La gestione e la produzione delle differenze: razza e razzismo nei processi lavorativi italiani di Giorgio Grappi, Devi Sacchetto Il nostro contributo ai temi proposti per la discussione in questa tavola rotonda mira a problematizzare alcuni nodi relativi al lavoro che hanno sostenuto la riproduzione del discorso e delle pratiche razziste nell’Italia contemporanea. In particolare, l’analisi si sofferma su come la razza sia riprodotta materialmente, nella cornice della sua negazione formale, come costruzione di separazione e organizzazione sociale delle differenze. La segmentazione flessibile del mercato del lavoro italiano si sostiene infatti intorno a stratificazioni complesse di genere, colore della pelle e nazionalità dei migranti. Le caratteristiche delle migrazioni da e verso l’Italia, così come la politica estera e i più recenti investimenti all’estero italiani, sono elementi cruciali dei processi di razzializzazione del mercato del lavoro. Se nel corso degli ultimi anni queste linee di separazione sono state talvolta incrinate, noi riteniamo che la loro persistenza e rilevanza debba essere valutata alla luce delle trasformazioni e della dimensione politica del mercato del lavoro. 1. Il lungo corso del razzismo italiano Nel gennaio 1954 la Snia Viscosa, una delle maggiori aziende italiane che produceva fibre tessili artificiali con sede principale a Torino, inviava una direttiva alle sue maestranze di Torviscosa (Udine), reclutate dalla Saiccor, destinate a costruire alcuni stabilimenti in Sud Africa: Occorre innanzitutto mantenere una netta distinzione fra gli individui di Razza Bianca e quelle delle Razze di Colore […] La Razza Bianca è giustamente considerata la razza superiore ed è quella che dirige lo sviluppo del Paese e crea le ragioni di lavoro e di prosperità […] Col Vostro comportamento in ogni occasione Voi dovrete dimostrare questa Vostra superiorità […] Occorre che Voi impariate al più presto possibile a comandare i Negri a servirVi sul lavoro (cit. in Scrazzolo 2004). 1 Un tale linguaggio non sorprende, vista la vicinanza con il ventennio fascista e il contributo della cultura colonialista italiana alla costruzione dell’immagine razzista degli italiani «brava gente» (Bidussa 1994, Del Boca 1992, Giuliani e Lombardi-Diop 2013). In continuità con il passato recente, le parole usate dai dirigenti della Snia Viscosa mostrano però come il discorso razzista mantenesse una piena efficacia sul terreno del lavoro, indicando chiare linee gerarchiche alla stessa manodopera occupata all’estero, anche dopo la sua abolizione ufficiale in Italia. All’interno dei confini nazionali non andava del resto meglio: l’esperienza dei migranti interni che dal meridione e dal nord-est si spostavano verso il triangolo industriale era infatti intessuta di razzismo e discriminazione dentro e fuori i posti di lavoro (Alasia e Montaldi 2010). Quando inizia la lunga fase d’incubazione (1970-1990) delle migrazioni internazionali verso l’Italia, il fenomeno di razzializzazione assume tratti ben più poderosi se analizzati attraverso la lente dei processi lavorativi. I processi d’immigrazione prendono infatti il via alla fine di un decennio (1968-1978) di forte conflittualità lavorativa, in particolare nelle grandi fabbriche, che aveva consigliato al padronato una maggiore attenzione verso la composizione della forza lavoro e la localizzazione dei propri impianti. Le lavoratrici e i lavoratori migranti che s’insediano in Italia, all’inizio soprattutto in Sicilia in agricoltura e nella pesca e nelle grandi città nel settore del lavoro domestico, sono immediatamente oggetto di una costruzione sociale inferiorizzante, frutto sia dell’ombra lunga del colonialismo italiano (Marchetti 2012), sia delle necessità del padronato di riprendere il controllo sul potere di contrattazione nei luoghi di lavoro e nel mercato del lavoro (Sacchetto 2013). Le organizzazioni sindacali si pongono in questi anni in una prospettiva che oscilla tra l’umanitarismo e l’aperta ostilità nei confronti di una forza lavoro vista in competizione con i lavoratori locali, arrivando nel trapanese a operare attivamente per il rimpatrio dei lavoratori tunisini (Cusumano 1976). Le categorie sociali di immigrato e di clandestino si definiscono successivamente in un contesto storico di crisi del movimento operaio italiano e di propaganda dei valori imprenditoriali e del lavoro autonomo. Il processo di inferiorizzazione cui sono sottoposti i lavoratori migranti in questo contesto diventa palese alla fine degli anni ottanta, quando l’omicidio di Jerry Masslo, rifugiato politico dall’apartheid sudafricano e bracciante a Villa Literno, rivela anche ai più distratti una 2 situazione di segregazione ed estremo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne, che sono soprattutto di pelle nera. Le prime reazioni organizzate porteranno allo «sciopero nero» nei campi dove lavorava Masslo e alla prima manifestazione nazionale antirazzista a Roma (1989). In quel periodo prende avvio anche una revisione organica del diritto di restare e del regime dei permessi di soggiorno, con l’introduzione di criteri e condizioni più ordinate e via via più stringenti. I passaggi legislativi quali le cosiddette legge Martelli (1990), Turco-Napolitano (1998) e infine Bossi-Fini (2002) rafforzate dal «pacchetto sicurezza» nel 2008, mirano a regolare la presenza migrante alimentando discrezionalità e provvedimenti speciali, quali le sanatorie, in una situazione di crescente mobilitazione dei migranti stessi (Cobbe e Grappi 2011, 61-67). D’altra parte la scelta di affidarsi ai decreti flussi per determinare rigorosamente le ‘quote d’ingresso’ di una forza lavoro differenziata per mansione e provenienza, si scontrano con i tentavi dei migranti di mantenere una certa autonomia nei loro movimenti. Nel frattempo, la presenza di migranti è cresciuta arrivando alla soglia dei cinque milioni che costituiscono circa il 7% della popolazione, corrispondendo al 10% di quella attiva (Caritas 2012). 2. La costruzione di sistemi di occupazione differenziati Le migrazioni internazionali verso l’Italia costituiscono la base per la riattualizzazione di processi di razzializzazione presenti da lungo tempo nella società, disponendo i soggetti all’interno di una scala gerarchica nella dimensione concreta della struttura del lavoro. Tali processi iniziano tuttavia ad assumere una diversa dimensione: quando nel corso degli anni 1960-70 prendono piede spinte sociali a favori dell’egualitarismo, esse sono controbilanciate da una politica che favorisce l’entrata di forza lavoro differenziata. L’ampio ventaglio di nazionalità che caratterizza l’immigrazione italiana permette l’enfatizzazione delle diversità e una loro gestione attraverso la stereotipizzazione che tiene conto anche del genere e del colore della pelle. La formazione di nicchie, secondo la provenienza geografica e la lingua parlata, diventa anche in Italia una forma di organizzazione dell’arruolamento e della messa al lavoro. La lunga discussione sulla società multiculturale, divulgata nelle ‘province’ italiane con il modello dell’insalatiera (Bernardi 2000), fornisce gli strumenti fondamentali per la gestione delle differenze tra migranti e autoctoni e tra migranti di diversa nazionalità, 3 lingua e cultura. Se gli autoctoni si aspettano che i migranti si incasellino là dove servono, gli imprenditori invece hanno mirato a una selezione della forza lavoro che tenga conto delle esigenze tanto di controllo e disciplinamento, quanto di cooperazione all’interno delle imprese. L’espandersi delle cosiddette ‘nicchie etniche’, nome con il quale si celano mansioni o settori produttivi nei quali sono inserite specifiche nazionalità, avviene infatti attraverso un’oculata gestione delle differenze di lingua e di colore che sono piegate alle esigenze produttive. Le virtù della diversità contribuiscono così al controllo e aiutano a produrre valore in misura crescente (Roediger, Esch 2012: 205). Uno degli elementi ideologici che favorisce la costruzione di una differenziazione inferiorizzante è l’idea, promossa dal Censis (1978), secondo cui «gli immigrati svolgono i lavori che gli italiani non vogliono più fare». Il progressivo affinamento della separazione delle mansioni all’interno dei posti di lavoro produce processi di sistemazione che implicano una differenziazione costante tra manodopera locale e straniera. Con la crescita della migrazione gli autoctoni costituiscono sempre più un gruppo di controllo e di disciplina, imponendo ai migranti ritmi e comportamenti lavorativi. L’assunzione di lavoratori stranieri consente così la promozione di una parte dei lavoratori locali ad attività più remunerate con ricadute importanti nella conservazione dell’ordine sociale. Inoltre, nelle fabbriche italiane, come nelle cooperative di servizi o di facchinaggio, solitamente il comando sbianca poiché ai vertici si trovano persone autoctone o di pelle bianca. L’occupazione dei migranti nelle mansioni più nocive e a bassi salari provoca un forte avvicendamento nei posti di lavoro, un motivo questo di ulteriore differenziazione inferiorizzante, il cosiddetto nomadismo dei migranti1. La progressiva erosione dei diritti del lavoro e del welfare registratasi dai primi anni 1990 ha prodotto nella popolazione italiana un senso d’insicurezza che acuisce la paura di non riuscire a sostenere la competizione sociale, mentre i migranti mostrano con i loro comportamenti il carattere instabile dell’inferiorizzazione. La crisi seguita all’illusione dell’accampamento (Gambino 2003), quando cioè si è compreso che la presenza dei migranti anche se mobile non è passeggera, ha reso sicuramente più aggressivi strati di popolazione locale nel tentativo di difendere le proprie posizioni sociali ed economiche. 1 I tassi di turnover dei migranti sono sempre piuttosto elevati; in Piemonte ad esempio, essi sono il doppio rispetto a quelli italiani (Luciano et al. 2007, p. 139). 4 Chi è presente in Italia da più tempo è in molti casi consapevole dei propri diritti, dimostrando spesso una certa capacità di contrattazione e una minore propensione ad accettare imposizioni, mentre chi è giunto da poco arriva anche a rifiutare in modi eclatanti il lungo periodo di adattamento presupposto dalla retorica dell’integrazione. Le forze politiche e imprenditoriali che hanno scommesso su un regime migratorio sostenuto da un vorticoso turnover per impedire il radicamento, mirano invece a costruire un’idea cristallizzata dei migranti come «invasori» di spazi non propri, dal punto di vista sia fisico sia sociale sia infine politico (Puwar 2004). Intorno a questi lavoratori si è così definito nel tempo una sorta di recinto tanto simbolico quanto materiale dal quale è possibile uscire solo nel medio periodo, rimanendone però marchiati. A garanzia di tale recinto si colloca il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, che spinge con più decisione i migranti a svolgere qualsiasi tipo di lavoro, pur di risultare in regola. Nella società italiana il posto dei migranti è di conseguenza quasi sempre connesso a un lavoro o meglio a un datore di lavoro. In effetti, la presenza regolare è subordinata alla disponibilità di un rapporto di lavoro e all’autorizzazione amministrativa, legata a procedure burocratiche che possono essere messe in atto anche in modo discrezionale dalle Questure e dalle Prefetture. Si tratta di una pressione decisiva nello spiegare la larga presenza di personale immigrato, ad esempio, nelle cooperative. La maggiore mobilità riconosciuta ai cittadini dei paesi dell’Europa orientale che hanno aderito all’UE (nel 2004 e nel 2007) ha determinato ulteriori processi di stratificazione interni alla forza lavoro. Come mostra il caso dei rumeni, anche la pelle bianca e la libertà di mobilità non garantisce l’ingresso nel mercato del lavoro dalla porta principale. I ‘nuovi’ cittadini europei dei paesi dell’ex-socialismo realizzato, dopo essere passati attraverso lunghe fasi di regolazione e concessione del diritto alla mobilità, rimangono colpiti da processi di stigmatizzazione che mostrano diverse linee di separazione della bianchezza. La legislazione italiana produce dunque una profonda differenziazione, incentivando la gerarchizzazione delle figure lavorative (Raimondi, Ricciardi 2008) e una nuova economia morale che, in linea con fenomeni di carattere europeo, prescrive norme di comportamento sociale tanto per chi è in regola quanto per chi è irregolare (Chauvin e Garcés-Mascareñas 2012). Questa differenziazione, tuttavia, s’inserisce in un processo 5 di lungo periodo (Melotti 1989, p. 37) di segmentazione dei sistemi occupazionali o, nel linguaggio corrente, di flessibilizzazione del mercato del lavoro. In questa nuova divisione del lavoro possiamo notare anche il ruolo specifico giocato dalle differenze di genere, con le migranti inserite prevalentemente nel settore dei servizi alla persona e rigidamente separate in base alla provenienza e al colore della pelle. La progressiva privatizzazione del welfare costituisce infatti lo spazio in cui le donne migranti sono state prevalentemente messe al lavoro, anche mediante appositi «decreti flussi» governativi. I costi del welfare sono così riversati sui cittadini italiani e sui livelli salariali delle migranti, occupate con una certosina divisione razziale modulata su base territoriale (Andall 2000). Questa gestione delle differenze prodotte nel mercato del lavoro deve essere compresa in termini di connessione con i modelli che il capitalismo italiano ha dispiegato in tempi recenti in altre aree del mondo. L’acculturazione ‘italianizzata’ impartita dai delocalizzatori italiani ai lavoratori, ad esempio in Romania, prevede la loro continua inferiorizzazione a partire dalle pratiche sociali e lavorative dove i sentimenti di superiorità si coniugano con il gusto dell’esotico (Sacchetto 2007; Redini 2008). Lo spirito neo-coloniale, in Romania come altrove, si ripercuote in Italia poiché esso definisce anche le competenze lavorative più adeguate per l’inserimento dei migranti in qualche nicchia occupazionale, oltre che nella società. Un neo-colonialismo interno che è connesso tanto ai flussi migratori degli ultimi decenni, quanto alla storia dell’emigrazione e alla politica estera italiana, compresa quella degli investimenti all’estero. 3. La dimensione politica del mercato del lavoro I dati statistici più recenti sul mercato del lavoro italiano segnalano la tenuta relativa e anzi la lieve crescita della forza lavoro migrante anche nella crisi (della Ratta-Rinaldi, Pintaldi, Tibaldi 2012). Essi nascondono linee di tendenza che confermano il contenuto politico del mercato del lavoro e l’incidenza delle normative e dei comportamenti datoriali nella segmentazione della forza lavoro lungo linee di razzializzazione passiva. Si afferma in questi comportamenti, sostenuti dal discorso pubblico e dalle politiche statali, un ‘razzismo senza razze’ che si appoggia alla negazione della presenza della razza per imporre una scala gerarchica al tempo stesso rigida e flessibile, nella quale 6 incidono in misura variabile diverse linee di demarcazione: la provenienza geografica e sociale, il colore della pelle, lo status giuridico, il sesso. Questa composizione del mercato del lavoro non può essere compresa semplicemente su un piano di competizione o complementarità in un mercato del lavoro statico, poiché il lavoro migrante è parte costitutiva delle sue trasformazioni a livello transnazionale (Bauder 2006). Ad essa concorrono almeno due dinamiche intrecciate tra loro, quella salariale e quella legata alle mansioni lavorative. I migranti sono sottorappresentati nelle occupazioni non manuali e a media qualificazione, mentre sono largamente sovrarappresentati nei lavori manuali non qualificati (CNEL 2012). L’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro italiano va compresa nella dimensione transnazionale assunta dal mercato del lavoro a partire dalla crisi degli anni settanta e dalle ristrutturazioni produttive che ne sono seguite. All’aumento delle mansioni ad alta qualifica, i cosiddetti ‘lavoratori della conoscenza’, infatti, si è accompagnato un aumento della domanda di lavoro manuale e scarsamente qualificato a livello globale ed europeo che non accenna a diminuire e che ha costituito il principale bacino di occupazione di lavoratrici e lavoratori migranti (Luciano et al. 2007, 142-143, 160-161). Associare questa distribuzione a una domanda congiunturale di lavoro a bassa qualificazione non è però sufficiente per spiegare i motivi per cui siano proprio i migranti a esserne i protagonisti. Noi avanziamo l’ipotesi che la dimensione politica del mercato del lavoro sia fondamentale per comprendere l’inserimento dei migranti in alcune occupazioni. L’intervento diretto della legislazione statale e delle procedure amministrative è essenziale nel relegare i lavoratori migranti a uno status sociale e giuridico separato, strettamente legato alla condizione lavorativa, ai livelli di reddito e ai comportamenti riproduttivi della forza lavoro migrante. Un’ultima osservazione, che coinvolge entrambe i lati della ‘separazione’ attuata sulla pelle dei migranti, è necessaria su questo punto. Si osserva, infatti, un’incidenza direttamente proporzionale tra la presenza di migranti e lo spostamento dei lavoratori nativi verso occupazioni più complesse, con conseguente separazione e ingresso in un mercato del lavoro che, per quanto precario, allontana dalle mansioni di tipo manuale le nuove generazioni. Sino al dispiegarsi della crisi economica questo ha significato non solo l’aspettativa, ma la reale percezione di salari mediamente più elevati perché legati a 7 mansioni con un maggior livello formale di conoscenza. Con l’esplosione della crisi, la precarizzazione crescente del lavoro qualificato ha certamente eroso questa aspettativa, senza però scalfire in modo deciso l’apparente separazione di destino tra i migranti, compresi ormai i loro figli e le loro figlie, che occupano le posizioni più basse e gli altri lavoratori. È piuttosto nei settori scarsamente qualificati, laddove vi è più concorrenza tra lavoratori locali e stranieri, che si assiste a una più decisa messa in discussione di tale separazione, con il crescente ritorno di lavoratori italiani e soprattutto lavoratrici italiane verso mansioni da cui pensavano di essersi smarcati. 4. Questione operaia e differenziazione democratica Le scelte imprenditoriali, così come le pratiche sindacali (Mottura, Cozzi, Rinaldini, 2010), contribuiscono alla produzione sociale di differenze segnate dunque da marcatori tra i quali il colore della pelle, la provenienza nazionale, il genere e lo status giuridico in concorso con le politiche di governo delle migrazioni. Le lotte dei lavoratori migranti e la crescita delle migrazioni verso l’Italia hanno prodotto una situazione nella quale il dispositivo di razzializzazione ha reso la linea del colore progressivamente più permeabile. Anche se l’equazione tra bianchezza e management è meno stringente, tuttavia, essa convive con nuovi stigmi di separazione e gerarchizzazione (Lowe 1996, Roediger e Esch 2012). Tra questi, il permesso di soggiorno, con le sue diverse declinazioni, è diventato un supplemento che contribuisce a definire oggi il contenuto della razza lungo la linea del lavoro proiettandosi sull’intera vita dei e delle migranti (Grappi 2012). Lungi dal tendere a una standardizzazione delle condizioni, i datori di lavoro e le politiche governative sembrano puntare alla riproduzione e alla valorizzazione delle differenze come strumento di gestione della manodopera e della produzione. Si tratta di una dinamica riscontrabile come già ricordato anche nel processo di allargamento europeo, che non ha significato la parificazione sociale dei cittadini dei paesi entranti ma una nuova stratificazione gerarchica della bianchezza che guarda verso Est. La separazione gerarchica e il razzismo sembrano essere due categorie spesso sovrapposte, con una forza lavoro contrapposta l’una all’altra sia per la condizione oggettiva, sia perché le forze padronali e lo status giuridico spingono per una differenziazione. La questione della separazione del corpo lavorante, che si manifesta ad 8 esempio tra dipendenti diretti e indiretti, è evidente. L’inserimento dei migranti ha permesso tra l’altro di mantenere mediamente bassi i livelli tecnologici in alcuni settori, evitando la delocalizzazione, o di massimizzare la performance economica nei processi just-in-time, appoggiandosi soprattutto agli appalti esterni che in alcuni casi hanno profonde analogie con il mondo del caporalato. Le strategie che puntano a ostacolare il radicamento dei migranti, oltre a imporsi come strumenti coercitivi che intervengono direttamente nei rapporti di lavoro incidendo su condizioni e salari, contribuiscono a favorire l’idea che la presenza dei migranti sia comunque temporanea e sempre connessa alla loro utilità. La valorizzazione di alcuni caratteri generali individuati dalla categoria di migrazioni circolari proietta così la lunga ombra dell’inferiorizzazione anche sulle nuove generazioni stigmatizzate dalla differenziazione amministrativa e dalle diverse gradazioni del colore della pelle. Anche l’integrazione, esprimendo il punto di vista dell’appartenenza alla comunità nazionale, è sempre concessa e va guadagnata. È però nella dimensione concreta del lavoro che essa mostra i caratteri materiali sui quali questo processo si fonda. I migranti, infatti, sono integrati nel momento in cui svolgono un ruolo specifico all’interno del mercato del lavoro (Bauder 2006) e le differenze prodotte al suo interno vanno considerate come compimento dell’integrazione e non come un suo impedimento. In conclusione, attraverso il significante razza si possono oggi a nostro giudizio porre in nuova luce la questione operaia e della politicità del mercato del lavoro. Si tratta di una distribuzione gerarchica della differenza che si sostiene al livello della produzione, nella quale la linea del colore rappresenta uno degli elementi mobilitati in misura variabile, insieme con altri, per la riproduzione di una ‘razza operaia’ eterogenea e separata, politicamente isolata sul piano dei diritti, la cui costruzione è iniziata in Italia da oltre un quarantennio e la cui gestione può assumere il nome di razzismo (Ulargiu 1992). La razza può così esistere oggi all’interno di processi di razzializzazione che ne negano l’esistenza, come dispositivo di gerarchizzazione sociale che produce una vera e propria differenziazione democratica nella quale la diversità è riprodotta come inferiorità e separazione materiale. Questo processo, come rilevato altrove in questa tavola rotonda, ha nella dimensione storico-discorsiva uno dei suoi pilastri costitutivi, e trova nelle articolazioni del mercato del lavoro e nel suo contenuto politico le basi 9 materiali della sua riproduzione, avvalendosi del contributo decisivo dell’apparato istituzionale e amministrativo. Bibliografia Alasia, F., Montaldi, D. (2010) Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo» (1960), Roma, Donzelli. Andall, J. (2000) Gender, Migration and Domestic Service: the Politics of Black Women in Italy, Aldershot, Ashgate. Bauder, H. (2006) Labor Movement. How Migration Regulates Labor Markets, Oxford, Oxford University Press. 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