Prof. Monti – Storia V – a.s. 2016-2017 – L'eredità della Grande Guerra
L’eredità della
Grande Guerra
(in sostituzione del capitolo 7)
1.
UN NUOVO SCENARIO MONDIALE
La Grande Guerra non fu, a ragion veduta, quella positiva esperienza di rigenerazione da
molti immaginata e propagandata. In compenso, essa lasciò in eredità una grande quantità di
problemi:
I contrasti fra le nazioni non furono risolti, anzi: di fatto le condizioni della pace gettavano i semi
per nuove discordie.
La società cambiò volto: il coinvolgimento nella guerra, più o meno attivo, riguardò decine di
milioni di individui e accentuò ovunque il processo di massificazione della società, oltre che di
partecipazione alla vita politica.
Lo spirito di corpo delle trincee si “trasferì”, per dir così, alla società civile, con effetti positivi e
negativi.
Partiti e associazioni sindacali videro aumentare il numero di iscritti. A seguito di questa
esigenza, vi fu una generale estensione del diritto di voto in quei Paesi che ancora non avevano
introdotto il suffragio universale.
La guerra aveva portato enormi distruzioni materiali nelle città e abbandono nelle campagne,
spesso divenute improduttive. Assai ampliata era la presenza dell’industria pesante, che però
andava RICONVERTITA alle esigenze di un periodo di pace.
I paesi belligeranti si erano enormemente indebitati, sia internamente che con l’estero (soprattutto
con gli USA), e la stampa di cartamoneta aveva fatto aumentare l’inflazione.
La situazione economica era, poi, aggravata dal ritorno dei reduci, che spesso non riuscivano a
trovare lavoro e che si riunivano sovente in associazioni di ex combattenti, pronte a mobilitarsi in
difesa dei propri interessi.
Numerosi furono, anzi, i licenziamenti e la produzione calò: pensate che l’economia raggiunse di
nuovo i livelli prebellici solo nel 1925, anche grazie alla definitiva esplosione dell’era
dell’automobile.
Anche sul piano del costume vi furono grandi mutamenti. Minore era il rispetto per le tradizioni e le
vecchie gerarchie sociali da parte dei giovani, l'abbigliamento si fece più libero e personale, nuove
fonti si svago, come cinema e musica, costituirono una sorta di “compenso” per le sofferenze
trascorse.
Abbiamo già accennato al fatto che la Grande Guerra aveva fornito un forte impulso al
cambiamento del ruolo sociale della donna.
Il massiccio ingresso nel mondo del lavoro da parte delle donne aprì loro un ambito che non
avrebbero più voluto abbandonare: esso portava con sé maggiore autostima, indipendenza, vedute di
più largo respiro.
Almeno in parte, questo reale processo di emancipazione trovò nel dopoguerra alcune sanzioni di
diritto: dopo la Gran Bretagna, che lo riconobbe nel 1918, anche Germania (1919) e USA (1920)
concessero il diritto di voto alle donne.
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L'emancipazione femminile, ovviamente, non si compì senza che vi fossero forti resistenze in ampi
settori dell'opinione pubblica: molti uomini sentivano come una minaccia il nuovo ruolo femminile
nella società e, a guerra conclusa, molte furono le donne costrette ad abbandonare il lavoro.
Gli anni del dopoguerra furono, dunque, anni di miseria e di forti tensioni sociali.
Si susseguirono interminabili agitazioni di operai e di contadini. Il periodo che intercorse fra la fine
del 1918 e l'estate del 1920 vide proprio il movimento operaio europeo manifestare un grande
impegno politico, tale da apparire in alcuni momenti con una vera e propria ventata rivoluzionaria:
si trattò del cosiddetto biennio rosso europeo.
Una imponente ondata di agitazioni si risolse nella riduzione dell'orario lavorativo (8 ore) e in
adeguamenti salariali, anche se le rivendicazioni degli operali non erano solo di carattere sindacale,
ma anche politico, soprattutto su ispirazione delle vicende russe.
Questa ondata rivoluzionaria ebbe, un po' ovunque in Europa, un rapido riflusso: ciò che era stato
possibili in Russia non ebbe a ripetersi.
In più c’era lo “spettro” della Rivoluzione bolscevica, che in un primo momento pareva potersi
estendere...
Le classi dominanti rispondono, spesso, con dittature reazionarie.
La crisi assunse anche un carattere spirituale, culturale: tanto la scienza quanto la politica non
solo si erano dimostrate incapaci di evitare il massacro della guerra, ma, di fatto, lo avevano reso
più drammatico che mai.
Questa situazione di instabilità e di crollo delle certezze venne rispecchiata nell’arte, con forme
espressive che esprimevano irrazionalismo e incoerenza. A riguardo, estremamente significativa fu
l’opera del grande scrittore boemo Franz Kafka.
2. GLI STATI UNITI
Gli Stati Uniti sembravano essere la culla del nuovo mondo.
Questo paese, così come il Giappone, non fu quasi per nulla toccato dalle distruzione della guerra,
inoltre il suo apparato industriale si era grandemente rafforzato.
Uno degli esiti della Prima guerra mondiale, in effetti, fu proprio la perdita dell’egemonia
economica da parte dell’Europa.
Dopo la guerra, le passioni politiche che agitavano l’Europa erano sentite come pericoli negli
USA: fra 1918 e 1919 la cosiddetta red scare attanagliò la società americana. Si sospettava degli
stranieri – in particolare degli slavi – come di potenziali agenti del comunismo.
Nel 1924 gli USA – il paese del melting pot! – approvarono leggi assai restrittive
sull’immigrazione.
Un esempio significativo: nel 1927 gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti,
emigrati negli USA, vennero condannati a morte a causa di un errore giudiziario (si trattava di
operai immigrati accusati di omicidio per rapina: neppure la confessione del vero responsabile portò
alla revisione del processo!).
In questo clima di paura riemerse anche il razzismo.
Si pensi al celebre Ku Klux Klan (società nata dopo la guerra di secessione e riorganizzata nel
1915, si batteva per una rigida discriminazione razziale contro i neri) che, nel 1924, contava ben
cinque milioni di aderenti!
Il paese, nel dopo Wilson, si chiuse nell’isolazionismo.
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Nel 1919, il Senato, a maggioranza repubblicana, rifiutò di ratificare tanto i Trattati di pace di
Versailles quanto la Società delle nazioni.
3. GRAN BRETAGNA E FRANCIA
Paesi vincitori, sì, ma pieni di problemi.
La Gran Bretagna vide il suo impero ampliarsi ulteriormente, grazie alla vittoria nella
guerra, ma la crisi economica la colpì con estrema durezza, anche a causa della progressiva
sostituzione del carbone con petrolio ed elettricità.
L’apparato produttivo entrò in crisi, mentre industrie più moderne stentarono a crescere. Per tutti gli
anni ’20 la produzione ristagnò, le esportazioni calarono vistosamente e la disoccupazione crebbe
(1.500.000 persone senza lavoro).
Positiva fu l’introduzione, nel 1918, del suffragio universale.
Sino al 1929 il governo – salvo che nel 1924, con il primo governo laburista – fu in mano ai
conservatori che proposero una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari.
Numerose furono le proteste, anche se non si giunse mai ad esiti insurrezionali.
Resta famoso lo sciopero dei minatori del 1926 (durato parecchi mesi) che chiedevano l’aumento
dei salari, seguito dallo sciopero dei lavoratori nelle industrie: movimenti che però non ebbero
successo alcuno.
Altra importante questione era quella dell’Irlanda che ambiva all’autogoverno.
Già durante la guerra vi erano state sollevazioni popolari, mentre il partito indipendentista
otteneva ampi consensi sino alla vittoria delle elezioni del 1918. A questo punto venne
proclamata, unilateralmente, l’indipendenza: il suo mancato riconoscimento da parte governo
inglese portò ad un’ondata di sanguinosi attentati sino a quando, nel 1920, il Government of
Ireland Act concesse l’autonomia.
È dell’anno successivo, 1921, la legge che sancisce l’esistenza di due Stati: lo Stato libero
d’Irlanda (cattolico), con Dublino capitale, e l’Irlanda del Nord (Ulster, protestante) che continuò
a far parte del Regno Unito, seppure con un suo parlamento con sede a Belfast.
La piena indipendenza dell’Irlanda del sud si ebbe nel 1937, con la nascita dell’EIRE.
In molte colonie inglesi – soprattutto i dominions – si svilupparono movimenti indipendentisti,
anticolonialisti. Già nel 1917 si era ipotizzata una permanenza dei dominions all’interno
dell’impero inglese con maggiore autonomia rispetto al passato: si tratta del Commonwealth of
Nations.
Nel 1926, i dominions vennero definiti ufficialmente “comunità autonome all’interno dell’impero
britannico, liberamente associate e unite nella fedeltà alla Corona”. Si trattava, sostanzialmente,
della trasformazione dell’impero britannico in una sorta di unione confederale, cosa che venne
ratificata nel 1931.
All’inizio furono riconosciuto come Stati membri del Commonwealth solo i domini con una
maggioranza di popolazione bianca (Canada, Terranova, Australia, Nuova Zelanda, Unione
Sudafricana – dove erano neri ad essere in maggioranza, ma non avevano diritto alcuno – e Irlanda),
ma dopo la seconda guerra mondiale tutte le colonie britanniche entreranno a farne parte.
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In Francia la crisi economica fu meno grave, eppure anche in questo paese vi fu una notevole
avanzata del partito socialista e dei sindacati.
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Un grosso problema, inoltre, fu quello relativo alle spese di ricostruzione dei territori devastati
dalla guerra.
Nel 1920 nasce il Partito comunista francese che subito aderì alla Terza internazionale.
Vi fu una certa instabilità politica, con destra e sinistra che si avvicendarono al potere (questo fino
ai governi di “unione nazionale”, dal 1926 al 1929, composti da tutti i partiti non di sinistra e
capeggiati dal primo ministro Poincaré), ma prima della crisi del ’29 la Francia visse una fase di
boom economico.
4. L’EX IMPERO AUSTRO-UNGARICO
Come già sappiamo, la sconfitta militare portò alla scomparsa dell’antico impero asburgico: gli
Stati che nacquero dalle sue macerie sorsero su confini stabiliti dalle potenze vincitrici, confini
entro i quali si trovavano a convivere anche nazionalità e religioni diverse e conflittuali:
In Cecoslovacchia convivevano cechi, slovacchi, tedeschi, ungheresi; la ricostituita Polonia era
abitata, oltre che dai polacchi, anche da tedeschi, ucraini, ebrei, russi. La situazione dei Balcani
era ancora più complessa: la Serbia, che dal 1929 si chiamerà Iugoslavia, passò da 2 a 14 milioni
di abitanti: persone appartenenti a parecchie etnie differenti.
I rapporti del nuovo Paese, poi, oltre che conflittuali all’interno, sono tesi anche verso l’esterno:
l’Italia rivendicava Fiume e buona parte della Dalmazia.
In questi paesi tutti i problemi di cui abbiamo detto prima si intrecciarono con le difficoltà dovute
alla presenza di nazionalità diverse e, talvolta, si giunse ad esiti insurrezionali.
In effetti la Rivoluzione russa del 1917 fece sentire la sua attrazione in tutta l’Europa dell’est,
in particolare in Germania, con una forte crescita di movimenti rivoluzionari che pensavano di
poter seguire l’esempio russo.
Nacquero anche alcune repubbliche di stampo socialista (1919-1920), tentativi subito
fallimentari, ma che faranno crescere la reazione contro il pericolo bolscevico, portando per lo più a
regimi dittatoriali.
In Austria, centro del vecchio impero, la crisi fu meno grave di quella vissuta negli altri
territori. Vi erano due principali forze politiche: il Partito socialdemocratico che sosteneva
l’unificazione con la Germania, il Partito cristiano-sociale che incontrava maggiori consensi nelle
campagne.
Una instabilità assai maggiore troviamo in Ungheria, ove alla debolezza dei socialdemocratici
(al contrario di quanto accadeva in Austria, quindi) faceva da contraltare la forte presenza dei
comunisti.
Nel 1919 si giunse addirittura alla proclamazione delle Repubblica sovietica ungherese, che però
sopravvisse per pochi mesi e venne subito sostituita da un regime dittatoriale.
5. LA GERMANIA
La situazione in Germania sembrava “pronta” a sbocchi rivoluzionari già prima della fine
della guerra.
L’ammutinamento dei marinai della flotta di Kiel nell’ottobre del 1918, che rifiutano di attaccare le
navi inglesi, si allargò velocemente e portò all’abdicazione dell’imperatore Guglielmo II e alla
proclamazione della repubblica il 9 novembre dello stesso anno.
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La situazione era drammatica. Abbiamo già parlato delle durissime condizioni imposte ai tedeschi
dai Paesi vincitori. Pesantissime furono perdite territoriali ed economiche. La necessità di pagare gli
ingenti debiti di guerra causò, poi, una fortissima svalutazione. La carta moneta non valeva quasi
più nulla e si giunse, addirittura, al ritorno di un’economia di baratto. Di tutto questo, naturalmente,
risentivano soprattutto i percettori un reddito fisso.
Ne derivò una grande crisi sociale, capace di alimentare gli eventi politici: se l’abdicazione di
Guglielmo II aveva lasciato sostanzialmente inalterato il blocco al potere e l’apparato burocratico
(aristocrazia), a sinistra crebbero due formazioni rivoluzionarie (socialisti indipendenti, che si
dimisero dal governo, e la lega di Spartaco), che subito rompono sia con i sindacati che con il
Partito Socialdemocratico, favorevoli a un cauto programma riformista.
Nel 1919, a Berlino e in Baviera, vi furono tentativi di insurrezione organizzati dai comunisti.
Questi tentativi, soppressi sanguinosamente, acuirono le divisioni all’interno della sinistra.
L’armistizio venne firmato l’11 di novembre dal governo presieduto dai socialdemocratici.
Subito si diffuse l’idea che la sconfitta era colpa dei politici: in fondo l’esercito, durante la guerra,
non era mai stato duramente battuto. Questi sentimenti si rafforzeranno ancora all’indomani del
trattato di Versailles.
Le classi sociali erano schierate l’una contro l’altra: proletariato contro burocrazia, ufficiali
dell’esercito e grandi proprietari prussiani. Tra partito Socialdemocratico e comunisti la tensione
era altissima. La destra, comunque, recuperò in fretta le posizioni perdute. I più facinorosi
costituirono i cosiddetti “corpi franchi” (ufficiali e sottoufficiali desiderosi di continuare la guerra
all’interno del Paese contro i rivoluzionari, pronti ad assassinare avversari politici e organizzati dal
ministro della difesa Noske).
È in questa situazione di estrema difficoltà e tensione che nacque la Repubblica di Weimar (dal
nome della località dove si insediò l’assemblea costituente, nel febbraio 1919).
Il 19 gennaio del 1919 si erano svolte le elezioni a suffragio universale per l’Assemblea costituente,
elezioni che premiarono i socialdemocratici, che però persero la precedente egemonia politica.
Venne varato il nuovo governo, insieme alla nuova costituzione, assai innovativa: essa
prevedeva il suffragio universale (Parlamento eletto ogni quattro anni), un sistema elettorale
proporzionale, la tutela delle minoranze politiche.
La Germania divenne così una Repubblica federale, composta da Stati regionali dotati di notevole
autonomia.
Questa repubblica, purtroppo, nasceva debole, minata dalle accuse di colpevolezza in relazione
all’umiliazione subita durante la conferenza di pace.
Ecco che il successo elettorale dei socialdemocratici non bastò a garantire stabilità di governo:
si succedettero in serie governi di coalizione, sempre più orientati verso destra.
Il governo era impotente di fronte al terrorismo di destra: vi furono moltissime uccisioni e
tentativi di colpo di Stato. Via via, il nazionalismo reazionario prendeva sempre più piede e il
sentimento di rivalsa andava diffondendosi.
È in questi anni burrascosi Adolf Hitler (1889-1945) si affacciò alla scena politica.
Capo del partito dei lavoratori tedeschi, nato a Monaco nel 1919, Hitler era un reduce di guerra di
origine austriaca, dotato di grande carisma e capacità oratorie.
Nel 1920 il partito diviene Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, portando con sé una
ideologia pangermanista e razzista, vedendo aumentare velocemente i consensi.
Hitler fu protagonista sin dall’inizio di una violenta campagna d’odio contro ebrei e comunisti.
Al partito si affiancò una organizzazione paramilitare, le SA, squadre d’assalto, utile per
intimidire gli avversari politici. Il programma era chiaro: una Grande Germania per tutte le
popolazioni di lingua tedesca, la divisione delle persone in base alla razza: da una parte i tedeschi
e dall’altra “gli altri”, innanzitutto gli ebrei.
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La situazione peggiorò ulteriormente quando, nel 1921, la commissione delle potenze vincitrici
rese noto il preciso ammontare delle riparazioni di guerra. 132 miliardi di marchi divisi in 42
rate annuali: una cifra tanto grande da impedire alla Germania di riprendersi economicamente e,
quindi, di tornare ad essere una grande potenza.
Nel gennaio del 1923, poi, Francia e Belgio occuparono il bacino minerario della Ruhr, che da
solo forniva la gran parte del fabbisogno di carbone e di acciaio dell’intera Germania. Tutto ciò
esasperò l’opinione pubblica fornendo nuove armi ai nazionalisti. I lavoratori tedeschi della Ruhr
giunsero a rifiutarsi di collaborare con gli occupanti francesi.
Ecco che la già grave situazione economica peggiorò ulteriormente: un chilo di pane il 3 settembre
del 1923 costava 240.000 marchi, il 24 settembre costava 3 milioni di marchi!
Miseria e disoccupazione si diffusero sempre più. Nell’agosto del 1923 il governo di coalizione
(cancelliere era Gustav Stresemann) prese delle misure correttive: sospese la resistenza passiva
nella Ruhr, introdusse una nuova moneta, cercò di opporsi tanto all’estrema sinistra che all’estrema
destra.
L’8 e 9 novembre 1923, a Monaco, Hitler tentò un colpo di Stato, che fallisce e gli costa un anno
di prigione. In questo periodo egli scrisse il celebre Mein Kampf (La mia battaglia) manifesto del
suo progetto politico: esaltazione del nazionalismo e della razza, lotta contro il sistema liberaldemocratico, lotta contro ebrei e comunisti.
Dal fallito colpo di Stato in poi sembra che il peggio sia passato e che si possa giungere ad una
stabilizzazione politica. Gli anni successivi al 1923, fino al 1929, furono caratterizzati da relativo
benessere e creatività culturale, ma non solo: nonostante la pesante eredita della guerra, l’industria
compì enormi progressi, superando presto i livelli di prima della guerra.
Il problema delle riparazioni viene affrontato positivamente, anche sulla base di consistenti
prestiti alla Germania dagli USA (secondo un piano elaborato dal politico statunitense Charles
Dawes, nel 1924) e alla fine dell’occupazione del bacino minerario nella Ruhr (che sarebbe dovuto
rimanere alla Francia per 15 anni).
Il Trattato di Locarno del 1925, sottoscritto con la Francia, riportò la Germania ad avere
normali relazioni diplomatiche con gli altri Stati e, nel 1926, anche la Germania entrò nella
Società delle Nazioni.
Nell’agosto del 1928, poi, quindici nazioni furono firmatarie del Patto Briand-Kellog che stabiliva
la rinuncia al conflitto bellico come soluzione delle diatribe internazionali.
Infine, nel 1929, un nuovo piano economico elaborato dell'americano Owen Young, portò ad una
riduzione delle riparazioni di guerra tedesche e ad un allungamento dei termini di pagamento:
sessant'anni.
Nonostante i miglioramenti, la situazione continuava ad essere delicata. Le elezioni del 1924
videro una notevole affermazione tanto delle sinistre radicali che delle destre. Nel 1925 venne eletto
Presidente della Repubblica un esponente della tradizione militare prussiana, il maresciallo Paul
von Hindenburg, già capo dell'esercito e simbolo vivente del passato imperiale.
Uscito dal carcere alla fine del 1924, Hitler riorganizzò il Partito nazionalsocialista, trasformandolo
in un partito di dimensione nazionale, radicato nella società. In questo periodo istituì anche una sua
guardia del corpo personale, le celebri SS (squadre di protezione).
A far precipitare di nuovo la situazione sarà la crisi del ’29, crisi che spinse milioni di persone a
votare Hitler nelle elezioni del 1930. Nello stesso anno, la Francia decideva di iniziare a costruire
un imponente complesso di fortificazioni sul confine con la Germania, si trattava della celebre linea
Maginot.
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Il 30 gennaio 1933 Hitler divenne cancelliere e, grazie alla promulgazione di leggi eccezionali,
assunse poteri dittatoriali.
Fu questa la fine della Repubblica di Weimar.
6. AFRICA E MEDIO ORIENTE
Nella Turchia del “dopo impero Ottomano” c’era grande effervescenza politica. La situazione
era particolarmente intricata: vi era la presenza di truppe straniere (soprattutto inglesi e francesi),
mentre le minoranze etniche, facendosi forti del principio di autodeterminazione sostenuto dal
presidente Wilson, premevano per l’indipendenza (curdi, armeni).
Nacque il movimento nazionale turco, guidato da Mustafà Kemal, impegnato nella liberazione
del paese dagli occupanti e nella costruzione di uno stato repubblicano laico. Nel 1923 fu lui
stesso a proclamare lo scioglimento dell’impero Ottomano e la nascita della repubblica di
Turchia (autoritaria, con partito unico) con Ankara come sede del governo.
Vennero varate delle leggi allo scopo di ridimensionare l’importanza dell’Islam nella politica:
si stabilì che autorità politica e religiosa doveva essere separate e, inoltre, vennero aboliti tanto i
tribunali quanto le scuole religiose. Venne proibito il velo che tradizionalmente copriva il volto
delle donne. Esse, inoltre, poterono votare, andare a scuola. Insieme a queste aperture nei confronti
del mondo occidentale, però, la politica di Kemal fu improntata ad un forte nazionalismo.
Qualunque nemico interno dell’unità turca venne duramente represso, in particolare le minoranze
armene e curde.
La nascita della Turchia influenzò tutto il Medio Oriente, ove, fra l’altro, si erano scoperti ricchi
giacimenti petroliferi, cosa che faceva aumentare il già forte interesse delle potenze occidentali.
A spartirsi i territori arabi, prima sottoposti all’impero Ottomano, furono soprattutto Francia
e Inghilterra: sotto la protezione francese nacquero i nuovi stati di Libano e Siria, sotto il
protettorato inglese si collocarono invece l’Iraq, la Transgiordania e la Palestina.
Il mondo arabo, naturalmente, non fu soddisfatto da questa soluzione: nel corso del conflitto,
infatti, era stata garantita l’integrità e l’indipendenza dei territori precedentemente sottoposti al
dominio dell’Impero Ottomano.
La politica inglese fu, in questa regione, finalizzata principalmente al controllo economico e non a
quello politico: la Transgiordania divenne indipendente nel 1928, l’Iraq nel 1932.
Assai più complessa la questione palestinese: in questa regione, infatti, l’indipendenza si
incrociava con l’immigrazione ebraica sostenuta dal movimento sionista.
La Società delle Nazioni affidò il mandato sulla Palestina alla Gran Bretagna nel 1922 con l’obbligo
di creare una patria per gli Ebrei, pur senza ledere i diritti delle comunità non ebraiche ivi residenti.
Il movimento sionista, fondato da Theodor Herzl nel 1897, alimentò l’emigrazione ebraica verso
la Palestina e sostenne l’obiettivo di creare, mediante l’acquisto di terre, un vero Stato ebraico in
Palestina.
Di fatto, alla fine della guerra ai coloni ebrei fu concessa una sorta di autogoverno, ma la
convivenza con i Palestinesi fu subito difficile. Comunque, nel 1930 gli ebrei in Palestina erano
ormai duecentomila: si impiantarono allora attive comunità agrarie: i kibbutz.
Come abbiamo già detto, il controllo britannico nella regione non fu rigido. Nel 1922 gli
inglesi riconobbero l’indipendenza dell’Egitto, pur mantenendo il controllo militare del Paese,
mentre nel 1932 venne concessa la formazione dell’Arabia Saudita. La Persia era divenuta
protettorato inglese nel 1919, ma nel 1925 vi si ribellò, anche se l’Inghilterra mantenne nel Paese
importanti concessioni petrolifere. Nel 1935 la Persia prese il nome di Iran.
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In generale, gli eventi del Medio Oriente portarono la religione musulmana verso una
radicalizzazione in senso politico. Idee di base divennero una totale opposizione all’Occidente e la
convinzione che la legge islamica (shari’ha) dovesse costituire il fondamento dello Stato.
La Francia mantenne, sia sulle colone che sui mandati, un controllo assai più rigido rispetto a
quello inglese. Siria e Libano otterranno l’indipendenza solo nel 1946.
Nelle colonie francesi – Algeria, Marocco, Tunisia – la politica repressiva favorì la formazione di
importanti movimenti nazionalisti.
Comunque sia, nell’Africa francese si avviarono grandi lavori ferroviari, si aprirono cantieri
portuali, furono costruite nuove strade. Dalla guerra scaturì anche una società più dinamica: si
formarono classi di salariati e ridotti strati di classi agiate che mandavano i figli a studiare in
Europa.
La fraternità sperimentata sui campi di battaglia favorì anche la nascita di correnti assimilazioniste
rispetto alla madrepatria.
7. UNIONE SOVIETICA; PAESI ASIATICI: CINA, GIAPPONE, INDIA
Abbiamo già parlato degli eventi che caratterizzano la Russia del primo dopoguerra e non ci
soffermiamo ulteriormente sull’argomento: ricordiamo la sanguinosa guerra civile, il comunismo di
guerra e la NEP, la nascita dell’Unione Sovietica, la morte di Lenin e la deriva autoritaria imposta
da Stalin, il primo Piano quinquennale varato nel 1928.
Gli effetti della guerra si fecero sentire, come ormai sapete bene, non solo sui paesi
direttamente coinvolti, ma in tutto il mondo. Facciamo solo rapidi cenni relativi all’Asia.
In Cina, dopo la rivoluzione del 1911, la nuova Repubblica non si dimostrò capace di
controllare il paese.
Vi furono in effetti due governi: il primo a Pechino (retto dalle correnti più tradizionaliste) e l’altro
a Canton (correnti democratiche).
Fra il 1916 e il 1926 il Nord della Cina venne percorso da una sanguinosa guerra civile, secondo un
modello di rivalità ancora feudale. Cominciano ad emergere, però, anche movimenti politici più
moderni.
Nel Sud invece (Cina di Canton), la vita politica fu segnata dalla collaborazione fra due partiti
moderni: il Kuomintang (partito nazionalista) e il Partito Comunista (fondato da Mao Tse Tung,
un intellettuale di origine contadina, nel 1921).
L’esito vittorioso della guerra, consentì al Giappone di consolidare il proprio ruolo nel
Pacifico, divenendo la terza potenza navale mondiale.
All’interno, così come accadde in Europa, vi fu una partecipazione di massa alla vita politica,
partecipazione che portò alla nascita (a sinistra) di un robusto movimento operaio di stampo
occidentale, così come all’affermarsi (a destra) di movimenti nazionalisti e xenofobi.
Venne introdotto il suffragio universale maschile (1925) e la produzione industriale ebbe un
enorme aumento in pochi anni (1915-1919).
In India la lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra, dopo sanguinosi scontri, assunse un
carattere nuovo. Leader del Partito del congresso, Gandhi, propose una tipologia di lotta politica
basata sulla “non violenza”.
Fra il 1920 e il 1922 egli lanciò la prima campagna della “resistenza passiva”, intesa al rifiuto della
collaborazione con l’amministrazione coloniale inglese e a favore di riforme sociali ed economiche,
il cui fulcro fu l’indipendenza. Su questa base l’opposizione agli inglesi divenne un movimento di
massa.
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