“La migliore delle mie commedie”: Le Nuvole di Aristofane*
di Martina Treu
Le nuvole evocano immagini di libertà e leggerezza, quando corrono nel cielo, aeree e impalpabili,
come le descrive Fabrizio De Andrè (Le Nuvole, 1990). Ma sono anche sfuggenti per natura, capaci
di prendere mille forme: al tempo stesso familiari ed estranee, affascinanti e inquietanti, se
nascondono il sole e sono compagne di pioggia, vento, temporali. Tutto questo, e molto altro, sono
le nuvole per noi; agli antichi Greci dovevano apparire ancor più misteriose e pericolose, come tutti
i fenomeni atmosferici incontrollabili, e assimilabili a potenti divinità. Forse per questo ispirano un
autore di teatro, l‟ateniese Aristofane, in cerca di un soggetto per la sua nuova commedia: proprio
con le Nuvole il commediografo si presenta, nel 423 a.C., ai concorsi drammatici più importanti
della città, le Grandi Dionisie. Il giovane drammaturgo ha già vinto quella gara con i Banchettanti
(426 a.C.) e per due volte ha battuto rivali esperti alle feste Lenee (con gli Acarnesi, del 425 a.C., e i
Cavalieri del 424 a.C.).
Anche questa commedia, in teoria, ha tutte le carte in regola per vincere il primo premio; anzi, come
vedremo, è annoverata tra i capolavori del teatro di ogni tempo, ed è tuttora rappresentata con
grande frequenza; lo stesso Aristofane la definisce senza mezzi termini “la migliore delle mie
commedie” (Nuvole, v. 522). Il suo orgoglio trova in effetti giustificazione nei notevoli punti di
forza delle Nuvole: innanzitutto il primo attore (in greco protagonista, vero e proprio „motore‟ della
commedia antica), qui si candida subito a beniamino del pubblico per alcuni tratti ricorrenti in molte
commedie aristofanee e riconducibili (pur con varianti diverse) a un „tipo‟ antropologico costitutivo
del genere comico secondo molti interpreti (da Cornford, 1914 a Lanza, 1997 e 2006): solitamente è
un uomo qualunque (sulle prime anonimo), spesso un contadino, trapiantato in città suo malgrado,
vecchio o comunque di età tale da avere un figlio adulto. Nelle Nuvole il prototipo viene
perfezionato e raggiunge forse l‟apice della complessità – a detta di molti interpreti – per la sublime
commistione di rozzezza e furbizia, preoccupazione e frustrazione, e per il passato quasi
tragicomico che lui stesso rievoca nel prologo: le infelici nozze con una donna altolocata, il difficile
rapporto col figlio Fidippide (un nome realmente esistente, ma qui frutto di un comico
compromesso tra “Risparmia” e “Cavallo” – concetti rispettivamente cari ai genitori – e dunque
traducibile con “Tirchippo”).
Il giovane, con la sua mania dei cavalli, ha sommerso il padre di debiti e non lo fa dormire la notte
(altre caratteristiche che attirano al protagonista le simpatie del pubblico). Proprio la necessità di
pagare i creditori è la miccia che innesca la vicenda: padre e figlio abitano accanto a una „scuola‟
unica nel suo genere, battezzata da Aristofane phrontistérion, cioè “Fabbrica di pensieri” (il nuovo
conio diviene poi parola usuale, e lo è tuttora nel greco moderno: per mantenerne il sapore „nuovo‟
propongo di tradurla “Pensatorio”, sul modello di „Laboratorio‟). Lì, secondo il protagonista, si
insegna a far prevalere – parlando – la propria opinione, a vincere le cause e a non pagare i
creditori: per questo il vecchio cerca inizialmente di persuadere il figlio a imparare quest‟arte, poi si
rassegna ad andarci lui. Qui comincia l‟azione vera e propria, nel momento fatidico in cui bussa al
Pensatorio, e si presenta come “Strepsiade”: un nome parlante (come molti altri in Aristofane) che
completa e rafforza la caratterizzazione del personaggio, sottolineandone e anticipandone i tratti
negativi: il vecchio si mostrerà infatti propenso al cambiamento e al raggiro, al gioco sleale, al
ribaltamento delle attese (quindi, in mancanza di nomi italiani equivalenti, lo tradurrei con un
cognome come “Rivolta” o “Ribalta”).
Il nome del protagonista dunque compare tardi, circa a metà del prologo (v.130): quest‟ouverture di
commedia è peraltro particolarmente lunga e complessa, per permettere ad Aristofane di esporre
l‟antefatto e presentare i personaggi. Difatti a quello principale, cui spetta il monologo d‟apertura,
*
Anticipo qui alcune riflessioni che confluiranno nel volume in preparazione Aristofane, Nuvole, a cura di Martina
Treu, Roma, Carocci (pubblicazione prevista per fine 2012). Dedico questo scritto alla memoria di Umberto Albini.
se ne contrappongono altri due altrettanto ben caratterizzati: per primo il rampollo ribelle (il
contrasto tra padre e figlio e il „tema caldo‟ dell‟educazione ricorrono spesso in Aristofane); per
secondo un altro „tipo‟ teatrale che rientra nella più vasta categoria del cosiddetto „impostore‟ (in
greco alazòn). Si tratta di un antagonista abituale dell‟eroe comico aristofaneo, solitamente
confinato in scenette minori, che qui però assurge alla levatura di co-protagonista, se non a star
della commedia (soprattutto presso i posteri).
Dietro la maschera comica c‟è infatti una persona reale, ben nota al pubblico ateniese e a noi
moderni: Socrate. Il rapporto tra il personaggio aristofaneo e quello storico è una complessa
questione, non trattabile qui, e oggetto di una vasta bibliografia (si veda per primo Perrotta, 1952 e
da ultimo Massarenti, a cura di, 2006, pp. 233 ss.); ma se si riconduce il caso particolare al quadro
più ampio degli attacchi personali della commedia antica si può osservare che le „vittime‟ dei poeti
comici sono ritratte solitamente in modo più simbolico che realistico, con accorgimenti anche
raffinati (come iperbole, allegoria, e astrazione) mirati da un lato ad accentuare e deformare i tratti
originari, dall‟altro a ricondurli a macro-categorie fisiche o comportamentali, che dai singoli si
estendono a gruppi di persone o a intere collettività; pur mantenendo il proprio nome, così,
individui noti si prestano a incarnare „per antonomasia‟ vizi o difetti comuni e diffusi (si veda Treu,
1999).
In questo modo una persona reale potrà trasfigurarsi in personaggio-tipo, sopravvivere al suo
„modello‟ in carne e ossa, attraversare i secoli; e così autori, attori e traduttori di epoche successive
lo potranno „aggiornare‟ e arricchire di particolari, adattare a persone diverse e contesti sempre
nuovi. In questo contesto si inquadra la creazione aristofanea di un tipo comico, il „filosofo‟ o
sapiente (sophòs), che avrà grande fortuna in teatro e rimbalzerà dalla Commedia dell‟Arte
all‟Opera come intellettuale o “medico straniero”, dal linguaggio astruso e incomprensibile. Il
Socrate delle Nuvole si colora di tocchi variopinti ed eterogenei, attribuibili a diversi pensatori e
„intellettuali‟ dell‟epoca: soprattutto sofisti e maestri della parola, ma anche studiosi dei fenomeni
naturali e celesti. Peraltro entrambi i filoni di ricerca (linguaggio e natura) sembrano accomunare il
Socrate storico e quello aristofaneo, a giudicare dalle testimonianze (si veda Massarenti, a cura di,
2006).
Dobbiamo considerare inoltre che Aristofane e la sua „creatura‟ si confrontavano all‟epoca non solo
con un pubblico variegato di estimatori e detrattori di Socrate, ma anche con i comici che
prendevano di mira lui e i suoi „colleghi‟ in commedie oggi perdute (come il Conno di Amipsia, in
gara proprio con le Nuvole nel 423). Dall‟insieme delle testimonianze si può supporre che ad
attirare l‟attenzione – e stimolare parodie e caricature – fossero soprattutto quei tratti fisici bizzarri e
quei comportamenti pittoreschi che anche in autori come Senofonte e Platone, seppure con modalità
e intenti diversi, si prestano a ritratti coloriti, a scenette più o meno comiche, a una grande varietà di
registri e linguaggi.
Tutto questo si riflette naturalmente in Aristofane, che con la massima libertà e disinvoltura
condensa in Socrate tratti anche disparati e di per sé inconciliabili, contaminando linguaggi e
registri, mescolando di continuo l‟alto con il basso, il volgare con l‟aulico: così, nel corso della
commedia, i presunti insegnamenti sulla natura e sul linguaggio si trasformano in comiche e
paradossali speculazioni (come la misurazione del salto della pulce, le mappe geografiche che
spaziano dal cosmo alla campagna attica, la confusione dei generi maschile /femminile e così via).
Su questi temi si imposta, nella parte centrale della commedia, un lungo duetto comico tra il
protagonista e chi gli fa da „spalla‟, in gergo teatrale, ossia gli „porge la battuta‟ (il ruolo è affidato
prima al discepolo di Socrate e poi allo stesso maestro): le battute comiche spettano rigorosamente
al primo attore, che è anche l‟interlocutore privilegiato o esclusivo del pubblico e del coro (per la
distribuzione delle battute nelle undici commedie si veda Treu, 1999, pp.21 ss.). Qui è il discepolo
inetto che fa ridere con i suoi fraintendimenti ed errori, le cadute di stile improvvise, i lazzi
buffoneschi e triviali, osceni e scurrili e altri ingredienti che la commedia antica eredita dal giambo
e da forme comiche elementari, ma che ancora oggi sopravvivono nella satira, farsa o slapstick:
sono esattamente quei „trucchi‟ e mezzucci‟ di bassa lega che Aristofane rimprovera altrove ai rivali
e subito dopo adopera con somma autoironia (si veda ad es. Rane, 1 ss.).
Ma questo filone „basso‟ si alterna di continuo e si compensa con uno opposto e complementare, in
modo particolarmente evidente nelle Nuvole: non solo per l‟ovvia presenza di parodie, citazioni e
prestiti dai linguaggi „tecnici‟ di sofisti e studiosi della natura, ma anche per la densità di temi aulici
e tocchi stilistici raffinati che attingono ora alla poesia „alta‟ – dall‟epica alla tragedia – ora alla
sfera religiosa. In particolare l‟istruzione del protagonista, specie nelle prime fasi, è per molti aspetti
assimilabile a un‟iniziazione: lo provano i molti termini ricollegabili ai cosiddetti Misteri, ossia i
culti iniziatici diffusi nella Grecia antica, e altri riconducibili a filosofi come Pitagora o Parmenide.
Allo stesso tempo una concentrazione elevata di linguaggio alto e poetico – e una ancor più
significativa assenza del filone basso e triviale – contraddistingue in questa commedia le parti
liriche del coro, a partire da un canto d‟ingresso (párodos) di rara bellezza (vv.275 ss.).
Da qui in poi il protagonista viene iniziato da Socrate al culto delle nuove divinità, le Nuvole, che
tra tutti i cori conservati vantano il linguaggio più alto e sublime, in conformità alla loro natura
divina e eterea. Sono le protettrici ideali dei „venditori di fumo‟, ossia di tutti coloro che professano
l‟arte fugace della persuasione, dell‟eloquio sottile, dei detti acuti e penetranti: per le loro qualità
volatili e rarefatte, l‟essenza incorporea ed evanescente, l‟aspetto cangiante e imprevedibile,
simboleggiano al meglio la capacità del discorso di assumere mille forme e di prestarsi a molti usi,
compresi quelli disonesti. Fra questi ultimi rientra il famoso Discorso che il protagonista nomina sin
dal prologo (come strumento per vincere le cause e non pagare i creditori), ma comparirà in scena
solo dopo che Socrate, al termine di un‟infruttosa „lezione‟, avrà rinunciato a istruire il vecchio
zuccone (v. 790). Questi si rivolge alle Nuvole per un consiglio, e ne ricava la motivazione
necessaria a chiamare il figlio al Pensatorio, e farlo istruire al suo posto, questa volta con successo.
Il duello verbale seguente (in greco agòn) vede contrapporsi due Discorsi – “il più forte” e “il più
debole” – che impersonano rispettivamente l‟educazione tradizionale e quella moderna e disinibita,
priva di ogni virtù se non l‟oratoria: tutta chiacchiere e niente sostanza. A fine duello si dichiara
sconfitto il primo Discorso – solo in teoria “più forte” – e dal secondo il giovane allievo potrà
imparare sin troppo bene le nuove tecniche di persuasione: con una fulmineità tipicamente
aristofanea tornerà subito a casa – trasformato in provetto oratore – e aiuterà il padre a cacciare i
creditori, ma subito dopo si rivolterà contro di lui.
Di questo voltafaccia si può riconoscere un‟anticipazione, a mio avviso, già nel nome parlante
Strepsiade / “Rivolta”: sintesi perfetta del contrappasso, tipico di Aristofane, per cui un imbroglio o
raggiro si ritorce contro il suo autore. Lo dicono chiaramente le Nuvole quando il vecchio
attribuisce a loro la sua infelice sorte (vv.1452 ss.). Le dee a loro volta gli rinfacciano la sua
responsabilità, per aver intrapreso una strada disonesta, e rivelano di aver inteso dargli una lezione
esemplare (il coro peraltro aveva già preannunciato in precedenza l‟esito infausto della vicenda
nella premonizione „a parte‟ dei vv.1113-14).
Questo disvelamento finale, dopo che le Nuvole hanno tenuto a lungo un atteggiamento sfuggente e
ambivalente (consono alla loro natura ambigua) costituisce un‟eccezione evidente tra le commedie
aristofanee conservate: vi sono infatti altri cori che si schierano contro il personaggio principale (o
contro la coppia „comica‟ costituita da protagonista e „spalla‟), ma lo scontro è in ogni caso
confinato nella prima parte della commedia, prima della lunga parte corale detta paràbasi; da qui in
poi il protagonista può sempre contare sull‟appoggio del coro, con cui solitamente condivide i frutti
della realizzazione dell‟idea comica iniziale e i festeggiamenti che quasi sempre allietano il finale.
In tale quadro spicca vistosamente l‟eccezione delle Nuvole, con la sconfitta e l‟isolamento totale
del protagonista: sconfitto e abbandonato da tutti, si vendica su colui che ritiene responsabile della
sua rovina, Socrate, e appicca il fuoco al Pensatorio. Nel farlo rivolge a Socrate sarcasticamente le
stesse parole con cui il filosofo si presenta nel prologo, alla sua prima apparizione in scena
“Aeroplaneggio, e dall‟alto guardo il sole” (v. 225= v.1503). In questa battuta, e più in generale nel
sapore acro e sulfureo del finale, è possibile a mio avviso riconoscere un capovolgimento più
profondo, come se la stessa idea comica si ritorcesse contro il suo ideatore: il protagonista, ma in
ultima analisi anche Aristofane. L‟incendio del Pensatorio rappresenta infatti “la punta
dell‟iceberg” – solo uno dei tratti più incongrui, come vedremo – in una commedia di per sé
irrisolta, rispetto a tutte quelle conservate: la più inquietante, ambigua e complessa (al pari del suo
coro e del protagonista), ricca di elementi ibridi, percorsa da spinte centrifughe e contraddittorie.
Anche altrove, e giustamente, il drammaturgo si vanta di cercare sempre nuove soluzioni
drammaturgiche, spesso geniali e anticipatrici di sviluppi futuri. Ma qui forse questa passione gli
prende troppo la mano, tanto che la sua stessa commedia gli si rivolta contro: gli sfugge tra le dita,
approda a risultati imprevedibili anche per lui, quasi in autonomia dal suo creatore. In particolare,
percorrendo strade pericolose, finisce per toccare un nervo fin troppo scoperto. Se infatti Aristofane
in altre commedie colpisce uno o più punti nevralgici del „sistema‟ ateniese (l‟assemblea, i
tribunali), nelle Nuvole più che mai centra il bersaglio e mette a nudo il cuore nevralgico della città,
il meccanismo che sta alla base della democrazia e la fa funzionare: è il potere persuasivo della
Parola, che conquista e seduce, che fa prevalere un‟opinione anche a torto, in tribunale o in
assemblea. Sofisti e filosofi ne sono maestri, ma non solo i loro discepoli ne subiscono il fascino.
L‟intera città è in balìa del Discorso più debole (come dice lui stesso ai vv. 1088 ss., sbeffeggiando
„per categoria‟ tutti gli spettatori). A noi moderni questa provocazione di Aristofane appare
straordinariamente efficace (e senz‟altro contribuisce al duraturo successo delle Nuvole sulla scena),
ma altrettanto non si può dire dell‟Atene di V secolo.
Alla prima rappresentazione, infatti, pubblico e giudici voltano le spalle al loro giovane beniamino:
l‟ambizioso Aristofane non vince la gara come si aspettava. La sconfitta è tanto più bruciante per
una commedia che lui ritiene, come si è detto, la sua “migliore”. Decide di riscriverla per una nuova
rappresentazione, verosimilmente subito dopo la prima, ma non la porta a termine (forse perché
incalzato da sempre nuovi stimoli o perché rinuncia a riportare „nei ranghi‟ un‟opera poetica che
ormai vive di vita propria, eterea e inafferrabile come le stesse nuvole). In seguito, per una beffa del
destino, delle due versioni tramandate si perde nel tempo proprio quella originale (Nuvole I), a parte
pochi frammenti e notizie sull‟entità ed estensione della revisione (se ne trovano tracce nella
parabasi, nel duello tra i due Discorsi, nel finale, dove Aristofane forse cerca di attenuare
l‟ambiguità del messaggio ed estremizzare i termini del conflitto, per approdare poi all‟incendio).
La seconda versione incompiuta (Nuvole II) si è conservata fino a noi – copiata, riscritta e riallestita
nei secoli – e ancora quest‟anno torna a Siracusa.
Proprio in vista dell‟attuale allestimento ho finora evidenziato solo alcuni aspetti delle Nuvole II,
tralasciando il resto; ritengo utile completare l‟analisi con alcune considerazioni sulla fortuna
scenica di questa commedia, sconfitta al debutto, risorta dalle ceneri, tra le più amate e
rappresentate oggi per molte ragioni: dall‟argomento sempre attuale (il crescente potere della
parola, nell‟era della comunicazione) alla carismatica figura di Socrate, dal fascino del coro alla
eccezionale rarità, rispetto ad altre commedie, di quegli attacchi personali che sono notoriamente un
problema per i traduttori e i registi di oggi. Altro punto forte delle Nuvole (in particolare per il teatro
di avanguardia e sperimentale – che non ama il lieto fine, in stile “ Tutti vissero felici e contenti”) è
quel retrogusto amaro, caustico, disperato che permette di leggerla come una „commedia nera‟; in
tale direzione va la versione clownesca dai risvolti dark, che riscuote grande successo nel
2009/2010, diretta da Antonio Latella e tradotta da Letizia Russo (si veda a riguardo Treu,
Giovannelli, Capra, 2010).
Gli stessi spettacoli dell‟INDA, in prospettiva storica, confermano la posizione privilegiata delle
Nuvole: è la commedia più rappresentata a Siracusa, nonché la prima in assoluto in ordine di tempo.
Difatti per il quinto ciclo di spettacoli classici (1927) il direttore artistico Ettore Romagnoli traduce
e mette in scena le Nuvole, rinunciando all‟ipotesi di rappresentare i Cavalieri, la commedia forse
più „scomoda‟ e a rischio censura, in quanto allegoria politica contro il potere (su Romagnoli si
vedano Treu, 2006 Piazza, 2010 e Norcia, 2010). Dopo quell‟esordio le vicende storiche e politiche
(per l‟avvento del Fascismo e la guerra, ma anche per le resistenze del mondo cattolico, della classe
politica e di una certa cultura dominante) non rendono certo la vita facile ad Aristofane, almeno in
Italia: al teatro greco di Siracusa tornerà solo nel 1976 (con le Rane), poi nel 1988 con le Nuvole, in
un‟edizione premiata dal successo grazie agli sforzi congiunti del grecista Enzo Degani, del regista
Giancarlo Sammartano, della coreografa Lucia Latour, degli ottimi interpreti e del coro, vero punto
di forza dello spettacolo (su cui si veda Latour, 1990).
Quest‟ultimo allestimento è anche importante precursore del revival aristofaneo che da metà anni
Novanta prosegue ininterrotto fino ai nostri giorni: basti citare i pastiche Viva la Pace di Aldo
Trionfo (1988) e All’inferno! Affresco da Aristofane di Marco Martinelli (1996), gli Uccelli scritti e
diretti rispettivamente da Martinelli (1994), Vacis (1996), Tiezzi e Lombardi (2005); tra gli
spettacoli più recenti, oltre alle già citate Nuvole di Latella Russo (2009/2010), si segnalano le
riscritture Pace! di Marco Martinelli (2006), Donne a Parlamento di Serena Sinigaglia (2006), I
Cavalieri - Aristofane Cabaret di Mario Perrotta (2010).
Anche a Siracusa, da metà anni Novanta, gli allestimenti aristofanei si susseguono con altrettanta
frequenza: nel 1994 gli Acarnesi tradotti dallo stesso Monaco e diretti da Egisto Marcucci hanno
per protagonista un formidabile Marcello Bartoli, affiancato da ottimi comprimari e da Ninetto
Davoli, guest star nel „cameo‟ del Megarese; nel 2001 la Festa delle Donne, tradotta da Edoardo
Sanguineti e diretta da Tonino Conte, inaugura una serie a cadenza annuale che comprende Rane
(2002), Vespe (2003), Donne in Assemblea (riscrittura da Aristofane, di Renato Colavero,
rappresentata al Castello Maniace nel 2004). A Siracusa, inoltre, la commedia di solito chiude un
ciclo composto di due o più tragedie, a formare più o meno esplicitamente una sorta di moderna
„trilogia‟ che può essere affidata a un solo artefice (ad esempio Luca Ronconi nel 2002) o a diversi
registi, come la recente Lisistrata associata ad Aiace e Fedra (2010) o le attuali Nuvole che seguono
il Filottete di Sofocle e l‟Andromaca di Euripide.
Questa collocazione strategica intende evidentemente ripristinare da un lato la contiguità e
complementarietà istituita nell‟antica Atene tra i generi maggiori, tragico e comico (il dramma
satiresco non è altrettanto fortunato), dall‟altro lato sottolinea e rafforza i possibili legami tematici e
formali tra gli specifici drammi di volta in volta rappresentati, o perfino ne crea anche altri ex novo:
alcuni anche inediti e non previsti dai drammaturghi antichi, ma voluti dalla committenza e ben
calcolati dai registi moderni. Apre la strada in questa direzione Luca Ronconi, che per primo nel
2002 concepisce e dirige a Siracusa un trittico „organico‟ di nuova concezione: accosta sì opere di
diverso autore, ma della trilogia tragica eredita la sostanza e il fascino, i richiami incrociati tra le
opere, gli interpreti condivisi come Massimo Popolizio, che è Dioniso in Baccanti e Rane (opere
peraltro coeve, rappresentate entrambe nel 405 a.C.). In quest‟ottica la commedia dedicata da
Aristofane ai tragici appare il miglior coronamento possibile della trilogia, e in particolare il duello
tra Eschilo e Euripide è la summa delle tragedie precedenti.
Una simile continuità di interpreti, filoni, personaggi e temi contraddistingue con modalità e
proporzioni variabili altre „trilogie‟ siracusane (per il 2003 e il 2010 cfr. rispettivamente Treu, 2005,
pp.103 ss. e Treu, 2010) e dovrebbe auspicabilmente caratterizzare la presente stagione. Questa
scelta infatti contribuisce a mio avviso a far rivivere, per quanto possibile, quell‟originario spirito
dei concorsi ateniesi che peraltro il contesto siracusano, già di per sé, ricorda molto da vicino. Nel
riallestimento di un dramma greco, infatti, non solo il luogo specifico – in questo caso il teatro
greco – ma l‟intero contesto di rappresentazione è a dir poco determinante: sotto questo aspetto la
città siciliana mi pare quanto di più simile si possa paragonare all‟antica Atene, perlomeno fuori
dalla Grecia. Come ricorda Giuseppe di Martino, già regista a Siracusa, un numero cospicuo di
cittadini e cultori da sempre segue con tifo quasi calcistico la gestazione degli spettacoli, sin dalle
prime fasi organizzative e preparatorie. Questa partecipazione, col tempo, si è unita a una sempre
maggiore professionalizzazione: la creazione di laboratori dell‟INDA e dell‟Accademia d‟Arte del
Dramma Antico ha permesso di formare e reclutare, sul territorio, tecnici, operatori e componenti
del coro. A questo riguardo non va dimenticato che ai concorsi ateniesi i coreuti non erano
professionisti, bensì semplici cittadini. E specialmente nella commedia antica, dove il confine tra
realtà e finzione drammatica non era rigido come nella tragedia, il ruolo drammatico vestiva il coro
come un abito trasparente, per così dire, cosicché al di sotto del costume il pubblico ateniese poteva
riconoscere amici, parenti e vicini.
Qualcosa di simile potrebbe avvenire oggi a Siracusa? Forse sì, se gli stessi attori e coreuti si
alterneranno sera per sera sulla scena, in vesti ora tragiche ora comiche, cosicché il misantropo
Filottete e la virtuosa Andromaca si confronteranno idealmente, agli occhi del pubblico, con il
tragicomico Strepsiade e la sua degna spalla, Socrate. E probabilmente più di uno spettatore si
sorprenderà nel vedere smentite le proprie attese sui generi drammatici: le due tragedie in
programma prevedono infatti che a fine dramma i rispettivi eroi vengano in qualche modo riscattati
dal proprio infelice destino. Al contrario, proprio le Nuvole non si chiudono – come si è visto – con
il presunto „lieto fine‟ in teoria tipico di una commedia: ma questa sorpresa è solo una delle tante
che ci riserva Aristofane, per cui c‟è da aspettarsi che ogni suo allestimento sia una nuova, grande
scoperta. Soprattutto per chi non conosce Aristofane, ma anche per chi già lo conosce, il suo genio è
una miniera inesauribile che riesce sempre a stupire e a conquistare nuovi adepti; specialmente se
viene rappresentato in quel luogo magico che è il teatro di Siracusa, così ben descritto dal suo
devoto studioso Carlo Anti:
“Esso merita perciò una visita accurata da parte di ogni persona colta. Nessuno si pentirà di avergli dedicato alcune
ore: una mezza giornata passata nella sua conca luminosa e pittoresca, interrogandone e meditandone i resti venerandi,
nel silenzio del luogo e sotto il cielo di Sicilia, sarà ricordata per tutta la vita come un momento di felice serenità, come
una delle rare soste del nostro vivere tormentato, trascorsa nell‟elisio regno dei ricordi e dell‟arte” (Anti, 1948, pp. 5-6).
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