Virgilio Melchiorre Husserl

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Virgilio Melchiorre
Husserl -
Appunti per la conferenza
Lezione del 1.4.2011 in Brescia su invito della Ccdc
1. La rivoluzione della fenomenologia.
Ritorno e compimento verso Descartes.
a) Husserl muove, come Cartesio, da una critica radicale al mondo
delle scienze: risalire all’indubitabile → la fondazione della filosofia trova il suo rigore nell’evidenza originaria della coscienza
b) Il ritorno alla primitività della coscienza assume per Husserl. un
ruolo ben più radicale che non per Cartesio fermo al modello
dell’evidenza e poi incagliato sul problema dell’alterità.
c) Il problema dell’alterità è un falso problema. Il vero problema è
quello della verità delle cose, zu Sachen selbst. Ma la verità delle cose è data nell’orizzonte della coscienza e dunque nei modi con
cui la coscienza si volge sulle cose:
d) l’ideale di una scienza rigorosa si compie dunque riandando in
prima istanza alle strutture della vita coscienziale, tema incompiuto di Cartesio, fermo al principio dell’evidenza.
e) Sospendere dunque(Epoché) il giudizio sulla verità delle scienze
naturali, non per denegarle ma per ritrovare i criteri della verità
che l’atteggiamento naturale ha messo tra parentesi. Le scienze
positive, anche quelle dello spirito (la psicologia…) sono nella attualità, ma rimuovono il senso di questa.
Tema che verrà rinvigorito nella Krisis:
La scienza positiva non può essere che scienza dei fatti. Può limitarsi a questo l’interesse del sapere? Se il fatto fosse l’unicum, il
corso dei fatti sarebbe un non senso. E tuttavia l’uomo contem-
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poraneo non sembra accreditare altra scienza se non quella positiva, scienza dei fatti appunto. Si fa allora impellente la domanda:
«… il mondo e l’esistenza umana possono avere un senso se le
scienze ammettono come valido e come vero soltanto ciò che è
obiettivamente constatabile, se la storia non ha altro da insegnare
se non che tutte le forme del mondo spirituale, tutti i legami di
vita, gli ideali, le norme che volta per volta hanno fornito una direzione, si formano e poi si dissolvono come onde fuggenti, che
così è sempre stato e sempre sarà, che la ragione è destinata a trasformarsi in non-senso, gli atti provvidi in flagelli?» (Kr, p. 36).
La domanda di Husserl si traduce in una questione esistenziale:
la scienza positiva deve infatti escludere
«di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per
l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del
destino, i problemi del senso o del non senso dell’esistenza umana nel suo complesso. Questi problemi, nella loro generalità e
nella loro necessità, non esigono forse, per tutti gli uomini, anche
considerazioni generali e una soluzione razionalmente fondata?»
(Kr, p.35).
Siamo così riportati al problema della condizione propriamente
umana per la costituzione di un senso: la condizione di cui ora
parla Husserl è scandita in termini di storicità e rinvia al destino
stesso dell’Occidente, che dall’inizio sembrava chiamato ad una
scienza dell’intero e del senso. Husserl richiama così il compito di
«una filosofia sistematica culminante nella metafisica, una filosofia seriamente concepita come philosophia perennis (Kr, 39).
La cognizione della fattualità suppone la cognizione di quel fatto ultimo che è la coscienza, condizione ultima perché ineliminabile condizione nel darsi di ogni fatto.
La scienza positiva non è dunque l’ultimo passo della scienza.
Essa presuppone il rinvio alle costituzioni logiche, alle strutture
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essenziali della coscienza: arretramento fondativo o riduzione e,
ultimamente, riduzione trascendentale.
2. Riduzione trascendentale:
analizzare i modi della coscienza: noesis
(percezione, immaginazione, volontà,
sentimento, ecc.)
rispetto ai quali la costituzione del noema,
modo d’essere della cosa nella coscienza
Intenzionalità (Brentano):
modo d’essere della realtà nella coscienza.
Non soggettivismo → la coscienza è sempre coscienza di…
→ andare alle cose stesse (zu Sachen selbst).
L’affermazione del primato coscienziale – leggiamo in Id, I, §
55 – non va intesa nel modo dell’idealismo soggettivo: la coscienza è costitutiva di senso, non in quanto creatrice, ma in
quanto è campo di significazione. Non si può pertanto stare al
secondo passo di Cartesio, che si chiedeva come accertare l’altro
dalla coscienza. In questa direzione si presuppone quel che si
vuol provare. Il problema dell’alterità dall’uomo non è un problema: il problema è invece quello di rischiarare fondatamente il
campo della coscienza ove l’essere che è trova la sua modalità di
senso, dove «ogni modo di essere e perciò anche quello caratterizzato come trascendente in un senso qualunque, ha la sua costituzione particolare» (MC, pp. 33-34, cfr. pp. 9-10).
Si approda così ad un «idealismo trascendentale, che però ha un
senso interamente ed essenzialmente nuovo» (MC, p. 35). Si cfr.
ancora il § 11 delle MC: il mondo non è una parte reale della coscienza, il suo carattere di trascendenza gli compete, sebbene
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questa abbia senso solo per la coscienza. Si tratta infine di una
trascendentalità fenomenologica.
In conclusione la coscienza dà senso (Sinngebung), manifesta il
logos, non lo istituisce. Manifestare il senso è andare alle essenze
delle cose: in questo sta la capacità originaria della coscienza
3. Intuizione eidetica e mondo della vita
3.1. - Si crede del tutto ovvio che la coscienza sia sempre “coscienza
di qualcosa”, ma non si vede poi facilmente che questo va chiarito distinguendo per es., il percepito e il «modo di darsi del percepito» (Id, I, § 87).
« L’a l b e r o ut sic, la cosa in natura, è tutt’altro da questo a l b
e r o p e r c e p i t o c o m e t a l e [...]. L’albero ut sic può bruciare, dissolversi nei suoi elementi chimici, ecc. Ma il senso – il
senso di questa percezione, cioè qualcosa che appartiene necessariamente alla sua essenza – non può bruciare, non ha elementi
chimici, forze, proprietà reali» (Id, I, § 89).
3.2 – L’esempio è illuminante: introduce a una sorta di dialettica.
– Da una parte l’intuizione eidetica che in certo modo supera e
ordina il mondo dell’esperienza, dall’altra l’esperienza del mondo
come mondo che è dato e che come tale precede ogni conoscenza: → Lebenwelt. Da una parte l’albero come albero, dall’altra
l’esperienza concreta dell’albero qui ed ora, che cresce e muore.
–
Mondo della vita che si dà che si dà via via sul filo
dell’esperienza percettiva: da una parte l’eidos, l’albero che è riconosciuto come tale, sia che muti o che bruci; ma, dall’altra,
quest’identità dell’albero reale che si dà solo attraverso l’esperienza
che via via adombra una realtà concreta che sempre la eccede →
Abschattung → rinvio:
→ Orizzonte: mondo.
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Si può commentare e ampliare questa osservazione sotto
due profili:
a)
Notiamo dapprima che ogni determinazione emerge da un plesso di determinazioni, ad essa pertinenti
nell’unità dello stesso oggetto. E con questo ci riferiamo
all’orizzonte interno della determinazione.
b) A sua volta ogni oggetto appare determinato da un
contesto di oggetti (Mitobjekte), da un orizzonte esterno. Ogni orizzonte si dà poi in relazione ad altri orizzonti, implicando così una
totalità di orizzonti, un orizzonte totale → Welthaftigkeit.
Di rimbalzo:
4. Temporalità e intersoggettività
Questa reciprocità di lati ci riporta a considerare la struttura stessa della vita coscienziale, quale orizzonte della manifestazione del
mondo.
4.1 – Coscienza che procede per gradi. Dunque temporalità della
coscienza.
– Coscienza che vive unitariamente i suoi momenti (l’identità
dell’albero) e che dunque è più profonda dei suoi stati → tempo
oggettivo
→ tempo soggettivo: più originario, interiore
(Agostino).
–
Puntualità dell’esperienza che vive nella precomprensione di un intero, nell’orizzonte di un mondo.
4.2 - L’esperienza del mondo non è solo esperienza di cose:
l’altro dell’io.
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È prima ancora esperienza di persone: la riduzione trascendentale non si esaurisce nella singolarità dell’ego.
Valgono in tal senso le pagine del secondo libro delle Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, dove a una lettura puramente naturalistica del mondo viene contrapposta una
lettura personalistica:
«Chi vede ovunque soltanto natura, natura nel senso e con gli occhi delle scienze naturali, è cieco per la sfera dello spirito, per il
peculiare dominio delle scienze dello spirito. Non vede le persone, non vede gli oggetti che attingono il loro senso da operazioni
personali – non vede, dunque, gli oggetti della ‘cultura’ –, non
vede, propriamente, le persone [...]. Completamente diverso è
l’atteggiamento personalistico, in cui noi siamo sempre quando viviamo insieme, quando ci parliamo, quando salutandoci ci tendiamo
la mano, nell’amore e nell’avversione, nella meditazione e
nell’azione, quando siamo in un riferimento reciproco, nei discorsi e nelle reciproche obiezioni; in cui siamo, anche, quando
consideriamo le cose che ci circondano appunto come il nostro
ambiente circostante e non, come nelle scienze della natura, come una ‘natura’ obiettiva.» (Id, II, §, 51).
Non che, con questo, sia rifiutato ogni approccio “naturalistico”. I criteri delle scienze fisiche valgono pur sempre per il rigore
e l’esattezza con cui sono perseguiti, per la loro capacità di costituire una lettura “oggettiva” del mondo. Resta però che questo
tipo di lettura può darsi solo in forza di un’astrazione, tanto utile
quanto parziale, rispetto all’intero della vita, al concreto dell’esperienza vissuta. Si deve quindi riconoscere che “l’atteggiamento
naturalistico è sub ordinato a quello personalistico e che attraverso l’astrazione o, meglio, attraverso una specie di oblio di sé da
parte dell’io personale, ottiene una certa autonomia, assolutiz-
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zando così, e in modo illegittimo, il suo mondo, la natura” (I, II.
§ 49)
Quando invece non si cede a questa assolutizzazione, si comprenderà che l’atteggiamento naturalistico non esaurisce
l’intelligenza dell’essere: rimane da intendere il campo della vita
personale, intesa come rapporto coscienziale con il mondo circostante, giacché la
«persona è appunto una persona che ha rappresentazioni, che
sente, che valuta, che persegue qualche cosa, che agisce, e in ciascuno di questi atti personali è in relazione con qualche cosa, con
gli oggetti del suo mondo circostante» (Id, II, § 50, ).
Si dischiude così l’area di un’esperienza interiore, area di una vita intenzionale, di desideri, di motivazioni.
«Al posto del rapporto causale tra cose e uomini in quanto realtà
naturali si presenta la relazione motivazionale tra persone e cose, e
queste cose non sono le cose essenti in sé della natura – delle
scienze naturali e delle determinatezze che esse ritengono le uniche obiettivamente valide –, bensì sono le cose esperite pensate o
comunque prese di mira in maniera posizionale come tali, oggettività intenzionali della coscienza personale». (Id, II, § 50)
L’approccio metodologico di Husserl dischiude così un ampio
campo di analisi, di cui le pagine delle Ideen danno già un consistente profilo. L’attenzione fenomenologica, di là dalle opportune astrazioni della scienza naturalistica, può ora volgersi al concreto dell’esistente e per questo può cogliere la figura della persona non solo come apertura coscienziale sul mondo, bensì come
un’apertura più che generica, singolare, unica.
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«Ogni cosa ha una sua specie. Conosciuto il genere, si conosce
tutto. L’uomo invece ha un genere individuale, ogni uomo un
genere diverso. [...] Lo spirito non è l’io astratto, l’io degli atti della
presa di posizione; è invece la piena personalità, è l’uomo-io, l’io
prendo posizione, penso, valuto, agisco, realizzo certe opere ecc»
(Id, II, § 60)
In questo senso l’essere della persona è appunto anche sempre
l’essere di uno stile singolare di vita:
«... l’io è persona, una persona realmente unitaria, anche in un senso superiore, quando possiede uno stile unitario complessivo nei
suoi modi di decidersi, giudicando, volendo, valutando, valutando esteticamente; ma anche uno stile unitario del modo in cui
certe cose ‘gli vengono in mente’ (egli è, per esempio, un uomo a
cui vengono in mente molte cose nel campo della matematica),
del modo in cui gli si presentano certe analogie, in cui opera la
sua fantasia involontaria, ma anche nel modo proprio della sua
appercezione nella percezione, nella peculiarità della sua ‘attività
memorativa’ (quello è un uomo che ha buona memoria). Distingue con facilità o con difficoltà, reagisce più rapidamente o più
lentamente di un altro attraverso le sue associazioni involontarie
ecc. L’uomo ha in questo un tipo generale multiformemente determinato, ogni uomo ha un particolare tipo individuale» (Id, II, §
61).
La persona, dunque, come coscienza singolare e attiva verso il
mondo circostante, un mondo che è fatto di cose, ma che è ancora prima mondo di persone, che si danno in “una relazione coscienziale reciproca”, reagendo l’uno sull’altro con le proprie motivazioni, con il proprio sguardo sul mondo circostante: persone –
suggerisce Husserl – che
«sono date le une alle altre come compagni, non come oggetti bensì
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come controsoggetti che vivono ‘insieme’, che intrattengono un
commercio reciproco, che sono in un reciproco riferimento, attualmente o potenzialmente, negli atti dell’amore e dell’amore
contraccambiato, dell’odio e dell’odio ricambiato, della fiducia e
della fiducia ricambiata, ecc.» (Id, II, § 51).
L’incontro con l’altro è anche approfondito da finissime analisi
fenomenologiche, che possiamo raccogliere sotto il tema
dell’Einfülung (→ empatia, immedesimazione) . Le ritroviamo ancora nel II vol. delle deen, ma anche nelle Cartesianische Meditationen, e comunque in un’ininterrotta serie di riflessioni, raccolte postume nei tre volumi dal titolo Zur Phänomenologie der Intersubjectivität.
Ne ricordo solo il punto centrale, quello che muove
dall’incontro degli sguardi (un tema che ritroviamo al seguito di
Husserl. in E. Stein e Levinas): sguardi che si incontrano come
portatori di uno stesso mondo: «Il mondo è dato a noi costantemente, ma in primo luogo è dato a m e. Ed è a me dato anche il
fatto (e soltanto così esso ha senso per me) che il mondo è dato a
n o i, e ci è dato come uno e lo stesso»
( Formale und transzendentale Logik, «Husserliana», Nijhoff, Den Haag 1974, XVII, p.
249; tr. it. di G. D. Neri, Logica formale e logica trascendentale, Laterza, Bari 1966, p.
299. Nella stessa direzione cfr. l’attacco della quinta Meditazione cartesiana, al § 43
(Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, «Husserliana», Nijoff, Den Haag
1950, I; tr. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, Bompiani, Milano
1960).
In Ideen II:
«Nell’ e s p e r i e n z a c o m p r e n s i v a d e l l ’ e s i - s t e n
z a d e l l ’ a l t r o, noi concepiamo senz’altro l’altro come un
soggetto personale, e quindi come un soggetto in relazione con
oggettività, con le quali anche noi siamo in relazione: con la terra
e il cielo, coi campi e le foreste, con la camera in cui “noi” insieme indugiamo, col quadro che vediamo ecc. Siamo in relazione con un mondo circostante comune — siamo entro una asso-
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ciazione personale: le due cose vanno insieme. Non potremmo
essere persone per gli altri se non ci stesse di fronte, di fronte alla
nostra comunanza, ai legami intenzionali della nostra vita, un
mondo circostante comune; in termini correlativi: una cosa si costituisce per essenza insieme con l’altra. Ogni io può diventare,
per sé e per altri, persona nel senso normale, persona
nell’associazione personale, soltanto quando la comprensione
stabilisce la sua correlazione con un mondo circostante comune»
(Id, II, § 79).
Le linee portanti del riconoscimento:
a)
l’altro percepito analogamente al mio essere nel mondo:
come Leib, non come Körper:
b) mi riconosco in quello sguardo come se io guardassi laggiù
dal suo p.d.v.
c) che tuttavia mi rimane come altro.
d) Via per differenze che si oppongono o che convengono in
un mondo comune.
Ma – si noti – l’apertura sul mondo, su questo mondo di persone che Husserl definisce anche come «mondo dello spirito» (Id,
II, § 51), non va intesa nel modo di una prossimità semplicemente immediata. Il mondo circostante è, per la coscienza dell’uomo per
se stessa guidata da un riferimento assoluto (Id, II, § 64), un orizzonte aperto, infinito. Husserl può così concludere con una domanda che è già un’affermazione:
«La ‘infinità’ del mondo non designa forse, invece che un’infinità
trasfinita (come se il mondo fosse una cosa in sé compiuta, onnicomprensiva, una collettività chiusa di cose, contenente però
un’infinità di cose), una ’apertura’?» (Id, II, § 64).
Si delinea già qui un approdo metafisico che Husserl. ha per di-
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versi gradi sfiorato, sebbene non sviluppato in modo sistematico.
5. Un approdo metafisico
Una preziosa testimonianza di Roman Ingarden. L’allievo aveva
chiesto al Maestro quale fosse, a suo parere, il problema fondamentale della filosofia. La risposta era stata inequivocabile: «Il
problema di Dio naturalmente». Possiamo chiederci come mai
questa dichiarazione possa conciliarsi con la scarsità del tema teologico nell’opera di Husserl. Con buona ragione si può rispondere notando che per Husserl il tema teologico doveva situarsi negli
spazi conclusivi e più alti dell’argomentazione filosofica. Ci viene
ricordato in tal senso un significativo manoscritto husserliano
della maturità:
«Un grande problema che può essere risolto solo alla fine della
filosofia» (Mn, del1931, E III 9, p. 30).
Una «inkonfessioneller Weg zu Gott»( Ms. E III, 10 (1930), p. 18 ),
perfino di una via atea:
«…un sapere che non conosce nessuna rivelazione o non la riconosce come un fatto già dato (anche da trasformare in modo
conoscitivo in seguito) è ateo. Perciò, se un tal sapere conducesse
a Dio, questa via sarebbe una via atea» (Ms. E VII, 9 (1933), p.
21).
Nella stessa direzione si può ricordare, forse con maggiore utilità, quanto Husserl ebbe a dire, nel dicembre del 1935, in una
conversazione con la benedettina Adelgundis Jaegerschmid. In
questo caso, sembra però che la scelta di metodo sia accompagnata anche dalla consapevolezza della sua difficoltà esistenziale:
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«La via dell’uomo non è che una via verso Dio. Io cerco di raggiungere questo termine senza prove, metodi o aiuti teologici.
Detto altrimenti, cerco di raggiungere Dio senza Dio. Devo, in certo senso, eliminare Dio dal mio pensiero scientifico con lo scopo
di tracciare un cammino verso di lui per gli uomini che non hanno come noi la sicurezza della fede dalla Chiesa. So che questo
modo di procedere sarebbe per me dannoso se non avessi profondi legami con Dio e la mia fede nel Cristo»
( ADELGUNDIS JAEGERSCHMIDT O.S.B., Gespräche mit Edmund Husserl 1931-1936,
in «Stimmen der Zeit», CVI (1981), band 199, Heft I, p. 56).
Quest’ultima testimonianza, dopo quella citata all’inizio di Ingarden, torna a dirci dell’importanza attribuita da Husserl alla
questione teologica. D’altro canto è pur vero che, traguardata
come ultima istanza della filosofia, la questione teologica resta
nelle pagine di Husserl come rinviata o comunque non sottoposta ad articolati sviluppi.
E tuttavia a più riprese il rimando metafisico è indicato come
un’esigenza dello stesso impianto della fenomenologia.
La considerazione dei dati elementari della cognizione ci portava, come s’è visto, a cogliere l’evento della percezione nella sua
determinatezza e nella sua scansione nel tempo. Il fenomeno di
questa determinatezza si stagliava però nel tessuto di un intero
dell’essere e dei tempi, sullo sfondo dunque di un assoluto in certo senso atemporale: Urstrom, che nella più intima immanenza è insieme massima trascendenza (Ms. 1930, C 5, p. 12): «prima del
tempo»,Vorzeit (Ms., 1934 C 13 II, p. 9), «essere dell’origine», Ursein (Ms. 1930, C 17 IV, pp. 5-4), «prima dell’essere» (Vorsein).
Il correlato ideale di ogni movimento percettivo coincide allora
con l’idea di Dio, se con quest’idea intendiamo appunto il logos
ricomprensivo dell’essere. Di questa ultimità polare Husserl parla
altrove con parole che sembrano assonanti con il lessico a noi noto dalle pagine di Heidegger. Ne parla come dell’Essere che è
senza fondamento: fondamento infondato, che proprio per que-
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sto ha in sé la sua assoluta necessità, «hat in sich selbst seinen
Grund und in seinem grundlosen Sein seine absolute Notwendigkeit» (Zur Phänomenologie der Intersubjectivität, III, p. 386.).
Fondamento infondato, dunque, e come tale assoluta trascendenza. Ma è proprio questa alterità radicale – ecco il secondo aspetto dell’implicazione – che poi segna il confine della ragione,
l’inadeguabilità dell’assoluto Lovgo~ nel suo contenuto, dal
momento che il processo coscienziale è consegnato per se stesso
nei limiti di una dimensione sempre prospettica, sempre articolata nel tempo. Per un verso, dunque, l’intuizione apriorica
dell’ultimamente assoluto, per altro verso l’arresto o la riserva
della via «atea» che vi conduce. I due aspetti risuonano, nelle Ideen, in una nota che a suo modo ci richiama l’avvio del Proslogion
anselmiano:
«Non intendiamo estendere la discussione al dominio della teologia: l’idea di Dio è un necessario concetto limite nelle considerazioni gnoseologiche, ossia un indice indispensabile per la considerazione di certi concetti limite, di cui nemmeno l’ateo potrebbe fare a meno quando filosofa» (Id, I, cit., § 79).
Dunque solo un concetto limite, un indice indispensabile che
però non può essere decodificato con le categorie che la coscienza finita usa nel mondo finito. Se, infatti, la riflessione trascendentale sulla correlazione di tutti i possibili vissuti e dei rispettivi
dati d’essere deve trapassare nell’asserto che dice del principio
unitario di tutti nessi e di tutte le relazioni, si deve poi riconoscere che questo principio non è denotabile secondo i modi dei singoli vissuti coscienziali: siamo, a ben vedere, già al piano della
metafisica, che come tale non è mai ultimamente determinabile
per se stesso.
Nelle Ideen leggiamo:
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«Questa indubitabilità, per quanto fondata anch’essa
nell’intuizione, ha tutt’altra sorgente di quella che è in gioco riguardo all’essere dei vissuti che giungono a pure datità nella percezione immanente. Caratteristica dell’ideazione che intuisce una
“idea” kantiana, caratteristica che peraltro non ne diminuisce
l’evidenza, è appunto che l’adeguata determinazione del suo contenuto, in questo caso della corrente dei vissuti, sia irraggiungibile» (Id.,I, § 83).
Possiamo rileggere questo testo cogliendone una duplice implicazione. Vi si dice di un’intuizione che ha una sorgente diversa da
quella dei vissuti percettivi. Potremmo dire che si tratta di
un’intuizione dialettica, nata non dal rilievo dei dati fenomenici,
bensì dal riconoscimento della condizione che rende ultimamente possibile la percezione della loro singolarità, della loro scansione nel tempo e del loro nesso: una condizione metafenomenica o,
come s’è già prima ricordato, atemporale. Si delinea così, riflessivamente, l’intuizione di una vera e propria trascendenza e si
comprende come, altrove, Husserl venga a parlare di un assoluto
«in un senso nuovo del sovramondano, del sovrumano, del sovratrascendentale-soggettivo: assoluto Lovgo~, assoluta verità
nel senso pieno e totale dell’unum, verum, bonum, in cui tutto
l’essente finito è volto nella tensione all’unità che ricomprende
tutti e ciascuno degli enti finiti, in cui l’intera vita trascendentale e
soggettiva vive intimamente come essere vivente, costitutivo di
verità» (Ms E III 4, p. 61). In un altro manoscritto leggiamo ugualmente di una polarità assoluta quale «überweltlichen, übermenschlichen Pol» (Ms. K III 2, p. 54.).
L’idea di Dio, dunque, come a priori, come indice primario che
presiede e regola il discernimento della vita coscienziale. E però il
dominio di questa idea viene rimosso o sospeso: siamo già oltre
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le potenze della fenomenologia? Per questa ultimità assoluta,
come Husserl. dice in un punto «ci mancano i nomi». Come altrimenti l’esercizio del pensiero e del linguaggio potrebbe esporsi
alla dizione dell’assoluto, senza chiudersi nei modi negativi con
cui se ne dice parlando dell’intemporale, dell’infinito, dell’ab-solutum
appunto?
Quali possono essere questi «altri modi di annunciarsi delle trascendenze»? In una delle Appendici alla Krisis, Husserl parla di
possibili «presagi», quei modi che negli orizzonti della conoscenza e del sentimento possono fornire un’evidenza capace di plasmare una relazione di fede verso l’inconoscibile (Krisis…, cit.,
Appendice XXVIII al § 73, p. 509; tr. cit., p. 536). In un manoscritto del 1931, viene anche configurato l’esercizio possibile di
una riflessione attenta a chiarire il «processo simbolico che ha
luogo nei simboli religiosi» (Ms. 1931, E III 9, p. 30). Si aprirebbe, in questa prospettiva, una via che dovremmo configurare più
che in senso fenomenologico, in senso ermeneutico: una via che,
almeno per un certo tratto e per un certo aspetto, avrebbe forse
distolto Husserl dal diuturno e instancabile affinamento cui era
rivolto la sua ricerca sulle condizioni trascendentali della coscienza. Ma soprattutto dovrebbe aprirsi una riflessione, non sviluppata da Husserl. Il discorso potrebbe continuare con gli scritti di alcuni suoi allievi, soprattutto Euegen Fink, Gerda Walther e soprattutto Edith Stein.
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