TUCIDIDE DI ATENE . Il Proemio rono i logografi, i quali miravano al diletto degli ascoltatori piuttosto che alla verità, visto che tale materia era incontrollabile e infida, essendo sfociata, per il grande lasso di tempo intercorso, nel mito. Chi dunque crede alla mia ricostruzione potrà concludere che questi eventi sono stati adeguatamente individuati sulla base degli indizi più evidenti, almeno per quanto è possibile riguardo a fatti così remoti. ( ) E questa guerra, sebbene di solito gli uomini valutino più grave il conflitto in cui sono di volta in volta impegnati – per poi volgere la loro ammirazione fatti d’armi più antichi, appena l’attuale si è concluso – risulterà sempre, a chi esamini le cose in concreto, la più importante di tutte. I . Θουκυδίδης Ἀθηναῖος ξυνέγραψε τὸν πόλεμον τῶν Πελοποννησίων καὶ Ἀθηναίων, ὡς ἐπολέμησαν πρὸς ἀλλήλους, ἀρξάμενος εὐθὺς καθισταμένου καὶ ἐλπίσας μέγαν τε ἔσεσθαι καὶ ἀξιολογώτατον τῶν προγεγενημένων, τεκμαι‐ ρόμενος ὅτι ἀκμάζοντές τε ἦσαν ἐς αὐτὸν ἀμφότεροι παρασκευῇ τῇ πάσῇ καὶ τὸ ἄλλο Ἑλληνικὸν ὁρῶν ξυνιστάμενον πρὸς ἑκατέρους, τὸ μὲν εὐθύς, τὸ δὲ καὶ διανοούμενον. ( ) κίνησις γὰρ αὕτη μεγίστη δὴ τοῖς Ἕλλησιν ἐγένετο καὶ μέρει τινὶ τῶν βαρβάρων, ὡς δὲ εἰπεῖν καὶ ἐπὶ πλεῖστον ἀνθρώπων. ( ) τὰ γὰρ πρὸ αὐτῶν καὶ τὰ ἔτι παλαίτερα σαφῶς μὲν εὑρεῖν διὰ χρόνου πλῆθος ἀδύνατα ἦν, ἐκ δὲ τεκμηρίων ὧν ἐπὶ μακρότατον σκοποῦντί μοι πιστεῦσαι ξυμβαίνει οὐ μεγάλα νομίζω γενέσθαι οὔτε κατὰ τοὺς πολέμους οὔτε ἐς τὰ ἄλλα. I . καὶ ὅσα μὲν λόγῳ εἶπον ἕκαστοι ἢ μέλλοντες πολεμήσειν ἢ ἐν αὐτῷ ἤδη ὄντες, χαλεπὸν τὴν ἀκρίβειαν αὐτὴν τῶν λεχθέντων διαμνημονεῦσαι ἦν ἐμοί τε ὧν αὐτὸς ἤκουσα καὶ τοῖς ἄλλοθέν ποθεν ἐμοὶ ἀπαγγέλλουσιν· ὡς δ᾽ ἂν ἐδόκουν ἐμοὶ ἕκαστοι περὶ τῶν αἰεὶ παρόντων τὰ δέοντα μάλιστ᾽ εἰπεῖν, ἐχομένῳ ὅτι ἐγγύτατα τῆς ξυμπάσης γνώμης τῶν ἀληθῶς λεχθέντων, οὕτως εἴρηται. ( ) τὰ δ᾽ ἔργα τῶν πραχθέντων ἐν τῷ πολέμῳ οὐκ ἐκ τοῦ παρατυχόντος πυνθανόμενος ἠξίωσα γράφειν, οὐδ᾽ ὡς ἐμοὶ ἐδόκει, ἀλλ᾽ οἷς τε αὐτὸς παρῆν καὶ παρὰ τῶν ἄλλων ὅσον δυνατὸν ἀκριβείᾳ περὶ ἑκάστου ἐπεξελθών. ( ) ἐπιπόνως δὲ ηὑρίσκετο, διότι οἱ παρόντες τοῖς ἔργοις ἑκάστοις οὐ ταὐτὰ περὶ τῶν αὐτῶν ἔλεγον, ἀλλ᾽ ὡς ἑκατέρων τις εὐνοίας ἢ μνήμης ἔχοι. ( ) καὶ ἐς μὲν ἀκρόασιν ἴσως τὸ μὴ μυθῶδες αὐτῶν ἀτερπέστερον φανεῖται· ὅσοι δὲ βουλήσονται τῶν τε γενομένων τὸ σαφὲς σκοπεῖν καὶ τῶν μελλόντων ποτὲ αὖθις κατὰ τὸ ἀνθρώπινον τοιούτων καὶ παραπλησίων ἔσεσθαι, ὠφέλιμα κρίνειν αὐτὰ ἀρκούντως ἕξει. κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀκούειν ξύγκειται. Tucidide d’Atene ha narrato la guerra tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi, su come combatterono fra loro, avendo cominciato subito, sin dal suo inizio, e avendo previsto che sarebbe stata grave e la più degna di memoria tra le precedenti. Lo deduceva dal fatto che i due popoli vi si apprestavano all’epoca della loro massima potenza e con una preparazione completa, e che il resto delle genti greche si schierava o con gli uni o con gli altri, alcuni subito, altri meditando di farlo. ( ) Questo evento costituì un grandissimo sconvolgimento per la Grecia e per una parte dei barbari, e in un certo senso anche per la maggior parte degli uomini. ( ) Infatti gli avvenimenti che precedettero il conflitto e quelli ancor più remoti era impossibile studiarli in modo attendibile, per la grande distanza cronologica: ma sulla base degli indizi cui io – che li ho osservati per molto tempo – sento di poter prestare fede, ritengo che non siano stati considerevoli né sotto il profilo militare né per altri aspetti. Per quanto riguarda i discorsi pronunciati da ciascun oratore, quando la guerra era imminente o già infuriava, sarebbe stato impossibile riprodurne i contenuti a memoria, con precisione e completezza, sia di quelli che avevo personalmente udito, sia di quelli che mi erano stati riferiti da diverse fonti. Nel riscrivere i discorsi ho seguito questo metodo: riprodurre il linguaggio con cui, a mio parere, i singoli personaggi avrebbero potuto formulare i provvedimenti da loro ritenuti di volta in volta più opportuni. Ho usato il massimo scrupolo nel mantenermi il più possibile aderente al senso complessivo dei discorsi effettivamente declamati. ( ) Ho ritenuto mio dovere descrivere le azioni compiute in questa guerra non sulla base di informazioni ricevute dal primo che incontrassi per strada, né come pareva a me, con un’approssimazione arbitraria, ma analizzando con infinita cura e precisione –nei confini del possibile – ogni dettaglio dei fatti cui avevo assistito di persona o che altri mi avevano riferito. ( ) È stata un’impresa faticosa: poiché le memorie di quanti prendono parte a I . ἐκ δὲ τῶν εἰρημένων τεκμηρίων ὅμως τοιαῦτα ἄν τις νομίζων μάλιστα ἃ διῆλθον οὐχ ἁμαρτάνοι, καὶ οὔτε ὡς ποιηταὶ ὑμνήκασι περὶ αὐτῶν ἐπὶ τὸ μεῖζον κοσμοῦντες μᾶλλον πιστεύων, οὔτε ὡς λογογράφοι ξυνέθεσαν ἐπὶ τὸ προσαγωγότερον τῇ ἀκροάσει ἢ ἀληθέστερον, ὄντα ἀνεξέλεγκτα καὶ τὰ πολλὰ ὑπὸ χρόνου αὐτῶν ἀπίστως ἐπὶ τὸ μυθῶδες ἐκνενικηκότα, ηὑρῆσθαι δὲ ἡγησάμενος ἐκ τῶν ἐπιφανεστάτων σημείων ὡς παλαιὰ εἶναι ἀποχρώντως. καὶ ( ) ὁ πόλεμος οὗτος, καίπερ τῶν ἀνθρώπων ἐν ᾧ μὲν ἂν πολεμῶσι τὸν παρόντα αἰεὶ μέγιστον κρινόντων, παυσαμένων δὲ τὰ ἀρχαῖα μᾶλλον θαυμαζόντων, ἀπ᾽ αὐτῶν τῶν ἔργων σκοποῦσι δηλώσει ὅμως μείζων γεγενημένος αὐτῶν. Sulla base degli indizi suddetti non sbaglierebbe chi ritenesse che gli eventi da me rievocati siano stati più o meno come li ho esposti, e non come li hanno cantati i poeti, che li hanno abbelliti ingigantendoli; né di come li narra- 1 una medesima azione non coincidono mai sulle stesse circostanze e sui medesimi particolari (...). ( ) Il tono severo della mia storia, mai indulgente al fiabesco, suonerà forse scabro all’orecchio; ma basterà che giudichino utile la mia opera quanti voglio scrutare e penetrare la verità delle vicende passate e quelle che nel futuro, per le leggi immanenti al mondo umano, accadranno in modo simile, o persino identico. La mia storia è un acquisto per sempre, non essendo stata composta per le lodi immediate e subito spente tipiche dall’ascolto pubblico. Anche questi avvenimenti li ha narrati Tucidide d’Atene, seguendo l’ordine del loro svolgimento, uno dopo l’altro, per estati e inverni, finché gli Spartani e i loro alleati umiliarono la potenza ateniese, conquistando sia le lunghe mura sia il Pireo. Ventisette anni di guerra erano trascorsi fino a questo evento. (...) ( ) Questa guerra l’ho vissuta per intero, stagione dopo stagione, nel pieno della maturità per indagarla e intenderla criticamente, studiandone ogni fase con riflessiva attenzione, con rigore assoluto di documentazione e di scienza. A seguito della strategia che esercitai ad Anfipoli mi furono inflitti vent’anni d’esilio dalla mia patria: mi fu così dato di frequentare ambedue i terreni d’operazione e di essere vicino, a causa della mia condizione di esule, soprattutto al campo dei Peloponnesiaci, e di documentarmi con scrupolo minuzioso su ogni piega e ogni sfumatura dei singoli episodi. ( ) Mi accingo ora a riferire i motivi di dissidio e le violazioni dell’accordo nell’intermezzo successivo ai dieci anni iniziali di guerra, e le azioni belliche che ne trassero origine. I . τῶν δὲ πρότερον ἔργων μέγιστον ἐπράχθη τὸ Μηδικόν, καὶ τοῦτο ὅμως δυοῖν ναυμαχίαιν καὶ πεζομαχίαιν ταχεῖαν τὴν κρίσιν ἔσχεν. τούτου δὲ τοῦ πολέμου μῆκός τε μέγα προύβη, παθήματά τε ξυνηνέχθη γενέσθαι ἐν αὐτῷ τῇ Ἑλλάδι οἷα οὐχ ἕτερα ἐν ἴσῳ χρόνῳ. (...) ( ) ἤρξαντο δὲ αὐτοῦ Ἀθηναῖοι καὶ Πελοποννήσιοι λύσαντες τὰς τριακον‐ τούτεις σπονδὰς αἳ αὐτοῖς ἐγένοντο μετὰ Εὐβοίας ἅλωσιν. ( ) διότι δ᾽ ἔλυσαν, τὰς αἰτίας προύγραψα πρῶτον καὶ τὰς διαφοράς, τοῦ μή τινα ζητῆσαί ποτε ἐξ ὅτου τοσοῦτος πόλεμος τοῖς Ἕλλησι κατέστη. ( ) τὴν μὲν γὰρ ἀληθεστάτην πρόφασιν, ἀφανεστάτην δὲ λόγῳ, τοὺς Ἀθηναίους ἡγοῦμαι μεγάλους γιγνομένους καὶ φόβον παρέχοντας τοῖς Λακεδαιμονίοις ἀναγκάσαι ἐς τὸ πολεμεῖν· αἱ δ᾽ ἐς τὸ φανε‐ ρὸν λεγόμεναι αἰτίαι αἵδ᾽ ἦσαν ἑκατέρων, ἀφ᾽ ὧν λύσαντες τὰς σπονδὰς ἐς τὸν πόλεμον κατέστησαν. . L’elogio pericleo della democrazia ateniese II - . Nel medesimo inverno gli Ateniesi, seguendo l’uso dei padri, celebrarono a spese pubbliche le esequie dei primi caduti in questa guerra, nel modo che segue. (...) Per questi primi caduti, dunque, fu invitato a parlare Pericle figlio di Santippo. E quando arrivò il momento, dopo essere salito su un palco molto alto, per poter essere udito dalla maggior parte della gente, disse queste parole. . «La maggior parte di quanti hanno qui parlato loda chi alla tradizione ha aggiunto quest’elogio funebre, ritenendo bello che esso venga pronunciato per i caduti in guerra. A me invece sembrava sufficiente che per uomini che si sono rivelati prodi alla prova dei fatti anche le lodi funebri fossero illustrate nei fatti, e che il credere alle virtù di molti non dipendesse da un uomo solo, che può parlare bene o meno bene. (...) . Comincerò innanzitutto dai nostri progenitori: è giusto infatti, ed insieme opportuno, che in questa solennità sia loro accordato questo onore della memoria. Essi infatti, che abitarono questa terra senza interruzione, col proprio valore, generazione dopo generazione, l’hanno conservata libera sino ad oggi. Essi son degni di lode, ed ancor più i nostri padri: venuti in possesso di quella parte di dominio che possediamo, oltre a quanto avevano ereditato, ce l’hanno lasciata in eredità non senza fatica. Ma la maggior parte del nostro impero siamo proprio noi, e principalmente quelli di età matura, ad averla accresciuta e ad aver con ogni mezzo reso la città totalmente autosufficiente in vista tanto della guerra che della pace. (...) . Da noi vige una costituzione che non si ispira alle leggi dei popoli vicini, e invece di imitare gli altri siamo noi ad essere di modello per loro; e poiché essa è destinata non a pochi, ma ai più, viene chiamata democrazia. Per quel che riguarda le leggi, nella sfera individuale tutti si trovano in posizione uguale, mentre per quanto ri- Delle imprese precedenti la più importante fu la guerra persiana: eppure si risolse rapidamente con due soli scontri navali e di fanteria. Questa guerra si è invece trascinata a lungo, generando in Grecia dolori e patimenti quali mai s’erano avuti in tale spazio di tempo. (...) ( ) La fecero scoppiare gli Ateniesi e i Peloponnesiaci, avendo rotto i patti trentennali stipulati dopo l’occupazione dell’Eubea. ( ) Per quanto riguarda il motivo per cui li abrogarono, ho esposto le cause e gli attriti perché nessuno in futuro debba più studiare le origini di questa guerra. ( ) Infatti la motivazione più autentica – ma che meno traspariva dai discorsi ufficiali – ritengo fosse che gli Ateniesi stavano diventando così forti da spaventare i Lacedemoni e spingerli alla guerra; invece le ragioni addotte nelle rispettive dichiarazioni rilasciate dai belligeranti erano le seguenti. V . γέγραφε δὲ καὶ ταῦτα ὁ αὐτὸς Θουκυδίδης Ἀθηναῖος ἑξῆς, ὡς ἕκαστα ἐγένετο, κατὰ θέρη καὶ χειμῶνας, μέχρι οὗ τήν τε ἀρχὴν κατέπαυσαν τῶν Ἀθηναίων Λακεδαιμόνιοι καὶ οἱ ξύμμαχοι, καὶ τὰ μακρὰ τείχη καὶ τὸν Πειραιᾶ κατέλαβον. ἔτη δὲ ἐς τοῦτο τὰ ξύμπαντα ἐγένετο τῷ πολέμῳ ἑπτὰ καὶ εἴκοσι. (...) ( ) ἐπεβίων δὲ διὰ παντὸς αὐτοῦ αἰσθανόμενός τε τῇ ἡλικίᾳ καὶ προσέχων τὴν γνώμην, ὅπως ἀκριβές τι εἴσομαι· καὶ ξυνέβη μοι φεύγειν τὴν ἐμαυτοῦ ἔτη εἴκοσι μετὰ τὴν ἐς Ἀμφίπολιν στρατηγίαν, καὶ γενομένῳ παρ᾽ ἀμφο‐ τέροις τοῖς πράγμασι, καὶ οὐχ ἧσσον τοῖς Πελοποννησίων διὰ τὴν φυγήν, καθ᾽ ἡσυχίαν τι αὐτῶν μᾶλλον αἰσθέσθαι. ( ) τὴν οὖν μετὰ τὰ δέκα ἔτη διαφοράν τε καὶ ξύγχυσιν τῶν σπονδῶν καὶ τὰ ἔπειτα ὡς ἐπολεμήθη ἐξηγήσομαι. 2 . Il dialogo tra Meli e Ateniesi guarda l’influenza nella vita pubblica, ciascuno viene apprezzato se si segnala in qualche campo, non per la sua estrazione sociale ma per il suo valore; né, per quel che riguarda la povertà, chi ha la capacità di fare qualcosa di buono per la città ne è ostacolato dall’oscurità della propria origine. (...) . E per la mente abbiamo predisposto moltissime occasioni di svago dalle fatiche, giacché ricorriamo a giochi e a sacrifici distribuiti in tutto il corso dell’anno, nonché ad eleganti arredi domestici, il cui diletto giorno dopo giorno scaccia il dolore. A causa della grandezza della città da tutta la terra vi affluisce ogni cosa (...). . Nelle questioni belliche differiamo dai nemici nei seguenti particolari. Mettiamo la città a disposizione di tutti, e non siamo soliti proibire a qualcuno, con provvedimenti di espulsione degli stranieri, di apprendere o osservare qualcosa che, se non celata, potrebbe essere di vantaggio ad uno dei nemici, qualora la notasse. Infatti non riponiamo fiducia nelle opere di difesa e nelle manovre elusive più che nel senso di corresponsabilità di ciascuno di noi nell’azione. E nell’educazione gli altri cercano di formare fin dalla fanciullezza un animo virile con faticosi esercizi; noi invece, pur vivendo senza regole, nondimeno affrontiamo pericoli equivalenti. (...) Eppure se affrontiamo il pericolo con spensieratezza più che con duri addestramenti, e con un ardore che non scaturisce dalle leggi più che dai nostri costumi, ne ricaviamo il privilegio di non soffrire anticipatamente per i patimenti futuri e di non sembrare più privi di coraggio di quanti sono sempre in agitazione (...). . Amiamo il bello con semplicità e ricerchiamo la sapienza senza mollezza; usiamo il denaro più quando si presenta l’occasione di farne uso che per vantarcene a parole, e l’esser poveri non è considerato da nessuno disonorevole, mentre riteniamo piuttosto un’onta il non sottrarsene con il lavoro. Noi ci occupiamo contemporaneamente degli affari privati e di quelli pubblici, e chi è dedito al lavoro è anche al corrente in modo non superficiale delle questioni politiche: siamo infatti i soli a giudicare chi se ne disinteressi non pigro, ma inutile. (...) Anche in ciò che riguarda la nobiltà d’animo differiamo dagli altri: ci procuriamo gli amici non per riceverne un beneficio, ma con il compierlo. Chi lo compie si rivela un amico più saldo, in modo tale da conservarsi la stima del beneficato mediante il proprio sentimento di benevolenza; chi invece deve restituirlo è più freddo, sapendo che è tenuto a ricambiare quel gesto di nobiltà non per riconoscenza, ma in forza di un obbligo morale. (...) . In conclusione, io dico che l’intera città è di ammaestramento per la Grecia, e mi sembra che da noi ciascun uomo possa con facilità dedicarsi, autonomamente e con eleganza, a moltissimi campi di attività. (...) Per una tale città, dunque, costoro sono caduti combattendo con magnanimità, perché ritenevano giusto non esserne privati; ed è ragionevole credere che ciascuno di noi, che ancora siamo in vita, desideri sacrificarsi per lei». V . Nell’estate successiva Alcibiade con una squadra di venti navi fece un’incursione ad Argo, catturando i sospetti di nutrire simpatie politiche per gli Spartani: i trecento detenuti furono confinati nelle isole vicine, suddite di Atene. Quindi gli Ateniesi si rivolsero contro gli isolani di Melo con trenta navi della propria flotta, sei di Chio, due di Lesbo, milleduecento opliti, trecento arcieri e duecento arcieri a cavallo; gli alleati e gli abitanti delle isole contribuirono con circa millecinquecento opliti. Melo è una colonia degli Spartani per nulla disposta ad inchinarsi alla grandezza di Atene come gli altri isolani. Nelle fasi iniziali del conflitto i Meli si mantennero in sapiente equilibrio tra gli stati in lotta: ma in seguito, incalzati dagli Ateniesi che ne devastavano il territorio, ruppero la propria neutralità e fu guerra aperta. Dunque, piantato il campo sul suolo di Melo con gli effettivi militari di cui s’è dato cenno, gli strateghi Cleomede figlio di Licomede e Tisia figlio di Tisimaco, prima di infliggere danni al paese, mandarono ai Meli un’ambasceria con l’intento di intavolare dei colloqui preliminari. I Meli non introdussero i delegati al cospetto del popolo, ma li invitarono ad esprimere le ragioni della loro visita alla presenza delle principali autorità e dei notabili. E gli ambasciatori ateniesi esposero questi punti: . «Poiché questo colloquio tra noi deve restare segreto alle orecchie del popolo (...) rinunciate a discorsi complessi e lunghi; esaminate ogni singola nostra ragione e giudicatela contrapponendovi le eccezioni che vi parranno opportune. E per cominciare dite se questa proposta vi conviene.» . (...) Dal canto nostro, rinunceremo all’armamentario fastoso dell’eloquenza, alla retorica interminabile di quei discorsi celebrativi che non portano alcun frutto. Perciò non ribadiremo che per avere demolito la prepotenza persiana ci spetta il diritto l’impero o che la nostra attuale campagna è la risposta a un attentato inferto al nostro onore. Ma pretendiamo che neppure voi tentiate di piegarci giustificando il vostro rifiuto di fornire leve all’armata con la circostanza che siete coloni di Sparta o affermando che nei nostri riguardi siete innocenti e puri. Sforziamoci di restringere le ipotesi di compromesso nei confini del realizzabile, attingendole ciascuno ai veri principi cui di solito ispira la propria condotta. Siete consapevoli quanto noi che nel linguaggio umano i concetti della giustizia affiorano e assumono corpo quando la bilancia della necessità resta sospesa in equilibrio tra due forze uguali. In caso contrario i più potenti agiscono, i deboli si piegano.» . Meli: «È nostro avviso, almeno per quanto concerne il nostro interesse – ormai è questa l’espressione da usare, poiché voi avete subito accordato il dibattito al tono dell’utile, ignorando quello della giustizia – che non vi convenga ridicolizzare le riflessioni che concernono il vantaggio comune e che sia ragionevole concedere a chiunque i diritti che gli spettano, se non altro in quanto 3 paese è debole, e alla bilancia della sorte basterà oscillare di poco per cancellarvi: evitatelo. (...)» . Meli: «(...) Melo è una colonia di Sparta. Sarà il suo interesse politico a distoglierla dall’idea di tradirci, per non apparire infida a quanti tra i Greci favoreggiano la sua causa, e far così un dono prezioso ai nemici.» . Ateniesi: «Ne siete certi? Allora ignorate che in politica l’utile va d’accordo con la sicurezza dello stato, mentre a praticare il giusto e l’onesto ci si espone a pesanti rischi. Non sono da Spartani queste prodezze: non è la loro natura.» . Meli: «Però noi pensiamo che verso di noi Sparta sarà più portata a imboccare questa strada rischiosa, valutando i suoi passi in questo scacchiere meno pericolosi che in altri. Come teatro d’operazione siamo vicini al Peloponneso, e per concezioni politiche la comunanza di stirpe ci rende più degni di fiducia degli estranei.» . Ateniesi: «Quand’anche quest’ipotesi s’avverasse, non ci coglierebbe alla sprovvista (...). I vostri temi ricorrenti e più solidi sono speranze, fantasie campate nel futuro: e le concrete difese con cui vi proponete di sbarrare il passo alla macchina bellica che già preme alle vostre porte sono troppo fragili per garantirvi scampo. Se dopo averci congedati non stillerete dalle vostre menti qualche decisione più avveduta vi renderete colpevoli di una più sinistra follia. Non vi appellerete, speriamo, al sentimento dell’onore, che è la prima causa di rovina tra gli stati (...). Già più d’uno, con gli occhi ben aperti sul destino cui andava incontro, fu fatalmente trascinato dall’istinto noto tra gli uomini col nome di onore. (...)» . A questo punto gli Ateniesi troncarono il negoziato e si ritirarono. I Meli rimasero da soli, e ostinati in quei medesimi principi che avevano espresso in sede di dibattito emisero il seguente comunicato: «La nostra decisione non è mutata, cittadini d’Atene: non priveremo della libertà una città ormai in vita da ottocento anni. Confidando nella fortuna che sotto il governo degli dei l’ha salvaguardata per tanti secoli, tenteremo di salvare la città con le nostre forze e aspettando l’aiuto spartano. Ci offriamo neutrali alla vostra amicizia e vi proponiamo di allontanarvi dal nostro suolo dopo aver sancito quei patti che ad ambedue promettano e garantiscano un profitto.» . Fu questo il responso dei Meli. Gli Ateniesi, sospendendo definitivamente i negoziati, replicarono: «A giudicare da questa risposta, frutto di una risoluzione meditata, si potrebbe dire che tra gli uomini voi siete gli unici a valutare il bene del futuro più solido di quello del presente. Per il desiderio che vibra in voi scorgete una realtà concreta laddove è l’invisibile. E per esservi dati anima e corpo agli Spartani, alla sorte, e alle speranze, con la più incondizionata fiducia, finirete nel più sanguinoso disastro». creatura umana (...). Questa considerazione vi tocca da vicino più di chiunque altro, perché nell’eventualità di una disfatta diverreste un esempio eterno nella memoria dei popoli, per l’atrocità sanguinosa della vostra pena.» . Ateniesi: «Non ci mette paura la possibile decadenza della nostra signoria, se mai tramonterà. Non è chi domina su altre genti – come ad esempio Sparta – la sorgente più viva di terrore per i vinti: e noi, tra l’altro, non siamo in conflitto con Sparta. Piuttosto, i popoli soggetti devono incutere terrore quando rovesciano il potere di chi li tiene a freno. Ma vedercela con questo rischio è affar nostro. Per ora siamo qui a ribadire due circostanze: primo, che il nostro intervento si ripromette un utile per il nostro dominio; secondo, che con le offerte sul tappeto proveremo la nostra volontà politica di salvaguardare la sicurezza del vostro stato. Intendiamo darvi un governo libero da ansie e da rischi, e impiegare integre le vostre forze per un comune profitto.» . Meli: «E come potrebbero collimare i nostri interessi, se noi fossimo resi schiavi e voi ci dominaste?» . Ateniesi: «Voi avreste la fortuna di vivere da sudditi, invece di soffrire il castigo più crudele; e per noi sarebbe un guadagno non avervi annientati.» . Meli: «Non sareste paghi della nostra neutralità, se invece di incrociare le armi restassimo amici?» . Ateniesi: «No: per noi la vostra amicizia è una minaccia più pericolosa del vostro odio aperto: la prima offrirebbe agli altri sudditi un esempio di debolezza da parte nostra, mentre il rancore ricorderebbe loro perennemente la nostra potenza». (...) . Meli: «E non vedete che per voi la sicurezza sta in quell’altra politica? (...) Tutti gli stati che attualmente non partecipano a nessuna lega, credete che non prepareranno le armi, quando, riflettendo sul nostro destino, temeranno di ora in ora che vibriate loro il primo assalto? E non accrescerete con le vostre mani le potenze che già vi sfidano, spronando a giurarvi odio chi ancora se ne vive in disparte?» . Ateniesi: «Non ci pare che la minaccia di costoro incomba tanto grave. È gente di terra, sparsa per il continente: vivono liberi, e passerà molto tempo prima che avvertano seriamente l’obbligo di mettersi in guardia contro di noi! Gli isolani, invece, ci fanno tremare: non solo quelli che come voi, chi su un’isola chi su un’altra, non soffrono nessun giogo, ma anche quelli che, esacerbati, già mordono il freno del nostro impero. Infatti costoro, in uno scatto folle e senza speranza, potrebbero coinvolgerci in una caduta verso ben prevedibili abissi.» (...) . Meli: «Eppure è noto che talvolta le sorti della guerra si orientano verso equilibri che le rispettive potenze in campo non lascerebbero mai supporre: sicché per noi chinare subito il capo significa precluderci ogni speranza, mentre agendo si può forse nutrirla ancora, questa speranza di risorgere.» . Ateniesi: «La speranza è un incanto che illude ad osare: (...) chi getta nell’avventura tutto ciò che ha, dopo la disfatta impara a riconoscerne il volto (...). Il vostro . Il dibattito sulla spedizione in Sicilia VI - . (...) Tra gli Ateniesi saliti al palco i più esortavano alla guerra, vietando di riesaminare la questione: le voci 4 discordanti erano poche. In favore del progetto di spedizione si spendeva con lo slancio più intenso Alcibiade figlio di Clinia, sia per il desiderio di sopraffare Nicia, cui in materia di politica l’opponevano non poche altre divergenze, sia soprattutto per quell’allusione polemica dell’avversario nei suoi confronti. Ma ardevano in lui, implacabili, la passione del comando e la speranza di ridurre la Sicilia e Cartagine in suo potere. Tra i cittadini godeva di un larghissimo seguito, ma la sua passione per l’allevamento dei cavalli e per altre costose estrosità lo travolgeva spesso oltre i limiti delle disponibilità familiari: un particolare che col correre degli anni fu origine – e non la meno importante – della disfatta ateniese. (...) Dunque in quella circostanza Alcibiade si fece largo sul palco, e rivolto agli Ateniesi così prese a parlare: . «O Ateniesi, il comando spetta a me più che a chiunque altro (...), e ho la chiara coscienza d’esserne degno. (...) Abbagliai i Greci del mio splendore nella sacra cornice d’Olimpia; e quel giorno, di fronte alla schiera dei miei sette carri (...), quando oltre al trionfo del primo conquistai anche il secondo e il quarto premio, coronando ogni altro momento della cerimonia con un fulgore degno della vittoria, si diffuse nel pubblico l’immagine magnifica di un’Atene superba; mentre cadde dai cuori quella ormai consueta di una città in ginocchio per i sacrifici del suo lungo duello. (...) Lo sfarzo con cui mi rendo illustre in Atene mi attira, com’è naturale, le gelosie dei miei propri cittadini, ma tra gli stranieri anche da esso spira un senso di grandezza. Dunque non è sterile questa follia, quando uno splende del proprio per creare un profitto non solo a sé, ma allo stato. Neppure è in torto chi concependo un alto sentimento di sé rifiuta di porsi alla pari con gli altri, giacché chi è vittima della sventura incontra forse chi lo alleggerisca d’una parte del suo peso? È pur vero che quando la fortuna ci volge le spalle nessuno si degna più di rivolgerci la parola: un buon motivo perché si stia contenti, se chi è sull’onda di un fausto successo ci riserva un contegno orgoglioso. Io so che gli uomini nobili, e chi in qualche campo ha raggiunto una vetta notevole, riescono in vita anzitutto molesti ai propri contemporanei, e il fastidio tocca prima quelli della stessa cerchia, poi si diffonde con l’ampliarsi dei contatti personali e delle relazioni; ma tra i posteri essi lasciano l’eredità della propria figura, e in alcuni perfino l’esigenza di rivendicare con loro legami di parentela spesso inesistenti. Intanto la terra che ha dato loro i natali ne trae gloria, fiera e commossa nel ricordarli come propri figli e artefici di nobili gesta, né certo pensa a sconfessarli per le loro presunte colpe. A tanto io aspiro! E se per tali motivi la mia vita personale è bersaglio di polemiche continue, vedete se in fatto di politica non so destreggiarmi meglio di chiunque altro. Ho spinto le città più poderose nel Peloponneso, senza sperperi di mezzi e con minimi rischi, a far lega con voi e ho condotto Sparta a gettar tutta se stessa allo sbaraglio nella sola giornata di Mantinea: se la cavò sul campo, ma da allora la sua fierezza non si erge più tanto impavida. . «Fu questa mia giovinezza a indovinare il tono giusto per riaprire il dialogo con gli stati del Peloponneso (...). Non abbiatene timore, ma mentre questa mia giovinezza mi solleva al culmine dell’energia e Nicia pare sospinto dalla fortuna, cogliete il frutto che l’impegno dell’uno e dell’altro sapranno offrirvi; non mutate avviso sulla spedizione in Sicilia, quasi fosse un urto contro una potenza troppo grande. In quelle città s’affollano genti di razza mista, ed è frequente in loro il traffico di cittadini in partenza o di nuovi abitanti in arrivo. A causa di tali cambiamenti continui s’estingue l’amor di patria: e quindi i privati non si armano a difesa di una patria che non sentono cara, né lo stato, nel suo complesso, dispone di installazioni difensive ben ordinate. Se non trovano fortuna in patria, essi si sforzano di incassare a spese della comunità l’occorrente per emigrare da tutt’altra parte. Si può pensare che un gregge di questa specie sappia concentrarsi e seguire la traccia indicata da chi li dirige? O si volga all’azione con unità di intenti? Basterà intonare un discorso a loro gradito, e subito uno dopo l’altro saranno attratti dalla nostra causa, soprattutto se – come ben sappiamo – sono in lotta tra loro. Tra l’altro non possiedono tanti opliti quanti pretendono. (...) Ecco dunque le condizioni della Sicilia quali le riferiscono le mie fonti: e non tarderanno a farsi più vantaggiose per noi, giacché potremo contare su una folla di barbari, i quali, spinti dall’odio contro Siracusa combatterà sotto i nostri vessilli. Se sceglierete la politica adatta, dalla Grecia non nasceranno intralci. I nostri padri avevano contro quegli stessi nemici che ora ci lasciamo alle spalle salpando, e in più li premeva la minaccia persiana: eppure fondarono l’impero, amministrando saldamente un solo vantaggio, la supremazia della marina. Mai come in questi momenti è tanto scarsa nel Peloponneso la speranza di trionfare su di noi. Supponiamo che abbiano un improvviso rigoglio d’energia bellica: sarebbero senza dubbio in grado d’invaderci, anche se lasciassimo cadere il progetto della spedizione oltremare, ma comunque la loro flotta non ci infliggerebbe perdite, perché a coprire Atene lasceremmo una parte della nostra marina di forza pari a quella di cui essi dispongono. (...) . Suonò così in sostanza il discorso di Alcibiade. Ad ascoltare le sue parole, quelle dei Segestani e quelle dei fuoriusciti di Leontini che sulla tribuna chiedevano e imploravano l’aiuto ateniese, l’assemblea arse più che mai dal desiderio di compiere la spedizione. A quel punto Nicia, sentendo che se ricorreva ai consueti argomenti non li avrebbe più dissuasi, e che forse calcando la mano sulla larghezza dei preparativi necessari e insistendo con richieste gravose avrebbe ottenuto lo scopo d’indurli a ragionare diversamente, si presentò per la seconda volta e prese la parola esprimendo questi motivi: . «Poiché, Ateniesi, è ormai la vostra volontà converge su questa campagna, ebbene ch’essa appaghi infine i nostri voti. Ma mi pare che giunga a proposito l’occasione di esporvi chiaramente la mia idea. In base a delle voci che mi sono state riferite, mi sembra che il nostro sforzo dovrà scontrarsi con città grandi, indipendenti l’una 5 numero che non tutte le città avranno spazio per accoglierlo. Quanto al resto, tutti i preparativi dovranno riuscire il più possibile perfetti, per garantirci una totale autonomia. Dobbiamo partire con riserve monetarie di tutto rispetto: i Segestani affermano di avere a disposizione molto denaro, ma se credete a me laggiù potete aspettarvi di trovare ben poca sostanza oltre alle loro chiacchiere. . «(...) Alla città qui raccolta ho espresso i miei piani, i più sicuri a garantire che lo stato resti incolume e noi, che dovremo dirigere l’impresa sui campi di battaglia, si sia salvi e vittoriosi. Se altri sono in disaccordo, offro loro il mio comando.» . Nicia tacque, ritenendo che l’esposizione di richieste così tremende avrebbe distolto gli Ateniesi, o almeno – nel caso che la spedizione fosse ormai inevitabile – si sarebbe garantito un margine ampio di sicurezza con questi mezzi. Ma l’impegno faticoso dell’armamento suscitò in Atene ben altro che la rinuncia a quella campagna desiderata: anzi era tutto un accendersi d’entusiasmi, di ora in ora. Sicché Nicia ottenne un effetto opposto: si commentava che i suoi erano consigli d’oro, e da quel momento non c’era proprio più nulla da star preoccupati (...). . Da ultimo si fece avanti un Ateniese il quale, interpellando personalmente Nicia, protestò che non era più l’ora di trastullarsi con pretesti e ritardi: svelasse al popolo a viso aperto l’entità delle forniture belliche da lui fissata per sottoporla all’approvazione dell’assemblea. Di malumore Nicia replicò che intendeva ragionarne con calma con i colleghi del comando; ad ogni modo – sebbene fosse un preventivo del tutto personale – esprimeva che per avviare la spedizione sarebbe stata necessaria la cifra di almeno cento triremi (...). Gli organici della fanteria pesante non dovevano essere inferiori a cinquemila opliti tra Ateniesi e alleati, ma se si fosse potuto disporre di una quantità maggiore sarebbe stato meglio. I reparti delle diverse armi, arcieri ateniesi e di Creta, frombolieri, e le altre forze che si stimasse conveniente adunare per l’imbarco, dovevano essere numericamente proporzionati al resto degli effettivi. . Attenti a questi calcoli, gli Ateniesi decretarono all’istante che gli strateghi disponessero di pieni poteri per determinare il numero preciso degli armati e regolare ogni altro particolare della spedizione con vantaggio dello stato e sulla base della propria competenza. Conclusi i preliminari si passò ai preparativi concreti: si diramò alla lega l’all’erta e si procedette alla mobilitazione cittadina. Atene s’era appena risollevata dalla malattia e dalla guerra ininterrotta, mentre la tregua consentiva l’avvento sempre più copioso all’età di leva di classi giovani e all’economia statale d’irrobustirsi: sicché si provvedeva con larghezza a ogni preparativo. E ferveva in tutti la volontà di prodigarsi. . A quel punto le erme marmoree erette in città dagli Ateniesi – sono molti, secondo la tradizione locale, questi blocchi quadrangolari, nei vestiboli delle abitazioni o nei recinti sacri – ebbero in maggioranza il volto mutilato in una stessa notte. Sui responsabili restava il mistero, dall’altra e quindi non disposte a scosse politiche (...). Com’è naturale, non si adatteranno con entusiasmo a veder soppiantata la propria libertà dal nostro impero, e il numero di quei centri è elevato, considerando che sono compresi in un’unica isola; inoltre sono Greci. Togliamo Nasso e Catania, che mi auguro passeranno da noi per l’affinità con Lentini: ne restano altre sette dotate di mezzi militari di efficacia pari e di tipo analogo a quelli che costituiscono il nostro potenziale bellico, e tra le altre le più potenti sono quelle scelte come diretto bersaglio della nostra offensiva: cioè Selinunte e Siracusa. Dispongono di numerose divisioni oplitiche, di ranghi completi di arcieri e lanciatori di giavellotto, di una potente flotta di triremi, di un’infinità di gente pronta ad armarle. Hanno consistenti depositi finanziari privati, cui s’aggiungono le riserve auree dei santuari, specialmente a Selinunte. A Siracusa inoltre affluiscono i tributi delle popolazioni barbare in suo potere. Sul piano strategico vantano su di noi questa supremazia significativa: un gruppo potente di cavalieri. Poi possono contare su raccolti propri di grano, senza doverlo importare. . «Contro una macchina militare di tal mole la solita squadra navale, con il suo contingente limitato di sbarco, è inoffensiva. Occorre imbarcare un’armata ingente, se intendiamo realizzare un successo pratico degno del piano ambizioso e sperare che una cavalleria agguerrita non ci spazzi via in un lampo dalla spiaggia dopo lo sbarco: soprattutto se l’allarme collegherà i vari centri e se la solidarietà di altre potenze – che non sia esclusivamente quella di Segesta – non ci provvederà a nostra volta di cavalleria sufficiente al contrattacco. Verrà messo in gioco il nostro onore, se dopo essere stati sommersi dall’avversario dovremo ritirarci e procedere a ulteriori invii di truppe per non aver decretato, con colpevole imprevidenza, le misure proporzionate allo sforzo. È indispensabile che già alla partenza gli effettivi siano completi e in ordine, sapendo che un tratto immenso d’acqua ci dividerà dalle nostre basi in patria e la campagna avrà caratteristiche troppo diverse da quando siete scesi in campo al fianco di qualche stato tributario in teatri di guerra vicini: allora i rifornimenti giungevano comodi da una terra amica, mentre in questa circostanza rimarrete isolati in regioni straniere, da cui nei quattro mesi d’inverno sarà assai arduo che riesca il passaggio anche di un solo corriere. . «Perciò a mio giudizio il corpo di opliti da far passare in Sicilia deve risultare molto nutrito, sia mobilitando i nostri uomini sia quelli degli alleati e dei sudditi, provvedendo a trarre rinforzi anche dal Peloponneso. Ci servono arcieri in gran numero e frombolieri per contrastare la cavalleria nemica. Sul mare ci occorre subito una superiorità indiscussa, per sveltire i collegamenti: ciò non ci esimerà tuttavia dal trasportare anche dall’Attica riserve abbondanti di viveri. Impiegheremo navi da carico: ci vorrà grano, orzo tostato e un certo numero di panettieri al seguito, requisiti in proporzione dai diversi mulini; torneranno utili se resteremo bloccati dal tempo cattivo e se l’esercito avrà necessità di viveri, poiché sarà tale il suo 6 ma si dava loro la caccia con ricche taglie a spese dello stato. Non bastò; si decise dunque che chiunque dei cittadini e degli stranieri – e persino dei servi – volesse, avrebbe potuto denunciare senza timore qualunque diverso atto sacrilego gli fosse noto. L’opinione pubblica ne fu seriamente scossa: vi si riconosceva un segno infausto per la partenza, collegato forse a torbide trame per sovvertire lo stato e la democrazia. . Infine, per opera di alcuni meteci e servi, approda all’autorità una denuncia, che pur non avendo nulla da spartire con lo scandalo delle Erme, riguarda certe altre statue sfregiate tempo prima da un gruppetto di giovani ubriachi e in vena di stranezze: in certi ambienti inoltre ci si divertiva a scimmiottare i misteri. Le accuse non risparmiavano Alcibiade, e furono pronti a raccoglierle quelli cui la personalità di Alcibiade incuteva il più geloso fastidio, intralciando la scalata alle cariche più alte del governo democratico. Costoro, sperando di ascendere ai vertici della società ateniese se lo avessero tolto di mezzo, facevano un chiasso eccessivo su questa faccenda, insistendo in pubblico che le parodie dei misteri e la mutilazione delle Erme rientravano nel piano criminale di sconvolgere la democrazia e che nell’una e nell’altra empietà spiccava evidente lo stile di Alcibiade. Ne adducevano a prova il suo personalissimo modo di vita che calpestava la tradizione: un autentico schiaffo alla democrazia. . Alcibiade respinse direttamente l’attacco, aggiungendo che era disposto ad affrontare un processo prima di imbarcarsi, affinché si facesse piena luce sulle sue responsabilità nei delitti di cui lo si imputava (...). Se fosse risultato colpevole di qualche mancanza avrebbe pagato; se invece fosse stato assolto, il comando sarebbe rimasto suo. Li pregava di non dar credito alle menzogne fatte circolare in sua assenza e di mandarlo a morte, se era colpevole; e insisteva che sarebbe stato assurdo affidargli il comando di una armata così ingente sotto l’incubo di quell’accusa, prima che in tribunale si emettesse un verdetto risolutore. Ma i suoi avversari, temendo che se si fosse celebrato un processo immediato le simpatie dell’esercito si sarebbero orientate su di lui e che il popolo si sarebbe lasciato indurre alla clemenza (...), si preoccupavano con ogni zelo di far cadere quella richiesta di Alcibiade. Sobillarono così più di un oratore, il quale si fece avanti a dire che Alcibiade doveva imbarcarsi subito senza bloccare la partenza dell’armata, mentre al suo ritorno si sarebbero stabiliti i giorni per il processo. L’intento era di gonfiare le calunnie accumulando indizi e prove con più comodo nel periodo in cui era assente, per poi richiamarlo in patria per risponderne. Così si decretò che Alcibiade salpasse. 7