grado di ottenere uno stesso volume di produzione con meno dipendenti. Perché
l’occupazione torni a crescere ci vorrebbe una ripresa molto più vivace di quella che si è finora manifestata.
1. Le pesanti conseguenze sociali del perdurare della disoccupazione. Secondo gli analisti del
mercato del lavoro, non ci sarà una consistente ripresa dell’occupazione prima del 2014. Si delinea
quindi un periodo di attesa insopportabilmente lungo
“per chi ha perso il lavoro, o ha dovuto ripiegare su impieghi indesiderati e meno pagati, infine per i giovani che
concludono gli studi e si presentano sul mercato. La disoccupazione comporta un’immensa distruzione di capitale umano. Per i ventenni un’attesa così prolungata crea un vuoto incolmabile di esperienza nei primi anni di contatto con la realtà, quelli che dovrebbero essere i più formativi all’uscita dalla scuola e dall’università. Genera un’insicurezza che si
traduce in perdita di autostima. Per i cinquantenni un mercato del lavoro congelato fa svanire rapidamente ogni residua
speranza di agganciare un’attività. S’infoltiscono le schiere dei prepensionati, o dei ‘precari maturi’ che si arrangiano in
attesa della pensione. Anche questo è un fenomeno distruttivo: peggiora gli equilibri del sistema previdenziale; depaupera il mondo delle aziende di una generazione che in passato era portatrice di esperienza e contribuiva alla formazione
dei giovani neoassunti. La disoccupazione è tutte queste cose e altro ancora: lo stress psicologico si diffonde in tanti rivoli, crea milioni di depressi, conflitti familiari, malattie”74.
2. L’indebitamento frena gli investimenti nelle energie rinnovabili. L’enorme indebitamento
degli Stati li sta costringendo a ridurre i contributi agli investimenti per produrre energia elettrica da
fonti rinnovabili, investimenti che senza questi contributi non vengono effettuati perché il costo
dell’energia ottenuta è ancora molto superiore al costo di quella prodotta da fonti tradizionali:
70
M. Gaggi, “Corriere della sera”, 7-7-10.
L’organizzazione dell’Onu che si occupa dei problemi dell’alimentazione.
72
S. Lepri, “La Stampa”, 27-6-10.
73
Tra questi paesi spicca la Germania, la cui produzione è tornata a crescere grazie a un forte incremento delle esportazioni, reso possibile dagli investimenti in ricerca e sviluppo costantemente maggiori di quelli degli altri paesi europei,
nonché dalla moderazione dei sindacati tedeschi, che in passato erano estremamente combattivi ma che da alcuni anni si
sono adeguati alle nuove esigenze imposte dalla globalizzazione, accettando aumenti dell’orario di lavoro e della produttività, e tagli delle pause, a parità di salario.
74
F. Rampini, Slow economy. Mondatori, Milano, 2009, p. 20-21.
71
26
“Tra le imprese produttrici di energia da fonti rinnovabili nessuna fa utili senza assistenzialismo. Fino a quando si
potrà continuare così? Il debito pubblico è ovunque alle stelle e la saggia cancelliera Merkel si è già posto il problema
se non sia il caso di sussidiare i disoccupati della crisi piuttosto che la futuribile green economy”75.
Inoltre è noto che le tecnologie produttrici di energia elettrica da fonti rinnovabili (attualmente
le più sviluppate sono l’eolica e la solare fotovoltaica) sono ad alta intensità di capitale più che di
lavoro: un recente studio ha calcolato che con le risorse necessarie per ogni posto di lavoro verde se
ne potrebbero creare 4,8 nell’economia in generale e 6,9 nell’industria manifatturiera76.
7 - LA DISCUSSIONE SULLE OPERAZIONI
FINANZIARIE CONSENTITE DALLE LEGGI
In conseguenza della crisi, si è sviluppata in tutto il mondo un’ampia discussione sui comportamenti delle banche, dei fondi speculativi e delle altre istituzioni finanziarie, che, indipendentemente dalla questione dei mutui subprime, contribuiscono ad aggravare la crisi utilizzando le molteplici possibilità, consentite dalle legislazioni vigenti, per realizzare cospicui guadagni.
7.1 - Le banche utilizzano il denaro dei clienti per speculare in proprio
Durante la Grande crisi degli anni ’30 il presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, varò il celebre
Glass-Steagall Act, la legge che imponeva di tenere divise e separate le attività delle banche commerciali (banche di credito ordinario) da quelle delle banche di investimento. Le prime possono utilizzare i fondi depositati dai clienti esclusivamente per concedere prestiti alle imprese e ai privati
seguendo normali criteri prudenziali, mentre le banche di investimento possono compiere qualunque tipo di operazioni con il denaro dei clienti che sono disposti a correre rischi per accrescere i
guadagni. Per mezzo secolo questa distinzione ha operato positivamente, evitando che i crac bancari, che pure vi sono stati, avessero conseguenze devastanti per l’intero sistema finanziario.
Tra i provvedimenti varati dal governo Clinton nel 1999 (si veda il par. 4.2) c’è stata anche
l’abolizione del Glass-Steagall Act e il ritorno alla precedente indistinzione tra i due tipi di banche,
indistinzione che oggi caratterizza la legislazione finanziaria in tutti i paesi: le banche sono autorizzate ad impegnarsi nei cosiddetti “proprietary trading”, possono cioè utilizzare per proprio conto i
depositi dei correntisti anche per acquisto di titoli o per altre operazioni finanziarie a rischio. Ne risulta l’impossibilità di capire, ad esempio, quanta parte dell’utile denunciato da una banca come risultato della compravendita titoli, sia stato realizzato comprando e vendendo titoli per conto e a rischio dei clienti, e quanta parte invece derivi da operazioni fatte in proprio, rischiando il capitale
della banca o quello dei clienti a loro insaputa, cioè agendo come i fondi di investimento speculativi
(i quali però, ripeto, manovrano con il denaro di clienti informati e disposti al rischio).
A seguito del crollo delle borse, questa estensione a tutte le banche dell’autorizzazione al rischio ha contribuito ad aggravare le conseguenze della crisi, e oggi appare più che mai indispensabile tornare alla precedente separazione tra i due tipi di banche.
7.2 - La speculazione mediante i Cds: assicurare titoli che non si posseggono,
ovvero scommettere sul fallimento dei debitori (Stati e imprese)
L’attuale regolamentazione dei Cds (descritti nel par. 4.1) appare decisamente assurda perché
consente ad un numero illimitato di soggetti di acquistarli (sui debiti cartolarizzati dei mutuatari, o
sulle obbligazioni di imprese private, o sui debiti degli Stati) senza avere mai prestato un soldo ai
debitori: non si tratta di garantire il ricupero del proprio credito nel caso che il debitore diventi in75
G. Sapelli, “Corriere economia”, 21-6-10.
La ricerca è segnalata dal Sole-24 Ore del 23-5-10: L. La vecchia e C. Stagnaro, Are Green Jobs Real Jobs? The case
of Italy.
76
27
solvente, significa invece scommettere sul suo auspicato fallimento; se questo si verifica, i possessori dei Cds incasseranno dall’emittente un capitale che avevano assicurato senza averlo mai erogato. Paradossalmente, è
“come se in un paese esistessero mille automobili ma duemila assicurazioni per furto e incendio. Un paradosso che
dimostra quanto la finanza abbia superato la realtà: da strumenti di copertura dei rischi, i Cds sono diventate titoli su
cui speculare”77.
Ovviamente se le probabilità del fallimento aumentano, aumenta il premio annuale che si deve
pagare all’emittente o al venditore78 della polizza. Ad esempio all’inizio del 2009, quando
l’insolvenza della General Motors appariva probabile, assicurare con un Cds un milione di dollari di
obbligazioni di questa società costava 800 punti base79: l’8 per cento del capitale assicurato.
E’ stato fatto un paragone spiritoso ed efficace per mostrare non solo la pericolosità finanziaria e l’inaccettabilità etica, ma anche l’assurdità logica delle leggi che consentono queste scommesse sul fallimento di un debitore con il quale non si hanno mai avuto rapporti:
“Io non posso assicurarmi sull’incendio della casa di un altro; né posso stipulare con una compagnia assicurativa
una polizza vita sul mio capufficio, che mi premierebbe nel caso del suo decesso. La ragione è chiara. Potrei essere tentato di appiccare il fuoco alla casa del vicino, o di mettere l’arsenico nel caffè del capufficio, visto che sarei il beneficiario delle loro disgrazie”80.
7.3 - La speculazione con i Cds prende di mira gli Stati finanziariamente più fragili,
e manipola le borse
1) Mediante i Cds si può guadagnare anche puntando al fallimento di uno Stato finanziariamente fragile:
“I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per
aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per
speculare contro i governi indebitati”81.
“Nel mondo esistono persone che si stanno assicurando sulle vite dei nostri Stati, e spesso lo fanno ‘a nudo’, senza
avere un solo Bund o Btp”82.
2) La possibilità di acquistare Cds sul debito di uno Stato anche se non si possiedono obbligazioni di quello Stato, consente agli speculatori di realizzare guadagni rilevanti con un’altra sofisticata e truffaldina operazione. Ad esempio un fondo speculativo (o un’alleanza tra più fondi) acquista una grande quantità di Cds sul debito di uno Stato dalle finanze non troppo solide; questo forte
acquisto fa crescere tra gli altri operatori il timore di un prossimo fallimento di quello Stato, e di
conseguenza aumenta il premio richiesto dagli emittenti dei Cds agli ulteriori acquirenti, e naturalmente aumenta anche il prezzo dei Cds che vengono scambiati sul mercato. Nel mondo reale non è
accaduto nulla di nuovo, il rischio di fallimento di quello Stato non è affatto aumentato, tuttavia
l’artificioso aumento del costo delle polizze che ne assicurano il debito diffonde tra gli operatori di
tutto il mondo (ignari della manovra) la falsa credenza di un rischio accresciuto. Ma se uno Stato
fallisce e il suo sistema economico tracolla, tutte le imprese che operano in quel paese subiscono un
danno, e di conseguenza in tutte le borse si verifica un calo del valore delle azioni e delle obbligazioni della maggior parte delle imprese di quel paese. L’unico operatore o il piccolo gruppo di operatori coalizzati che, avendolo provocato, è certo del calo, all’inizio della manovra vende allo sco77
M. Longo, “Il Sole 24 Ore”, 14-3-10.
I Cds sono negoziabili, si comprano e si vendono come qualunque altro titolo di credito, pagando al venditore un
premio più o meno elevato a seconda delle maggiori o minori probabilità di fallimento dei debitori.
79
Si definisce “punto base” il centesimo dell’unità.
80
F. Rampini, “Affari e finanza”, 8-3-10.
81
J. Siglitz, intervistato da S. Lepri, “La Stampa”, 5-2-10.
82
F. Fubini, “Corriere della Sera”, 14-3-10.
78
28
perto, mediante i “contratti a termine” (senza cioè possedere i titoli) azioni, obbligazioni e titoli di
Stato di quel paese al prezzo precedente la manovra; alla scadenza dei contratti, a calo di borsa avvenuto, acquista i titoli al nuovo prezzo ribassato e li consegna all’acquirente che glieli deve pagare
al prezzo più elevato pattuito, e in tal modo realizza un guadagno che è tanto più grande quanto
maggiore è stato il calo in borsa.
Il timore del fallimento di uno Stato provoca un danno ulteriore: si spaventano i possessori di titoli di altri Stati dalle finanze non solidissime ma che comunque non sarebbero stati presi di mira.
Molti cercano di liberarsi di questi titoli, facendone scendere il prezzo. Ad esempio questo è accaduto - in misura relativamente contenuta - con la crisi finanziaria della Grecia nel 2010:
“Il movimento dei Cds ha enfatizzato le vendite sui titoli di Stato greci, poi sui Btp italiani, sui titoli spagnoli e
portoghesi. Morale: l’allarme lanciato dai Cds (vero o presunto che sia) è stato una concausa di un effetto domino sui
mercati dei titoli di Stato. E questo un effetto reale ce l’ha: gli Stati devono pagare interessi sempre crescenti sui propri
debiti. Insomma: una speculazione forse con minimi volumi, finisce per avere potenzialmente effetti giganteschi”83.
Naturalmente la stessa manovra speculativa che si fa sui titoli di Stato viene fatta anche sulle
obbligazioni di società private: ad esempio Telecom Italia aveva un debito al 30 settembre 2009 di
44 miliardi di euro, ma su questo debito erano state emesse 70,4 miliardi di Cds; a fronte dei 12 miliardi di debito della francese Carrefour c’erano in circolazione 29 miliardi di Cds.
A proposito di crisi finanziarie determinate dall’irresponsabilità dei politici, ricordo che anche
l’attuale crisi della Grecia è dovuta ai suoi governanti, che per acquisire consensi hanno fatto vivere
per anni il paese al di sopra dei propri mezzi, falsificando i bilanci per sfuggire ai controlli
dell’Unione europea, tollerando un’enorme evasione fiscale, accrescendo inutilmente il numero dei
dipendenti pubblici e mantenendo un assurdo sistema pensionistico.
Molto diverse le cause della crisi dell’Irlanda, la cui impetuosa crescita economica è stata alimentata per alcuni anni da massicci investimenti stranieri, attirati da un prelievo fiscale quasi irrisorio reso possibile dal crescente indebitamento dello Stato, che non poteva però continuare
all’infinito.
Naturalmente gli operatori, quando individuano un paese in difficoltà o comunque divenuto poco affidabile, ne approfittano aggravandone le condizioni, ma è sempre la politica che apre le porte
alle manovre della speculazione. Paradossalmente, in alcuni casi in cui le agenzie di rating non si
accorgono di nulla, è il fiuto della speculazione che può mettere in allarme i risparmiatori facendo
venire a galla l’irresponsabilità dei governanti. Tuttavia il termine “speculazione” è inadatto a descrivere ciò che in questo periodo sta accadendo ai titoli di Stato di molti paesi europei: la crisi ha
reso evidente alla finanza internazionale l’incapacità di questi governi di controllare la spesa pubblica nella misura resa necessaria dalla globalizzazione, e quindi i fondi di investimento non speculativi e i fondi pensione di tutto il mondo che avevano in portafoglio titoli pubblici di questi paesi,
preferiscono disfarsene. Si tratta di operazioni dettate dalla normale prudenza di chi non vuole correre rischi, senza l’ombra di intenti speculativi.
7.4 - La funzione positiva della speculazione mediante i Cds:
sono un severo guardiano del buon governo degli Stati e delle imprese
Dopo l’esame degli aspetti negativi dei Cds, resta da chiedersi perché, malgrado le critiche, non
vengano aboliti alcuni modi del loro utilizzo. Come in altri casi, si può constatare che la realtà può
avere molte facce, prestandosi a sostenere giudizi opposti. Si è visto (nel par. 2) quanto sia importante, in generale, la speculazione finanziaria, malgrado i danni che essa a volte provoca: questa duplicità di giudizio vale in modo particolare per i Cds. Il costo di queste polizze (a parte il caso truffaldino descritto nel par. 7.3, punto 2) aumenta quando peggiorano le previsioni sulla solvibilità di
uno Stato o di un’impresa, in tal modo rivelandosi un indice di rischio molto più sensibile e affida83
M. Longo, “Il Sole 24 Ore”, 14-3-10. (Corsivo aggiunto).
29
bile dei giudizi delle agenzie di rating. In molti casi, tra i quali quello clamoroso della Parmalat, i
Cds hanno svolto un ruolo premonitore che ha salvato chi ne ha tenuto conto, mentre le agenzie di
rating continuavano a valutare positivamente imprese già praticamente fallite. Quindi abolire queste polizze, secondo molti economisti, servirebbe soltanto a nascondere e peggiorare i problemi:
“la ragione per la quale politici e dirigenti d’impresa odiano i Cds è proprio perché mettono prontamente ed efficacemente in mostra i loro errori. Nessuno ama farsi cogliere in fallo. Il mercato dei Cds è temuto perché è la principale
fonte di informazioni negative non condizionabile dal potere”84-85.
Naturalmente il discorso cambia se i Cds vengono utilizzati per manovre truffaldine, manovre
che sono rese possibili dal loro svolgersi al di fuori dei mercati borsistici regolamentati e quindi
sottratte all’obbligo di trasparenza. Un rimedio ci sarebbe: se le negoziazioni dei Cds dovessero
obbligatoriamente avvenire in borsa anziché nel mercato non regolamentato dei titoli derivati, si potrebbero intuire le speculazioni contro un paese o un’impresa, consentendo agli economisti, agli analisti ed agli altri operatori di capire cosa c’è dietro a certi movimenti del mercato. Ma questo
semplice rimedio, limitando la speculazione, ne ridurrebbe i profitti, e quindi finora non è stato adottato, sempre a causa dei legami tra i politici e gli speculatori.
8 - LE NUOVE REGOLE CHE SI DOVREBBERO IMPORRE, E GLI INTERESSI CHE LE OSTACOLANO
IL RISCHIO DI SVALUTAZIONI COMPETITIVE COME ALTERNATIVA AL PROTEZIONISMO
Sono numerose le proposte per scongiurare una nuova grave crisi:
-imporre alle banche di finanziare soltanto le imprese produttive, vietando le operazioni a rischio e le concessioni di crediti ai fondi di investimento speculativi (in altri termini, tornare alla separazione tra le banche commerciali e le banche di investimento);
-impedire le scommesse sul fallimento di qualsiasi debitore fatte da chi non ne possiede obbligazioni, impedire cioè che le banche e le altre istituzioni autorizzate moltiplichino all’infinito
l’emissione di Cds su di uno stesso debito;
-accrescere la solidità delle banche, imponendo consistenti aumenti del capitale proprio;
-ridare credibilità alle agenzie di rating, impedendo con misure drastiche che molti dei loro funzionari o azionisti siano contemporaneamente consulenti delle banche, o funzionari dei fondi speculativi, o azionisti di questi fondi. (Ad esempio queste agenzie hanno ridotto la valutazione del debito
greco solo tre giorni prima dell’annuncio ufficiale della crisi, perché svalutare i titoli della Grecia
significava scavare voragini nei bilanci di quelle banche e di quei fondi).
Dopo lo scoppio della crisi era lecito sperare che i governi dei principali paesi avrebbero congiuntamente adottato misure incisive, ma finora ben poco è stato fatto. Negli Stati Uniti si sono vietate alle banche le operazioni a rischio fatte con denaro proprio; nel settembre 2010 i governatori
delle banche centrali europee hanno finalmente deciso l’attuazione (a partire dal 2012 ed entro il
2019) del pacchetto di misure denominato Basilea 3, che impone alle banche la riduzione del rapporto fra il capitale proprio e le attività di rischio86, e che inoltre vieta le speculazioni più avventurose; in alcuni paesi europei sono state sospese per periodi limitati le vendite allo scoperto. La palese insufficienza di queste misure è dovuta al timore che misure più incisive provocherebbero sicuramente un rallentamento dell’economia, oltre a compromettere il ruolo positivo della speculazione
84
L. Zingales, “Affari e finanza”, 3-5-10. (Corsivo aggiunto).
Mentre invece le agenzie di rating sono condizionabili, perché, come si è visto, i controllori sono in molti casi consulenti delle grandi imprese controllate, che a loro volta, proprio perché sono grandi, intrecciano inevitabilmente rapporti
non sempre limpidi con la politica.
86
In pratica le banche devono aumentare il loro capitale.
85
30
finanziaria87. Torno inoltre a ricordare che in tutti i paesi le banche e la grande finanza, che ovviamente si oppongono alle limitazioni che riducono le loro possibilità di rischiare e quindi di fare profitti, sono anche notoriamente le istituzioni che maggiormente finanziano i partiti politici di ogni
tendenza.
Il Wall Sreet Journal, sicuramente il giornale più letto dai banchieri e dagli operatori finanziari
in tutto il mondo, ha scritto che
“Lo sforzo di riformare le regole dei mercati è stato sconfitto dalla resistenza dei banchieri. I superstipendi sono di
ritorno. Le speculazioni ad alto rischio pure. Tornano a circolare prodotti finanziari esotici molto simili a quelli che
nell’autunno 2008 trascinarono i mercati e l’economia globale nel precipizio”88.
Ad una regolamentazione più severa si oppone anche un’altra considerazione: data l’estrema
facilità di spostamento dei capitali su scala internazionale, gli operatori finanziari fuggono dai paesi
nei quali le regole sono più stringenti, spostando i capitali e le attività verso quelli in cui il controllo
è minore89, e l’assenza di un governo mondiale impedisce di imporre a tutti le stesse regole. Invece
la diluizione nel tempo di Basilea 3 è giustificata dall’esigenza di evitare un forte squilibrio del
mercato dei capitali, che sicuramente si verificherebbe se le tutte le banche, per accrescere il capitale proprio, dovessero farvi ricorso in un breve lasso di tempo.
Va infine segnalato un nuovo rischio che si sta delineando: la prassi cinese di mantenere artificiosamente basso il valore della propria moneta per favorire le esportazioni, potrebbe venire adottata da numerosi altri Paesi, tra i quali gli Stati Uniti, che già stanno lasciando scivolare lentamente il
valore del dollaro per riequilibrare la loro bilancia commerciale. Le “svalutazioni competitive” sostituirebbero il protezionismo90, ma l’iniziale beneficio dell’aumento dell’export verrebbe presto
vanificato da un generale ricorso a questa misura.
87
Come si è visto nel par. 2.1.
Citato da F. Rampini, Slow economy. Mondatori, Milano, 2009, p. 172.
89
Sugli ostacoli ad una efficace regolazione della finanza, si veda: L. Bini Smaghi, Le regole per salvare il capitalismo. “Aspenia”, n. 47-2009, pp. 146-149.
90
Il protezionismo, mediante le barriere doganali, riduce le importazioni, e quindi aumenta la produzione interna e
l’occupazione; la svalutazione della moneta ottiene gli stessi risultati accrescendo le esportazioni e riducendo le importazioni.
88
31
II - LA CRISI DELL’EURO: I MERCATI FINANZIARI INTERNAZIONALI TEMONO
IL FALLIMENTO DI ALCUNI STATI EUROPEI. L’INADEGUATEZZA DEI PARLAMENTI
DEMOCRATICI AL GOVERNO DELLE CRISI ECONOMICHE
(aggiornato al 30-4-2012)
_____________
9 - IN EUROPA: DEBITO IN CRESCITA, FISCO PESANTE, FUGA DEI CAPITALI,
AUMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE. I CITTADINI E I PARLAMENTI IGNORANO LE NUOVE ESIGENZE
POSTE DALLA GLOBALIZZAZIONE
9.1 – Perché la fiducia nell’Europa si è dileguata
Nel secondo semestre del 2011 si è consolidato un recente orientamento dei mercati finanziari
di tutto il mondo, i quali hanno perso la fiducia91 nella capacità dei Paesi dell’eurozona92 di promuovere la crescita economica senza accrescere il disavanzo annuale dei conti dello Stato (e quindi
l’ammontare totale del debito pubblico). Questa incapacità è dovuta al fatto che le misure necessarie
per attirare capitali e attivare nuovi investimenti, favorendo la crescita e l’occupazione, implicherebbero soprattutto una consistente riduzione della pressione fiscale complessiva sul reddito delle
imprese, che potrebbe essere compensata soltanto da una drastica riduzione della spesa pubblica e
quindi del tenore di vita dei cittadini. Poiché le istituzioni finanziarie europee appaiono tentennanti
nell’affrontare la crisi finanziaria della Grecia, i mercati percepiscono un aumento del rischio che i
titoli del debito pubblico di numerosi Paesi non vengano rimborsati alla scadenza o lo siano solo in
parte93 (si teme cioè il fallimento totale o parziale degli Stati), e di conseguenza in tutto il mondo
gli operatori, che per anni hanno acquistato titoli di Stato in euro ritenendoli un investimento sicuro,
stanno alleggerendo le loro posizioni in questi titoli. (Ad esempio i grandi fondi di investimento
americani, che nel 2010 detenevano circa un terzo del loro patrimonio in titoli dell’eurozona, a fine
settembre 2011 avevano ridotto la loro posizione al 19 per cento).
Due sono le conseguenze delle vendite dei titoli europei:
-i nuovi titoli che i governi devono emettere per poter rimborsare quelli che ogni mese giungono a scadenza, per trovare acquirenti devono offrire tassi di interesse crescenti, tanto più elevati
quanto più probabile appare il fallimento del Paese che li emette;
-i vecchi titoli in circolazione, che pagano tassi di interesse più bassi, ovviamente perdono valore per consentire a chi li acquista di godere dello stesso interesse più elevato assicurato dai titoli di
nuova emissione. La perdita di valore dell’enorme massa dei vecchi titoli si trasferisce nei bilanci
delle banche, delle compagnie di assicurazione, dei fondi di investimento, dei fondi pensione e di
tutte le istituzioni finanziarie che li avevano acquistati. Questo fatto è particolarmente grave per le
banche, perché la svalutazione di una parte dei titoli che detengono le costringe, insieme ad altri fattori che esamineremo, a ridurre i prestiti alle imprese e alle famiglie, e ciò costituisce un freno allo
sviluppo dell’economia.
91
Perdita di fiducia sanzionata anche dalle agenzie di rating, che a metà gennaio 2012 hanno declassato la maggior parte degli Stati europei. Sul discusso ruolo delle agenzie di rating si veda il capitolo XV, paragrafo 59.2, del lavoro su
internet citato nella nota all’inizio.
92
I 17 Paesi europei nei quali l’euro ha sostituito le monete nazionali.
93
Come appunto sta avvenendo con la Grecia.
32
Tra i grandi Paesi europei, solo la Germania ha goduto, finora, di maggiore fiducia94, ed infatti
il governo tedesco può ancora indebitarsi emettendo titoli con un interesse di circa il due per cento;
invece, ad esempio, l’Italia e la Spagna stanno pagando tassi di interesse95 elevati, -attualmente in
via di riduzione grazie alle misure di austerità adottate dai governi- che aggravano le difficoltà di bilancio dei due Paesi. Hanno iniziato a manifestarsi dubbi anche sull’affidabilità della Francia e di
altri piccoli Stati europei che fino a qualche mese fa erano ritenuti privi di rischio per gli investitori,
al pari della Germania, e anche su quest’ultima si avvertono incertezze: un’asta all’inizio del dicembre 2011 non era riuscita a piazzare la quantità desiderata di titoli a basso tasso di interesse, e
sta crescendo il numero degli analisti che ritengono che anche i titoli del debito tedesco non possano
più essere considerati un investimento del tutto sicuro.
___________________
Perché è venuta meno la fiducia nell’Europa? La risposta sta nella differenza esistente fra i poteri delle autorità politiche europee e quelli di un governo nazionale. Se in un Paese qualsiasi una
sua regione attraversa una crisi economica o finanziaria (comunque originata), il ministro del Tesoro autorizza la Banca centrale ad aiutarla a superare le difficoltà, essendo evidente che risolvere le
crisi locali è nell’interesse dell’intero Paese; oppure se una banca è in cattive acque (per qualsiasi
motivo), la Banca centrale la finanzia impedendone il fallimento ed evitando perdite ai depositanti e
il diffondersi del panico anche tra i clienti delle altre banche; insomma in qualsiasi Paese la Banca
centrale esercita la funzione di “prestatore di ultima istanza”, cioè di garante per i debiti di tutte le
sue regioni. Invece in Europa non esiste un decisore centrale, e la Banca centrale europea non è
autorizzata a fungere da “prestatore di ultima istanza”: nessuno assicura che, ad esempio, se
l’Italia non fosse in grado di rimborsare alla scadenza i suoi Bot, Cct, Btp, questi verrebbero comunque rimborsati dal garante europeo. Che sia questa la causa di fondo della sfiducia nell’Europa
trova conferma in una osservazione sul mercato mondiale del credito:
“Nel 2012, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, i governi mondiali avranno bisogno di prendere a
prestito dai mercati più di undicimila miliardi di dollari. I debiti europei in scadenza ammontano a meno di millequattrocento miliardi. Una cifra enorme, ma è un’inezia se confrontata agli oltre 4.700 degli Usa e agli oltre tremila del
Giappone”96.
Come si vede, Stati Uniti e Giappone sono indebitati molto più dell’Europa, ma non hanno perso la fiducia dei mercati finanziari perché in entrambi -diversamente dall’Europa- esiste un governo
centrale pronto a farsi garante di questa fiducia.
Va notato che i grandi debitori sono tutti Paesi ricchi e democratici, nei quali governi e parlamenti, per non perdere il consenso degli elettori, ricorrono alla spesa pubblica in debito per rallentare la riduzione del tenore di vita, inevitabile conseguenza della globalizzazione. (Una estesa descrizione della globalizzazione e delle sue conseguenze si trova nel lavoro su internet citato nella
nota all’inizio, capitolo I, paragrafi 1, 2, 3).
L’assenza del prestatore di ultima istanza è dovuta al fatto che nell’Unione monetaria, fin dalla
sua origine, è sempre esistito un clima di reciproca diffidenza, che ha impedito il costituirsi di
un’autorità centrale dotata di effettivo potere e sottratta al mercanteggiamento tra gli interessi dei
singoli Paesi. Quelli più ricchi (ma conta soprattutto la Germania) non vogliono dover pagare per le
spese eccessive degli altri, ed è per questo motivo che la crisi della Grecia non è stata affrontata come sarebbe stato largamente possibile- con tempestività ed efficacia: sarebbe stato necessario che
l’Europa, oltre ad imporre alla Grecia le necessarie misure di austerità, garantisse a tutti i possessori
di titoli di Stato greci il regolare pagamento degli interessi e il rimborso alla scadenza. Mancando
94
Ciò soprattutto perché la Germania, grazie ai costanti e ingenti investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica,
crea con continuità nuovi brevetti e nuovi prodotti che esporta in tutto il mondo.
95
Variabili a seconda della durata dei titoli.
96
A. Bonanni, “La Repubblica”, 17-1-2012.
33
questa garanzia, gli investitori hanno iniziato a disfarsi di una parte dei titoli di Stato dei Paesi considerati maggiormente a rischio fallimento: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (i cosiddetti
Piigs). La diffidenza è stata rafforzata dalla decisione delle autorità europee, presa il 20 febbraio
2012, di accollare anche agli investitori non statali una perdita del 53,5 per cento sul valore dei titoli
greci. Questo “taglio” del valore dei titoli si accompagna alla concessione alla Grecia di un ingente
prestito (130 milioni di euro) che dovrebbe evitarne il fallimento totale, ma indipendentemente dal
fatto che la Grecia fallisca al 50 o al 100 per cento, ci vorrà comunque molto tempo prima che nei
mercati finanziari possa rinascere un po’ di fiducia nei titoli di Stato dei Paesi europei (fiducia accompagnata da più contenuti tassi di interesse).
I dubbi sulla possibilità di evitare il fallimento completo sono alimentati dal fatto che tutti i partiti greci, in vista delle elezioni politiche che dovrebbero tenersi nell’aprile 2012, si dichiarano fieramente contrari ai sacrifici imposti dall’Europa per concedere il prestito, e annunciano la loro intenzione di ottenere la revisione delle misure di austerità accettate dall’attuale governo. La diffidenza degli europei è ulteriormente rafforzata dal fatto che la Grecia ha disatteso buona parte degli impegni di risanamento del bilancio assunti due anni fa, quando aveva ricevuto un primo prestito di
110 milioni di euro.
9.2 - Per ripristinare la fiducia: ridurre il deficit e il debito, e promuovere
la crescita L’inadeguatezza dei parlamenti democratici al governo delle crisi
E’ unanime convinzione dei commentatori economici che il ripristino della fiducia richiederebbe dai Paesi a rischio l’adozione di due pacchetti di misure, finalizzate le une al rigore nella gestione dei conti pubblici e le altre alla crescita economica.
-Rigore nella gestione dei conti pubblici: significa azzeramento del deficit annuale del bilancio
dello Stato: ogni anno ciascun governo dovrebbe spendere complessivamente meno di quanto incassa, destinando la differenza alla riduzione del debito totale (e quindi della somma annuale che deve
pagare per interessi); a questo scopo il 2 marzo 2012 venticinque dei ventisette Paesi dell’Unione
europea hanno firmato un patto di stabilità97, che li impegna all’eliminazione del disavanzo annuale
e alla realizzazione di un avanzo che consenta di riportare il debito complessivo di ciascun Paese al
60 per cento del Pil98 entro 20 anni; il patto prevede severe penalizzazioni economiche per i firmatari che non ne rispettassero le clausole . Tuttavia esistono forti dubbi circa la possibilità che questo
patto -che implica consistenti sacrifici per i cittadini ed è un freno alla crescita dell’economia e
dell’occupazione- venga ratificato da tutti i parlamenti.
-promozione della crescita99economica, unico mezzo per creare occupazione.
Come si vede, il dramma dell’Europa sta nel fatto che le due esigenze -rigore di bilancio e crescita economica- nell’immediato sono tra loro in contraddizione: il taglio della spesa pubblica, necessario per ridurre il deficit annuale, deprime l’economia anziché promuoverne la crescita, mentre
questa, per avviarsi, esige l’abbandono del rigore nel bilancio dello Stato e l’aumento della spesa,
che vivacizza l’economia ma aggrava il deficit pubblico. Senza una rigorosa gestione dei conti
pubblici, i capitali nazionali e internazionali non investono in un Paese del quale temono il fallimento, e d’altro canto sarebbero contemporaneamente indispensabili misure di stimolo alla crescita,
perché il rigore, da solo, deprimendo l’economia riduce il prelievo fiscale e quindi aggrava il bilancio pubblico, mentre cresce la disoccupazione; ma in nessun Paese ci può essere crescita economica senza l’investimento di nuovi capitali. Come soluzione a questa contraddizione, in questi mesi si
moltiplicano le voci che propongono una mediazione tra le due esigenze, mediazione che a prima
97
Non lo hanno firmato la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca.
Come stabilito nel 1993 dal trattato di Maastricht, costitutivo dell’Unione monetaria europea.
99
Circa le critiche, prive di fondamento, alla necessità e alla possibilità di una crescita costante dell’economia, si veda il
par. 11.
98
34
vista appare quanto mai saggia, dettata da un elementare buonsenso: vale la pena darne un esempio
tra i tanti.
“Esiste un’altra strada ?[diversa dal rigore] Ci sarebbe, e sono innumerevoli gli appelli e i “manifesti” di economisti e politici che la indicano. (…) L’altra strada è quella di non puntare tutto e subito sul risanamento dei bilanci pubblici, che va fatto, ma in modo più graduale e non in una fase di recessione. Di utilizzare strumenti che permettano di stimolare la crescita, come i “project bond” europei, con cui realizzare opere infrastrutturali e investire sull’energia rinnovabile. Di premere a livello di G 20 per realizzare una riforma della finanza per cui finora poco o nulla è stato fatto. Insomma, di dosare i tempi dell’aggiustamento e soprattutto di accompagnarlo con misure che favoriscano la ripresa
dell’economia, senza la quale gli sforzi dovranno essere molto più pesanti e -soprattutto- rischiano di essere inutili.
Questo non significa che si eviterebbero i cosiddetti “sacrifici”, ma certamente sarebbero meno drammatici e il purgatorio durerebbe meno”100.
Questo brano utilizza la vecchia e sempre efficace101 tecnica argomentativi di dire soltanto cose
positive, risolutrici di problemi e moralmente ineccepibili: soltanto i ciechi servitori dell’ideologia
del mercato possono dissentire da proposte tanto intelligenti e utili! Naturalmente la tecnica prevede il silenzio sulle conseguenze negative. In questo caso, ciò che viene taciuto è che gli investitori
finanziari internazionali, che detengono quote molto rilevanti dei titoli di Stato europei, sono completamente indifferenti ai sacrifici che il rigore impone ai cittadini: ciò che a loro interessa è
l’equilibrio dei bilanci dei vari Stati, unica garanzia del regolare pagamento degli interessi e del
puntuale rimborso dei titoli alle loro scadenze. Le misure per la crescita indicate nel brano citato (opere infrastrutturali, energie rinnovabili, e qualunque altro investimento produttivo realizzato direttamente da imprese pubbliche o da imprese private finanziate dallo Stato) implicano tutte l’aumento
dell’indebitamento pubblico, che rinnoverebbe i timori degli investitori provocando massicce vendite dei titoli dei Paesi che le applicassero. Dunque il rigore non si può evitare, e viene prima di
qualsiasi misura pro-crescita, e tuttavia non cancella il rischio, prospettato nella citazione, che i sacrifici possano alla fine risultare inutili; si tratta di un dubbio ineliminabile, accompagnato però dalla certezza del disastro che sarebbe provocato dalla rinuncia alla riduzione del debito, o, peggio, dal
ricorso al suo aumento102.
Soltanto il taglio della spesa pubblica e una riduzione di almeno quindici punti del prelievo fiscale e contributivo sulle imprese potrebbero rilanciare la crescita, ma vedremo subito che si tratta
di misure politicamente improponibili in Europa, perché i governi che cercassero di attuarle verrebbero battuti alle elezioni dai nemici del rigore.
___________________
Sono due le misure efficaci per ridurre il deficit in modo permanente: l’aumento della pressione
fiscale e il taglio della spesa pubblica103.
-Aumento della pressione fiscale: è disastrosa per l’economia. Riducendo la quantità di denaro a
disposizione dei cittadini, li costringe a ridurre gli acquisti; inoltre, riducendo gli utili delle imprese,
le costringe ad aumentare i prezzi, e in tal modo si riducono le esportazioni (perché i prodotti e i
100
C. Clericetti, “La Repubblica”, 20-3-2012.
Efficace, ovviamente, soltanto con i disinformati, che su argomenti economici sono una larghissima maggioranza.
102
Ancora un’osservazione sul suggerimento “di premere a livello di G 20 per realizzare una riforma della finanza per
cui finora poco o nulla è stato fatto”. E’ vero che circa la regolazione dei mercati finanziari non si è fatto nulla di ciò
che sarebbe necessario (le complesse cause di questa inerzia sono esaminate nei paragrafi 24.0.2 e 26.0.14 del citato lavoro su internet), ma la pretesa che un Paese sull’orlo del fallimento come l’Italia possa avere una qualche voce in capitolo nelle decisioni del G20 appare eccessivamente azzardata. Inoltre la riforma della finanza internazionale non ha
proprio nulla a che vedere con i timori suscitati negli investitori dalla prassi dei governi europei di indebitarsi per non
perdere voti.
103
Naturalmente il deficit annuale e il debito complessivo si riducono anche mediante la vendita di parti del patrimonio
pubblico (immobili e partecipazioni azionarie) ma si tratta di misure “una tantum”, non replicabili, che non toccano la
struttura del bilancio annuale.
101
35
servizi nazionali vengono a costare di più agli acquirenti stranieri) e invece aumentano le importazioni (perché i prodotti e i servizi esteri vengono a costare meno di quelli nazionali).
-Taglio della spesa pubblica: può indirizzarsi ad uno o più settori del bilancio:
-riduzione del salario e del numero dei dipendenti pubblici;
-riduzione delle prestazioni dello Stato sociale (pensioni, sanità, sussidi ai disoccupati,
aiuti alle famiglie e agli individui a basso reddito, ecc.);
-riduzione degli investimenti pubblici nella ricerca scientifica, nella scuola, nella costruzione e nella manutenzione104 di infrastrutture (strade, ferrovie, acquedotti, reti elettriche, reti informatiche, ecc.). Naturalmente la riduzione degli investimenti rallenta l’attività economica e aumenta il numero dei disoccupati.
Quindi si conferma che entrambe le misure per attuare il rigore deprimono l’economia anziché
sostenerla. Una crescita economica che sia compatibile con il rigore richiederebbe una serie di interventi dei quali quasi nessuno parla perché sono inapplicabili nei Paesi democratici, nei quali i
cittadini-elettori, digiuni dei fondamentali princìpi dell’economia politica, ignorano i vincoli oggettivi imposti dalla globalizzazione, e restano vittime dell’ingannevole propaganda di quei politici, di
quei sindacalisti e di quei commentatori i quali, fidando appunto su questa ignoranza, propongono
soluzioni apparentemente efficaci ed eque, tacendo però le inevitabili conseguenze negative.
Soltanto se l’impegno assunto con il patto del 2 marzo verrà accettato dalla maggioranza dei
parlamenti, la Banca centrale europea verrà autorizzata ad assumere il ruolo di prestatore di ultima
istanza, e interverrà sui mercati ogni volta che sarà necessario acquistare titoli dei Paesi a rischio
per evitare un eccessivo rialzo dei tassi di interesse. La Bce trarrebbe i fondi necessari dallo speciale
Fondo salva Stati, finanziato da tutti i Paesi dell’Unione monetaria (ma soprattutto dalla Germania),
oppure dall’emissione di obbligazioni europee (i project bond), garantite congiuntamente dai suddetti Paesi (ma soprattutto ancora una volta dalla Germania).
E’ vero che gli elettori tedeschi non si rendono conto che il possibile fallimento dell’Unione
monetaria costerebbe caro alla Germania perché crollerebbero immediatamente le sue esportazioni
verso i Paesi dell’Unione; questi tornerebbero alle valute nazionali, con la possibilità di svalutarle
per favorire le esportazioni e contemporaneamente ridurre le importazioni105. Quindi per i produttori
tedeschi i cinque Piigs non devono fallire, e ciò spiega le pretese di rigore della Germania prima di
impegnarsi nel loro salvataggio, ma nello stesso tempo la loro fragilità finanziaria è utile ai tedeschi, perché serve a mantenere relativamente basso il valore dell’euro, facilitando le loro esportazioni106. Si deve inoltre ricordare che ormai i principali mercati della Germania, più che l’Europa
sono la Cina, l’India e il Brasile.
In assenza di una convinta accettazione e messa in opera del patto del 2 marzo (che -non lo si
dimentichi- implica per tutti gli europei la riduzione della spesa pubblica e quindi del tenore di vita:
blocco o riduzione dei salari e delle pensioni, riduzione di tutte le altre prestazioni dello Stato sociale, ecc.107), qualunque aiuto ai Paesi in difficoltà non farebbe che ritardare il loro fallimento. Quindi
il patto di stabilità non sfugge all’accennata contraddizione tra il rigore che impone e la crescita che
sarebbe altrettanto necessaria, ed è su questa contraddizione che in Europa è in corso un vivace dibattito. Se si vogliono evitare i silenzi, le bugie e le facili soluzioni verbali, si deve tenere fermo un
fondamentale assunto, oggettivo e non aggirabile:
104
La riduzione della manutenzione delle infrastrutture, oltre ad aumentare il disagio o i costi per i cittadini, in alcuni
casi compromette anche la loro sicurezza.
105
Si veda, al termine del paragrafo, la nota sulle conseguenze e sul significato della svalutazione della moneta.
106
Senza la fragilità dei Piigs l’euro si sarebbe rivalutato, frenando le esportazioni della Germania e di tutti gli altri Paesi europei.
107
Come sta avvenendo in Grecia e in Spagna, tra le violente proteste dei cittadini.
36
La crescita economica in un Paese avviene soltanto se il governo crea condizioni
tali da favorire gli investimenti, attirando, dal Paese stesso e dall’estero,
i capitali privati disposti a correre il rischio di impresa108 per realizzare profitti
A tal fine sono indispensabili almeno quattro condizioni, due delle quali dal forte impatto negativo sul bilancio dello Stato:
-basso prelievo fiscale sugli utili d’impresa;
-la quota di oneri sociali (per pensioni, sanità, ecc.) a carico del datore di lavoro, deve essere
assunta dallo Stato;
-la giustizia civile deve essere efficiente per consentire un veloce ricupero dei crediti;
-la conflittualità sindacale non deve essere eccessiva.
In assenza di queste condizioni, gli investimenti dall’estero non arrivano e i capitali nazionali fuggono verso Paesi nei quali sia più facile realizzare profitti. Non tragga in inganno il fatto che
in Italia e negli altri Paesi europei continuano ad arrivare capitali dall’estero: si tratta di capitali che
quasi mai creano nuove attività, e acquistano invece imprese già esistenti, ancora capaci di generare
utili; naturalmente non solo l’occupazione non cresce ma generalmente si riduce, perché i nuovi
imprenditori quasi sempre attuano miglioramenti tecnici e organizzativi finalizzati anche a ridurre il
personale per ridurre i costi.
9.3 - L’incapacità dei parlamenti democratici di affrontare le crisi economiche
Sintetizzando, l’intero Occidente109, a partire dal secondo dopoguerra, si è caratterizzato per un
costante miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini: migliori condizioni di lavoro, crescita
dei salari e dei benefici dello Stato sociale. Questa tendenza si è definitivamente arrestata con la
globalizzazione, che sta costringendo un numero via via crescente di industrie e di imprese di servizi a cessare l’attività o a spostarsi nel Terzo mondo, causando un costante aumento della disoccupazione. Il 23 febbraio 2012 il governatore della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, ha
sintetizzato la situazione affermando che il modello sociale europeo non è più compatibile con
l’economia globalizzata.
La maggior parte dei governi, per non perdere il consenso dei cittadini, ha cercato di rallentare
l’inevitabile peggioramento del tenore di vita mediante l’aumento della spesa, finanziata con
l’aumento del debito pubblico. La crisi iniziata nel 2008 non ha fatto che accelerare ciò che sarebbe comunque accaduto: l’aumento del timore degli investitori internazionali circa la capacità degli
Stati di rimborsare la massa crescente di debiti alle loro scadenze, e la conseguente spinta a disfarsi
dei titoli considerati a rischio. Non esiste alcun premeditato “attacco all’Europa”, e sono senza fondamento i discorsi dei politici (e dei media al loro servizio) che tentano di addossare queste vendite
“alla speculazione”: non di speculazione si tratta ma semplicemente di un’ovvia tutela dei propri
investimenti110.
Siamo quindi costretti a constatare che la crisi dell’Europa è la crisi dei sistemi democratici,
che sono costretti a subordinare le misure per la soluzione dei problemi economici all’approvazione
108
Non si deve dimenticare che qualsiasi impresa economica, dalla grande fabbrica al piccolo negozio, implica sempre
(per le cause più diverse) il rischio di fallimento, e quindi della perdita del capitale investito dall’imprenditore.
109
Quando si parla di Occidente in senso economico, ci si riferisce ai Paesi di antica industrializzazione: Canada, Stati
Uniti, Europa occidentale, Giappone, Australia e Nuova Zelanda, tutti caratterizzati da sistemi politici democratici. Invece l’Occidente in senso culturale non comprende ovviamente il Giappone, mentre ne fanno parte l’intera Europa e
l’America latina.
110
La vera speculazione, il suo duplice ruolo (anche positivo) e gli ostacoli ad una sua efficace regolazione, sono esaminati su internet nel capitolo VII/1 (par. 24.0.1 e 24.0.2) e nel capitolo VII/2 (nei par. da 26.0.11.3 fino a 26.0.14) del
citato lavoro su internet.
37
di cittadini che di quei problemi ignorano la sostanza. (Si veda nel paragrafo 10.2 l’analisi dello
stretto legame tra la conoscenza e la democrazia).
Un segnale della crescente consapevolezza dell’incapacità dei parlamenti nazionali di adottare
le necessarie decisioni di politica economica è venuto nel gennaio 2012 dalla richiesta della Germania di subordinare il salvataggio della Grecia (e quindi di eventuali altri Paesi che dovessero trovarsi
nelle stesse condizioni) ad un vero e proprio commissariamento della sua politica economica, che
dovrebbe essere decisa dalle autorità centrali europee sottraendola al governo e al parlamento greco.
La richiesta ha naturalmente provocato l’orgoglioso rifiuto del governo e dei cittadini greci, ma
d’altra parte come potrebbe l’Europa fidarsi di politici che dilatano il debito per catturare consensi?
1. Nota sulle conseguenze e sul significato della svalutazione della moneta. La svalutazione
della moneta di un Paese, cioè la diminuzione del suo valore rispetto a quello delle altre monete, ha
due conseguenze: le merci e i servizi che il Paese esporta costano meno agli acquirenti stranieri; le
merci e i servizi che il Paese importa costano di più agli acquirenti nazionali. Aumentano quindi le
esportazioni, e poiché si riducono le importazioni dei beni e dei servizi che anche il Paese produce,
si incrementa la produzione di questi ultimi, indirizzata al mercato interno. Perciò la svalutazione
stimola l’economia e crea occupazione, ma sostanzialmente impoverisce il Paese che vi ricorre,
perché, per riuscire a vendere, si svaluta il proprio lavoro praticando uno sconto agli stranieri, e
contemporaneamente ci si rassegna a pagare di più ciò che si deve importare.
2. Nota sul “cinismo” della Germania e della Francia. Dall’inizio della crisi greca (2010) sono ricorrenti le accuse a questi due Paesi di studiare le possibili soluzioni (fallimento totale della
Grecia e sua uscita dall’euro, oppure fallimento parziale, e in questo caso quale debba essere la
percentuale di rimborso del debito111) mirando non a quella più utile per la Grecia e per l’Unione
europea, ma a quella meno dannosa per le banche tedesche e francesi. Tuttavia si tratta di accuse
che non tengono conto di come funziona la politica: infatti per molti anni queste banche hanno
comprato i titoli di Stato greci, che offrivano un buon tasso di interesse a compenso del rischio; se
la cattiva politica della Grecia la sta oggi avvicinando al fallimento, è inevitabile che i governi di
Francia e Germania cerchino di contenere il danno per le loro banche (come farebbe qualunque altro governo). Il problema non è l’egoismo di questo o quel Paese, è invece l’assenza di un governo
centrale che abbia il potere di scegliere la soluzione migliore per l’intera Unione.
Impossibile da giustificare è invece il fatto che la Germania e la Francia, che impongono alla
Grecia dolorosi tagli di bilancio, accettino (o probabilmente impongano) che il governo greco non
riduca la spesa per l’acquisto di armamenti, guarda caso quasi tutti forniti dalle industrie tedesche e
francesi. E’ davvero una grande vergogna, ma “soltanto” dal punto di vista morale: sul piano politico i due governi possono tranquillamente rispondere che i loro Paesi stanno subendo una grave perdita economica a causa del comportamento truffaldino della Grecia, ed è quindi normale (dal punto
di vista della logica politica) che si rivalgano almeno parzialmente con la vendita delle armi. (Sul
rapporto tra la moralità e la politica si veda il capitolo2, paragrafo 5.0, del citato lavoro su internet).
9.4 - I cittadini non accettano la riduzione del tenore di vita
Lo stretto rapporto tra la conoscenza e la democrazia
Sarebbero due le soluzioni per il problema del rifiuto, da parte dei cittadini dei Paesi ricchi, del
loro inevitabile impoverimento: una ad effetto immediato ma incerto, l’altra ad effetto sicuro ma diluito nel tempo. Quest’ultima non inciderebbe sulla situazione attuale ma eliminerebbe per il futuro
il paralizzante ostacolo della disinformazione: inserire nei programmi scolastici, a partire
dall’ultimo anno della scuola dell’obbligo, un’ora settimanale di economia politica, nazionale e internazionale. In una trentina di ore, ai ragazzi di sedici anni verrebbero insegnati pochi concetti ba111
Inizialmente si ipotizzava, per i creditori, una perdita del 20 per cento; poi si è passati al 50, e il 20 febbraio 2012,
come si è visto, è stato deciso un taglio del 53,5 per cento.
38
silari, facili da apprendere perché coincidono con il più elementare buonsenso; diverrebbe in tal
modo possibile spiegare a grandi linee la sostanza dei problemi, evitando le irrazionali ribellioni
contro i sacrifici che si rendono necessari nei periodi di crisi. Ma questa soluzione non è stata mai
adottata da nessun governo in nessun Paese democratico, perché smaschererebbe i silenzi, le bugie
e le ipocrisie dei politici, dei sindacalisti, dei giornalisti e degli economisti legati alle diverse fazioni politiche.
Per lo stesso motivo nessun governo ha mai tentato l’altra soluzione: una massiccia, martellante
e durevole campagna di informazione sulla situazione economica condotta su tutti i media,
dall’esito meno certo perché rivolta ad adulti già forniti di convinzioni errate difficili da scalzare.
Poiché molto probabilmente nulla verrà fatto,
la situazione dei Paesi dell’Occidente ricco potrebbe peggiorare ulteriormente, soprattuto,
come già sta avvenendo, con un’inarrestabile crescita della disoccupazione, specialmente
di quella giovanile, e non si può quindi escludere che in futuro possa rendersi necessario
limitare i poteri dei parlamenti riguardo alle scelte di politica economica e politica estera;
ma in quale modo sia possibile pervenire a questa misura, e con quali conseguenze sociali e
politiche, anche molto drammatiche, nessuno è in grado di prevedere.
___________________
Un’ulteriore conseguenza della scarsa conoscenza del funzionamento dell’economia che caratterizza la maggior parte dei cittadini (scarsa conoscenza che alimenta e giustifica il naturale egoismo) è il sempre più evidente spostamento della spesa pubblica a vantaggio degli elettori più anziani, in tutti i paesi democratici. Negli Stati Uniti, ad esempio, il governo federale spende mediamente
da 4 a 5 dollari per gli anziani, a fronte di un dollaro speso per i più piccoli:
“Per dirla brutalmente, i minori non votano né offrono contributi alle campagne elettorali, mentre gli anziani fanno
l’una e l’altra cosa, spesso in modo molto aggressivo. Il nostro sistema politico è ipersensibile ai voti e ai soldi, pertanto
ne consegue che chi organizza, vota e distribuisce fondi, riceverà maggiori benefici. (…) Il risultato è che gli Stati Uniti
continueranno a sostenere massicciamente il consumo, a scapito degli investimenti. E questo è precisamente il contrario
-ce lo insegna la storia- delle misure capaci di generare una crescita economica a lungo termine. (…) La crescita e la
ricchezza americana degli ultimi decenni sono state il risultato di enormi investimenti fatti negli anni Cinquanta e Sessanta: ricordiamo solo quelli nella rete autostradale; nella scuola pubblica, invidiata da tutto il mondo; negli stanziamenti per la ricerca scientifica e tecnologica, che ha prodotto l’industria dei semiconduttori, l’informatica su vasta scala,
Internet e il Gps. Quando, tra vent’anni, rivolgeremo uno sguardo all’indietro, quali investimenti saremo in grado di individuare come fonte di crescita per la nuova generazione di americani?”112.
___________________
Vorrei aggiungere una considerazione che può sembrare estranea al contesto della presente analisi, ma che in realtà spiega le difficoltà che i governi democratici, in tutto il mondo, incontrano per
fare accettare ai cittadini le misure necessarie per superare le crisi economiche, e che inoltre conferma la validità delle due soluzioni proposte. La decisiva importanza della conoscenza per il buon
funzionamento della democrazia ha profonde radici biologiche: gli esseri umani sono oggettivamente “esseri culturali”, nel senso che
-il comportamento di ciascuno dipende dallo sviluppo o dal mancato sviluppo delle potenzialità
racchiuse nel suo patrimonio genetico;
-a sua volta questo sviluppo dipende dagli eventi casuali e dalle strutture economiche, sociali e
politiche al cui interno avviene il suo processo di socializzazione;
-tra questi eventi sono di particolare importanza la cultura della madre e delle altre figure parentali, la cultura del gruppo ristretto cui appartiene la famiglia, quella del Paese, e la cultura via via
appresa dall’individuo nel corso della sua vita.
112
Washington Post WritersGroup, 2011. “Corriere della Sera”, 9-3-11.
39
Da molto tempo gli antropologi hanno mostrato con una infinità di ricerche che l’uomo è soprattutto un animale culturale, e negli ultimi due decenni gli studiosi del cervello, mediante le tecniche di indagine sempre più efficaci delle neuroscienze, hanno dimostrato che apprendere qualcosa
non solo (com’era noto da millenni) può cambiare l’orientamento ideologico e il comportamento,
ma addirittura modifica l’intreccio delle reti neurali nel cervello. Se moltissimo dipende dalla cultura appresa113, cioè da “ciò che si sa”, dalle informazioni di cui ciascuno dispone, appare allora inevitabile la crescente difficoltà dell’attuale metodo democratico, che delega la soluzione di problemi
complessi di politica economica e di politica estera a parlamentari e a cittadini che di quei problemi
hanno una conoscenza del tutto insufficiente. (Lo strettissimo rapporto tra la conoscenza e la democrazia viene esaminato nel citato lavoro su internet nel capitolo XV, paragrafo 57).
9.5 - Il mito della “decrescita”. Una costante crescita economica è indispensabile
per combattere la disoccupazione. La sua possibilità non conosce limiti
nella società della conoscenza, della comunicazione e dei servizi
I critici del capitalismo condannano quello che essi definiscono “il mito della crescita”, e sostengono che sia un errore insistere sulla necessità di una continua crescita economica nei Paesi
ricchi. Esiste una corrente culturale (ed un relativo mercato editoriale) centrata sul concetto di decrescita, che sarebbe salutare e necessaria per i Paesi industrializzati. Si tratta di una ideologia ingannevole, che può apparire sensata soltanto se si ignora un essenziale fatto economico: costantemente, e tanto più nei periodi di crisi, le imprese, per ridurre i costi di produzione, attuano miglioramenti tecnologici e organizzativi, riuscendo a produrre gli stessi quantitativi di merci o a fornire
gli stessi servizi con un minor numero di addetti. Ciò significa che se l’economia non cresce costantemente grazie a nuovi investimenti, inevitabilmente aumenta la disoccupazione, che in ciascun Paese costituisce il più importante problema sociale.
A questa elementare verità i sostenitori della decrescita oppongono due argomenti:
-la decrescita diventa comunque necessaria per l’esaurimento delle risorse non rinnovabili del
pianeta;
-la decrescita sarà inevitabile a causa dell’esaurirsi della possibilità di creare nuovi beni e nuovi
servizi.
Tuttavia entrambi gli argomenti sono infondati:
-chi ritiene necessaria la decrescita (sempre riferendosi ovviamente ai Paesi ricchi), trascura il
fatto che in questi Paesi la crescita economica sta avvenendo -e sempre più avverrà- quasi esclusivamente nel settore dei servizi e nella produzione di beni caratterizzati da un ridottissimo uso di materiali e di energia: stiamo vivendo nell’era della conoscenza, dell’informazione, della comunicazione e della ricerca della salute e del benessere fisico, tutte attività a basso consumo di materiali e
di energia. E’ invece nei Paesi poveri che la crescita economica necessita di
“beni che contengono molta materia prima e molta energia per essere prodotti: un utensile di acciaio, una bicicletta, un motore a scoppio per pompare l’acqua, un trattore per arare, cemento e mattoni per darsi un tetto, cibo per nutrirsi, gasolio per riscaldarsi. E se questi miliardi di persone debbono sollevarsi dalla povertà occorrerà che si forniscano di
questi beni, tutti ad alto contenuto energetico e di materia prima, cioè con alto impatto ecologico”114.
Naturalmente nessuno ha l’ardire di proporre la decrescita ai Paesi poveri; il problema della
possibilità di una loro crescita esiste, ed è drammatico, strettamente connesso a quello
113
Oltreché, naturalmente, dall’intelligenza e dal “carattere” di ciascun individuo; ma questi due fattori, diversamente
dalla conoscenza, non possono essere accresciuti o modificati.
114
M. Livi Bacci, “Il Manifesto”, 22-6-11.
40
dell’incremento demografico115; non è questo il luogo per discutere questi temi, ma è comunque
privo di senso proporre la decrescita come soluzione all’attuale crisi europea.
-Egualmente infondato è il timore dell’esaurirsi della possibilità di creare nuovi beni e nuovi
servizi:
“Se è vero che i desideri e i bisogni dell’uomo sono infiniti, è altrettanto vero che c’è un numero infinito di industrie da creare, di imprese commerciali da avviare e di lavori da fare. (...) Il presidente di Intel, intervistato da “The Economist” (8 maggio 2003) ha detto che nel momento stesso in cui si producono chip adatti per certe applicazioni, sorgono nuove esigenze che richiedono chip più potenti e sofisticati, nella cui produzione la Intel è specializzata. (...) Ora
che stiamo entrando nell’economia della conoscenza, si assiste a un decisivo aumento dello ‘scambio intra-servizi’, con
una sempre più profonda specializzazione che emerge all’interno dei vari settori del terziario a mano a mano che essi
divengono più complessi”116.
Le possibilità di sviluppo sono veramente illimitate nei settori della biologia, della conoscenza
del nostro corpo e del cervello, e della salute.
9.6 - La situazione delle banche e la carenza di liquidità
Tutte le banche hanno in portafoglio titoli di Stato europei, e abbiamo visto che il calo del valore di questi titoli ha creato voragini nei loro bilanci. Inoltre hanno ancora quantitativi dei cosiddetti
“titoli tossici” costituiti da cartolarizzazioni contenenti anche i famosi “mutui subprime” che sono
stati l’origine della crisi finanziaria nel 2008117. Essendo impossibile conoscere quanti titoli pubblici
svalutati e quanti titoli tossici siano detenuti da ciascuna banca, ognuna diffida delle altre, e ciò ha
determinato il rallentamento dei prestiti interbancari, cioè del quotidiano scambio di liquidità a brevissimo termine tra le banche, scambio che in ciascun Paese è il lubrificante dell’economia. Risultato: le banche hanno meno soldi da prestare alle imprese e alle famiglie, e ciò è un freno allo sviluppo.
Inoltre l’aumento del tasso di interesse dei titoli pubblici attira molti risparmiatori, e quindi le
banche incontrano crescenti difficoltà nel raccogliere fondi dai depositanti: è un altro freno alla
concessione di prestiti.
Infine gli accordi europei costringeranno tutte le banche, nei prossimi mesi, a forti aumenti del
proprio capitale, allo scopo di rendere meno probabile il loro fallimento, e ciò ridurrà ulteriormente
la liquidità complessiva.
Di fronte a questa situazione, la Banca centrale europea ha stanziato una somma enorme (cinquecento miliardi di euro nel dicembre 2011 e altrettanti nel febbraio 2012) per prestiti a tre anni alle banche europee, al tasso dell’uno per cento, con tre scopi:
-le banche possono migliorare i loro bilanci acquistando, con il denaro ottenuto all’uno per cento, titoli degli Stati europei, incassando interessi più elevati: un vero e proprio finanziamento a costo
zero;
-inoltre questi acquisti contribuiscono a fermare la discesa del valore dei titoli di Stato, rendendo non necessari ulteriori aumenti dei tassi di interesse per quelli di nuova emissione;
-infine l’aumento della loro liquidità “dovrebbe” incoraggiare le banche a finanziare più largamente le imprese e le famiglie.
Tuttavia il terzo scopo è irrealistico: si può essere certi che le banche continueranno a lesinare
il credito. Qual è il motivo di questo atteggiamento, che molti giudicano scandaloso dopo il finan115
Gli enormi problemi creati dall’incremento demografico dei Paesi poveri sono esaminati nel citato lavoro sulla globalizzazione, capitolo III, paragrafo 15.
116
T. Friedman, Il mondo è piatto. Mondadori, Milano, 2005, p. 275-276.
117
I mutui subprime e le cartolarizzazioni che li contengono sono descritti nel paragrafo 4.1.
41
ziamento della Bce? Generalmente si trascura che non è soltanto la carenza di liquidità a frenare i
prestiti all’economia reale, ma è soprattutto il timore, quanto mai fondato e crescente, che le imprese, anche quelle più solide, possano fallire a causa del generale rallentamento dell’economia mondiale in questo periodo di crisi. E’ un fatto inoppugnabile che in quasi tutti i settori economici sta
crescendo il numero dei clienti che non pagano i fornitori, o lo fanno con enormi ritardi (e, per
quanto riguarda l’Italia, anche lo Stato e tutti gli enti pubblici si comportano allo stesso modo) mettendo in crisi anche le aziende più sane; egualmente cresce il numero delle famiglie che riducono le
spese e faticano a pagare le rate dei prestiti. Da ciò la doverosa prudenza delle banche nell’erogare
finanziamenti.
9.7 - In Italia la pressione fiscale sulle imprese è l’ostacolo principale
alla crescita economica. I fattori che ne impediscono la riduzione
Da qualche anno
“l’Italia sta riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno susseguendo senza interruzione dal 2008”118.
La condizione necessaria (anche se non sufficiente) per superare lo stallo e attirare nuovi investimenti (riduzione di almeno 15 punti del prelievo fiscale e degli oneri sociali a carico delle imprese) è irrealizzabile perché la conseguente diminuzione delle entrate -che implicherebbe la crescita del deficit annuale e del debito complessivo- potrebbe essere compensata soltanto
dall’eliminazione di una lunga serie di fattori negativi che pesano sull’economia italiana; ma questa eliminazione non è politicamente praticabile: o perché colpirebbe vaste categorie di cittadini togliendo voti ai partiti che decidessero di avviarne l’attuazione, oppure perché, direttamente o indirettamente, toglierebbe soldi ai partiti stessi.
Oltre all’eccessiva pressione fiscale complessiva, i fattori negativi più importanti sono i seguenti:
-la corruzione della classe politica e della burocrazia accresce enormemente il costo degli appalti e delle forniture di merci e di servizi a tutte le pubbliche amministrazioni ed alle migliaia di
società pubbliche o a partecipazione pubblica. La classifica della corruzione stilata ogni anno
dall’Onu colloca l’Italia oltre il sessantesimo posto: c’è più corruzione da noi che in molti Paesi del
Terzo mondo;
-enorme evasione fiscale, che nessun partito ha mai seriamente combattuto;
-blocco pressoché totale degli investimenti pubblici nella ricerca scientifica: i sempre più scarsi
fondi stanziati sono in gran parte assorbiti dagli stipendi al personale. Non si dimentichi che è dalla
ricerca e dalla conseguente invenzione di nuovi brevetti che nascono nuovi investimenti, nuove imprese, nuova occupazione119;
-vi sono tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici con un orario di 36 ore settimanali, i quali,
tranne che in alcuni settori, lavorano con scarso impegno e con un rendimento molto basso; studi
accurati hanno concluso che, se l’orario e il rendimento venissero portati al livello medio delle imprese private, almeno un milione di essi risulterebbero superflui; ciò significa che ogni mese l’Italia
paga un milione di stipendi inutili;
-la classe politica ha costi inaccettabili non tanto per gli stipendi e i benefici di varia natura di
cui gode (purtroppo sui media si parla quasi soltanto di questi), ma soprattutto per la moltiplicazione di enti, istituzioni e società collegate, in gran parte inutili, aventi l’unica funzione di creare poltrone, assunzioni clientelari, assegnare consulenze fasulle agli amici, convogliare denaro nelle tasche dei singoli e dei partiti;
118
L. Ricolfi, “La Stampa”, 5-1-12.
Sulla decisiva importanza della ricerca scientifica e tecnologica e dell’invenzione di nuovi brevetti, si veda il capitolo I, paragrafo 3.1, del citato lavoro su internet.
119
42
-la burocrazia accresce i costi per le imprese e per i cittadini, e, anche quando non è corrotta, è
inefficiente, non spende in modo oculato il denaro dello Stato e genera incredibili sprechi. Una corretta gestione, finalizzata anche al risparmio, non interessa alla maggior parte dei dipendenti pubblici perché nessuno di essi paga per le inefficienze e gli sprechi;
-la cattiva gestione e il costo elevato dei servizi pubblici, a causa della corruzione e
dell’inefficienza dei ministeri e delle amministrazioni locali; naturalmente tutti si oppongono alle
liberalizzazioni e all’apertura alla concorrenza;
-il successo dei più diversi monopoli ed oligopoli (privati, semipubblici o pubblici) nell’opporsi
all’apertura ad una effettiva concorrenza in numerosi settori: banche, assicurazioni, trasporti, energia elettrica, gas, professioni; in tutti questi settori le imprese italiane sono costrette a sostenere costi superiori a quelli delle loro concorrenti all’estero;
-la giustizia civile, la quale più che inefficiente può definirsi inesistente: siamo tra i Paesi al
mondo nei quali occorre più tempo per costringere a pagare chi salda le fatture con enormi ritardi o
non le paga affatto perché, data la legislazione vigente, sa di poter restare impunito per molti anni;
inoltre -ed è davvero il colmo- abbiamo già visto che il cattivo esempio viene da tutte le amministrazioni pubbliche (ministeri, regioni, provincie, comuni, Asl, comunità montane, società pubbliche
o a partecipazione pubblica) che pagano con grande ritardo costringendo i fornitori a ricorrere ad
onerosi prestiti bancari, e in molti casi anche al fallimento;
-gravi deficit infrastrutturali (ferrovie, strade, ecc.) specie al Sud;
-disastrosa trascuratezza e inefficienza nella gestione e valorizzazione della più grande ricchezza dell’Italia: il patrimonio artistico, le città e i borghi antichi, le bellezze naturali;
-disastrosa trascuratezza e inefficienza delle amministrazioni locali nella prevenzione dei disastri cosiddetti naturali, che nella maggior parte dei casi sarebbe possibile evitare;
-infine la criminalità organizzata, che fino a qualche anno fa si diceva governasse quattro regioni meridionali, ma che ormai ha allargato i suoi tentacoli in tutto il Paese. Anche al Nord aumenta il numero delle amministrazioni locali sciolte dal ministero degli Interni per infiltrazioni mafiose.
Tra le ricette per la crescita, quasi tutti propongono:
-una migliore formazione dei giovani; si lamenta il fatto che in Italia sia minore la percentuale
di diplomati e di laureati rispetto agli altri grandi Paesi europei, e sia inefficiente la formazione professionale;
-misure per favorire l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro; rispetto agli altri grandi Paesi, in Italia è minore la percentuale di donne che lavorano. Ma non si sottolinea a sufficienza che
molte donne non cercano lavoro perché, mancando gli asili e le strutture per gli anziani non autosufficienti, tocca a loro provvedere; i costi per eliminare queste mancanze sarebbero molto ingenti e
nessun governo se li vuole assumere.
Ciò che invece nessuno osa dire è che queste due ricette, in sé quanto mai valide, sarebbero inefficaci nell’attuale contesto del nostro Paese, perché
anche se tutti i nostri giovani si laureassero brillantemente, e anche se si creassero le migliori
condizioni per consentire a tutte le donne di conciliare lavoro e famiglia, tutto ciò inciderebbe
assai poco perché non c’è crescita dell’economia e dell’occupazione se non ci sono nuovi
investimenti: i brillanti laureati continuerebbero a rimanere disoccupati (o troverebbero
lavoro all’estero120), e molte donne continuerebbero a starsene forzatamente a casa.
120
Si tratta di una pesante perdita economica: l’Italia spende somme ingenti per allevare, istruire e laureare giovani che
poi sono costretti a mettere il loro ingegno e il loro sapere al servizio di altri Paesi.
43
Su ciò si tace perché in Italia (e in misura diversa in molti Paesi europei) non è politicamente
praticabile la riduzione del prelievo fiscale sulle imprese nella misura necessaria per attirare nuovi capitali.
Naturalmente non mancano i nostalgici del comunismo, o comunque di politiche stataliste, che
invocano l’intervento pubblico: dovrebbe essere lo Stato a fare gli investimenti che non fanno i privati. Essi dimenticano la lezione dell’Urss e degli altri Paesi che per alcuni decenni l’avevano imitata: le imprese pubbliche, mancando lo stimolo del profitto (che aguzza l’ingegno e mobilita le energie), tranne che in pochi casi sono inefficienti, creano perdite che la finanza pubblica -cioè tutti i
cittadini- devono ripianare, e quasi sempre sono veicoli di corruzione. Inoltre è soltanto accrescendo ulteriormente l’indebitamento che lo Stato troverebbe i fondi necessari, con le inaccettabili conseguenze che abbiamo esaminato.
___________________
La ricchezza che viene prodotta ogni anno in un Paese121 è il risultato dell’attività delle sue imprese che producono beni e servizi. Avviare un’impresa richiede un investimento iniziale, e se il risultato è negativo -quale che ne sia la causa- gli investitori perdono il loro capitale. Ogni attività economica -dalla grande fabbrica al piccolo negozio- implica questo rischio, e il profitto è il compenso del rischio. Il profitto realizzato viene ridotto non solo dal prelievo fiscale ma anche dagli
oneri sociali che l’impresa deve versare allo Stato per ciascun dipendente: si tratta di un’assurda
tassazione del lavoro che ne accese il costo e costringe le imprese meno produttive a non assumere
oppure a ricorrere al lavoro nero. Per le imprese ciò che conta è la somma dei due prelievi: quanto
più è elevata, tanto meno conviene investire capitali in quel Paese.
Quando si confrontano Paesi diversi, quasi sempre si considerano le percentuali di prelievo fiscale complessivo sul Pil, e in questo modo l’Italia appare allineata alla media europea, ma questo
dato diventa insignificante se l’attenzione si rivolge alla crescita economica. Ad esempio negli ultimi vent’anni
“Paesi come la Norvegia, la Svezia e la Finlandia sono cresciuti a un tasso sostenuto (più del doppio dell’Italia) pur
avendo una pressione fiscale complessiva decisamente superiore alla nostra. Ma quell’alta pressione fiscale -ecco il
punto- si è sempre accompagnata a una modesta pressione sulle imprese: nel medesimo periodo che li vedeva crescere a
un tasso vicino al 3%, i Paesi scandinavi avevano un’imposta societaria ferma al 28%, mentre la nostra superava il 42%.
E’ questo modello di tassazione, peculiare dell’Italia e unico tra i Paesi avanzati, che ha inflitto al nostro Paese
prima il rallentamento, poi il ristagno e infine il declino cui oggi assistiamo”122.
Quando ci si preoccupa per il numero crescente di imprese che chiudono o delocalizzano
all’estero, spesso non si considera che lo fanno non perché siano poco efficienti ma semplicemente
perché il loro livello di efficienza non è compatibile con la pressione fiscale cui sono sottoposte.
Relativamente ai fattori negativi prima elencati, il governo tecnico Monti e quelli che gli faranno seguito, indipendentemente da quale sarà il loro orientamento politico, non potranno apportare
altro che modesti cambiamenti, utili, necessari, ma non risolutivi: ben vengano le liberalizzazioni e
le aperture alla concorrenza in numerosi settori, l’accelerazione della giustizia civile, la lotta
all’evasione fiscale, alla corruzione e agli sprechi, all’inerzia burocratica, alle mafie; ma in tutti
questi settori i partiti politici non consentiranno che successi limitati, che ridurranno alquanto i costi per le imprese, accresceranno un po’ le entrate dello Stato e recheranno qualche sollievo ai bilanci delle famiglie, ma resteranno comunque lontanissimi dall’obiettivo della riduzione di almeno
15 punti del prelievo fiscale sulle imprese, indispensabile, lo ripeto ancora una volta, per attirare
nuovi investimenti e quindi creare nuove imprese e nuovi posti di lavoro.
Resterebbe da chiarire perché, fino agli anni ’90 del secolo scorso, l’economia italiana abbia
continuato a crescere a ritmi accettabili, malgrado che il prelievo fiscale già allora fosse elevato e la
spesa pubblica e il debito continuassero ad aumentare. La spiegazione sta nel frequente ricorso dei
121
122
Il Pil, prodotto interno lordo.
L. Ricolfi, La Repubblica delle tasse. Rizzoli, Milano, 2011, pag. 9. (Corsivi aggiunti).
44
governi dell’epoca alla pratica della svalutazione della lira, che rendendo convenienti i prodotti italiani per gli acquirenti stranieri e più costosi i prodotti importati dall’estero per gli italiani, consentiva alle imprese, pur tartassate dal fisco, di continuare a vendere in Italia e all’estero. Ma la svalutazione della moneta, oltre a favorire le esportazioni, implica il rincaro delle importazioni, e l’Italia è
totalmente priva di materie prime, e scarseggiano anche le pianure fertili: siamo quindi costretti a
importare gran parte di ciò che consumiamo o che trasformiamo per riesportarlo. (Le importanti
conseguenze e il significato della svalutazione della moneta sono esaminate nella nota al termine
del paragrafo 10.1).
Alle importazioni inevitabili si aggiunge da qualche tempo anche l’importazione di quantitativi
rilevanti di forza lavoro, perché i giovani italiani (molti dei quali diplomati e laureati) rifiutano i
mestieri che invece svolgono gli immigrati, e non solo quelli faticosi o sottopagati: più nessuno
vuole fare l’operaio o imparare un mestiere artigianale, preferendo campare per anni a spese della
famiglia. Fino a quando ciò sarà possibile?
La creazione della moneta unica europea ha posto fine alla possibilità, per un singolo Paese, di
svalutare, essendo l’euro la moneta comune a tutti gli altri partecipanti all’Unione monetaria123; nel
1995 c’è stata l’ultima svalutazione, e da allora la crescita dell’Italia si è pressoché fermata, non
essendo più praticabile quello che alcuni definivano il rimedio dei disperati. Ma non si è purtroppo
fermata la pressione fiscale (soprattutto quella sulle imprese) necessaria ai governi per non dover
tagliare la sempre crescente spesa pubblica finalizzata non allo sviluppo ma alla cattura del consenso.
9.8 - Il governo Monti: cosa può e cosa non può fare
Il governo “tecnico” Monti, composto da persone competenti slegate dalla politica, e che non
devono quindi preoccuparsi di essere rielette, viene ogni giorno criticato, da destra e da sinistra, dai
politici che contemporaneamente lo sostengono, ma i critici sanno benissimo che i provvedimenti
devono essere approvati dal parlamento, nel quale a decidere restano i partiti, guidati dai loro interessi. Quelli che per il momento sostengono il governo (perché sono consapevoli dell’urgenza di
fermare il trend di vendite dei titoli del nostro debito, pena il fallimento del Paese) pongono tuttavia
limiti e imposizioni alla sua azione, finalizzati a non regalare troppi voti alla parte avversa e a quei
partiti irresponsabili che si oppongono a priori al governo ed a qualsiasi misura che implichi qualche sacrificio per il loro elettorato potenziale.
Non è questo il luogo per esaminare nel dettaglio le numerose conseguenze delle cose finora
fatte o non fatte o annunciate dal governo; vorrei sottolineare soltanto la rinuncia più grave cui i
partiti lo hanno costretto: quella a una decisa svolta nella lotta sia all’evasione fiscale sia alla corruzione e allo spreco.
1. Evasione fiscale. Tra i Paesi industrializzati l’Italia detiene il record assoluto di evasione fiscale. Secondo calcoli prudenti, si potrebbero ricuperare ogni anno non meno di cento miliardi di
euro. Le cause di questa gigantesca evasione sono molteplici:
-una legislazione fiscale di voluta complessità, che consente, a chi disponga di un buon commercialista, di pagare meno di ciò che dovrebbe, pur restando nei limiti della legalità (elusione fiscale);
-il contenzioso tributario è regolato da procedure che consentono all’evasore individuato sia di
ridurre in modo consistente il pagamento del dovuto, sia di procrastinarlo nel tempo;
-poiché ogni anno si controllano il 10 per cento dei potenziali evasori, questi hanno nove possibilità su dieci di non essere scoperti: si tratta di un potente incentivo ad evadere. Inoltre la maggior
123
Soltanto la Banca centrale europea può decidere di intervenire sul tasso di cambio dell’euro con le altre valute.
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parte degli accertamenti viene fatta con grande ritardo, e poiché il reato di evasione fiscale si prescrive dopo cinque anni, in molti casi la prescrizione è garantita;
-il prelievo fiscale medio complessivo sul Pil è in linea con quello dei Paesi simili al nostro: si
tratta di un dato molto citato da chi difende i politici e tuttavia ingannevole, perché a causa
dell’evasione più elevata, le imprese e i cittadini che non evadono pagano assai più di quanto si
paghi all’estero. Anche l’eccessivo prelievo è uno stimolo all’evasione, circa la quale è però necessario distinguere l’evasione “difensiva” di molte piccole e piccolissime imprese, che se non riuscissero a evadere dovrebbero chiudere a causa appunto dell’insopportabile peso del fisco.
I rimedi sarebbero numerosi; cito i tre più semplici, ovvi, e privi di controindicazioni:
-semplificare la legislazione fiscale; creare strumenti che ne accrescano l’efficacia; velocizzare
le procedure;
-la misura più importante: moltiplicare il numero degli addetti ai controlli, verificando ogni anno almeno il 40 per cento delle dichiarazioni a rischio evasione dell’anno precedente (non quelle di
diversi anni prima!): in tal modo l’evasore avrebbe pressoché la certezza di essere immediatamente
scoperto. Il personale necessario si troverebbe facilmente scegliendo i più adatti nel mare dei burocrati inutili; naturalmente dovrebbero essere addestrati per il tempo necessario, vincendo anche la
resistenza dei sindacati, che si oppongono ad ogni cambio di mansioni che non sia gradito agli interessati;
-non solo prevedere, ma operare effettivamente la traduzione in carcere, senza scampo, per i casi più gravi, come avviene negli Stati Uniti e in alcuni altri Paesi.
In Italia nessun partito politico ha mai affrontato seriamente il problema (tranne sporadici provvedimenti di scarsa incisività). Le manovre di tutti i precedenti governi, malgrado i proclami, non
hanno mai previsto nulla di ciò che sarebbe veramente efficace per ridurre sostanzialmente
l’evasione; non serve aggravare le pene e minacciare il carcere per gli evasori se questi hanno la
quasi certezza di non essere scoperti. Inoltre la norma sul carcere, sbandierata come dimostrazione
della volontà di fare sul serio, è in vigore da circa trent’anni, durante i quali sono però entrate in cella poche decine di persone e per brevissimi periodi. Neanche le proposte presentate dalle diverse
opposizioni hanno affrontato concretamente la questione: nessun partito vuole correre il rischio di
perdere il sostegno dei moltissimi che evadono. Non ci potrebbe essere dimostrazione più convincente di ciò che vado sostenendo in questo lavoro: le democrazie parlamentari non sono più in grado di decidere ciò che sarebbe necessario per governare l’economia e le sue crisi.
2. Corruzione. Due sono le principali cause che non solo rendono possibile, ma oggettivamente
incoraggiano la corruzione in Italia:
-l’inefficacia dei controlli, che sono quasi esclusivamente formali e consentono che le spese inutili o eccessive, che sono i due veicoli della corruzione, appaiano perfettamente conformi alle
leggi;
-le leggi varate dai partiti allo scopo di rendere pressoché certa l’impunità dei politici, degli
amministratori e degli imprenditori nei casi in cui emerga la corruzione. (Va ricordato che questi
casi, che al cittadino onesto appaiono troppo numerosi, data l’omertà imperante rappresentano
soltanto una piccola frazione dei casi effettivi). Esisteva da sempre una legislazione volta a punire il
danno recato dai politici e dagli amministratori agli interessi dei cittadini e degli enti pubblici. Il codice fascista (il famigerato codice Rocco) prevedeva una serie di reati contro la pubblica amministrazione (il peculato, l’interesse privato in atti d’ufficio, l’omissione di atti d’ufficio, ecc.), ma questa normativa venne radicalmente modificata nel 1990 e poi ancora nel 1997, dopo Tangentopoli,
restringendo drasticamente il campo di applicazione del reato di abuso d’ufficio. Fu così praticamente cancellato (anche se non formalmente) il reato di interesse privato: infatti non è più punibile
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chi sfrutta il proprio ufficio se dimostra (ed il farlo è molto facile) che non ne ricava un diretto e
personale vantaggio patrimoniale. In tal modo:
-non è più punibile, ad esempio, il politico che spinge nella carriera individui privi di merito, o assegna incarichi e costose consulenze -sovente del tutto inutili- a persone notoriamente incompetenti o disoneste;
-egualmente non è più punibile il politico o l’amministratore che agisca per “realizzare un
interesse zonale”, vale a dire a vantaggio di un collegio elettorale, di una categoria professionale, di
una qualsiasi corporazione o -naturalmente- di un partito politico;
-nei casi in cui l’abuso di ufficio risulti provato, la pena massima prevista è stata ridotta da
cinque a tre anni di reclusione, con significative conseguenze:
-nella fase di indagine non si possono più intercettare i telefoni del politico o
dell’amministratore, rendendo l’accertamento dei fatti quasi sempre impossibile;
-non è più possibile la custodia preventiva in carcere, e in tal modo si consente all’indagato
di far sparire le prove;
-infine il fatto più grave: i tempi della prescrizione sono stati ridotti a cinque anni, e poiché
è pressoché impossibile che un processo, per chi disponga di un bravo avvocato, arrivi al terzo grado di giudizio in cinque anni, l’impunità per politici e burocrati è garantita quasi a tutti. Non si potrebbe immaginare qualcosa di più efficace per incoraggiare il furto di denaro pubblico: si tratta di
leggi scandalose, ma i cittadini non ne sanno nulla perché non se ne parla.
Con questa legislazione fatta su misura, i politici possono tranquillamente affidare appalti, finanziamenti, incarichi e consulenze a imprese e a persone “amiche”, o a quelle che si vogliono far
diventare tali; per il codice fascista si trattava di reati, che le leggi varate dai parlamenti democratici hanno sostanzialmente cancellato. E’ una constatazione molto amara, eppure si tratta di fatti inoppugnabili.
Relativamente ai dipendenti pubblici, anche quando le colpe di qualcuno vengono dimostrate in
tribunale e il reo viene condannato, i regolamenti interni delle diverse amministrazioni rendono il
licenziamento difficilissimo e quindi estremamente raro.
Queste leggi, oltre a proteggere i politici e i loro amici, hanno lo scopo di non scontrarsi con i
sindacati: i dipendenti pubblici sono tre milioni e mezzo, e con i famigliari costituiscono una riserva
elettorale di circa dieci milioni di voti; le numerose sigle sindacali del pubblico impiego sono tutte
schierate a difesa di qualsiasi dipendente, anche di chi è corrotto, o ruba, o spreca, o non fa nulla, e i
dieci milioni di voti conferiscono a questi sindacati un enorme potere: avrebbero comunque ottenuto le leggi protettive anche se queste non giovassero soprattutto alla corruzione dei politici.
___________________
La corruzione è dovuta, oltre che alla quasi certezza dell’impunità, ad un altro fatto: ad ogni livello della scala gerarchica, quasi tutti quelli che hanno il potere e il dovere di controllare, denunciare e punire i sottoposti che sgarrano, di regola non lo fanno perché quasi tutti hanno irregolarità,
bustarelle, pigrizie ed errori da nascondere (colpe che naturalmente i loro sottoposti conoscono), e
quindi il silenzio omertoso conviene a tutti.
___________________
Anche per la corruzione esisterebbe un rimedio sicuro, efficace e a costo zero, che si chiama
trasparenza: stabilire per legge che tutte le istituzioni che spendono denaro pubblico (ministeri, regioni, province, comuni, Asl, circoscrizioni, comunità montane e tutte le oltre seimila società pubbliche o a partecipazione pubblica) hanno l’obbligo di pubblicare on line non solo il bilancio annuale (nel quale è facilissimo mascherare qualsiasi irregolarità), ma un dettagliato rendiconto, giorno
per giorno, di ogni spesa, del suo importo e delle sue motivazioni: dai pagamenti per i grandi appalti a quelli per il personale (quanti sono i dipendenti e quanto costano, dall’usciere al ministro) a
quelli per ogni acquisto, di qualsiasi importo. Diverrebbe impossibile sfuggire alla critica e
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all’eventuale denuncia per sperpero del denaro pubblico o per truffa. Naturalmente nessun partito
ha mai proposto questo rimedio, ovvio, infallibile e assolutamente privo di costi.
Inoltre il parlamento italiano non ha ancora tradotto in provvedimenti concreti -malgrado siano
trascorsi 13 anni- il documento dell’Unione europea che nel 1999 indicava alcune regole per ridurre la corruzione.
___________________
Oltre a rilevare la sostanziale assenza di una incisiva lotta all’evasione e alla corruzione (contro
di esse sono annunciate numerose misure, certamente utili e tuttavia marginali) devo ricordare alcuni interrogativi che permangono sulla durata del governo Monti e sulle sue possibilità di azione efficace in altri settori.
1) La manovra iniziale è stata fatta prevalentemente da aumenti delle tasse, che deprimono
l’economia, mentre non sono sufficienti i tagli alla spesa. Ciò si spiega con il fatto che il governo si
è insediato quando la credibilità dell’Italia e della sua finanza pubblica stava crollando, e soltanto
l’immediata efficacia dell’aumento del prelievo fiscale, insieme alla riforma delle pensioni, poteva
rassicurare i mercati mostrando che si intende fare sul serio, e quindi poteva rallentare le vendite dei
titoli italiani; invece i tagli di spesa danno risultati diluiti nel tempo. Vedremo se e come i partiti
consentiranno al governo di operare questi indispensabili tagli;
2) ad oltre quattro mesi dall’insediamento del governo, i tassi di interesse richiesti dal mercato
per acquistare i titoli italiani sono sensibilmente diminuiti, ma rimangono dubbi consistenti sulla
durata di questa ripresa della credibilità del nostro Paese. Infatti
-permane la generale sfiducia degli investitori internazionali nei Paesi europei e nella loro
capacità di rimborsare i debiti, e il debito italiano è di gran lunga il più pesante. La sfiducia è rafforzata dalle crescenti difficoltà della Spagna, che hanno costretto il governo ad imporre severi sacrifici ai cittadini, sollevando una estesa protesta sociale;
-soprattutto appare a rischio il sostegno del parlamento alle decisioni del governo; fino a
quando i partiti che lo sostengono si riterranno soddisfatti del bilanciamento dei veti e delle imposizioni che caratterizza la fase attuale?
-rispetto all’obiettivo della riduzione del deficit e del debito, l’Italia ha meno carte da
giocare rispetto agli altri Paesi deboli, perché quella dell’aumento della pressione fiscale l’ha già
eccessivamente utilizzata in passato, mentre la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e persino la Grecia,
grazie alla pressione fiscale di circa dieci punti inferiore alla nostra, hanno questa possibilità in più;
3) pressoché tutte le categorie di lavoratori lamentano il prolungamento dell’età pensionabile
imposta dal governo. E’ certamente vero che molti lavori vengono svolti meglio da persone meno
anziane, tuttavia non c’è spazio per una trattativa: non è in alcun modo possibile, a causa del felice
allungarsi della vita media, pagare pensioni decenti per venti o trenta o più anni a decine di milioni
di persone: se dovesse risultare non conveniente far lavorare la gente fino a sessantacinque anni e
oltre, ci si dovrebbe accontentare di pensioni pubbliche ridotte, ma di ciò nessuno vuol sentir parlare, pretendendo ciò che in un futuro molto prossimo diverrà assolutamente impossibile;
4) le misure già varate e quelle annunciate “per la crescita e per l’occupazione” (modestissime
riduzioni fiscali in alcuni settori, liberalizzazioni e aperture alla concorrenza, semplificazioni burocratiche, interventi sul mercato del lavoro124, ecc.) come ho già detto sono tutte utilissime e necessarie, e tuttavia del tutto insufficienti per rendere attraente l’investimento di nuovi capitali nel nostro
Paese.
124
Sul mercato del lavoro si veda il paragrafo 15.
48
Soltanto i prossimi mesi ci diranno se i partiti che attualmente sostengono il governo
si decideranno a consentirgli di operare i drastici tagli alla corruzione, all’evasione fiscale,
alle spese inutili e agli sprechi125, in assenza dei quali non sarà possibile ricuperare
le ingenti somme che servirebbero alla
riduzione di almeno quindici punti del prelievo fiscale sulle imprese
Si tratta di una misura indispensabile (anche se non sufficiente) per attirare nuovi capitali
Se l’Italia e l’Europa non torneranno ad essere luoghi in cui è conveniente investire,
la disoccupazione e la protesta sociale continueranno a crescere
Un sintomo preoccupante del rifiuto dei partiti politici di prendere atto della vera natura della
situazione è la promessa del governo Monti di destinare le somme ricuperate dalla lotta all’evasione
fiscale alla riduzione della tassazione dei redditi più bassi delle persone fisiche ma non a quella delle imprese. Ridurre le tasse sui redditi più modesti è una misura quanto mai giusta e desiderabile,
tuttavia, da sola, è del tutto irrilevante per attirare nuovi investimenti. Anche questa è una prova dei
limiti dei parlamenti democratici quando devono affrontare gravi crisi economiche.
9.9 - Addio al “posto fisso”: il nuovo rapporto tecnologia-insicurezza
Il lavoro precario e la riforma della legislazione sul mercato del lavoro
L’instabilità del rapporto di lavoro e l’insicurezza circa il proprio futuro sono tra le conseguenze più negative della globalizzazione. Questi caratteri dipendono, oltre che dall’accresciuta concorrenza, dal rapporto molto stretto che esiste fra l’evoluzione delle tecniche e la tutela giuridica dei
contratti di lavoro. Mettere in luce questo rapporto -sul quale quasi mai si riflette- significa rendersi
conto che la mobilità e l’insicurezza, che sempre più vanno caratterizzando i rapporti di lavoro,
sono inevitabili in questa fase storica. Nell’era fordista della fabbrica automatizzata, della produzione di massa e delle grandi economie di scala, la tecnica evolveva lentamente, i programmi delle
imprese erano commisurati al lungo periodo, ed era quindi naturale che anche i diversi aspetti del
rapporto di lavoro fossero sanciti giuridicamente nei contratti a tempo indeterminato, fornendo ai
lavoratori una ragionevole prospettiva di stabilità. Invece la fabbrica informatizzata del postfordismo, la “produzione snella” che la concorrenza impone di plasmare sulle mutevoli esigenze dei
clienti, evitando ogni giacenza di prodotti finiti in magazzino, e soprattutto le incalzanti novità tecnologiche (novità di processo e di prodotto) impongono alle imprese la massima flessibilità
nell’utilizzo della manodopera. L’azione di questi fattori fa sì che in qualsiasi momento anche le
imprese più sane possano finire fuori mercato, perché in qualche angolo del mondo qualcuno ha iniziato a produrre qualcosa di meglio o a minor prezzo.
Ma se tutto cambia rapidamente, anche la remunerazione e la durata del rapporto di lavoro
devono diventare meno rigidi: sempre meno le imprese potranno assumere impegni duraturi con i
loro dipendenti. Rendersi conto di questa situazione -molto negativa ma alla quale non è possibile
sottrarsi- può costituire uno stimolo importante per quell’atteggiamento di apertura al cambiamento
e all’apprendimento permanente che oggi appare più che mai indispensabile.
Ci si deve quindi rassegnare ad una netta riduzione di quei posti di lavoro che per buona parte
del Novecento erano stati considerati “normali”, cioè sicuri, stabili e con contratti a tempo pieno e
indeterminato. Oggi la percentuale di questi posti di lavoro varia da luogo a luogo e da un settore
economico all’altro, ma in nessuno dei principali paesi supera ormai il 55 per cento126. Naturalmente la mobilità e la precarietà del rapporto di lavoro rendono necessario che negli intermezzi tra due
impieghi i lavoratori vengano assistiti con adeguati sussidi e la partecipazione a corsi di riqualificazione, che accrescano la possibilità di trovare presto un nuovo lavoro. Senza queste misure, senza
125
Personalmente ritengo estremamente improbabile che i partiti consentiranno a questi tagli nella misura che sarebbe
necessaria.
126
L. Gallino, Globalizzazione e diseguaglianze, Laterza, Bari, 2000, p. 37.
49
cioè una ragionevole sicurezza circa il proprio futuro, si dissolvono i fondamenti economici delle
famiglie, impedendo ai giovani di crearne di nuove.
Alla luce di queste considerazioni appaiono in tutta la loro inadeguatezza le discussioni che in
Italia si stanno facendo sul famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e sulla eccessiva protezione del posto di lavoro che lo Statuto garantisce ai lavoratori occupati, a detrimento delle possibilità per i giovani di trovare un’occupazione. (Ferma restando, ripeto, l’assoluta esigenza di garantire
un reddito a chi ha perso il lavoro senza sua colpa). Naturalmente il lavoratore licenziato deve essere disponibile ad accettare mansioni anche molto distanti dalle sue aspirazioni.
Va anche segnalata la palese contraddizione tra l’intento di accrescere l’occupazione e
l’aumento dei contributi sociali a carico delle imprese per i contratti di lavoro atipici: infatti questi
contratti -che certamente non piacciono perché caratterizzati dalla precarietà- erano stati varati proprio per aumentare l’occupazione riducendo il costo complessivo del lavoro per le imprese. Scoraggiarli aumentando i contributi sociali significa semplicemente scoraggiare l’occupazione.
I giovani devono rendersi conto di questa nuova situazione e quindi dell’esigenza di mutare atteggiamento verso alcuni tipi di occupazione, rendendosi disponibili a riqualificarsi e a svolgere
mansioni anche molto distanti dalle loro aspirazioni. Tutti dovranno dare per scontata l’esigenza di
una formazione permanente, indispensabile per cogliere le nuove opportunità via via offerte dal
mercato. (Sul probabile futuro dell’occupazione si veda il capitolo IX, paragrafo 33.1, del citato lavoro su internet).
9.10 - La fragilità delle imprese italiane e la loro dipendenza dalle banche
Perché i nostri salari sono mediamente inferiori a quelli delle categorie
corrispondenti negli altri grandi Paesi europei
La generale carenza di liquidità delle banche può avere conseguenze particolarmente gravi in
Italia, a causa della fragilità finanziaria del capitalismo italiano, documentata da alcune significative
cifre: nelle imprese italiane, mediamente, il debito a breve termine (quello da rimborsare entro un
anno) rappresenta il 37% del debito totale; in Germania è il 30% e in Gran Bretagna e Usa è il
15%. Il debito a breve segnala la scarsità di capitale delle nostre imprese127, e spiega la loro stretta
dipendenza dalle banche: infatti secondo una recente indagine le imprese si finanziano per il 91%
attraverso il canale bancario e solo per il 9% attraverso il mercato mediante l’emissione di obbligazioni. La media europea è 87% banche - 13% obbligazioni. Il rapporto si capovolge negli Stati Uniti, dove le imprese si finanziano per il 76% mediante obbligazioni, e ciò rispecchia la minore fiducia
che gli investitori di tutto il mondo ripongono nella solidità dell’economia e delle imprese europee
rispetto a quelle americane.
Ulteriore prova della mancanza di fiducia nelle imprese italiane viene dalla nostra Borsa: l’11
dicembre 2011, sommando il valore di borsa di tutte le aziende quotate, si arrivava al 28% del Pil:
un’inezia rispetto al 235% della Borsa Svizzera o al 135% di quella della Gran Bretagna128. Ciò è
dovuto al “capitalismo famigliare” che caratterizza le nostre imprese: non si va in Borsa sia perché
l’imprenditore e la sua famiglia non vogliono perdere il controllo dell’azienda, sia perché si teme,
realisticamente, la diffidenza degli investitori per le imprese di un Paese dove è difficile fare utili.
Queste cifre, tra l’altro, mostrano l’infondatezza delle comparazioni che continuamente vengono fatte tra i salari italiani delle diverse categorie di lavoratori (operai, impiegati, insegnanti, dipendenti pubblici in genere, ecc.) e i salari delle corrispondenti categorie in alcuni Paesi europei. Ciò
che viene trascurato è il fatto che in Italia lo sviluppo economico è arrivato tardi rispetto ai grandi
Paesi con i quali di solito si fa il confronto (Francia, Germania, Gran Bretagna): il nostro capitalismo è asfittico, le imprese sono fragili, e l’Italia è totalmente priva di materie prime, con le conseguenze esaminate nel paragrafo 13. Quindi non ha senso pretendere lo stesso tenore di vita di Paesi
127
Il debito a lungo termine viene soprattutto acceso a fronte di investimenti, e quindi è indice di fiducia nel futuro; il
debito a breve segnala invece immediate esigenze di cassa.
128
Si veda un documentato articolo di M. Longo su “Il Sole 24 Ore”, 11-12-11.
50
dall’economia più solida: è certamente necessario ridurre l’evasione fiscale e la corruzione a livelli
europei per attirare nuovi investimenti, tuttavia non ci si deve illudere che ciò possa essere sufficiente per cancellare i nostri storici handicap129.
9.11 - In Europa sono assenti le condizioni necessarie per una duratura crescita economica
Riassumendo: non ci sarà crescita, né in Italia né in Europa, finché i cittadini non accetteranno
una riduzione della spesa pubblica e quindi dell’attuale tenore di vita, riduzione inevitabile a causa
delle conseguenze della globalizzazione. In assenza di questa riduzione, sempre più caleranno gli
investimenti di capitali privati, i soli che possono creare una durevole occupazione. L’attuazione di
questa condizione, come si è visto, aggraverebbe nell’immediato la recessione facendo crescere la
protesta dei cittadini, e quindi spaventerebbe i partiti che dovrebbero realizzarla.
“L’Europa non dispone di una solida e autorevole classe politica dirigente, bensì di leader e forze politiche nazionali in competizione tra loro, motivate prevalentemente dal timore della perdita di consenso elettorale interno e non
dall’elaborazione di una grande strategia unitaria”130.
Fino a quando permarrà la disinformazione dei cittadini, si potrà uscire dalla tenaglia tra rigore
dei conti pubblici e crescita economica soltanto demandando le più importanti decisioni di politica
economica non più ai parlamenti nazionali ma ad una autorità europea esterna. L’inevitabilità di
questa conclusione ha cominciato a farsi strada nel 2012: come già ricordato, gli aiuti europei ai Paesi in difficoltà saranno subordinati alla preventiva accettazione da parte dei parlamenti nazionali di
severe regole di bilancio: azzeramento del deficit e progressiva riduzione del debito complessivo al
60 per cento del Pil, come stabilito da Trattato di Maastricht.
“Di fatto, l’Europa è su un piano inclinato. Può uscirne verso l’alto con la rinuncia dei Paesi membri a una parte
della loro sovranità in materia di politica economica a favore di un governo centrale, con l’europeizzazione di importanti capitoli nazionali di spesa pubblica e di cospicue entrate fiscali”131.
Se alcuni Paesi non accetteranno questa consistente rinuncia ad una parte della propria autonomia, gli osservatori ritengono possibile la spaccatura dell’Unione monetaria: potrebbe nascere un
nuovo euro, adottato da un nucleo ristretto di Paesi finanziariamente forti, mentre i restanti tornerebbero alle valute nazionali e alla connessa possibilità di autonomia nel decidere la creazione di
moneta (per vivacizzare l’economia) e di successive svalutazioni, inevitabili per poter continuare ad
esportare, ma che non farebbero che rallentare l’impoverimento. (Le conseguenze delle svalutazioni sono state esaminate nella nota al termine del paragrafo 10.1).
___________________
Ai molti che vorrebbero avviare la crescita mediante l’incremento della spesa pubblica (abbandonando gli obiettivi del pareggio del bilancio e della riduzione del debito complessivo), come già
si è detto va ricordato che questo incremento, realizzabile mediante l’indebitamento dello Stato, e
129
I manuali di storia ricordano il cosiddetto “miracolo economico italiano”degli anni ’50 del secolo scorso: una poderosa e inaspettata crescita dell’economia, dell’occupazione e delle esportazioni, che portò il Paese a superare le conseguenze della sconfitta e delle distruzioni della seconda guerra mondiale. Ma i manuali tacciono sul vero motivo della fine del miracolo: i sindacati chiesero l’adeguamento dei nostri salari a quelli degli altri grandi Paesi europei, sostenuti da
tutti i partiti politici, sia al governo che all’opposizione, i quali, per non perdere voti, non tentarono di spiegare le oggettive e insuperabili differenze tra l’Italia e quei Paesi. I salari reali aumentarono insieme ai costi di produzione, e la riduzione dei profitti che le imprese dovettero subire venne solo parzialmente compensata dai governi in vari modi, ma
soprattutto con le svalutazioni della lira che consentivano di accrescere le vendite all’estero e nel Paese. Tuttavia le
svalutazioni potevano soltanto rallentare il declino del miracolo economico, che era stato il frutto non solo
dell’inventiva e dell’attivismo degli italiani, ma anche del basso costo del lavoro.
130
M. Deaglio, G. Guggiola, Dal vecchio ordine al nuovo disordine. In: Deaglio e altri, “La crisi che non passa”.
Guerini, Milano, 2011, p. 71.
131
Ib., p. 71. (Corsivo aggiunto).
51
che fino agli anni ’80 del secolo scorso era stato l’efficace volano dell’economia mondiale, è diventato impraticabile perché, insieme ai suoi effetti positivi, provoca inevitabilmente anche un aumento
generalizzato dei costi e dei prezzi132, che fino a trent’anni fa era tollerabile perché la concorrenza
internazionale era assai minore, ed era possibile esportare egualmente malgrado questo aumento.
Tutto è cambiato con l’esasperazione della competizione portata dalla globalizzazione, che non
consente a nessun Paese di avere dei costi di produzione superiori a quelli dei concorrenti, pena la
perdita delle sue posizioni sui mercati internazionali: calerebbero le esportazioni, aumenterebbero le
importazioni (perché i prodotti stranieri verrebbero a costare di meno) e quindi si ridurrebbero gli
investimenti, la produzione e l’occupazione. La stabilità dei prezzi è ormai un fondamentale obiettivo della politica economica di qualsiasi governo, e rende indispensabile (lo ripeto per l’ennesima
volta) il contenimento della spesa pubblica. Naturalmente l’incremento della spesa potrebbe essere
compensato dall’aumento del prelievo fiscale, ma già si è visto che questo aumento provocherebbe
la fuga dei capitali e delle imprese verso Paesi nei quali il fisco è più leggero, oltre naturalmente a
deprimere la produzione e l’occupazione perché la gente avrebbe meno soldi da spendere e ridurrebbe gli acquisti.
Si può sintetizzare la situazione dicendo che il keynesismo è finito: al contrario di quanto sostenuto dal grande economista britannico J.M. Keynes, le cui geniali teorie nel secolo scorso furono
per decenni il volano della straordinaria crescita dell’economia mondiale, oggi i governi non possono più stimolare la ripresa economica indebitandosi. Il keynesismo ha funzionato fino a quando
nelle banche giacevano risparmi improduttivi, che i governi prendevano a prestito e utilizzavano per
attivare l’economia e accrescere la produzione; in tal modo aumentava automaticamente anche il
prelievo fiscale, applicato alla accresciuta massa di ricchezza prodotta, consentendo di ripianere
l’indebitamento. I molti che oggi invocano Keynes per giustificare l’aumento della spesa e del debito dello Stato, dimenticano che ci troviamo in una situazione esattamente opposta a quella prevista
dalla teoria keynesiana: non c’è una massa di denaro inerte da mobilizzare a fini produttivi: al contrario -come si è appena visto- nelle banche la liquidità scarseggia, ed inoltre è sempre più difficile
riuscire ad esportare in un mondo nel quale ogni giorno aumenta la concorrenza.
Si deve aggiungere che un ulteriore incremento dei già elevatissimi debiti pubblici europei distruggerebbe definitivamente la fiducia dei mercati nella capacità dei Paesi del Vecchio continente
di rimborsare alla scadenza i titoli in euro, e ciò determinerebbe il crollo totale dell’economia europea.
Naturalmente anche la nuova regola imposta dalla globalizzazione può subire eccezioni in casi
disperati: ad esempio la relativamente breve crisi economica manifestatasi nel 2001 (aggravata
dall’attacco terroristico dell’11 settembre) e soprattutto l’attuale crisi (analizzata estesamente nel
capitolo VII/2 del citato lavoro su internet) hanno costretto i governi ad accrescere temporaneamente la spesa e l’indebitamento per sovvenzionare le banche e le imprese in difficoltà; tuttavia si è dovuto constatare che queste politiche, se non sono di breve durata, vengono interpretate dalla finanza
internazionale come un segno dell’incapacità di abbandonare la pericolosa strada della finanza fondata sul debito, finalizzata a difendere nell’immediato la produzione, l’occupazione e lo Stato sociale, senza curarsi delle inevitabili conseguenze negative nel lungo periodo.
9.12 - Conclusioni sull’Italia
1) Se il keynesismo è finito, appaiono insensate, frutto esclusivamente di propaganda elettoralistica, le richieste di quegli oppositori del governo Monti che, soprattutto da sinistra, chiedono più
spesa pubblica bilanciata dall’incremento delle tasse, tacendo sul fatto che un consistente aumento
132
I prezzi aumentano perché i cittadini hanno una maggiore quantità di denaro da spendere, e quindi aumenta la loro
domanda per numerosi beni; per molti di questi beni ci vuole tempo perché aumenti anche l’offerta, e nel frattempo i
consumatori vengono selezionati aumentando i prezzi. Inoltre in molti settori non esiste una reale concorrenza, e quindi,
grazie ad accordi più o meno espliciti tra i produttori e tra i commercianti, i prezzi più elevati vengono mantenuti anche
quando sarebbe possibile ridurli.
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della pressione fiscale provocherebbe la fuga dei capitali nazionali ed esteri, e quindi un ulteriore
crollo degli investimenti, della produzione e dell’occupazione. Non si deve dimenticare che in Europa il prelievo fiscale è già tra i più alti nel mondo, in Italia è tra i più alti del Vecchio continente, e
soprattutto che l’Italia, come si è visto, detiene il primato assoluto del prelievo fiscale sulle imprese.
A proposito dell’indebitamento degli Stati europei, i critici del governo citano lo statunitense
Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, il quale ha l’ardire di sostenere che l’indebitamento
degli Stati non è la causa della crisi economica dell’Europa, e che la Banca centrale europea dovrebbe stampare moneta creando liquidità per rafforzare le banche e rilanciare l’economia. Fermo
restando che in questo momento un’iniezione di liquidità -come si è visto- è stata indispensabile, è
semplicemente assurdo negare che la principale causa del crollo della fiducia nell’Europa sia la spesa pubblica utilizzata per decenni dai governi per far vivere i cittadini di sopra del consentito dalla
reale produzione di ricchezza. L’opinione dell’americano Krugman, aspramente criticata dagli economisti non legati a interessi politici, si spiega però benissimo con il timore degli Stati Uniti (timore
sorto nel 1993 quando il Trattato di Maastricht decise la nascita dell’euro) che questa nuova moneta potesse -come in effetti aveva iniziato a fare prima dell’attuale crisi- sostituire in parte il dollaro
nel duplice ruolo di moneta di scambio nel commercio internazionale e di sicura riserva di valore,
ruolo che procura agli Stati Uniti enormi vantaggi, negati a tutti gli altri Paesi. (Questi vantaggi sono descritti nel capitolo VII/1, paragrafo 24.00, del citato lavoro su internet).
2) Sono egualmente insensate le critiche che, da destra, chiedono invece una immediata e consistente riduzione del prelievo fiscale sulle imprese e sul lavoro, bilanciata da un’altrettanto consistente riduzione della spesa pubblica, tacendo sul fatto che la riduzione della spesa implicherebbe
immediati tagli agli stipendi, alle pensioni, alla spesa sanitaria, alla scuola e all’università, agli investimenti, all’assistenza ai più deboli e ai disoccupati (abbiamo visto che proprio questo sta avvenendo in Grecia e in Spagna). E’ naturalmente vero che una forte riduzione del peso del fisco rilancerebbe l’economia e l’occupazione133, ma i dolorosi tagli non verrebbero accettati dai cittadini ignari delle dinamiche economiche, mentre un eventuale aumento del deficit pubblico -conseguente ad
una riduzione delle tasse che non fosse accompagnata da quella della spesa- come si è visto verrebbe interpretato dagli investitori come un segno certo del prossimo fallimento dell’Italia, con conseguenti massicce vendite dei nostri titoli.
Vorrei infine sottolineare che si è fin qui parlato di fatti ben noti ai dirigenti dei partiti politici:
ennesima conferma dell’impossibilità di affrontare le crisi economiche subordinando le misure necessarie agli interessi di parlamentari preoccupati non del futuro del Paese ma soltanto della propria
rielezione.
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Termino citando alcune righe apparse di recente su “La Stampa”.
“Tra dieci-quindici anni avremo qualche milione di adulti con scarsi stipendi, poca e probabilmente cattiva esperienza lavorativa, e quasi zero contributi cumulati. E avremo, di conseguenza, un Paese che non riuscirà a sostenere né
crescita né spese sociali, perché avrà una forza lavoro che non sarà in grado, suo malgrado, di contribuire sufficientemente alla produttività, alle entrate e alla crescita. E che, anzi, avrà probabilmente bisogno di assistenza sociale. (…) E’
stupefacente come nessuno sembri rendersi conto della bomba che stiamo confezionando e su cui siamo seduti. E come
molti ancora pensino che semplicemente mantenendo le tutele dei padri possiamo tutelare sia i padri che i figli, senza
rendersi conto che così facendo rimandiamo solo il momento in cui entrambi salteranno con le gambe all’aria”134.
Si tratta di uno scenario drammatico e possibile, che diventerà reale se l’omertoso silenzio finora scelto dai politici non si trasformerà in una martellante campagna di informazione, in grado di
133
L’aumento del deficit causato dalla riduzione del prelievo fiscale, nel medio periodo viene eliminato automaticamente: infatti (analogamente a quanto avviene con l’indebitamento keynesiano) l’incremento dell’attività economica generato da questa riduzione fa aumentare le entrate dello Stato senza variare le aliquote del prelievo, che vengono applicate
ad una mole accresciuta di profitti e di salari.
134
I. Tinagli, “La Stampa”, 1-2-12.
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convincere gli italiani ad accettare i sacrifici necessari per ridurre le tasse e far tornare l’Italia un
Paese nel quale i capitali affluiscono, creando occupazione e ricchezza.
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