La crisi di identità della responsabilità civile
di Maurizio Santise
Il 25 dicembre 2014 è entrata in vigore la Direttiva Ue 2014/104, dedicata al risarcimento
derivante da violazione della disciplina antitrust, che gli stati membri dovranno recepire entro il
27 dicembre 2016.
La finalità della direttiva è uniformare la legislazione tra stati membri, evitare il forum shopping
e implementare il private enforcement, attraverso un più agevole accesso alle prove e
semplificando l’onere probatorio in relazione agli elementi costitutivi della responsabilità.
Il risultato complessivo è la delineazione di un microsistema di responsabilità, ancora una volta
speciale rispetto a quello delineato dall’art. 2043 c.c., che fa sorgere i dubbi sulla coerenza del
sistema nel suo complesso.
La Direttiva, quindi, rappresenta un’occasione per fare il punto della situazione sul tipo di
responsabilità civile oggi accolta nel nostro ordinamento, nella consapevolezza che oramai non
è più dato parlare di un solo modulo astratto di responsabilità, ma di varie eterogenee forme di
responsabilità extracontrattuale.
Si è di fronte, a quanto pare, ad una fase di transizione che il sistema sta vivendo, in cui i
contorni tra le categorie sono sfumati e le paratie normative che in passato hanno fatto da
contenitore agli istituti giuridici si stanno lentamente sgretolando in favore del progresso,
dell’evoluzione, cui tanto contribuisce anche il diritto comunitario1.
La responsabilità civile da violazione del diritto della concorrenza, così intrisa di categorie
pubblicistiche, sembra il punto di arrivo di un percorso trionfale, in cui la responsabilità civile
non è più quella di una volta; in cui gran parte delle tradizionali differenze tra responsabilità
civile e responsabilità contrattuale vengono meno e non è sempre così facile capire che tipo di
responsabilità si ha di fronte.
Tempo ne è passato da quando per la prima volta la Lex aquilia de damno (in realtà un
plebiscitum), agli inizi del III sec. a.C., aveva previsto (nel primo capo) che colui che
ingiustamente uccide uno schiavo altrui o un quadrupede altrui che rientri nel novero del
bestiame grosso deve essere condannato a dare al proprietario l’equivalente del valore massimo
raggiunto dalla cosa nell’ultimo anno. In caso di lesioni minore (nel terzo capo) il valore doveva
essere rapportato agli ultimi trenta giorni. Presupposto fondamentale era la sussistenza del dolo
e della colpa. In assenza di elemento soggettivo non c’era responsabilità. Evidentemente, il
risarcimento del danno poteva realizzare forme di overcompensantion, come si direbbe oggi
(cfr., Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26973), essendo calibrato sul valore più alto che la
cosa aveva raggiunto nell’ultimo anno o negli ultimi trenta giorni dal fatto illecito.
Il codice del 1942 si è in parte emancipato dall’esperienza romanistica, disegnando una forma di
responsabilità extracontrattuale avente la precipua funzione di reintegrare il patrimonio del
danneggiato, senza possibilità di immaginare aspetti sanzionatori o di deterrenza nei confronti
dell’autore del fatto illecito.
Nell’esperienza moderna, inizialmente, la responsabilità extracontrattuale è stata vista come
un’obbligazione secondaria di risarcimento, che discende dalla violazione di un obbligo
primario. Indicativa in questo senso è stata Cass., 4 luglio 1953 n. 2085 (cd. sul disastro di
Superga), che chiuse la porta alla configurazione di una responsabilità extracontrattuale da
violazione dei diritti di credito. Poco tempo dopo la stessa giurisprudenza si è dovuta arrendere
all’evidenza di una soluzione che non poteva escludere dalla domanda risarcitoria anche la
lesione dei diritti di credito. Cass., SS.UU., 26 gennaio 1971, n. 174 (sul caso Meroni) ha
1
N. Lipari, Le categorie del diritto civile, 2013, p. 196, il quale evidenzia i dubbi sulla rigidità della distinzione tra
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in quanto esistono figure che in qualche modo si sottraggono a tale
distinzione.
segnato il passo verso l’ampliamento della responsabilità extracontrattuale anche alla lesione dei
diritti relativi, nella convinzione che non era dato distinguere tra diritti assoluti e relativi, in
assenza di una chiara volontà legislativa in questo senso. La responsabilità, però, era ancora
vista secondo la lente dei classici: una forma di obbligazione secondaria volta a imporre il
risarcimento del danno per la violazione di un diritto (sia esso assoluto o relativo).
Si deve alla nota sentenza della Corte di Cass. 22 luglio 1999, n. 500, l’estensione del
risarcimento del danno anche alla violazione degli interessi legittimi.
Per raggiungere tale risultato, la strada da percorrere era la metamorfosi della responsabilità
extracontrattuale. La liberazione da antiche convinzioni. Il superamento di categorie normative che
ingabbiavano il pensiero.
La responsabilità extracontrattuale, dunque, viene vista come un’obbligazione primaria per la
violazione, non necessariamente di un diritto soggettivo, ma di qualunque interesse giuridicamente
rilevante, tra cui rientra a pieno titolo anche l’interesse legittimo.
Sembrava il punto di arrivo di un faticoso percorso di trasformazione della responsabilità
extracontrattuale.
In realtà, con il tempo si è capito che si trattava di un nuovo punto di partenza.
La responsabilità extracontrattuale, trovata la sua naturale dimensione, stava per lanciare nuove
sfide alle tradizionali convinzioni.
In questo torno di tempo il ruolo della giurisprudenza è stato fondamentale.
In pochi anni, la Corte di Cassazione ha disintegrato consolidate acquisizioni giurisprudenziali e ha
posto le fondamenta per l’allargamento delle posizioni giuridiche tutelabili, che passerà attraverso
le sentenze gemelle del 2003 (7281, 7282 e 7283 del 2003), la sentenza della Corte Costituzionale
233/2003, e troverà il suo naturale punto di arrivo nelle SS.UU. 11 novembre 2008, n. 26973. Il
danno non patrimoniale non può essere più ingabbiato all’interno delle strettoie interpretative
rappresentate dall’art. 2059 c.c. Va risarcito qualunque danno, anche non patrimoniale, da lesione di
interessi giuridicamente rilevanti attinenti ai diritti fondamentali della persona.
Un ulteriore esempio di ampliamento delle posizioni giuridiche tutelabili avrebbe potuto essere
rappresentato dalla risarcibilità del cd. danno da morte che, però, le SSUU (15350 del 22.7.2015)
hanno escluso, opponendosi alla costruzione, fornita da Cass. 1361/2014, che aveva ammesso la
figura, superando, in maniera certamente forzata, la distinzione tra danno evento e danno
conseguenza.
Al progressivo ampliamento della responsabilità extracontrattuale e delle posizioni giuridiche
tutelabili, però, è corrisposta una crisi di identità dell’istituto, spesso stretto tra responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale. In alcuni casi, come è stato sottolineato, non è più facile cogliere
con nitidezza le differenze tra le figure.
Un tentativo di emanciparsi dalla tradizionale categoria della responsabilità extracontrattuale lo si
vede in tema di responsabilità della p.a. nei pubblici appalti di rilevanza comunitaria, in cui le
direttive europee ritengono che non sia compatibile con il diritto comunitario l’ordinamento
nazionale che subordini il risarcimento del danno alla prova della colpa della p.a. (cfr., Corte
Giustizia UE, 30 settembre 2010, in C- 314/09).
Su questa scia, come è noto, la giurisprudenza amministrativa, grazie alla tecnica delle presunzioni
semplici, ha sostanzialmente accolto un concetto di responsabilità della p.a. presunta, simile in
punto di onus probandi, a quella contrattuale (ex plurimis, Cons. Stato, 21.9.2015, n. 4375).
La sensazione è che l’onere probatorio sia un incomodo, che non deve impedire il risarcimento del
danno.
Sempre in quest’ottica di sovrapposizione tra ambiti differenti si colloca la responsabilità da
contatto sociale, a mezza via tra quella del passante e del nessuno, da un lato, e quello da contratto,
dall’altro. Responsabilità che è transitata, ma con molta diffidenza, anche nel diritto amministrativo,
spesso utilizzata come grimaldello per evitare di addossare al danneggiato l’onere della prova.
Non è un caso che anche la responsabilità precontrattuale della p.a., come tutte le forme di
responsabilità precontrattuale rientrante, almeno tradizionalmente, nella responsabilità
extracontrattuale, in qualche occasione non ha resistito alle sirene della responsabilità da
contatto sociale ed è stata trasformata, a seconda della sensibilità dell’interprete, ora in
responsabilità contrattuale (cfr., Cass, 20.12.2011, n. 27648), ora restituita alla responsabilità
extracontrattuale (cfr., Cass., 3 luglio 2014, n. 15260).
Questa continua commistione tra categorie tradizionali, o se vogliamo l’abbattimento delle
stesse, si intravede, ma forse con minore nitore, nella soluzione fornita dalle SSUU sulla validità
del contratto preliminare di preliminare (Cass., 4628 del 6 marzo 2015), che forgia in relazione
al primo accordo una responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica
derivante da fatti o atti idonei a farli sorgere in conformità dell’ordinamento giuridico ai sensi
dell’art. 1173 c.c. con eventuale risarcimento del danno negativo in caso di sopravvenuto
disaccordo. Il risarcimento, quindi, è determinato sulla base dell’interesse negativo, tipico della
responsabilità precontrattuale e non in relazione all’interesse positivo legato alla responsabilità
contrattuale.
Anche le funzioni della responsabilità sono sottoposte ad un profondo processo di revisione.
Di fronte a quelle sentenze che negano funzione sanzionatoria al risarcimento del danno (SSUU
15350 del 22.7.2015, sopra citata) si collocano altre sentenze che, timidamente, ma ormai
sempre più frequentemente, ammettono questa secondaria, eccezionale, funzione2.
Le frontiere tra i differenti tipi di responsabilità diventano sempre più mobili se si osserva il
diritto comunitario, che non conosce la distinzione, in quanto al diritto comunitario interessa
solo il ristoro del danno, che il danno non resti a carico del danneggiato. La responsabilità
oggettiva in tema di appalto ne è una dimostrazione.
In questo contesto si inserisce la Direttiva UE 104/2014 che ridisegna la responsabilità in tema
di danno per condotte poste in essere in violazione della concorrenza.
L’art. 17 della Direttiva ne è ancora una chiara dimostrazione: “gli Stati membri garantiscono
che né l'onere della prova né il grado di rilevanza della prova richiesti per la quantificazione del
danno rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio del diritto al
risarcimento”. La norma sembra porsi su lidi diversi rispetto all’art. 2696 c.c., che in maniera
perentoria si preoccupa di evidenziare che chi deve far valere un diritto in giudizio deve provare
i fatti che ne costituiscono il fondamento, così come, del resto, prevedono gli artt. 63 e 64 c.p.a.
Il risultato finale è quello descritto dalla Corte di Cassazione 4/6/2015, n. 11564.
Bisogna evitare irrigidimenti nell’onere della prova, specie nelle azioni stand alone alla luce
delle asimmetrie informative esistenti in materia e della difficoltà di accesso al fatto da parte del
privato. Ne deriva che, in attesa del recepimento della Direttiva, bisogna interpretare in senso
estensivo le norme del cpc per consentire al giudice l’esercizio di poteri anche d’ufficio di poteri
di indagine di acquisizione e valutazione dei dati e informazioni utili per la ricostruzione
dell’illecito anticoncorrenziale nel rispetto del principio del contraddittorio e fermo restando
l’onere della prova di chi agisce in giudizio che deve indicare in modo sufficientemente
plausibile seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata.
Si tratta di responsabilità civile, ma l’onus probandi sembra molto simile a quello della
responsabilità contrattuale.
Ancora avvicinamenti preoccupanti, ancora commistioni tra categorie.
E’ il caso di Cass., SSUU 9100 del 6.5.2015 che si è pronunciata sul risarcimento del danno richiesto dai creditori
sociali nei confronti dell’amministratore di una società fallita. La questione è capire se sia corretto seguire il criterio
differenziale e imputare all’amministratore negligente un danno pari alla differenza tra l’attivo e il passivo. Secondo le
SS.UU. il criterio differenziale non può essere seguito perché la responsabilità dell’amministratore è extracontrattuale e,
quindi, sono i creditori a dover provare il danno, rifuggendo da ricostruzioni presuntive dello stesso. E’ vero, precisa la
Corte, che il risarcimento del danno può avere ormai funzione sanzionatoria (esempio tipico è l’art. 96, u.c., c.p.c.), ma
ciò è ammissibile solo se ci sia una norma a prevederlo in omaggio al principio sancito dall’art. 25 C. In base al
principio della vicinanza dell’onere della prova sono i creditori sociali a dover provare il danno. In questo senso si pone
anche Cass., 7613 del 15/4/2015 sulle astreintes, che vela l’ipotesi di risarcimenti per fini punitivi, ma esclude che le
sanzioni indirette abbiano tale funzione.
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Sembra, quindi, avere ragione quella dottrina quando dice che le categorie non devono impedire
l’evoluzione del sistema3. Ciò che conta è il risultato, più che il metodo utilizzato per
raggiungerlo. Un po’ come accade nel diritto comunitario.
N. Lipari, op. cit., p. 5, evidenzia che nella difficile stagione che stiamo vivendo noi avvertiamo sempre più l’esigenza
di rompere le sedimentazioni discendenti da vecchie cristallizzazioni concettuali.
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