Insufficienza respiratoria acuta e cronica

481
CAPITOLO 20
Antonio Corrado
Ernesto Crisafulli
Leonardo M. Fabbri
Maurizio Moretti
Stefano Nava
Alfredo Potena
Insufficienza
respiratoria acuta
e cronica
2
Andrea Rossi
Enrico M. Clini
Insufficienza respiratoria e principi di terapia
Definizione e classificazione
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L’insufficienza respiratoria (IR) è un’anomalia dei valori
di pressione parziale di ossigeno (PO 2) e di anidride
carbonica (PCO2) nel sangue arterioso (PaO2 e PaCO2),
rispettivamente inferiori e superiori ai limiti della norma. Il rilievo di questi valori richiede necessariamente
un prelievo di sangue arterioso (arteria radiale, brachiale
o femorale) e la misurazione, mediante un’idonea attrezzatura, delle pressioni parziali. Questo esame viene
comunemente chiamato emogasanalisi arteriosa. In un
soggetto normale che respira spontaneamente in aria
ambiente a livello del mare (FiO 2 = 0,21) (per la spiegazione degli acronimi usati, si veda la tabella 20.1 ),
la PaO2 è superiore a 80 mmHg e la PaCO2 è compresa
tra 36 e 45 mmHg. La saturazione dell’emoglobina (Hb)
in ossigeno (SaO 2) è compresa tra 96 e 100%. Il pH è
compreso tra 7,36 e 7,44. Nelle condizioni patologiche,
l’anomalia che riguarda PaO2 e/o PaCO2 può essere:
• di rapida instaurazione e temporanea: insufficienza
respiratoria acuta (IRA);
• permanente: insufficienza respiratoria cronica
(IRC);
• temporaneamente peggiorata nel contesto
di un quadro di anomalia persistente: insufficienza
respiratoria cronica riacutizzata.
In diversi trattati e manuali, la IR viene definita:
• parziale o di tipo I, quando è presente solamente una
condizione di ridotta PaO2 (ipossiemia): insufficienza
respiratoria ipossiemica;
• globale o di tipo II, quando all’ipossiemia sia associato
l’incremento di PaCO2 (ipercapnia): insufficienza
respiratoria ipossiemico-ipercapnica.
Questa tradizionale classificazione assume implicitamente che il meccanismo fondamentale della IR, cioè
dell’anomalia dei gas nel sangue arterioso, sia un peggioramento progressivo dello scambio gassoso a livello
della membrana alveolo-capillare. Poiché la CO2 è 20
volte più diffusibile dell’O2, l’ipercapnia compare a uno
stadio più grave di compromissione dello scambio gassoso
rispetto all’ipossiemia. Nel 1982 fu proposta una diver-
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M. Moretti, A. Rossi, S. Nava
2
sa classificazione della IR che tenesse in maggior conto
non solo la distinzione anatomofunzionale delle componenti dell’apparato respiratorio, ma anche le diverse
implicazioni terapeutiche di quella differenza. In realtà,
l’apparato respiratorio è formato da due strutture distinte,
arrangiate “in parallelo”:
• i polmoni (incluse le vie aeree, il parenchima
polmonare e i vasi polmonari);
• il torace (inteso come la parete toracica vera e
propria con i muscoli respiratori extradiaframmatici
e il complesso diaframma-addome).
Il polmone è la struttura addetta allo scambio gassoso
attraverso la membrana alveolo-capillare. Il torace invece, insieme con il sistema di controllo nervoso centrale
(strutture del pavimento del IV ventricolo) e periferico
(chemocettori), è la struttura addetta alla ventilazione.
Questo tipo di organizzazione comporta pertanto una
diversa classificazione della IR (Fig. 20.1), cioè:
• insufficienza polmonare caratterizzata
dall’ipossiemia;
• insufficienza ventilatoria caratterizzata
dall’ipercapnia;
• insufficienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica.
Nella figura 20.1 si evidenzia che il percorso verso l’insufficienza respiratoria può seguire due vie; il percorso a destra
si caratterizza per la presenza di ipossiemia arteriosa (insufficienza polmonare), mentre l’insufficienza ventilatoria o
di pompa si caratterizza per la presenza di ipercapnia.
Come verrà discusso più avanti, non si tratta di una
distinzione puramente accademica, ma del riconoscimento di meccanismi patogenetici differenti cui seguono
manovre e trattamenti terapeutici diversi. In sintesi,
l’ipossiemia da insufficienza polmonare richiede la somministrazione di aria arricchita in ossigeno (FiO2 > 0,21),
mentre l’ipercapnia da insufficienza ventilatoria necessita dell’assistenza meccanica alla ventilazione. La
combinazione di insufficienza ventilatoria e di insufficienza polmonare, cioè l’insufficienza respiratoria totale
correttamente intesa, richiede che l’arricchimento in
O2 dell’aria inspirata avvenga in combinazione con un
supporto ventilatorio.
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482
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Tabella 20.1 Legenda esplicativa degli acronimi
ARDS
AMV
BPCO
CFR
CMV
CO2
CPAP
D(Aa)O2
FiO2
HCO3f
Hb
INPV
IR
IRA
IRC
IP
IVA
IVC
nPPV
O2
PO2
PaO2
PCO2
PaCO2
PAO2
PACO2
PAV
Pb
PCV
PH2O
PSV
PvO2
Qc
R
SaO2
SpO2
VA
VCO2
VO2
VD
Sindrome da distress respiratorio acuto
Ventilazione meccanica assistita
Broncopneumopatia cronica ostruttiva
Capacità funzionale residua
Ventilazione meccanica controllata
Biossido di carbonio (anidride carbonica)
Continuous Positive Airway Pressure
Differenza alveolo – arteriosa di ossigeno
Frazione dell’ossigeno nell’aria inspirata
Concentrazione di bicarbonati
Frequenza degli atti respiratori al minuto
Emoglobina
Ventilazione a pressione negativa
intermittente
Insufficienza respiratoria
Insufficienza respiratoria acuta
Insufficienza respiratoria cronica
Insufficienza polmonare
Insufficienza ventilatoria acuta
Insufficienza ventilatoria cronica
Ventilazione a pressione positiva
intermittente
Ossigeno
Pressione parziale dell’ossigeno
Pressione parziale dell’ossigeno nel sangue
arterioso
Pressione parziale dell’anidride carbonica
Pressione parziale dell’anidride carbonica
nel sangue arterioso
Pressione parziale dell’ossigeno a livello
alveolare
Pressione parziale dell’anidride carbonica
a livello alveolare
Proportional Assist Ventilation
Pressione atmosferica
Ventilazione a pressione controllata
Pressione parziale del vapore acqueo
Pressure Support Ventilation
Pressione parziale dell’ossigeno nel sangue
venoso misto
Perfusione capillare
Quoziente respiratorio
Saturazione dell’emoglobina in ossigeno
Saturazione in ossigeno del sangue arterioso
periferico
Ventilazione alveolare
Produzione metabolica di anidride carbonica
Consumo di ossigeno
Ventilazione dello spazio morto
Fisiopatologia
Ipossiemia
L’insufficienza polmonare è più precisamente definita
dall’ipossiemia. Un valore di PaO2 < 80 mmHg è da considerarsi ridotto rispetto ai limiti inferiori riscontrabili in
un soggetto normale nelle condizioni descritte e indica
un difetto nello scambio gassoso. Questo viene misurato
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dalla differenza alveolo-arteriosa di ossigeno D(A−a)O2
che è normalmente <15-20 mmHg. Tuttavia, in base alla
curva di dissociazione dell’HbO2, con una PaO2 di poco
<80 mmHg, la SaO2 rimane > 96% (Fig. 20.2), perché la
relazione SaO2/PaO2 scorre, per questi valori, sulla parte
alta e piatta della curva di dissociazione dell’HbO2.
Nella figura 20.2 la saturazione ossiemoglobinica (SaO2
ovvero la percentuale di emoglobina ossigenata) è espressa
quale funzione della pressione parziale dell’ossigeno arterioso (PaO2). La misura della saturazione ossiemoglobinica
con un pulsossimetro o un saturimetro ha usualmente un
limite di confidenza pari a ± 4%, per cui una lettura ossimetrica del 95% corrisponde a valori di PaO2 compresi fra
60 mmHg (SaO2: 91%) e 160 mmHg (SaO2: 99%).
Un’ulteriore alterazione dello scambio riduce la PaO2
a un valore di 60 mmHg cui corrisponde, sempre nelle
condizioni standard cui si fa riferimento, una SaO2 pari al
90%. Si è al gomito di passaggio tra la parte alta e piatta e
la parte centrale ripida della curva di dissociazione della
HbO2. Con un ulteriore peggioramento della PaO2 (quindi
al di sotto di 60 mmHg), la SaO2 scende rapidamente, anche fino a valori corrispondenti a quelli del sangue venoso
misto (SaO2 del 70-75% e PvO2 di 35-40 mmHg).
Sulla base di questa fondamentale evidenza fisiologica, nei
documenti internazionali è stata accetta una definizione
di ipossiemia con rapporto PaO2/FiO2 300 mmHg, che
corrisponde a una PaO2 60 mmHg e a una SaO2 90%
in aria ambiente. Tale soglia convenzionale rappresenta
il valore limite sotto il quale è opportuno considerare la
somministrazione di ossigeno.
Il rilievo corretto dell’ipossiemia richiede la misurazione
attraverso emogasanalisi del sangue arterioso e ne rappresenta il valore di riferimento (gold standard). Negli
ultimi anni si è reso disponibile su larga scala, per i costi
contenuti e l’ingombro ridotto, un apparecchio (pulsossimetro) che misura in maniera non invasiva, cioè
senza prelievo ematico, la saturazione in O2 del sangue
arterioso periferico (SpO2) utilizzando la tecnica dei raggi infrarossi al polpastrello o al lobo dell’orecchio. Tale
tecnica è diventata rapidamente popolare, ma non è da
considerarsi sostitutiva dell’emoganalisi arteriosa se non
nelle condizioni in cui, per motivi tecnici o clinici, non
sia possibile ottenere il prelievo di sangue. Anche in questi
casi, l’interpretazione della SpO2 richiede molta cautela
per i seguenti motivi:
• la relazione tra SaO2 e PaO2 sulla curva
di dissociazione dell’HbO2 dipende da molti fattori
che influenzano la relazione stessa, per cui la PaO2
può non essere prevedibile sulla base della sola SpO2,
che dovrebbe riflettere la SaO2 (Fig. 20.3). La curva
di dissociazione dell’emoglobina è spostata a destra
dalla riduzione del pH arterioso, da un incremento
della temperatura corporea, della PaCO2 e del 2,3difosfoglicerato (2,3-DPG, presente all’interno dei
globuli rossi in condizioni di ipossiemia prolungata).
Fattori che causano uno spostamento della curva
verso sinistra includono una riduzione della
temperatura corporea, della PaCO2, del 2,3-DPG
e un innalzamento del pH;
• una SpO2 > 95% è compatibile con tutti i valori
di PaO2 > 80 mmHg (si veda la Fig. 20.2), esponendo
il paziente alla possibilità di un’iperossigenazione
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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
superflua e al possibile rischio di insorgenza
o aggravamento dell’ipercapnia per riduzione dello
stimolo ipossico alla ventilazione;
• la pulsossimetria non rileva ovviamente gli altri utili
parametri informativi (PCO2 e pH).
Quindi, se si è nell’impossibilità di effettuare l’emogasanalisi arteriosa e la pulsossimetria rappresenta l’unico
strumento per stimare l’ossigenazione, è opportuno considerare come clinicamente utile il mantenere la SpO2 tra
il 92 e il 95%, per garantire un’ossigenazione necessaria e
sufficiente. Invece, la pulsossimetria può essere molto più
utile per il monitoraggio clinico dell’ossigenazione una
volta misurati i valori effettivi di PaO2 e SaO2 allo scopo
principale di limitare il numero di prelievi arteriosi.
Meccanismi dell’ipossiemia
Una volta accertata la riduzione della PaO2 occorre ricercarne le cause. L’ipossiemia non è solo di origine polmonare, ma riconosce cause intrapolmonari ed extrapolmonari
secondo lo schema seguente:
• cause intrapolmonari:
– alterata distribuzione del rapporto ventilazione/
perfusione (V/Q mismatching);
– shunt vero o anatomico;
– riduzione della diffusione a livello della
membrana alveolo-capillare (blocco alveolocapillare);
• cause extrapolmonari:
– ridotta frazione inspiratoria di ossigeno
(FiO2 < 0,21);
– ipoventilazione alveolare;
– ridotta gittata cardiaca;
– aumentata estrazione periferica di ossigeno;
– ridotta PO2 del sangue venoso misto;
– comunicazione intracardiaca destra-sinistra.
Cause intrapolmonari Di fatto, i polmoni si comportano
come uno scambiatore che riceve il sangue venoso misto,
elimina rapidamente la CO2 e lo ossigena lasciando uscire il
sangue arterioso (Fig. 20.4). È intuitivo che l’ossigenazione
del sangue venoso dipende dalle condizioni in cui lo stesso
arriva, cioè il valore della PvO2, dalla rapidità con cui attraversa lo scambiatore, cioè il polmone, e dall’efficienza dello
scambiatore stesso, cioè della membrana alveolo-capillare.
Per un’efficace scambio gassoso è necessaria una buona
relazione tra la ventilazione alveolare (VA) e la perfusione
capillare (Qc). La distribuzione di questo rapporto (VA/
Qc) è stata studiata con la tecnica dei gas inerti. Quanto
maggiore è la presenza di regioni con un basso rapporto
VA/Qc, tanto meno efficace sarà l’ossigenazione del
sangue venoso. Questo accade nella grande maggioranza
delle malattie polmonari ostruttive e restrittive, in cui la
prima causa di ipossiemia è appunto la maldistribuzione
del rapporto ventilazione-perfusione (Fig. 20.5). In questa
figura, il polmone è schematicamente illustrato da un
modello a due alveoli. Nella figura 20.5 a entrambi gli
alveoli ricevono una regolare ventilazione e la perfusione
è equamente distribuita al 50% fra le due unità, per cui
483
2
INSUFFICIENZA
RESPIRATORIA
INSUFFICIENZA
VENTILATORIA
INSUFFICIENZA
POLMONARE
IPERCAPNIA
PaCO2 > 45
mmHg
IPOSSIEMIA
PaO2/FiO2
≤ 300 mmHg
Figura 20.1
Insufficienza
respiratoria
di pompa
e di parenchima.
SaO2 = 95 ± 4%
100
Saturazione O2 (%)
90
50
0
Figura 20.2
Curva di
dissociazione
dell’ossigeno.(Da:
Tobin MJ.
Principles and
practice of
intensive care
monotoring. Ed.
McGraw-Hill,
1998. p. 270.)
PaO2 = 60 – 160 torr
0
100
60
160
PaO2 (torr)
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Figura 20.3
Fattori che
causano uno
spostamento
della curva di
dissociazione
dell’emoglobina
verso destra.
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
100
0
2
3
6
pO2 (kPa)
8
10
12
14
16
pH = 7,6
90
80
Saturazione O2 (%)
484
pH = 7,2
70
60
pH = 7,4
50
40
30
20
10
0 0
10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120
pO2 (mmHg)
(Da: Casali L, Cerveri I. Inquadramento clinico e funzionale. In: Casali L. Manuale di malattie
dell’apparato respiratorio. Milano: Masson; 2001. Vol. 2, p. 282.)
Figura 20.4
I polmoni si
comportano
come uno
scambiatore fra
il sangue venoso
misto e il sangue
arterioso.
V’A/Q’
V’
PaO2
Normale
Figura 20.5
Rappresentazione
schematica
dell’insufficienza
respiratoria
causata da shunt
o alterazione
del rapporto
ventilazione/
perfusione
(V/Q).
Shunt
V’/Q’ mismatch
V
V
V
V
V
V
Q
Q
Q
Q
Q
Q
a
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l’ossigeno diffonde regolarmente dall’alveolo al sangue
capillare (condizione normale). Nella figura 20.5 b un
alveolo è regolarmente ventilato e perfuso, mentre l’altro non è ventilato ma riceve regolarmente il 50% della
perfusione totale. Il risultato dello “shunt vero” è una
significativa riduzione della diffusione dell’ossigeno verso
il sangue capillare con conseguente ipossiemia. Infine,
nella figura 20.5 c un alveolo è regolarmente ventilato
e perfuso mentre l’altro ha una scarsa ventilazione, pur
conservando una regolare perfusione. Tale condizione di
alterato rapporto V/Q è causa di ipossiemia.
Se esistono aree di consolidamento alveolare o di completa occupazione degli spazi aerei con liquido extracellulare,
per esempio l’edema polmonare, o con essudato infiammatorio, per esempio la sindrome da distress respiratorio
acuto (ARDS, Acute Respiratory Distress Syndrome), il
sangue venoso non ha alcun contatto con l’aria inspirata
e VA = 0. In questo caso non si può ovviamente parlare di
rapporto VA/Qc, perché manca il numeratore (si veda la
Fig. 20.5). Questa condizione è definita shunt anatomico
intrapolmonare vero ed è assimilabile allo shunt intracardiaco destro-sinistro tipico delle cardiopatie congenite.
La distinzione fra queste due condizioni non è puramente
formale, ma ha importanti implicazioni terapeutiche. Nel
caso di un’alterata distribuzione di un esistente rapporto
VA/Qc, l’arricchimento in O2 dell’aria inspirata corregge
l’ipossiemia attraverso l’aumento della PAO2. Viene rimossa la vasocostrizione ipossica regionale, ma l’aumentata
perfusione capillare viene a contatto con un’aria inspirata
più ricca in O2. La D(A−a)O2, cioè la differenza alveolo-arteriosa di ossigeno, rimane elevata, ma a una maggiore PAO2
corrisponde una maggiore PaO2. Se vi è invece uno shunt
anatomico, la perfusione di quell’area non giungerà mai
in contatto con l’aria inspirata e qualunque aumento della
concentrazione di O2 non avrà alcun effetto sul sangue
venoso dell’area di shunt. In queste condizioni si definisce
un’ipossiemia “refrattaria” alla somministrazione di O2 e si
rende spesso necessaria la ventilazione meccanica aggiuntiva al fine di reclutare spazi aerei eventualmente disponibili.
Quindi, nell’insufficienza polmonare, la somministrazione
di O2 ha una funzione terapeutica se migliora la PaO2 e una
funzione diagnostica se rivela l’ipossiemia refrattaria.
Il cosiddetto blocco alveolo-capillare, cioè l’ipossiemia
per ispessimento dell’interstizio polmonare, non ha di
fatto alcuna rilevanza nell’insufficienza polmonare nella
pratica clinica. Anche nelle interstiziopatie, l’ipossiemia
è dovuta a un’alterazione della distribuzione del rapporto
b
c
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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
VA/Qc. Secondo studi condotti sempre con la tecnica
dei gas inerti, l’ispessimento dell’interstizio, e quindi il
blocco alveolo-capillare, contribuisce però all’ipossiemia
nell’esercizio fisico.
Cause extrapolmonari Per quanto riguarda i determinanti extrapolmonari dell’ipossiemia, i primi due, cioè la concentrazione di O2 nell’aria inspirata (FiO2) e la ventilazione
polmonare sono contenuti di fatto nell’equazione del gas
alveolare (si vedano il capitolo sulla ventilazione meccanica
nella sezione principi di terapia e il capitolo sull’ARDS):
PAO2 = (Pb − PH2O) × FiO2 − (PACO2/R)
ove, PAO2 è la pressione parziale di ossigeno nell’aria alveolare, Pb è la pressione atmosferica (per esempio, 760 mmHg
a livello del mare), PH2O è la pressione parziale del vapore
acqueo (47 mmHg), in quanto l’aria inspirata viene immediatamente e completamente umidificata nelle alte vie
aeree, PACO2 è la pressione parziale di anidride carbonica
nell’aria alveolare, che è sostanzialmente uguale alla PaCO2
per il forte coefficiente di diffusione della CO2, R è il quoziente respiratorio, cioè il rapporto tra la produzione di CO2
(VCO2 = 200 mL/min) e il consumo di O2 (VO2 = 250 mL/
min), generalmente compreso tra 0,7 e 1 e mediamente
assunto per un valore di 0,8. È chiaro dall’equazione che la
riduzione della FiO2 porterà a una diminuzione della PaO2
per una riduzione della PAO2. D’altra parte, più importante
per l’argomento di questo capitolo, un aumento della FiO2
mediante l’aumento della percentuale di O2 nell’aria inspirata anche fino al 100% determinerà un miglioramento
della PaO2 sempre attraverso l’aumento della PAO2.
La ventilazione polmonare influenza il valore della PaO2
attraverso quello della PaCO2. È intuitivo che se aumenta
la PCO2 nel sangue e quindi negli alveoli, per la legge della
somma delle pressioni parziali dei gas, deve diminuire
la PAO2 che trascinerà così la PaO2. Pertanto, in tutte le
condizioni di ipoventilazione alveolare, sarà presente
una modesta ipossiemia che non è dovuta a un difetto
dello scambiatore, ma alla sostituzione dell’O2 con la
CO2 nell’aria alveolare. Ciò accade in tutte le malattie
neuromuscolari o della parete toracica, come la cifoscoliosi, in cui l’ipossiemia è semplicemente la conseguenza
dell’ipercapnia. Che lo scambiatore polmonare, inoltre,
sia efficiente lo dimostra la bassa D(A−a)O2. Se invece
questa è superiore a 20 mmHg, significa che oltre all’ipoventilazione esiste una compromissione polmonare; per
esempio, ciò si verifica nel caso di aree polmonari non
raggiunte dalla ventilazione (atelettasie), a causa del basso
volume corrente determinato dalla rigidità della parete
toracica o dalla debolezza muscolare.
L’altro determinante della PaO2 è il valore della PvO2. È chiaro che tanto minore è la PvO2, tanto maggiore deve essere il
contatto tra sangue venoso che giunge e l’aria a livello della
membrana alveolo-capillare. È altrettanto evidente che se
lo scambiatore non è efficace, la situazione di bassa PvO2
viene amplificata con il risultato finale di un’ipossiemia importante. Il valore della PvO2 dipende dalla gittata cardiaca
e dall’estrazione periferica di O2 da parte dei tessuti.
Vi sono, infatti, condizioni in cui i tessuti periferici presentano un maggior consumo di ossigeno, come, per
esempio, negli stati settici o febbrili, o per un aumento
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della spesa energetica, come accade per i muscoli respiratori quando vi è una malattia che altera le proprietà
meccaniche dell’apparato respiratorio. A parità di altre
condizioni, il maggiore consumo nei tessuti genera una
PvO2 più bassa. Sono molte le condizioni patologiche
in cui tutti i meccanismi menzionati si trovano a essere
concomitanti quali:
• riduzione della gittata cardiaca per una cardiopatia
(per esempio, cardiomiopatia dilatativa, vizio
valvolare ecc.);
• aumento del consumo di ossigeno tissutale
(per esempio, sepsi, febbre ecc.);
• compromissione dello scambiatore polmonare
(per esempio, polmonite, edema polmonare ecc.);
• riduzione della ventilazione polmonare
(per esempio, affaticamento dei muscoli respiratori).
485
2
Tutti questi meccanismi contribuiscono sinergicamente
all’ipossiemia. La comprensione della loro interazione è
importante per il corretto approccio terapeutico.
Ipercapnia
La CO2 è il prodotto metabolico che rimane dopo aver
consumato l’O2. È una sorta di “scoria” che va eliminata
velocemente per non compromettere l’equilibrio acidobase (si veda il Capitolo 67) e mantenere il valore del
pH tra 7,36 e 7,44 secondo l’equazione (semplificata) di
Handerson-Hasselbach che riportiamo di seguito:
pH = (HCO3−/PaCO2)
ove HCO3- è la concentrazione di bicarbonati. Teleologicamente, per questa necessaria rapidità, la regolazione del
valore di PaCO2 è meno complessa di quella della PaO2,
in quanto dipende fondamentalmente da una formula
abbastanza semplice:
PaCO2 = k × (V9CO2/V9A)
ove k è una costante, VCO2 è la produzione metabolica di
CO2; VA è la ventilazione alveolare in L/min, cioè:
V9A = V9E − V9D
ove VE è la ventilazione polmonare totale al minuto misurata sull’aria espirata e VD è la ventilazione dello spazio morto, cioè tutte le vie aeree di conduzione ed eventuali zone
ventilate ma non perfuse del polmone, come, per esempio,
grosse bolle intraparenchimali, sempre in L/min. Poiché:
V9E = VT × f
dove VT è il volume corrente e f la frequenza degli atti
respiratori al minuto:
V9A = V9E × (1 × {VD/VT})
cioè la ventilazione polmonare meno la quota che finisce
nello spazio morto a ogni atto respiratorio. Per cui, la
prima equazione riportata diviene:
PaCO2 = k × (V9CO2/V9E) × (1 − [VD/VT])
6/9/10 10:34:06 AM
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Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Pertanto, in condizioni di riposo con una determinata
produzione di anidride carbonica (VCO2 basale), il valore
di PaCO2 sarà determinato dalla ventilazione polmonare
nel suo complesso e dal rapporto tra lo spazio morto e il
volume corrente. In particolare l’aumento della PaCO2
(ipercapnia) si verifica se:
• la ventilazione polmonare diminuisce
(ipoventilazione tout-cour);
• lo spazio morto aumenta senza una sufficiente
compensazione da parte del volume corrente
(ipoventilazione alveolare);
• il volume corrente diminuisce, anche in presenza
di un aumento della frequenza respiratoria (tachipnea
e ipoventilazione alveolare).
Quest’ultima condizione è particolarmente interessante
per la clinica in quanto a un’iperventilazione apparente,
in realtà determinata da tachipnea e non dal mantenimento di un costante valore di VT, la ventilazione alveolare cambia (a parità di valore di VD). A titolo esplicativo
e rappresentativo di quanto qui esposto si veda lo schema
nella tabella 20.2.
Ne deriva che la riduzione della VA comporterà un aumento della PaCO2 secondo la nota relazione curvilinea.
Lo stesso risultato di riduzione della VA si ottiene aumentando lo spazio morto (VD) senza compensare con
il VT. Le implicazioni cliniche di questa condizione sono
dunque molto importante. In linea di logica fisiologica,
infatti, occorre associare alla tachipnea a riposo il concetto
dell’ipoventilazione e non dell’iperventilazione.
Tabella 20.2 Volume corrente e ventilazione alveolare
VT mL
500
300
200
f/min
18
30
45
VE L/min
9
9
9
VD mL
150
150
150
VA L/min
6,3
4,5
2,25
CATENA VENTILATORIA
Ventilazione
La ventilazione polmonare è regolata da una catena di
eventi che origina dalla ritmica attività spontanea di
un gruppo di neuroni localizzati sul pavimento del IV
ventricolo. Lo stimolo viene trasmesso attraverso le vie
piramidali ai muscoli respiratori coinvolti nell’attività
inspiratoria corrente, cioè il diaframma (costale e crurale),
gli intercostali parasternali e i muscoli scaleni. La contrazione muscolare, attivata dal controllo della respirazione (automatico e volontario), espande la parete toracica
rendendo più negativa la pressione intratoracica e quindi
trascinando un aumento del volume polmonare che determina una caduta della pressione alveolare e quindi del
flusso di aria inspiratorio (Fig. 20.6).
Per un meccanismo di switch-on/switch-off, il gruppo di
neuroni inspiratori è progressivamente inibito da un gruppo di neuroni adiacenti, legato a meccanismi sia centrali
sia periferici (barocettori polmonari), per cui l’attività dei
muscoli inspiratori si spegne. L’espirazione è invece un fenomeno normalmente passivo, determinato dalla forza di
retrazione elastica dei polmoni che riconducono l’apparato
respiratorio al punto di equilibrio elastico, normalmente
coincidente con la capacità funzionale residua (CFR).
Meccanismi dell’ipercapnia
Poiché la ventilazione è l’atto finale del processo, il mantenimento dell’omeostasi della PaCO2, cioè di un valore
compreso tra 36 e 45 mmHg, richiede l’integrità della
catena ventilatoria sopra descritta. Ne consegue che un
aumento della PaCO2, a riposo, può essere causato da:
• scarsa emissione dello stimolo dai centri respiratori, per
esempio sedazione centrale da farmaci come i barbiturici
o processi patologici del sistema nervoso centrale;
• difetto di conduzione nelle vie nervose (piramidali),
come in vari tipi di neuropatie periferiche;
• difetto dei muscoli respiratori nella loro capacità di
trasformare in energia meccanica lo stimolo centrale
per debolezza (per esempio, come in molte malattie
neuromuscolari) o affaticamento (come per l’eccessivo
carico meccanico dell’apparato respiratorio);
• difetto meccanico nell’espansione della parete
toracica, come nelle cifoscoliosi;
• ipoventilazione alveolare come in presenza
di tachipnea (si veda la Tab. 20.2).
Sistema nervoso centrale
Vie neurali
Giunzioni
neuromuscolari
Muscoli respiratori: GENERATORI DI PRESSIONE
Parete toracica: spostamento
= pressione intratoracica negativa
Figura 20.6
Catena degli
eventi che regola
la ventilazione
polmonare.
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Polmoni: spostamento
= flusso inspiratorio
VENTILAZIONE POLMONARE
Si desume quindi che il valore della PaCO2 non dipende
principalmente dalla capacità di scambiare i gas della
membrana alveolo-capillare. Tuttavia, ciò è vero solo se
tutti i meccanismi di compensazione (sostanzialmente
un aumento del volume corrente attraverso un maggior
lavoro respiratorio) funzionano correttamente.
Spesso le malattie determinano sia un aumento del carico
meccanico sia un indebolimento dei muscoli, per esempio
per le conseguenze di fenomeni infettivi o di squilibri elettrolitici, così che muscoli indeboliti devono affrontare un
lavoro respiratorio maggiore e possono andare incontro ad
affaticamento (Fig. 20.7). Mentre la debolezza definisce una
condizione permanente dei muscoli respiratori, generalmente per una malattia primitiva degli stessi, l’affaticamento segnala una condizione temporanea in cui, a parità di stimolo
neurale, il muscolo perde progressivamente la capacità di
trasformare quello stimolo in pressione adeguata per mantenere la ventilazione. L’affaticamento si risolve o con il riposo
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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
CARICO MECCANICO
POMPA VENTILATORIA
Proprietà meccaniche
dei polmoni e del torace
Centri respiratori
Vie di trasmissione
Muscoli respiratori
dei muscoli respiratori attraverso il supporto ventilatorio
meccanico, o con il miglioramento delle condizioni fisiopatologiche associate alla malattia con riduzione del carico
meccanico, per esempio attraverso la broncodilatazione. Se
la caduta della VA, e quindi l’aumento della PaCO2, è abbastanza rapido, il rene non ha il tempo di compensare con la
ritenzione di bicarbonati e il pH diminuisce. Un pH < 7,36 in
presenza di una PaCO2 > 45 mmHg definisce una condizione
di insufficienza ventilatoria acuta con acidosi respiratoria, mentre un pH normale con ipercapnia e bicarbonati aumentati
indica un’insufficienza ventilatoria cronica. Se contemporaneamente si misura un valore PaO2/FiO2 < 300 mmHg, la
diagnosi è di insufficienza respiratoria totale. La tabella 20.3
riporta in maniera schematica queste definizioni in relazione alle variazioni fisiopatologiche che influiscono sull’alterazione dello scambio gassoso.
L’insufficienza polmonare richiede la somministrazione
di aria con FiO2 > 0,21, talvolta associata all’utilizzo di un
dispositivo a pressione continua, o CPAP (Continuous Positive Airway Pressure). L’insufficienza ventilatoria, invece,
richiede il sostegno alla ventilazione, generalmente ottenuto con una pressione intermittente (di cui la pressione
di supporto, o PSV [Pressure Support Ventilation] è la modalità più utilizzata) erogata nelle vie aeree. L’insufficienza
respiratoria, infine, necessita per lo più dell’associazione
di iperossigenazione e supporto ventilatorio.
Ipercapnia da ossigenoterapia
Un’ultima considerazione va fatta a proposito dell’ipercapnia indotta dalla somministrazione di O2. I meccanismi sono
fondamentalmente tre:
487
Figura 20.7
Equilibrio fra
carico meccanico
e sforzo
dei muscoli
respiratori.
2
• la riduzione della ventilazione polmonare
per la rimozione dello stimolo ipossico;
• l’aumento dello spazio morto (VD) per la dilatazione
delle vie aeree conseguente all’arricchimento
in ossigeno dell’aria;
• l’effetto Haldane sulla curva di dissociazione dell’HbO2
che scarica la CO2 nel momento in cui carica l’O2.
Per questi motivi la SaO2, in corso di somministrazione,
acuta o cronica, di ossigeno va mantenuta nel range necessario e sufficiente compreso fra 92 e 96%, proprio per
non “fuggire” inutilmente lungo la parte piatta della curva
di dissociazione dell’HbO2 e contribuire dunque a generare un’iperossigenazione superflua e una conseguente
tendenza a sviluppare ipercapnia che può determinare
un’acidosi respiratoria.
Manifestazioni cliniche
La clinica dell’IR acuta abbina i segni e sintomi propri
dell’ipossia e/o dell’ipercapnia alla clinica legata alla patologia scatenante. L’ipossiemia si esprime principalmente
su due livelli: aumento della frequenza respiratoria per
stimolazione dei chemocettori centrali e periferici e sofferenza dei centri nervosi.
Il sintomo principale della IR acuta è la dispnea, la cui
gravità è generalmente proporzionale a quella della compromissione funzionale respiratoria. L’ortopnea è più
grave ed evidente nei pazienti con associato scompenso
cardiaco o nelle patologie neuromuscolari avanzate con
compromissione dell’attività del muscolo diaframma.
Tabella 20.3 Condizioni fisiopatologiche e alterazione dello scambio gassoso
Condizione
IP
IVA
IVC
IRA
IRC
PaO2
< 60 mmHg
< 80 mmHg
< 80 mmHg
< 60 mmHg
< 60 mmHg
D(A−a)O2
> 20 mmHg
< 20 mmHg
< 20 mmHg
> 20 mmHg
> 20 mmHg
PaCO2
< 45 mmHg
> 45 mmHg
> 45 mmHg
> 45 mmHg
> 45 mmHg
pH
> 7,35
< 7,36
> 7,35
< 7,36
> 7,35
PaO2/FiO2
< 300 mmHg
≥ 300 mmHg
≥ 300 mmHg
< 300 mmHg
< 300 mmHg
IP = insufficienza polmonare; IVA = insufficienza ventilatoria acuta; IVC = insufficienza ventilatoria cronica; IRA = insufficienza respiratoria acuta;
IRC = insufficienza respiratoria cronica.
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488
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Oltre alla dispnea, il distress respiratorio si manifesta con tachipnea (frequenza respiratoria > 24 a tti/min), utilizzo della
muscolatura respiratoria accessoria e/o presenza di segni di
affaticamento dei muscoli respiratori. Le manifestazioni
cliniche dell’affaticamento dei muscoli respiratori sono:
• respiro paradosso (sfasamento delle variazioni
di diametro dell’addome e del torace, dovuto
a paradossa retrazione inspiratoria dell’addome
abbinata alla fisiologica espansione del torace);
• segno di Hoover (retrazione delle ultime coste verso
l’interno);
• tirage intercostale e sovraclaveare.
I segni clinici dell’ipossiemia sono la cianosi (presente con
più di 5 g/dL di emoglobina desaturata), la tachipnea con
attivazione dei muscoli respiratori accessori, la tachicardia
e le possibili turbe neurologiche dello stato di vigilanza
(progressivamente fino al coma). L’ipossiemia cronica
genera poliglobulia.
L’ipercapnia induce inizialmente l’attivazione dei centri
respiratori (fino a un livello di PaCO2 < 90 mmHg) e soprattutto un complesso quadro neurologico riconducibile a una
sofferenza metabolica dell’encefalo, secondaria all’acidosi
respiratoria. L’aumento della PaCO2 induce un incremento della portata cardiaca, della frequenza cardiaca e della
pressione arteriosa per aumento dell’attività simpatica.
Altri segni clinici sono la tachipnea e la sudorazione profusa fredda secondaria a vasodilatazione cutanea; i segni e
i sintomi principali, tuttavia, sono quelli legati proprio alla
encefalopatia, che può evolvere attraverso lo stato di stupor
e coma, se non si istaura una terapia eziologia adeguata,
e associato al progressivo effetto dell’accumulo di CO2 e
Tabella 20.4 Principali definizioni legate alle alterazioni
dello stato di coscienza e alle anomalie
motorie
Alterazioni dello stato di coscienza
䊉
Turbe dell’attenzione: incapacità di concentrarsi con l’abituale
intensità su un dato argomento per cui il paziente viene
distratto da un altro stimolo ambientale
䊉
Turbe dell’orientamento e della comprensione: compromissione della facoltà cognitiva con disorientamento nel tempo
e nello spazio
䊉
Turbe della percezione: errori di percezione (per esempio,
confondere il personale ospedaliero con vecchi amici)
䊉
Turbe della vigilanza: il paziente oscilla dall’ipervigilanza
o stato di agitazione allo stato soporoso nell’ambito dello
stesso episodio di encefalopatia. Più spesso il paziente è solo
soporoso e progressivamente si aggrava lo stato di sopore
al punto da essere risvegliato solo dopo uno stimolo intenso;
la risposta a domande verbali è spesso confusa
Anomalie motorie
䊉
Tremori: grossolani durante il movimento
䊉
Asterixis: improvviso movimento in senso palmare a battito
d’ali delle mani e dei polsi (compare se si fanno estendere
le braccia con dorsiflessione delle mani e insorge dopo 2-30,
precede di poco lo stupor e il coma durante i quali scompare)
䊉
Mioclono multifocale: contrazioni irregolari e improvvise
interessanti singoli fasci muscolari o gruppi muscolari, più
evidente nello stato di coma
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conseguentemente dell’acidosi respiratoria nelle strutture
encefaliche. Il quadro neurologico dell’encefalopatia ipercapnica in corso di IR acuta si caratterizza per la concomitante presenza di alterazioni dello stato di coscienza e di
anomalie motorie (per esempio, tremori). Nella tabella 20.4
sono riportate le principali definizioni legate alle alterazioni dello stato di coscienza e alle anomalie motorie
rilevabili.
Se la sofferenza cerebrale si aggrava ulteriormente, compare il quadro clinico dello stupor, condizione di sonno
profondo e di mancanza di reattività, simile al sonno dal
punto di vista comportamentale, da cui il soggetto può
essere distolto con stimoli vigorosi e ripetuti. Cessato lo
stimolo, il paziente torna di nuovo nello stato precedente
lo stimolo stesso. Se il quadro progredisce ulteriormente
si manifesta il quadro clinico del coma.
Terapia ventilatoria
Il trattamento dell’insufficienza respiratoria acuta è
caratterizzato da:
• somministrazione supplementare di ossigeno
per correggere l’ipossiemia e piena terapia farmacologia per la correzione degli elementi di
fisiopatologia e clinica alterati a causa dell’acuzie
(per esempio, broncodilatatori, antinfiammatori
steroidei, antibiotici, diuretici);
• istituzione della ventilazione meccanica come parte
del trattamento generale del paziente, qualora il
paziente presenti un’acidosi respiratoria (per esempio, pH < 7,35) o un’ipossiemia grave e refrattaria al
tentativo di correzione con ossigenoterapia;
• identificazione della più adeguata area ospedaliera e del più opportuno monitoraggio richiesto dalla condizione del paziente (cioè aree, in
generale, a più elevata intensità assistenziale
quali quella intensiva/subintensiva respiratoria
o intensiva generale).
Nel presente paragrafo si delineano gli elementi principali del trattamento ventilatorio dell’IR acuta con
accenno alla ventilazione meccanica domiciliare nel
trattamento della IR cronica. In linea generale, la ventilazione meccanica costituisce l’atto clinico peculiare
nelle aree di intervento intensivo generale e pneumologico, quando la IR non può essere controllata con
la sola terapia farmacologia e la somministrazione di
ossigeno a congruo flusso. La ventilazione meccanica
non costituisce una terapia eziologica in senso stretto,
quanto un aspetto specifico della cura del paziente
critico con IR e una forma di supporto essenziale per
la vita. Infatti, la ventilazione meccanica consiste in
un insieme di tecniche che, avvalendosi dell’impiego di protesi specifiche (ventilatori), supportano o
sostituiscono la funzione (pompa ventilatoria) del
paziente nel caso di insufficienza respiratoria ipercapnica, oppure sono in grado di erogare ossigeno
ad alto flusso (sino al 100%) nel caso di insufficienza
respiratoria puramente ipossiemica. La ventilazione
meccanica, in molti casi, rappresenta un supporto
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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
temporaneo che migliora gli scambi gassosi e la ventilazione polmonare, riducendo il carico dei muscoli
respiratori e consentendo il loro riposo in attesa della
remissione della condizione clinica causa della IR.
Ventilazione meccanica invasiva
Il trattamento convenzionale e spesso “salvavita” della
IR acuta è stato ed è in buona parte tuttora rappresentato dalla ventilazione artificiale meccanica invasiva, cioè
applicata tramite un’interfaccia che penetra direttamente all’interno delle vie aeree (tubo tracheale translaringeo o cannula tracheotomica) e i cui scopi precipui sono
la correzione degli scambi gassosi (ipossiemia e/o acidosi
respiratoria), la riduzione del lavoro respiratorio e della
dispnea. Il tubo endotracheale ha anche il compito,
dove sia necessario, di proteggere le vie aeree.
I criteri che portano all’intubazione del paziente e
alla ventilazione meccanica possono essere così riassunti: 1) sintomi e segni di “distress” respiratorio con
acidosi respiratoria e/o ipossiemia (PaCO2 > 45 mmHg
con pH < 7,36 e/o PaO2/FiO2 < 200) refrattaria alla terapia farmacologia attuata in emergenza; 2) instabilità
emodinamica grave (shock emodinamico, infarto del
miocardio in atto ecc.); 3) mancanza dei riflessi protettivi delle prime vie aeree; 4) encefalopatia maggiore
(stupor o coma); 5) arresto respiratorio; 6) incapacità
di rimuovere spontaneamente le secrezioni bronchiali
e/o proteggere le vie aeree con i riflessi fisiologici a
disposizione.
L’approccio ventilatorio ai pazienti critici può variare in relazione agli eventi fisiopatologici che
sono alla base della IR acuta. Nella IR polmonare,
caratterizzata dall’ipossiemia, come, per esempio,
nell’ARDS, il supporto ventilatorio deve avere lo scopo di incrementare la capacità polmonare residua e
quindi portare alla riduzione degli shunt, operando
una riespansione delle unità alveolari collassate (a
“bassa compliance”). Nella IR acuta di pompa, quale
la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO)
riacutizzata, in cui i muscoli respiratori non sono in
grado di sostenere un livello di ventilazione che soddisfi le richieste metaboliche del paziente, la finalità
del supporto meccanico è di raggiungere un livello
di ventilazione minima efficace, favorendo il riposo
dei muscoli respiratori e, in via secondaria, riducendo il rischio di iperinsuflazione del polmone. Nella
pratica clinica sono utilizzate numerose modalità di
ventilazione, che vanno da quelle completamente
controllate dal ventilatore a quelle parzialmente o
totalmente controllate dal paziente e che di seguito
verranno sintetizzate.
• Ventilazione meccanica controllata (CMV, Controlled
Mechanical Ventilation): ventilazione completamente controllata dal respiratore. In tale modalità, l’attività muscolare inspiratoria del paziente è
abolita dalla sedazione e dalla paralisi dei muscoli
respiratori indotta farmacologicamente. Il ventilatore controlla il volume corrente erogato attraverso
il tubo endotracheale, il flusso inspiratorio e tutti
gli altri parametri della ventilazione. Tale metodica
si applica durante l’anestesia o di solito nelle prime
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fasi di ventilazione, quando il paziente necessita di
sedazione totale o non è ancora in grado di iniziare
da solo un atto inspiratorio.
• Ventilazione meccanica assistita, in cui l’atto respiratorio è parzialmente controllato dal paziente.
Il paziente non è sedato ed è in grado di stabilire
una propria frequenza respiratoria. Se il paziente inizia uno sforzo inspiratorio, questo viene
avvertito dal ventilatore come depressione che
attiva il trigger inspiratorio, si apre la valvola
inspiratoria del ventilatore e la macchina eroga
un flusso di aria nelle vie aeree del paziente. Se il
paziente non compie alcun sforzo inspiratorio, il
respiratore eroga atti inspiratori meccanici a una
frequenza preimpostata e rappresenta perciò una
ventilazione di “sicurezza”.
• Ventilazione assistita-controllata (ACV): modalità
ibrida.
489
2
Nella pratica clinica è molto utilizzata la modalità
ventilatoria a “ pressione di supporto” (PSV, Pressure
Support Ventilation) e la ventilazione a “pressione
controllata” (PCV). La PSV è una modalità totalmente
orientata dal paziente che temporizza, in base al proprio drive neuronale respiratorio, le diverse fasi del
ciclo respiratorio; il paziente con l’atto inspiratorio
attiva il trigger del ventilatore. La PCV è una modalità
controllata dal paziente o dal ventilatore (nel caso il
paziente non attivi il trigger), in cui le fasi del ciclo
respiratorio (per esempio, il tempo inspiratorio) sono
regolate dall’operatore.
I ventilatori meccanici possono inoltre erogare ogni
atto respiratorio con modalità a volume (volumetrica)
o a pressione (pressometrica). Se il medico imposta la modalità volumetrica, come in CMV o ACV, il
ventilatore erogherà un volume costante (variabile
indipendente) e predefinito a ogni atto, mentre le
varibili dipendenti saranno la pressione necessaria
per raggiungere quel determinato volume e, nel caso
di modalità ACV, la frequenza respiratoria. Se invece
si imposta una modalità pressometrica, l’operatore
fissa una pressione inspiratoria (variabile indipendente), mentre le risultanti variabili saranno il volume
corrente ottenuto e, nel caso di PSV, la frequenza
respiratoria e il timing, cioè il tempo di ciclaggio fra
le fasi in- ed espiratoria.
Tutte le modalità di ventilazione espongono teoricamente al rischio di barotrauma e/o volutrauma.
Infatti, con le modalità volumetriche si conosce il
volume erogato, ma non a quale “prezzo” esso possa
essere raggiunto (pressione di picco delle vie aeree);
con le modalità pressometriche si conosce la pressione erogata, ma non si può stabilire a priori il volume
che si raggiungerà. Inoltre, è importante conoscere
non solo il livello di picco raggiunto, ma anche la
pressione media (cioè mantenuta durante tutto l’atto
inspiratorio).
Nonostante la ventilazione meccanica invasiva sia
spesso una procedura salva-vita, è innegabile il fatto
che l’intubazione tracheale rappresenti il principale
fattore di rischio per le complicanze infettive, le pol-
6/9/10 10:34:07 AM
490
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
moniti nosocomiali in particolare, e per lesioni delle
vie aeree. La probabilità che insorgano tali complicanze giustifica l’esigenza dei rianimatori di riportare
il paziente alla respirazione spontanea senza l’ausilio
del supporto meccanico nel più breve tempo possibile. Si definisce svezzamento dalla ventilazione meccanica
invasiva o weaning il processo di riduzione graduale
sino alla sospensione della ventilazione meccanica
con ripristino della ventilazione spontanea. Lo svezzamento risulta possibile quando le cause che hanno
scatenato la IR sono in via di risoluzione clinica e
parimenti vi siano un miglioramento degli scambi
gassosi a livello polmonare e una ripresa efficace e
permanente dell’attività della pompa ventilatoria.
Lo svezzamento si avvale di protocolli convenzionali (quali la graduale riduzione del livello di PSV
oppure di periodi progressivi di temporaneo distacco
dal ventilatore e mantenimento della respirazione
autonoma) o di nuove alternative all’approccio tradizionale come, per esempio, la rimozione precoce
del tubo endotracheale e l’applicazione successiva
di supporti di ventilazione alternativi (cioè la ventilazione non invasiva). Purtroppo in circa il 15-20%
dei pazienti in ventilazione meccanica invasiva, soprattutto se affetti da patologie croniche respiratorie
o cardiovascolari, si assiste a un difficoltoso distacco
dal ventilatore che può talvolta esitare nella decisione
di proseguire la ventilazione dopo avere praticato
un accesso tracheostomico (è il caso del cosiddetto
weaning difficoltoso).
Il costo complessivo del trattamento con ventilazione invasiva risulta economicamente assai rilevante,
anche perché viene erogato tendenzialmente in aree
ospedaliere a più elevata assistenza e complessità di
monitoraggio, e spesso si associa a una cospicua mortalità ospedaliera legata all’insorgenza delle complicanze. Proprio per tali motivi, sin dagli anni Novanta,
si è sempre più diffusa la pratica della ventilazione
non invasiva, risultata efficace nel trattamento di
molte forme di IR acuta.
Ventilazione meccanica non invasiva
Due sono le modalità di ventilazione meccanica non
invasiva (VNI): la ventilazione a pressione negativa
intermittente (INPV) e la ventilazione a pressione
positiva intermittente con maschera (nPPV).
Ventilazione non invasiva a pressione negativa
intermittente
L’INPV è praticata attraverso il polmone d’acciaio,
costituito da un grosso cilindro nel cui interno viene
posto il corpo del paziente a eccezione della testa,
che fuoriesce da un’apertura a tenuta; un generatore
di pressione connesso al cilindro modifica ciclicamente i valori pressori all’interno della camera da
subatmosferici (cioè negativi) nella fase inspiratoria a
valori atmosferici durante l’espirazione. La pressione
negativa all’interno del polmone d’acciaio è impostata dall’operatore per un tempo predeterminato; tale
depressione esercita una trazione sulla gabbia toracica
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che si espande; il flusso inspiratorio e il volume corrente dipendono dall’impedenza del sistema respiratorio del paziente. L’espirazione è attuata generando
nella camera una pressione positiva o riducendo la
pressione negativa; tale ventilazione è insensibile a
eventuali sforzi inspiratori del paziente.
L’INPV è utilizzata con efficacia nel trattamento della
IR acuta ipercapnica in corso di grave riacutizzazione
della BPCO o in pazienti neuromuscolari.
Ventilazione non invasiva a pressione positiva
La nPPV utilizza un’interfaccia applicata all’esterno
delle vie aeree (maschera facciale, maschera nasale, olive nasali, casco ecc.), evitando quindi l’intubazione endotracheale con tutti i rischi che questa
procedura comporta (si veda la Fig. 20.8). La nPPV
consente una grande flessibilità nell’applicazione e
nella rimozione dell’assistenza ventilatoria anche
più volte nell’arco della giornata, riducendo quindi
il rischio di dipendenza del paziente dal ventilatore.
Ne deriva pertanto che, rispetto alla ventilazione
con tubo endotracheale, i principali vantaggi della VNI sono la riduzione delle lesioni alle vie aeree
prossimali e delle infezioni respiratorie, nonché il
mantenimento dei meccanismi difensivi delle prime
vie aeree, della fonazione e della deglutizione. Per
definizione, la nPPV può essere applicata solamente
nei pazienti che abbiano almeno una piccola capacità
respiratoria spontanea, ed è pertanto controindicata
quando il paziente non è in grado di attivare il trigger inspiratorio. Come per la ventilazione invasiva,
anche nella nPPV i ventilatori possono erogare ogni
atto respiratorio con modalità a volume o a pressione.
Un’ulteriore modalità applicativa è rappresentata
dalla PAV (Proportional Assist Ventilation).
La PAV è la più recente forma di ventilazione assistita
introdotta nella pratica clinica. Con tale modalità, il
ventilatore genera una pressione proporzionale allo
sforzo istantaneo generato con l’atto inspiratorio dal
paziente; più forte è lo sforzo inspiratorio del paziente,
più elevata sarà la pressione erogata dal ventilatore.
Tale metodica nasce con l’obiettivo di ottimizzare
l’interazione paziente-ventilatore, ponendo il ventilatore sotto il completo controllo dell’atto respiratorio
del paziente. Tale metodica di recente introduzione è
ancora nella fase di valutazione e conferma clinica.
Utilizzata come metodica non invasiva a pressione è
anche la CPAP (Continuous Positive Airways Pressure), che in effetti non è un vero e proprio supporto
ventilatorio, in quanto fornisce solo l’erogazione di
una pressione positiva continua, utile per reclutare
le zone polmonari non sufficientemente areate, ma
non garantisce alcun supporto ai muscoli respiratori.
Per l’uso della CPAP nei disturbi respiratori del sonno
si veda il Capitolo 21.
A oggi le metodiche ventilatorie pressometriche
risultano meglio adattabili al paziente e sono pertanto le più utilizzate in tutti gli ambiti della pratica ventilatoria (ospedale o domicilio). La crescita
esponenziale dell’interesse per la nPPV verificatasi
6/9/10 10:34:07 AM
Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
negli ultimi 10-15 anni, non solo dal punto di vista
clinico e applicativo, ma anche speculativo, ha pochi
eguali nella recente storia della medicina. L’indicazione principale della nPPV è la IR acuta ipercapnica,
anche se è possibile il suo utilizzo in alcune condizioni particolari di ipossiemia “pura”. Nell’ultimo
decennio ha avuto grande diffusione nella pratica
clinica l’impiego della nPPV, sia nelle unità di terapia
intensiva generale e respiratoria, sia nelle divisioni
di pneumologia, medicina d’urgenza, pronto soccorso e medicina generale. La scelta è dettata da una
maggiore semplicità nell’esecuzione della metodica,
ridotti costi di acquisto e gestione dei ventilatori e
possibilità di applicare la metodica anche al letto del
paziente. Il punto di partenza per l’applicazione della
nPPV, come di ogni tipo di assistenza ventilatoria, è
l’individuazione del paziente affetto da segni e sintomi di “distress” respiratorio: aumento della dispnea,
frequenza respiratoria > 24 atti/min, utilizzo della
muscolatura respiratoria accessoria e/o presenza di
respiro paradosso, acidosi respiratoria e/o ipossiemia
(PaCO2 > 45 mmHg con pH < 7,35 e/o PaO2/FiO2 < 200).
Controindicazioni alla nPPV sono quelle già sopra
ricordate più in generale sull’uso della ventilazione
non invasiva, oltre alla presenza di condizioni quali
lesioni traumatiche o chirurgiche facciali, tali da
impedire l’applicazione della maschera.
La scelta dell’interfaccia e del ventilatore rientra nel
novero dei requisiti tecnici indispensabili per il successo della nPPV. Per quanto riguarda l’interfaccia,
la maschera facciale garantisce una più efficace erogazione della pressione positiva in un paziente che,
nelle fasi del distress acuto, presenta una respirazione prevalentemente attraverso la bocca. La seconda
scelta, nel caso in cui il paziente manifesti intolleranza alla maschera, presenza di eccessive fughe
aeree o effetti collaterali dovuti al decubito nasale,
deve orientare sul casco, attualmente utilizzabile
con diverse modalità di ventilazione. Al contrario
di quanto si pensi in Italia, il casco è comunque
considerato interfaccia di seconda scelta a causa dei
problemi legati al fenomeno del rebreathing della
CO2 (soprattutto nei pazienti ipercapnici) e della
possibile cattiva interazione paziente-ventilatore.
Un altro elemento che è emerso dagli studi effettuati all’inizio degli anni Novanta è l’importanza
dell’esperienza del team curante nel successo della
nPPV. La percentuale di successo della nPPV aumenta con gli anni; l’esperienza e la professionalità
permettono di trattare con successo pazienti con
grado di compromissione generale e con livelli di
acidosi respiratoria sempre maggiore.
491
mortalità nei pazienti con insufficienza respiratoria
acuta ipercapnica”.
Uno dei problemi fondamentali nei pazienti con grave
acidosi rimane quello di intuire per tempo quando la
nPPV ha poche probabilità di successo. Nonostante
non vi siano indicatori certi e in grado di predire con
sicurezza il successo della nPPV, la variazione del pH
dopo la prima ora di ventilazione, la gravità della malattia e il grado di cooperazione del paziente rappresentano i tre criteri predittivi maggiormente attendibili.
nPPV nell’insufficienza respiratoria acuta
ipossiemica La percentuale di successo della VNI
nelle patologie ipossiemiche dipende marcatamente
dalla patologia che ha determinato la IR. La CPAP può
essere considerata il trattamento standard dell’edema
polmonare acuto, mentre nei casi caratterizzati da
spiccata acidosi respiratoria e da concomitanza di
BPCO è da preferire la modalità classica con PSV,
associata a CPAP.
Dati presenti in letteratura evidenziano il rischio di
fallimento della nPPV (>50%) nei casi di ARDS e di
polmonite nosocomiale, mentre la percentuale di
successo della nPPV è più alta nei casi di edema polmonare acuto e di contusione polmonare (>80%).
Le conclusioni a cui si è giunti in merito all’uso della
VNI nelle patologie ipossiemiche indicano che “ulteriori studi controllati sono necessari per determinare i
potenziali benefici dell’aggiunta della VNI alla terapia
medica standard nel trattamento dell’insufficienza
respiratoria ipossiemica”.
2
Applicazioni “alternative della nPPV” La nPPV
può essere infine utilizzata nel corso dello svezzamento
dalla ventilazione invasiva; se il paziente infatti
presenta dei criteri clinici favorevoli all’applicazione
della ventilazione (grado di collaborazione, sufficiente
protezione delle vie aeree ecc.), la razionale prosecuzione
della cura ventilatoria mediante interfaccia non invasivo
risiede nell’obiettivo di accorciare la durata della
ventilazione con tubo tracheale, riducendo così il rischio
di complicanze, ma di mantenere al tempo stesso il
supporto ventilatorio necessario fino al completamento
del programma di svezzamento. Esistono inoltre alcuni
studi molto promettenti riguardanti l’applicazione della
metodica in pazienti che sviluppano IR a seguito di un
intervento di chirurgia toracica o addominale alta, nelle
infezioni polmonari dei pazienti immunocompromessi,
in corso di procedure broncoscopiche nel paziente
critico, come misura palliativa per ridurre la dispnea
nel paziente terminale.
Ventilazione meccanica domiciliare
nPPV nell’insufficienza respiratoria acuta
ipercapnica L’efficacia della nPPV nel trattamento
dell’IR acuta ipercapnica si riassume nelle conclusioni
a cui è giunta la Consensus Conference riunitasi nel
2000: “L’aggiunta della nPPV alla terapia medica
standard è in grado di prevenire l’intubazione
tracheale e di ridurre il tasso di complicanze e di
C0100.indd 491
La ventilazione meccanica domiciliare (VMD) è una
strategia terapeutica che applica un supporto ventilatorio terapeutico a lungo termine, quindi presso il
domicilio del paziente che si presenta con un quadro
clinico di IR cronica. La VMD è applicata principalmente come supporto vitale per il paziente e come
terapia di elezione.
6/9/10 10:34:07 AM
492
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Nei pazienti con paralisi della muscolatura respiratoria o altre condizioni cliniche che rendono il
polmone incapace di garantire un’efficace scambio
gassoso, la ventilazione domiciliare rappresenta un
supporto vitale per il paziente, che altrimenti morirebbe in pochi minuti o ore in coma respiratorio, se
privato del suddetto presidio. La VMD diviene una
scelta obbligata nei pazienti in cui una condizione
patologica di base (malattia neuromuscolare, patologia del moteneurone o BPCO) causa IR acuta, per
cui il paziente viene intubato e ventilato meccanicamente e, successivamente, nonostante la risoluzione
dell’episodio acuto, il paziente non è più svezzabile
dal ventilatore; in tal caso la ventilazione meccanica
domiciliare per via tracheostomica è la scelta obbligata per permettere la dimissione del paziente al domicilio. La VMD viene proposta quale terapia di elezione
quando una condizione patologica cronica (anche
tra quelle sopra citate) limita l’efficienza dei muscoli
respiratori, per cui si instaura una condizione di IR
ipercapnica progressiva. Questo è il caso soprattutto
dei pazienti con patologie neuromoscolari o della
gabbia toracica quali distrofia muscolare, sclerosi
laterale amiotrofica, cifoscoliosi, o condizioni pa-
tologiche del parenchima polmonare quali BPCO
e fibrosi cistica . In tali condizioni patologiche la
ventilazione non invasiva con maschera nasale o facciale (Fig. 20.8) viene preferita alla ventilazione non
invasiva a pressione negativa (corazza o poncho).
La ventilazione viene praticata per un limitato numero di ore giornaliere, preferibilmente nelle ore del
riposo notturno, e pertanto l’approccio non invasivo
è quello preferito.
La ventilazione, supportando lo sforzo dei muscoli
respiratori, ne favorisce un riposo elettivo, con
l’obiettivo di migliorare la funzione ventilatoria
nelle ore di respirazione spontanea non supportata
dalla macchina. L’efficacia terapeutica della VMD,
in queste situazioni, è quella di ottimizzare a lungo termine la ventilazione alveolare e gli scambi
gassosi anche di giorno e in stato di veglia, migliorando dunque l’ipossiemia e l’ipercapnia cronica.
Vi è inoltre l’evidenza che la VMD può ridurre il
ripetersi di ospedalizzazioni, prevenire la ricorrenza
di nuovi episodi acuti, migliorare la qualità di vita
e, nelle patologie restrittive (cifioscoliosi, alcune
patologie neuromuscolari), prolungare anche la
sopravvivenza.
a
Figura 20.8
Modalità
ventilatoria
non invasiva
a pressione
positiva (a), con
maschera nasale
o oro-nasale
(b, c). (Philips
Respironics).
b
C0100.indd 492
c
6/9/10 10:34:07 AM
Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
Ossigenoterapia domiciliare
493
A. Potena, M. Moretti, A. Corrado
L’ossigenoterapia consiste nella somministrazione di O2 in
concentrazione maggiore di quella presente nell’aria ambiente (20,7%), allo scopo di trattare o prevenire i sintomi
e le manifestazioni dell’ipossiemia arteriosa.
Il trattamento con O2 si applica in situazioni di acuzie,
per il periodo necessario a superare l’evento acuto, e in
condizioni croniche di malattia, quando esiste una grave
ipossiemia stabilizzata.
Tutti i pazienti con IR cronica, con grave ipossiemia arteriosa suscettibile di correzione possono essere trattati
con ossigenoterapia a lungo termine (OTLT), anche se
l’unica indicazione al trattamento basata su evidenze
scientifi che è, allo stato attuale, quella per i soggetti
affetti da IR cronica secondaria a BPCO. I soggetti affetti
da BPCO spesso diventano ipossiemici e, pur riuscendo a
tollerare una lieve ipossiemia, sviluppano i segni clinici del
cor pulmonale come la comparsa di edemi periferici una volta
che i valori di pressione parziale di ossigeno (PaO2) scendono
al di sotto dei 60 mmHg. In questo caso la prognosi diventa
grave e, se lasciati senza terapia, questi pazienti hanno una
probabilità di sopravvivenza inferiore al 50% a 5 anni (Fig.
20.9). Questa figura mostra il risultato di due studi clinici dai
quali si evince che l’ossigenoterapia a lungo termine e la durata della somministrazione aumentano la sopravvivenza di
pazienti BPCO con insufficienza respiratoria ipossiemica.
Nelle patologie diverse dalla BPCO complicate da IR, pur
mancando evidenze scientifiche che dimostrino l’efficacia
della OTLT sulla sopravvivenza, si consiglia la somministrazione di O2 laddove si dimostri la reale efficacia in termini
di correzione della ipossiemia e di miglioramento clinico.
Numerosi studi hanno dimostrato che la OTLT nei pazienti affetti da BPCO complicata da IR cronica è in grado di
aumentare la sopravvivenza, migliorare lo stato di salute
e ridurre i costi di gestione della malattia di base, tramite
una riduzione del numero di ricoveri ospedalieri.
Questi risultati si ottengono solo se l’ossigenoterapia viene: 1) prescritta in modo mirato a pazienti realmente
bisognosi del trattamento continuativo dopo opportuni
controlli e verifiche presso strutture specialistiche; 2) strettamente integrata da un trattamento medico e riabilitativo; 3) condotta in modo corretto e continuativo per un
periodo di almeno 18 (possibilmente 24) ore giornaliere,
a un flusso di O2 in L/min che corrisponda al minimo
sufficiente per mantenere valori di PaO2 compresi tra
60-70 mmHg senza pericolosi aumenti di PaCO2; 4) controllata con un corretto follow-up del paziente.
I pazienti candidati all’OTLT, anche quando presentino un’ipossiemia borderline, devono essere sottoposti a
un’attenta osservazione clinica per un certo periodo di
tempo (almeno tre mesi dopo un episodio di scompenso
respiratorio) e a un complesso iter diagnostico al fine di
stabilire la reale necessità del trattamento con relative
modalità di esecuzione dello stesso.
Durante il periodo di osservazione si dovrà procedere al
monitoraggio dei valori di PaO2 e PaCO2 a riposo da eseguirsi con cadenza mensile per un periodo di 2-3 mesi. Si
dovrà inoltre effettuare un controllo clinico, radiologico,
elettrocardiografico, della condizione cardiocircolatoria
(con eventuale determinazione delle pressioni del piccolo
circolo), dell’ematocrito e della funzione respiratoria.
2
Criteri di ammissione
I criteri di ammissione includono:
• ipossiemia continua con valori diurni a riposo
di PaO2 stabilmente inferiori a 55 mmHg. Questo
limite può essere aumentato a 59 mmHg qualora
siano associati eritrocitosi secondaria e/o cuore
polmonare cronico (edemi periferici e ipertensione
arteriosa polmonare) e/o cardiopatia ischemica;
100
90
80
⎫
⎪
⎪
Studio NOTT
⎪
Ann Int Med 1980 ⎬
⎪
⎪
⎪
12 ore notte ⎭
24 ore
Sopravvivenza (%)
70
60
50
40
15 ore
⎫
Studio MRC ⎪
Lancet 1981 ⎬
⎪
Controlli ⎭
30
20
Figura 20.9
Studi clinici
sull’ossigenoterapia.
10
0
10
20
30
40
50
60
70
Mesi
(Modificata da: Medical Research Council Working Party. Lancet 1981; 1:681. Nocturnal Oxygen Therapy Trial Group. Ann Intern Med 1980; 93:391.)
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494
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
• ipossiemia intermittente in pazienti con valori
di PaO2 uguali o lievemente superiori a 60 mmHg,
ma che presentano episodi di desaturazione
sotto sforzo e/o durante il sonno. In questo
caso l’appropriatezza prescrittiva è delegata alla
valutazione specialistica.
Stabilita l’effettiva indicazione alla OTLT vengono saggiate la tolleranza al trattamento e la dose ottimale che eviti
i pericoli di: iperossigenazione con conseguente acidosi
ipercapnica, tossicità (eccessiva produzione di radicali
liberi) o insufficiente ossigenazione del sangue arterioso
con conseguente inutilità del trattamento.
La OTLT può essere indicata, quando compare ipossiemia
stabile, oltre che nella BPCO anche nelle seguenti condizioni cliniche:
• malattie interstiziali polmonari;
• malattie vascolari polmonari (incluse le forme
autoimmunitarie e le collagenopatie);
• asma cronico, grave;
• fibrosi cistica;
• ipertensione arteriosa polmonare primitiva;
• bronchiectasie;
• scompenso cardiaco cronico;
• tumori polmonari.
Si può definire appropriato anche un uso palliativo dell’ossigenoterapia nel caso di neoplasie primitive o secondarie
che interessino il polmone, quando viene impiegata per
la correzione della dispnea causata dallo stadio terminale
della malattia di base.
È da considerarsi un’indicazione relativa all’OTLT e, pertanto, da stabilirsi attraverso una valutazione specialistica
pneumologica, l’ipossiemia legata a ipoventilazione notturna, quale quella che si può osservare in corso di:
• obesità;
• apnea ostruttiva del sonno e in questo caso
è richiesta la correzione attraverso particolari
ventilatori chiamati CPAP (Continuous Positive
Airway Pressure);
• malattie neuromuscolari;
• malattie della parete toracica o della colonna
vertebrale (per esempio, cifoscoliosi, spondilite
anchilosante ecc.).
È stato dimostrato che, dopo 3 mesi di attento monitoraggio, il 30-45% dei pazienti cui era stata inizialmente
prescritta l’ossigenoterapia non presentava più le indicazioni al trattamento, probabilmente perché gli effetti
sul sistema cardiorespiratorio avevano determinato un
miglioramento nel rapporto ventilazione-perfusione e una
conseguente normalizzazione della pressione parziale di
O2 nel sangue arterioso, a riposo.
L’OTLT non è indicata e, pertanto, non deve essere prescritta, nel caso di pazienti che abbiano un valore di
PaO2 > 60 mmHg. La somministrazione di ossigenoterapia
a pazienti affetti da BPCO con ipossiemia lieve-moderata
non ha alcun effetto favorevole sulla sopravvivenza.
La somministrazione di O2 si può attuare con tre possibili
modalità, attraverso:
• contenitori criogenici contenenti O2 liquido del volume
di 30 L, per un equivalente di 26.190 L di O2 gassoso.
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Tabella 20.5 Esempi di durata dell’erogazione attraverso
bombole contenenti O2 gassoso
Durata erogazione bombole
Flusso
1 L/min
2 L/min
3 L/min
4 L/min
5 L/min
400 L
6 h 40
3 h 20
2 h 13
1 h 40
1 h 20
1000 L
16 h 40
8 h 20
5 h 33
4 h 10
3 h 20
3000 L
50 h
25 h
16 h 40
12 h 30
10 h
A una pressione di 1,5 bar, infatti, 1 L di O2 liquido
equivale a 873 L di O2 gassoso. L’impiego di contenitori
criogenici consente di avere un volume che occupa
poco spazio per contenere una data quantità di gas ed
è il sistema preferito dai pazienti. Un limite può essere
quello di una minore disponibilità territoriale e/o
di un costo superiore rispetto alle altre modalità;
• bombole contenenti O2 gassoso in forma compressa.
Sono disponibili praticamente ovunque e a un basso
costo. Il principale svantaggio è che le bombole sono
pesanti e di limitata capacità. Per esempio, una bombola
di 3000 L di O2 gassoso ha una durata massima di
erogazione di 25 ore a un flusso di 2 L/min (Tab. 20.5);
• concentratori di ossigeno, che attraverso
un motore convogliano aria dentro particolari
filtri per rimuoverne l’azoto restituendo una
miscela gassosa arricchita di O2. Sono poco costosi,
ma discretamente rumorosi e fastidiosi per il
paziente. Richiedono una normale erogazione di
corrente elettrica, la cui interruzione potrebbe
creare problemi, anche se si adattano facilmente
a batterie 12 V.
Il sistema migliore e più pratico per l’inalazione di ossigeno è quello che collega il paziente al dispositivo erogatore
attraverso occhialini dotati di cannule nasali. In alcuni
pazienti, specialmente quelli che accusano secchezza delle
mucose nasali o che non riescono a utilizzare le vie nasali
per la respirazione, è necessario sostituire gli occhialini
con maschere facciali.
Per mantenere la PaO2 ai livelli di 60-70 mmHg è sufficiente un flusso di 1,5-2,5 L/min con occhialini nasali.
L’ossigeno è un vero farmaco e non bisogna variarne il
flusso senza una valutazione del medico.
Prima di dare il via alla OTLT è necessario assicurarsi che il
paziente abbia smesso di fumare e sia al corrente dei pericoli rappresentati dalla vicinanza di fuoco vivo o di fiamme ai
presidi di somministrazione di O2 (bombole contenenti O2
liquido o gassoso). Qualora il paziente continui a fumare, è
più sicuro somministrare la OTLT con un concentratore.
Quando un paziente voglia programmare un viaggio aereo deve considerare che l’ipossia presente a livello del
mare può aggravarsi con l’altitudine a causa di una non
adeguata pressurizzazione dell’aeromobile. Pertanto il
paziente deve accertarsi presso la compagnia aerea che sia
possibile avere in volo la somministrazione addizionale
di O2. In caso di ipossiemia severa (PaO2 < 50 mmHg) il
viaggio aereo è controindicato.
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Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
Effetti collaterali
Si possono osservare disturbi legati alla somministrazione, ai dispositivi utilizzati e alla capacità dell’O2 di irritare le mucose. In quest’ultimo caso possono comparire
sintomi e alterazioni nasali (fino al 25%) con croste che
causano dolore e fastidio (10-13%) o epistassi (7-9%).
Sono stati descritti anche disturbi dell’orecchio (8-9%).
Altri possibili eventi avversi riguardano la tossicità dell’O2
sul sistema respiratorio e la comparsa di tracheobronchite
Riabilitazione respiratoria
Definizione
La riabilitazione rappresenta un intervento terapeutico
non farmacologico finalizzato al recupero delle disabilità
individuali, cioè quelle conseguenze legate a varie patologie croniche o cronicizzate che condizionano più o meno
pesantemente il livello di indipendenza dell’individuo. La
riabilitazione respiratoria (RR) è perciò rivolta a quegli individui che hanno sviluppato disabilità funzionali a causa
di patologie croniche a carico dell’apparato respiratorio
(per esempio, BPCO, fibrosi del polmone, malattie della
gabbia toracica che alterano la funzione dei muscoli della
respirazione).
Il documento congiunto delle due principali società internazionali di medicina respiratoria (ERS [European Respiratory Society] e ATS [American Thoracic Society] definisce
infatti la RR un “intervento terapeutico globale e multidisciplinare basato sull’evidenza, rivolto a pazienti affetti da
malattie respiratorie croniche, sintomatici e spesso limitati
nelle attività quotidiane”. Questa terapia si propone di migliorare lo stato funzionale individuale legato alla malattia
cronica riducendone le conseguenze cliniche disabilitanti
(principalmente i sintomi e i deficit funzionali sistemici)
e stabilizzando l’evoluzione della malattia, anche con il
potenziale obiettivo di ridurne i costi di gestione.
Questo approccio terapeutico al paziente cronico respiratorio è quindi globale e include una componente fisicofunzionale mirata al ricondizionamento del malato,
un’adeguata valutazione dello stato nutrizionale, della
composizione corporea e dell’eventuale necessario supporto, un programma di sostegno psicosociale (ove necessario) e un intervento educazionale con l’obiettivo
di avvicinare il paziente alla malattia, alle sue cause, alla
gestione ottimale delle conseguenze. Nonostante il contributo specifico di ognuna di queste componenti del programma riabilitativo debba essere ancora definitivamente
chiarito, esiste una chiara evidenza scientifica a conferma
dell’efficacia della RR nel migliorare, soprattutto in pazienti affetti da BPCO, la tolleranza fisica all’esercizio con
relativa dispnea e il livello di autonomia individuale. Ciò
va a vantaggio della migliore valorizzazione della qualità
di vita correlata alle funzioni residue del paziente.
Razionale fisiopatologico e indicazioni
Poiché la RR non ha come scopo il miglioramento della
funzione polmonare residua (per lo più non modificabile),
C0100.indd 495
495
acuta, atelettasie, displasia broncopolmonare e un danno
parenchimale polmonare cronico. Questi aspetti non sono
mai stati osservati nel paziente BPCO che inala O2 a basse
concentrazioni e a flussi di erogazione compresi tra 2 e
3 L/min, ma sono tipici delle elevate concentrazioni di O2.
L’aumento graduale di concentrazioni di O2 che vengono
assunte può determinare un improvviso rilascio di biomarker dell’infiammazione e dello stress ossidativo in
quantità tali da danneggiare i polmoni, soprattutto dei
pazienti BPCO, perché coinvolti nei meccanismi patogenetici della malattia.
E.M. Clini, E. Crisafulli, L.M. Fabbri
né correggere le alterazioni anatomopatologiche irreversibili tipiche di molte patologie croniche respiratorie, il razionale e l’efficacia del trattamento riabilitativo risiedono nei
meccanismi fisiopatologici che limitano, a causa della patologia respiratoria, le funzioni quotidiane (ridotta capacità
fisica e soprattutto dispnea) dell’individuo. La principale
modalità di intervento si ispira perciò agli effetti che la malattia ha determinato a livello sistemico, in particolar modo
sulla muscolatura scheletrica. La disfunzione muscolare è
caratterizzata da una riduzione quantitativa della massa ed
è per lo più causata da molteplici fattori riconducibili alla
ridotta attività fisica (decondizionamento), alla miopatia
indotta dall’uso cronico di farmaci (steroidi), alla flogosi
sistemica che accompagna la malattia, fino all’evoluzione
cachettica dell’assetto nutrizionale.
La RR può essere prescritta con notevoli vantaggi anche in
pazienti affetti da asma bronchiale cronico, insufficienza
respiratoria cronica, fibrosi cistica, malattie neuromuscolari, bronchiectasie e malattie interstiziali. Inoltre, in
pazienti da sottoporre a interventi di chirurgia toracica
(soprattutto di resezione polmonare) e addominale, la RR
trova un’idonea applicazione attraverso programmi pre(preparativo) e postoperatori (migliorativo delle funzioni
residue e dei postumi funzionali legati all’intervento).
2
Selezione dei pazienti e sede di intervento
Selezionare attentamente e preventivamente i pazienti a
cui applicare un programma riabilitativo rappresenta un
fattore fondamentale per il riconoscimento dei candidati
ideali. La persistenza della sintomatologia che limita le
attività quotidiane, nonostante il ricorso ottimizzato alla
terapia farmacologica, dovrebbe essere sempre considerata l’elemento dirimente per consigliare un trattamento
riabilitativo. Età, sesso, capacità respiratoria residua e
abitudine tabagica non rappresentano invece elementi di
controindicazione o di limitazione al successo terapeutico.
Pertanto, escludendo a priori problematiche ortopediche
e neurologiche maggiori che riducono/precludono la
mobilità o impediscono la collaborazione ai programmi
di allenamento fisico, l’unica vera controindicazione a un
trattamento riabilitativo è la mancanza di volontà a parteciparvi, anche definita “scarsa aderenza” (compliance).
Poiché non esistono riferimenti univoci in ambito respiratorio per definire la soglia di disabilità utile per la corretta
selezione dei candidati, si considera che un livello elevato di
dispnea, come quello (≥ 2) espresso dalla scala anglosassone
6/9/10 10:34:10 AM
496
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
dell’MRC (Medical Research Council), possa essere un valido
indicatore di possibile beneficio, non strettamente dipendente dal livello della funzione polmonare, che nei pazienti
con BPCO è definito in accordo alle linee-guida internazionali GOLD di riferimento per la malattia (II stadio).
In base a problematiche economico-sanitarie e gestionali
proprie di ogni stato o regione, i programmi di RR vengono
attualmente erogati in regime in-patient (degenza ordinaria
con ricovero in sede), out-patient (corrispondente al cosiddetto day hospital, nel quale il paziente soggiorna in struttura
solo per il trattamento) o domiciliare; la durata ottimale di
un programma varia conseguentemente in base alla sede,
ma si basa sul concetto generale di garantire un numero di
sedute giornaliere minime comprese fra 15 e 25.
Componenti del programma riabilitativo
L’intervento riabilitativo, definito attraverso le singole componenti del programma ( Tab. 20.6 ), dimostra
la maggiore efficacia del risultato se specificamente
“individualizzato”, cioè personalizzato attraverso una
gestione globale e multidisciplinare che sia mirata alle
esigenze caratteristiche e peculiari del paziente stesso. Vi è,
a tal proposito, l’evidenza che un trattamento riabilitativo
che prenda in considerazione le esigenze dei pazienti si è
dimostrato utile nel ridurre il numero di riacutizzazioni
all’anno della patologia (soprattutto nei BPCO) e i conseguenti ricoveri ospedalieri.
Tabella 20.6 Componenti di intervento del programma
riabilitativo respiratorio
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Allenamento muscolare
Arti inferiori
Arti superiori
Muscoli respiratori
Componente educazionale e
autogestione
Conoscenza generale della
malattia
Nozioni su trattamenti
farmacologici, ossigenoterapia,
tecniche inalatorie
Riconoscimento
e autogestione dei sintomi
nelle riacutizzazioni
Tecniche di risparmio
energetico durante le attività
della vita quotidiana
Supporto psicosociale
Strategie di gestione
dell’ansia e della depressione
Tecniche di rilassamento
e controllo del panico
Cessazione del fumo
Supporto nutrizionale
Valutazione nutrizionale
Consigli e intervento
nutrizionale
Altro
Argomenti di interesse
specifico
Per quanto detto, l’allenamento specifico e mirato dei muscoli periferici (soprattutto degli arti inferiori) trova una
collocazione ideale per produrre gli effetti desiderati sulle
prestazioni individuali, utile traduzione della migliorata
o ritrovata abilità nel poter camminare più a lungo o con
minore percezione di dispnea. L’allenamento muscolare allo
sforzo fisico rappresenta la principale attività da garantire ai
pazienti all’interno dei programmi riabilitativi; interessa sia
la muscolatura degli arti inferiori (allenamento con cicloergometro o treadmill) e degli arti superiori (allenamento con pesi
o con armorgometro a manovella), sia i muscoli respiratori
(utilizzo di tecniche o ausili specifici). Applicato in pazienti
particolarmente sintomatici e disabili con una ridotta tolleranza fisica ha lo scopo di migliorare la capacità aerobica con
incremento della massa e della forza muscolare e riduzione
della percezione della fatica. Il training della muscolatura
periferica (modalità e caratteristiche di allenamento del modello ospedaliero sono riprodotte nella figura 20.10 e nella
tabella 20.7) rappresenta quindi l’unica modalità terapeutica
per poter contrastare il cronico e graduale deperimento.
Teoricamente la migliore capacità allenante sul muscolo
si ottiene combinando un carico sufficientemente elevato
per un tempo di esercizio abbastanza lungo da garantire il
sovraccarico e non l’affaticamento. Vige pertanto il principio secondo il quale le fibre muscolari, per essere allenate,
dovrebbero essere sovraccaricate (overload) indipendentemente dalla sede; è interessante però notare che, al fine del
mantenimento muscolare, i periodi di inattività si associano
alla perdita graduale di questi vantaggi (de-training).
L’esercizio muscolare può essere effettuato secondo modalità di resistenza (endurance) o forza (strength); la prima è utile
in numerose azioni quotidiane come camminare o compiere mansioni, la seconda invece è essenziale per contrastare
l’ipotrofia muscolare dei pazienti respiratori cronici. Questo
ultimo aspetto è particolarmente rilevante, se si considera
che a oggi la valutazione della massa muscolare nel paziente
con BPCO (in particolar modo del quadricipite) rappresenta
uno dei principali fattori correlati alla sopravvivenza. Nella
pratica clinica, la combinazione di entrambe le metodologie
di allenamento è raccomandabile per favorire i maggiori
benefici. È necessario che il carico allenante sia progressivo,
iniziando dal 50% del carico massimale sostenibile all’ingresso nel programma (valutato mediante opportuni test)
per avanzare fino almeno all’80% dello stesso.
L’aspetto educazionale strutturato in base alle necessità e
ai bisogni dei singoli pazienti è utile sia per incoraggiare
l’aderenza al percorso riabilitativo sia per favorire una migliore conoscenza delle alterazioni fisiche e psicologiche
della propria malattia, elemento questo utile dal punto di
vista dell’autogestione (self-management). Gli argomenti di
insegnamento possono interessare nozioni strettamente
anatomiche e fisiopatologiche ma anche (ancora più utili)
nozioni riguardanti il risparmio energetico, l’uso dei farmaci e la capacità di autogestione; recenti evidenze hanno
infatti rilevato che un programma educazionale inserito
in un percorso riabilitativo, agendo sul riconoscimento
precoce dei sintomi, permette una riduzione delle successive ospedalizzazioni.
Il supporto psicosociale è fondamentale per sostenere nei pazienti cronici il senso di depressione, ansia o inadeguatezza
che nasce dall’incapacità di affrontare le normali problematiche quotidiane e/o dalla stretta dipendenza di familiari e
che conduce spesso il paziente all’isolamento sociale.
6/9/10 10:34:10 AM
Capitolo 20 - INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA E CRONICA
497
Figura 20.10
Modalità di
allenamento
utilizzate in
riabilitazione
respiratoria.
a
c
d
La componente nutrizionale, da non tralasciare sia nella valutazione iniziale sia nella gestione terapeutica, soprattutto
in pazienti muscolarmente deperiti, è parte integrante e
arricchente del programma riabilitativo. La pdita di massa
Tabella 20.7
2
b
magra o muscolare è piuttosto frequente in pazienti BPCO
inveterati e ne predice negativamente la sopravvivenza.
Ancora mancano, ciò nonostante, dati scientifici che supportino un uso generalizzato di integrazione nutrizionale.
Caratteristiche generali di allenamento nei vari distretti muscolari
Arti inferiori
Arti superiori
Muscoli respiratori
Tipologia di
allenamento
Intensità di esercizio
Durata della
sessione
Durata ideale del programma
Resistenza
70-90% della FC o VO2 massimale
20-45 min
3-5 volte/settimana per 8 settimane
(minimo 15-18 sessioni)
Forza
50-80% del massimo carico
sollevato
8-10 ripetizioni
fino a 3 serie
3-5 volte/settimana per 8 settimane
(minimo 15-18 sessioni)
Resistenza
70-90% della FC o VO2 massimale
20-45 min
3-5 volte/settimana per 8 settimane
(minimo sessioni non noto)
Forza
50-80% del massimo carico
sollevato con esercizi base-ADL
8-10 ripetizioni
fino a 3 serie
3-5 volte/settimana per 8 settimane
(minimo sessioni non noto)
Forza
30-60% della massima MIP o MEP
30 min
3-5 volte/settimana per almeno
6 settimane
FC = frequenza cardiaca; VO2 = consumo di ossigeno; ADL = Activity of Daily Living; MIP, MEP = massima pressione inspiratoria ed espiratoria.
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498
Parte 2 - MALATTIE DELL’APPARATO RESPIRATORIO
Valutazione dei risultati
Proprio l’esigenza di dimostrare l’efficacia del risultato
della RR ha fatto sì che si sviluppassero nel corso degli
anni misure quali-quantitative (outcome) strutturate da
basi solide scientifiche, che esprimono ogni singolo aspetto clinico del paziente, in particolare del danno funzionale della malattia (impairment), della disabilità conseguente (disability) e dell’impatto sociale che ne deriva
(handicap/partecipation).
Queste misure, per essere efficaci e avere un largo impiego
in campo clinico-riabilitativo, devono soddisfare requisiti
di riproducibilità (produrre gli stessi risultati se somministrati in periodi differenti del programma o da personale
diverso), di validità di rilevanza clinica (all’interno della
categoria dei pazienti), di sensibilità (in grado di rilevare
anche piccole variazioni quantitative) e infine di facilità
di somministrazione ed economicità. Ponendo quindi
(nella prospettiva riabilitativa) il paziente come elemento
centrale e cardine del programma, le misure di outcome
inerenti e rilevate su di esso risultano sempre essere quelle
più idonee da dover ottenere.
Le misure riguardanti il grado di impairment respiratorio
(per esempio, quelle ottenibili attraverso emogasanalisi
e/o spirometria) sono utili soprattutto per definire il grado
di complessità del paziente e lo stadio funzionale, mentre
le misure di disability e handicap sono fondamentali, specie se rivalutate al termine del trattamento, per stabilire i
cambiamenti dello stato funzionale. Particolarmente utile,
a questo proposito, il rilievo della percezione del sintomo
(dispnea o fatica muscolare), attraverso opportune scale
di misura, e dello stato fisico funzionale (mediante test
da sforzo cardiopolmonare e/o test standardizzato del
cammino). Le prove da sforzo, più in generale, sono state
sempre maggiormente riconosciute come test idonei per
la discriminazione diagnostica cardiopolmonare, o come
determinanti di prognosi e risposta al trattamento farmacologico in pazienti affetti da ipertensione polmonare,
scompenso cardiaco cronico e BPCO.
Valutazioni dell’handicap si ottengono invece attraverso
misure che riguardano sia l’impatto della disabilità nelle
attività quotidiane (per esempio, la misura dei sintomi
cronici) sia quello della sfera psicologica (per esempio,
la rilevazione della qualità di vita percepita con opportuni questionari). Valutazioni riabilitative accessorie, da
eseguire soprattutto nei pazienti molto defedati e con
condizioni di magrezza eccessiva, sono quelle rivolte alle
misure dello stato metabolico-nutrizionale (per esempio,
l’indice di massa corporea, l’impedenziometria e la calorimetria corporea).
A questi singoli indicatori di risultato, si sono aggiunti,
negli anni più recenti, indici multiparametrici, di cui il più
rappresentativo per quanto riguarda i pazienti con BPCO
è il BODE (Body mass index, Obstruction, Dyspnoea,
Exercise capacity), che considera contemporaneamente
la misura antropometrica (indice di massa corporea), il
grado di ostruzione bronchiale, la dispnea cronica e la
tolleranza fisica espressa come distanza percorsa al test del
cammino. Questi indici, il BODE in particolare, sembrano
in grado non solo di predire la prognosi a lungo termine
dei pazienti, ma anche di dimostrare la loro sensibilità
riguardo al miglioramento o al peggioramento successivi
all’intervento riabilitativo.
Conclusioni
In pazienti affetti da patologie croniche respiratorie,
esistono evidenze scientifiche secondo le quali mantenere un elevato livello di attività fisica quotidiana riduce notevolmente il rischio di ospedalizzazioni. La RR
rappresenta, in pazienti idonei e selezionati, un valido
intervento terapeutico efficace nell’apportare benefici
su sintomi percepiti, livello di abilità e qualità di vita
individuale.
Pertanto, è utile porre l’attenzione su questa disciplina
che, nell’ottica della gestione cronica (ad vitam) del malato disabile respiratorio, garantisce un’adeguata opportunità sanitaria con un buon rapporto costo-beneficio.
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