Il principio della resistenza

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Il principio della resistenza
Quell'irresistibile resistenza al dominio che segna la vita degli uomini e donne in società e che
comunque nutre l'organizzazione statale. Pubblichiamo la relazione che l'autore presenterà in un
incontro internazionale dedicato all'opera di Spinoza
LAURENT BOVE (il manifesto, 17.11.2005)
Il desiderio di non essere dominati da un proprio simile: questa la profonda
politicità della filosofia di Spinoza. Anche quando ogni resistenza viene
sradicata, si legge nel Trattato teologico-politico, gli uomini «continuano a
provare soddisfazione per un male o per un danno causato a chi li comanda».
La schiavitù in apparenza più dura non potrà mai impedire agli uomini di
conservare, almeno in parte, quella libertà che il Trattato politico pone
nell'esercizio di un «diritto di guerra», inseparabile dall'affermazione stessa di
una vita singolare. Un diritto di guerra che non è intrinsecamente irrazionale. È
una «prudenza», l'esigenza di una natura che non può mai volere in se stessa
la propria distruzione. Una prudenza che sfugge alla problematica
dell'obbedienza e del contratto e che appare come una forma di resistenza,
essa stessa irriducibile. Come spiega Spinoza nel Trattato politico, la
moltitudine «mantiene in parte la propria libertà attraverso una segreta ed
effettiva rivendicazione», perché sempre e necessariamente resta una fonte di
paura per i governanti.
È dunque attraverso gli affetti più segreti che si legge innanzitutto una
rivendicazione vitale, che niente sembra poter realmente sopprimere. Si
devono considerare dei veri e propri assiomi, quindi, da un lato il desiderio di
non essere comandati e dall'altro la necessaria rivendicazione di diritti,
nell'intimo della propria vita affettiva, da parte di uomini costretti
all'obbedienza: «tale prudenza - scrive Spinoza - non è obbedienza, ma la
libertà stessa della natura umana».
Non è in una logica dell'obbedienza, quindi, ma attraverso una prudenza vitale
che si costituisce il diritto proprio del genere umano. La rivendicazione segreta
implica sia una dinamica mimetica di affetti di solidarietà, sia la difesa di diritti
che derivano dalla pratica stessa della vita sociale nella sua quotidianità.
La strategia del conatus
Diritti che non sono affatto individuali, astratti o definiti una volta per tutte.
Diritti che nessun contratto potrebbe sopprimere, ma che sono generati da una
vita che, per quanto a un livello minimo, è sempre-già in comune. Una
cooperazione consistente e resistente dell'«animale sociale» che desidera non
essere comandato e, di fatto, sopravvive e fa sopravvivere una forma di vita
«umana» precedente a ogni ordine civile, a ogni obbedienza, a ogni
costrizione. Una vita umana che il potere non può mai sopprimere senza
contemporaneamente decomporsi. Questa cooperazione, resistente e
consistente, è infatti indissociabile dalla potenza della moltitudine, di cui il
potere si nutre. La produzione indefinita del comune, allora, è necessaria al
dominio (che pure tende logicamente a distruggere). È il crogiolo, in
permanenza rinnovato, della sua contestazione. Siamo al principio stesso della
politica spinozista, inseparabile dal pensiero di una potenza intesa come
resistenza e cooperazione, così come da una teoria dell'antropogenesi.
Da questa natura della moltitudine, dal suo carattere barbaro, ribelle,
ingovernabile, si deduce necessariamente, al principio della storia, la forma di
un vivere-insieme democratico che Spinoza definisce come una «società
intera». Una società che esercita «collegialmente il potere in modo che tutti
siano tenuti a obbedire a se stessi, senza che nessuno sia costretto a obbedire
a un proprio simile». Ponendo la questione di «una vita umana» al cuore di
un'ontologia politica della potenza, Spinoza ha fatto della resistenza al dominio
del simile - e della democrazia che da tale resistenza necessariamente si
genera - i principi fondamentali della politica e della storia.
Il paradigma turco, quello cioè del più rigido assolutismo, rappresenta al
contrario la chiusura della storia, quando la violenza del dominio ha sradicato i
principi stessi della politica e dell'antropogenesi. Ma questo totale trionfo della
morte è un modello contraddittorio, in quanto il dominio tende qui a
sopprimere la condizione stessa del suo esercizio.
Il fine della repubblica, invece, è la libertà. Compito dello stato, secondo il
Trattato teologico-politico, non sarà quello di trasformare gli uomini in «bestie»
o in «automi». Al contrario, la costituzione di un mondo in comune e di un
corpo politico che resiste, in regime di pace, si farà contro ogni tentativo di
«automazione» e di «animalizzazione» degli uomini. Automazione (che può
anche essere una servitù felice, con l'adesione a una particolare forma di vita,
come nell'antico stato ebraico) e animalizzazione che creano un regime di
guerra, spinto fino al terrore che distrugge ogni comunità e in cui «alla
schiavitù, alla barbarie e alla solitudine si dà il nome di pace», proprio come
nello stato turco.
Se «in teoria», quella giuridico-politica della sovranità, l'idea della giustizia e
della pace sono legate all'obbedienza, cioè alla rappresentazione di una
«Legge» che il suddito è tenuto a rispettare, la giustizia e la pace rinviano «in
pratica» a una problematica della «prudenza», o della strategia del conatus.
Rinviano cioè alle condizioni effettive dell'affermazione immanente di una libera
potenza della moltitudine, per l'esercizio di una «vita umana». Ossia, alle
condizioni di esercizio di un'affermazione comune che resiste alle logiche,
automatizzanti e animalizzanti, di guerra e di dominio.
Un diverso esempio di servitù radicale, tuttavia, sfugge nell'opera di Spinoza
alla contraddizione interna tipica della tirannide turca. È lo stato ebraico, che
dimostra al tempo stesso qualcosa di assolutamente paradossale e del tutto
logico, rispetto all'idea per cui la sovranità è effettivamente la potenza di tutti.
Il potere sovrano, cioè, può quasi fare dei propri sudditi ciò che vuole. Ciò è
realmente possibile, però, riconoscendo al tempo stesso l'impossibilità di
eliminare sia la cooperazione umana sia la resistenza al dominio da parte dei
propri simili. Per questo è necessario fondare il dominio integrale su
un'autorganizzazione democratica effettiva dell'immaginazione e delle sue
pratiche e dinamiche di soddisfazione. Autorganizzazione che deve resistere a
ogni altro tipo di forma di vita, vissuta come costrizione e dominio da parte di
forze estranee. La rivendicazione implicita, quindi, inerente a ogni
cooperazione e segretamente resistente a ogni dominio estrinseco diviene, per
gli ebrei, la resistenza esplicita, politicamente e ideologicamente istituita, dei
contro-poteri.
Lo stato degli automi
Se la relazione di potere, nel caso degli ebrei, non è «animalizzante», nel
senso dello stato turco, essa è però «automatizzante». Tale soluzione di
controllo totale, che rende l'obbedienza una «seconda natura» e schiaccia il
futuro su un eterno presente, liquida integralmente la libertà e la creatività
della moltitudine. Quando il comando del sovrano (la Legge) è identificato con
la necessità stessa della vita o col desiderio stesso del suddito, senza
possibilità di variazione o di critica, l'automazione degli individui è allora
perfettamente compiuta.
L'idea di automazione, nello stato ebraico, oltrepassa di gran lunga quella
dell'animalizzazione. Perché il regime di eteronomia, nell'automazione,
riguarda la strumentalizzazione integrale delle funzioni umane. Non solo,
quindi, del dispositivo degli affetti, ma della ragione stessa, che negli ebrei
diviene l'incarnazione dell'apparato teocratico. Fa la sua comparsa, in questa
figura particolare dell'umanità che si pone come modello di ortodossia di una
vita «vera», una nuova norma immanente. La norma di un uomo così
perfettamente animalizzato da non mancare d'intelligenza o di sentimenti
adeguati al proprio sforzo vitale, alla soddisfazione dei propri desideri e
bisogni. Un uomo che tuttavia, in questa nuova «prudenza» dell'animale
sociale e storico, sarebbe privato della possibilità di un'interrogazione radicale
sulla propria vita e, più in generale, di un pensiero libero da ogni potere. È
dunque verso l'uomo della modernità, cioè verso di noi, che la nuova
«animalità» punta il dito.
L'inquietante possibilità di una chiusura della storia, certo mai definitiva, non è
dunque assurda. Può essere scartata dal nostro orizzonte solo attraverso forme
di espressione che sfuggano all'ordine monarchico del regime liberale e
universale dell'ortodossia, nella sua veste apparente di una democrazia.
Quando Spinoza parla di una repubblica «il cui fine è la libertà», tiene a
precisare che gli uomini dimostrano un'esercizio della ragione, in quanto
«libera ragione» (libera ratione), o una vita dello spirito in quanto «vera» vita
dello spirito. E probabilmente, come modello contrario, pensa a Hobbes e al
tipo di stato moderno che, riducendo lo spirito e la ragione umana al calcolo
verbale, li rende meri strumenti di una forma di vita animalizzata.
L'utopismo politico e razionalista della modernità si collega così,
tendenzialmente, alla chiusura identitaria dell'ortodossia teocratica, perfetta
nella rimozione della complessità e della capacità innovativa della moltitudine.
Partire realmente dalla complessità o dalla verità effettiva delle cose, per
Spinoza, significa sostituire al modello dell'obbedienza razionale il complesso
produttivo delle prudenze o dei processi strategici immanenti, resistenti e
singolari, dei conatus . Si ha qui la principale questione politica e strategica: un
problema di prudenza e di costituzione immanente della libertà come potenza,
e non una questione di obbedienza.
Spinoza mostra tuttavia come gli uomini lavorino «per la propria servitù come
se si trattasse della propria libertà». È all'avvento della coscienza di sé dello
stato, vissuto come proprietà nazionale (di fronte al problema dell'afflusso di
stranieri e all'invidia collettiva che ciò mette in moto), che Spinoza indica come
la democrazia, successivamente, proceda alla forclusione storica e giuridica
delle differenze a partire da cui pure si era generata: l'uguaglianza reale delle
singolarità diviene allora l'uguaglianza civile dei «cittadini» di fronte alla legge,
entro e attraverso la chiusura giuridica. La democrazia degenera allora in
aristocrazia e poi in monarchia.
Il grande interesse filosofico di Spinoza, la sua lucidità teorica e politica,
risiedono nel fatto che non schiaccia mai l'uno sull'altro i livelli di realtà che i
suoi concetti aprono. Nel Trattato politico, la multitudinis potentia, in quanto
potenza costituente della complessità, è rigorosamente distinta sia dalla
civitas, come corpo comune politicamente organizzato, sia dalla natio, come
corpo comune nella sua particolarità storica (una lingua, dei costumi, delle
leggi). I livelli della città e della nazione non sono mai trattati ideologicamente
come uno strato originario o come forme trascendentali dell'identità che
dovrebbero sussumere la molteplicità (ciò che, di fatto, sia la civitas sia la
natio, storicamente fanno!). Sono considerati, invece, come prodotti
immanenti, cioè come momenti di un processo storico dell'auto-organizzazione
(paradossale nei suoi effetti) della potenza della moltitidine. Momenti, inoltre,
su cui si innesta una legge della storia che certo potrà, nei fatti, rivelarsi più
forte della resistenza al dominio e delle aspirazioni alla libertà e
all'uguaglianza, in quanto riuscirà a strutturare le aspettative e le
rivendicazioni.
Pratiche eccedenti
Nello stato ebraico, tale strutturazione avrebbe potuto essere totale. E poteva
esserlo in quanto tale stato, attraverso la totale sottomissione a Dio, cioè alla
«Legge», soddisfaceva la rivendicazione essenziale della moltitudine a non
essere dominata da un proprio simile. Schiacciando i tre livelli, quello della
moltitudine, della città e della nazione, si produce una filosofia politica
profondamente conservatrice. Spinoza dice appunto «la» moltitudine per
intendere la «potenza della moltitudine» (qui sta il vero e proprio concetto
spinozista della complessità). Non parla cioè «della» o «delle» moltitudini, nel
senso che ogni moltitudine verrebbe costretta in una particolarità, cioè
nell'identità della nazione come civitas. Anche se storicamente, quanto ai
propri effetti, la nazione è la figura necessaria e ambivalente della costituzione
reale della civitas e del suo particolare conatus. Il paradigma perfetto di tale
chiusura identitaria e storica, come abbiamo visto, è lo stato ebraico
teocratico. Per Spinoza, come una legge della storia, questa chiusura si ritrova
sempre e ovunque. Sempre e ovunque, tuttavia, le esperienze - cioè le
pratiche - eccedono la regola.
La resistenza al dominio del simile sta nell'ordine complesso e ordinario delle
cose: entro e attraverso la natura complessa della moltitudine, la paura che
ispira a chi domina e il desiderio di ciascuno di rivendicare la propria singolarità
e libertà di vivere come vuole. Così, anche nel delirio e nelle illusioni che
necessariamente comporta, il desiderio ribelle che resiste al dominio del simile
resta - anche in seno alla servitù e alla condizione storica - la sorgente di una
politica di emancipazione e di invenzione, il crogiolo ontologico
dell'antropogenesi, inseparabile dal processo stesso della democrazia.
Da qui l'importante questione lasciata aperta da Spinoza, sulla nostra
emancipazione radicale, cioè democratica, dalla figura ricorrente
dell'«ortodossia». Figura in ultima istanza teocratica, che riguarda non solo il
corpo politico, ma più in profondità i nostri stessi corpi, le nostre menti, le
nostre idee e gli affetti, la nostra lingua, i costumi e le leggi, cioè «una vita
umana» o ciò che oggi dobbiamo intendere per «politica». Traduzione di Filippo
Del Lucchese
SCHEDA
Da Spinoza ai moralisti
Laurent Bove è docente di filosofia all'Università di Amiens. Si è occupato di
Baruch Spinoza, dei moralisti francesi, di etica e politica nell'età moderna. Fra
le sue opere «La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza»
(Edizioni Ghibli, Milano 2002, traduzione italiana di Filippo Del Lucchese). Ha
curato un'edizione francese del «Trattato politico» di Spinoza (Livre de Poche,
classiques de la philosophie, 2002) e il volume «Vauvenargues. Philosophie de
la force active. Critique et anthropologie» (Champion, Paris 2000). Lavora
attualmente all'edizione collettiva delle opere complete dello scrittore e filosofo
settecentesco Luc de Clapiers Vauvenargues e fa parte della redazione della
rivista «Multitudes».
SCHEDA
Potenza di un pe nsiero. Il convegno di Bologna su Spinoza
Se la forza di un pensiero si misura sulla base dei concetti che crea, o di cui
rinnova il significato, e che impongono un nuovo modo di vedere le cose e
persino un nuovo modo di agire, allora oggi questo è il caso di Spinoza. Da
oggi (ore 9), fino a sabato 19 novembre, nella sala Rossa della Scuola
Superiore di Studi Umanistici di Bologna (via Marsala 26) inizia il convegno
«Spinoza: individuo e moltitudine». Spinoza non cessa di fare discutere,
soprattutto per le categorie come moltitudine che oggi hanno ormai una
diffusione globale e vengono anche usate ben al di là del loro contesto
originale. Produttività del concetto, appunto. Perché le grandi filosofie hanno
sempre da dire qualcosa sul nostro tempo presente. E se poi i grandi classici,
come Spinoza, continuano a far parlare di sé, allora anche un convegno può
diventare l'occasione per guardarli in una maniera viva, e non manualistica,
cioè come momenti significativi lungo la passeggiata nel pantheon della storia
della filosofia. Al convegno bolognese interverranno alcuni fra i maggiori
studiosi mondiali che si occupano, come nel caso di Laurent Bove (di cui
pubblichiamo la relazione) e Manfred Walther, delle strategie di resistenza
all'oppressione politica; di cosa si intende per individuo molteplice André Tosel,
Chantal Jaquet, Warren Montag; sulla storia dello spinozismo intervenrranno
Salah Mosbah e Marilena Chaui. Nella giornata di domani, da segnalare gli
interventi di Antonio Negri («Moltitudine e singolarità nello sviluppo del
pensiero politico di Spinoza») e Étienne Balibar («Il transindividuale: Spinoza e
gli altri»). E la comunicazione di Michael Hardt su «1642-1643: sul concetto di
moltitudine nel pensiero politico inglese durante la rivoluzione». Interverranno
Augusto Illuminati («Spinoza disobbediente»), Filippo Del Lucchese («Iustitia
et armi. Diritto e conflitto in Spinoza») e Vittorio Morfino («Moltitudine e
temporalità plurale»), insieme a Stefano Visentin («La multitudo nell'imperium
aristocraticum»), Riccardo Caporali («La moltitudine e gli esclusi») e Paolo
Cristofolini («Saeva multitudo»). A chiudere i lavori del convegno sarà Carlo
Galli con un intervento sul rapporto tra Leo Strauss, Carl Schmitt e Spinoza.
Prima di lui interverranno, tra gli altri, Pina Totano, Daniela Bostrenghi,
Francesco Piro e Walter Tega. roberto ciccarelli
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