La bioetica nel dibattito contemporaneo: storia e interpretazioni. La bioetica rappresenta per l’uomo moderno una disciplina nuova e di frontiera; nuova in quanto la sua nascita si deve all’oncologo V.R. Potter che nel 1970 coniò il neologismo di bioetica per indicare quella nuova forma di conoscenza critica, definita come «scienza della sopravvivenza»1 e come «ponte verso il futuro», finalizzata a coniugare il sapere scientifico con quello di natura umanistica per cercare di salvare l’umanità e l’ecosistema da una possibile catastrofe determinata da un uso distorto del progresso tecnologico; di frontiera perché affronta e analizza, attraverso un approccio interdisciplinare, le nuove possibilità di intervento e di potere sulla vita umana nelle sue diverse fasi di sviluppo. È interessante notare come i pionieri di questa nuova disciplina appartengono all’ambito medico, testimoniando così una sensibilità etica che da sempre caratterizza la professione medica e che si incarna e trae alimento dall’antico ma sempre attuale Giuramento di Ippocrate. La bioetica pur ereditando il bagaglio concettuale elaborato dall’etica medica è interpellata però da un nuovo approccio biomedico che rende possibile interventi sulla vita umana qualitativamente nuovi che sollevano interrogativi che provocano e interrogano l’antropologia e la filosofia. Ma quali sono la natura e il metodo di questa nuova disciplina? Popper nel suo scritto Logica della scoperta scientifica ha posto una bella frase di Novalis, che recita così: «Le teorie sono reti. Solo chi le butta pesca». Qual è la rete, ovvero il tipo di domande e la relativa metodologia che caratterizzano la bioetica e qual è il tratto di mare, ovvero l’oggetto di studio che può fornire delle conoscenze e delle risposte ai quesiti posti? Per rispondere a tale interrogativo è necessario fare riferimento al significato etimologico di bioetica = etica della vita. Per comprendere la natura della “vita” è necessario chiarire i concetti di bios e di psyché. In modo particolare bios è il termine con cui la lingua greca esprime il vivente nella sua individualità, vincolata alla temporalità e destinata a strutturarsi e storicizzarsi attraverso il corpo, psyché rappresenta il principio di animazione dell’individualità, che nel caso dell’essere umano permette la piena attuazione e realizzazione della propria esistenza come soggetto libero in grado di attribuire un senso e una progettualità alla propria vita.. Bios e psyché sono uniti da vincoli indissolubili di natura ontologica che richiedono di essere educati in quanto la persona è sempre esposta a due grandi pericoli: la negazione della propria natura spirituale, la quale determina una visione puramente materialistica della vita personale, o al contrario la negazione del valore della dimensione corporea della persona, in questo caso il rischio è invece quello di scadere in concezioni che esaltano forme di individualismo solipsistico. 1 V.R.Potter, Bioetica. La scienza della sopravvivenza, a cura di F.Bellino, Levante Editori, Bari 2002. 1 La bioetica avrà dunque il compito di individuare quei percorsi che favoriscono un rapporto equilibrato tra bios e psyché con il fine di permettere un positivo sviluppo della vita umana. La bioetica comprende comunque una riflessione etica che travalica i confini della vita umana in quanto risulta essere interessata ad ogni manifestazione della VITA, in ogni sua forma, quindi è corretto affermare che la bioetica comprende l’etica ambientale, l’etica animale e l’etica medica. Nel corso che noi affronteremo faremo riferimento in modo particolare alla bioetica nell’accezione di etica medica. La complessità dell’oggetto di studio determina una “rete”, cioè un approccio di studio altrettanto articolato e complesso. La metodologia di studio è stata definita fin dalla nascita della nuova disciplina come interdisciplinare, in modo particolare da A. Hellegers, facendo riferimento alle finalità del dialogo socratico, definì la bioetica come maieutica, cioè come scienza capace di cogliere i valori attraverso il dialogo e il confronto tra la medicina, la filosofia, l’etica. Hellegers conferì alla bioetica una prospettiva biomedica, fondò il “Kennedy Institute of Ethics” ed ebbe inoltre il merito di strutturare la bioetica come disciplina accademica e di introdurla nel mondo universitario, in quello politico e in quello dei mass media. La bioetica viene a caratterizzarsi fin da subito per essere una disciplina dallo statuto interdisciplinare, tale natura complessa e a volte problematica viene a qualificare in modo sempre più puntuale la sua definizione, come testimonia la stessa Encyclopedia of Bioethics, la quale nella prima edizione del 1978 definì la nuova disciplina come lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito della scienza della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori e dei principi. Nel 1995 la nuova edizione dell’Enciclopedia di Bioetica definì la bioetica come lo studio sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita e delle cure sanitarie, con l’impiego di una varietà di metodologie etiche in una impostazione interdisciplinare. La complessità degli interrogativi bioetici viene ad essere amplificata dal diffondersi del relativismo etico in base al quale non è possibile trovare un accordo rispetto a questioni di natura etica partendo da visioni dell’esistenza differenti. Il bisogno di ancorare i valori morali al bene e valore oggettivo della persona viene ad essere sviluppato da Monsignor E. Sgreccia che definisce la bioetica come una disciplina con uno statuto epistemologico razionale, aperta alla teologia intesa come scienza sovrarazionale, istanza ultima e orizzonte di senso. La bioetica, a partire dalla descrizione del dato scientifico, biologico e medico, razionalmente esamina la liceità dell’intervento dell’uomo sull’uomo. Dopo aver presentato la natura della bioetica è bene chiarire che le “sfide” che affronta appaiono essere complicate da un contesto storico-sociale qualificato da un “disincantamento del mondo” 2 caratterizzato da una parte dal diffondersi di forme di relativismo etico e dall’altro dall’accettazione di una visione del mondo caratterizzata da una razionalità tecnico-scientifica che sembra inevitabilmente portata, come evidenzia Heidegger2, a sviluppare una logica di dominio e di manipolazione rispetto alla vita globalmente intesa e ad afferrare quindi tutte le cose in un gigantesco calcolo, dove ogni realtà viene assoggettata e tenuta sotto controllo con il rischio persino di ridurre la persona ad opportunità sperimentale. Logica di dominio e di manipolazione che ha caratterizzato sperimentazioni di natura biomedica realizzate, anche negli Stati Uniti, dopo la fine del secondo conflitto mondiale su soggetti socialmente deboli. Il primo caso di particolare rilievo avvenne in una scuola per bambini con ritardo mentale, situata a State Island, a New Jork City, dove fra il 1956 e il 1970, per verificare l’efficacia della profilassi contro l’epatite, vennero di proposito infettati, con ceppi del virus, dai 700 agli 800 bambini: ai genitori era stato presentato un modulo di consenso che prefigurava la possibile esclusione dalla scuola se i loro figli non fossero stati inseriti in quel progetto di ricerca. Il secondo caso riguarda invece l’iniezione di cellule vive di cancro a 22 anziani che si trovavano in una clinica a New Jork; il terzo caso coinvolse invece 600 braccianti neri tra il 1932 e il 1972 che vennero inseriti a loro insaputa in un progetto sperimentale sulla sifilide finalizzato all’osservazione dello sviluppo naturale della malattia. Questi esperimenti erano connessi alla presenza di quella forma di pensiero che si può definire “darwinismo sociale” e che stabilisce pesanti forme di discriminazione tra gli esseri umani, sia in base a criteri razziali, sia in base a “presupposti” parametri di efficienza e di salute psico-fisica. La bioetica rappresenta dunque la “coscienza critica della civiltà tecnologica”; civiltà tecnologica che nel corso del XX secolo ha offerto possibilità di natura biomedica “totalmente nuove” come la rianimazione, la fecondazione in vitro e i trapianti d’organo e che sta effettuando passi da straordinari nella codifica del DNA con la possibilità di sviluppare terapie genetiche. Il ventaglio delle opportunità d’intervento è così ampio che l’unico limite che possiamo intravedere ai risultati che si potranno raggiungere è quello della nostra immaginazione. Siamo di fronte alla possibilità di un “mondo nuovo”, determinato da una conoscenza biologica attiva, interventista: R. Dulbecco, ad esempio, evidenzia rispetto al “Progetto Genoma” che «la conoscenza dei nostri geni è la conoscenza di noi stessi, delle nostre origini e del ruolo dell’ambiente nel dirigere la nostra vita e la nostra personalità»3. Il progetto – prosegue Dulbecco– 2 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991. R. Dulbecco, La mappa della vita. L’interpretazione del codice genetico: una rivoluzione scientifica al servizio dell’umanità, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005, p. 5. 3 3 «è come un razzo che è stato lanciato dopo lunghe preparazioni, ma ora è in orbita e alla fine raggiungerà il pianeta a cui è stato diretto, il pianeta uomo»4. È un mondo nuovo, aggiunge D. Mieth, «pieno di avventure, di rischi, di incertezze, e anche un mondo da cui non si torna più indietro, un mondo dell’irreversibile. Si tratta di un nuovo albero della conoscenza, di un salto quantico della manipolazione»5, il quale – prosegue Mieth6 – viene sperimentato attraverso un duplice atteggiamento qualificato dalla superbia e dalla modestia in quanto siamo consapevoli che conosceremo di più e che quindi potremo anche intervenire maggiormente sulla natura ma, dall’altro lato, conosceremo anche di più a proposito di quello che non dovremo fare. Conoscenza che necessariamente dovrà determinare anche lo sviluppo di una certa forma di saggezza in quanto dovremo prendere consapevolezza che non faremo qualcosa non solo perché non lo potremo fare, bensì anche perché non lo vorremo. Se l’essenza della tecnica contemporanea, utilizzando il linguaggio heidegerriano, è data dalla manipolazione degli enti, mirando, come evidenzia E. Severino, «all’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi»7, il compito della riflessione bioetica deve essere quello di tutelare, attraverso un percorso interdisciplinare, la dignità della persona e i suoi diritti in ogni momento del suo sviluppo biologico ed esistenziale, mediante la valutazione e la scelta di quei “percorsi” (pedagogici, giuridici e politici) che possono contribuire a costruire un’umanità in grado di sviluppare un nuovo atteggiamento di “cura” verso se stessa. La bioetica come scienza interdisciplinare di natura dialogica è però in grado di offrire dei modelli di risposta condivisibili rispetto a quesiti che interrogano l’essere umano rispetto alla sua stessa natura? La complessità delle questioni bioetiche può essere presentata attraverso alcuni interrogativi: qual è il significato dell’esistenza umana? Quando ha inizio e quando termina la vita umana? La vita umana ha un valore intrinseco o il valore dipende da determinate caratteristiche riconosciute come fondamentali a livello sociale in un determinato periodo storico? Quale dialogo tra etica e scienza? Quale deve essere la finalità della medicina? Quale significato presenta la generazione umana? Esiste un modello di famiglia che deve essere tutelato e privilegiato rispetto alle forme di convivenza che si stanno diffondendo a livello sociale? Quale e perché? 4 R. Dulbecco, La mappa della vita. L’interpretazione del codice genetico: una rivoluzione scientifica al servizio dell’umanità, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2005, p. 5. 5 D. Mieth, Che cosa vogliamo potere? Etica nell’epoca della biotecnica, Queriniana, Brescia 2003, p. 12. 6 Ibid. 7 E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 44. 4 Alla luce del diffondersi del relativismo etico un dialogo tra “stranieri morali” sembra davvero impossibile e i tentativi della bioetica di tracciare percorsi condivisibili rischiano di perdersi in “sentieri interrotti”. È interessante ricordare che il relativismo etico che caratterizza la società contemporanea è un orientamento filosofico che percorre, anche se con sfumature differenti, l’intero arco della storia dell’occidente. Protagora nel V secolo A.C. insegnava che l’essere umano è misura di tutte le cose e che l’unico criterio “oggettivo” a cui fare riferimento è rappresentato dall’utile, il quale è però comunque relativo rispetto al contesto sociale e storico. In epoca moderna Locke evidenzia che la stessa nozione di persona è relativa in quanto è propria dei linguaggi, come quello del diritto o dell’etica, che se ne servono per attribuirla a individui ed esseri che vengono affidati a una particolare tutela. Il relativismo etico che caratterizza in modo evidente la nostra società può però essere arginato attraverso la valorizzazione di un dialogo di natura socratica finalizzato alla ricerca di una forma di conoscenza che si può configurare come “sapienza umana”. In modo particolare la virtù per Socrate può essere definita come l’arte del ben vivere e del ben comportarsi che poggia sul sapere, anzi che fa tutt’uno con il sapere stesso. Per essere uomini nel modo migliore è quindi indispensabile riflettere criticamente sull’esistenza. È importante ricordare che il sapere per Socrate non coincide con una conoscenza “cristallizzata”, data una volta per tutte, ma con una forma di conoscenza costruita attraverso una continua e inesauribile ricerca, disciplinata dalla ragione, che non isola l’individuo ma che lo chiama ad interagire con l’altro. Il dialogo è quindi lo strumento filosofico per eccellenza; dialogo che si discosta dalla “chiacchiera” che caratterizza “l’esistenza inautentica”, di cui ci parla Heidegger in “Essere e tempo”, in quanto rappresenta un mezzo di accesso alla verità. Socrate non definisce la verità in modo positivo attraverso l’indicazione di un contenuto “oggettivo”, ma evidenzia la necessità di una verità certa attorno ai concetti di bene, di giustizia, saggezza… Il dialogo socratico assume i caratteri di un dialogo interpersonale in cui ognuno affronta e discute le questioni relative alla propria umanità per approdare a una definizione soddisfacente dell’argomento trattato, su cui ci possa essere un accordo linguistico e concettuale tra le menti. Socrate sembra dunque richiamare all’uomo contemporaneo la necessità e la bellezza di riconoscere nel dialogo quello strumento metodologico indispensabile per trovare un accordo rispetto ad alcune questioni di natura bioetica che possono inizialmente sembrare destinate a non poter trovare alcuna forma propositiva di soluzione. 5 Dopo aver cercato di esplicitare le motivazioni correlate alla nascita della bioetica, enucleato il significato della nuova disciplina, fatto riferimento alle insidie del relativismo etico e alla ricchezza metodologica del dialogo, è ora possibile prendere in considerazione il concetto filosofico di persona, con il fine di interpretare e di costruire dei modelli etici di comportamento. Il concetto filosofico di persona: «Come un individuo umano non sarebbe una persona umana?»8. Prima di analizzare il concetto di persona nel suo sviluppo storico è interessante porsi in una prospettiva di natura critico-problematica rispetto all’opportunità e soprattutto ai possibili benefici correlati all’utilizzo di un concetto che sembra essere diventato troppo ricco di significati e che quindi potrebbe portare a legittimare numerose discriminazioni dovute al diverso grado di sviluppo psichico, fisico e sociale del soggetto umano. In verità però come evidenzia L. Palazzani l’eventuale «eliminazione del concetto di persona con il riferimento sostitutivo all’«essere umano» (o, anche al «soggetto») non eliminerebbe problemi ed equivoci».9 Inoltre come ricorda sempre L. Palazzani «la nozione di persona è stata proprio teorizzata dalla filosofia occidentale con la precisa finalità di caratterizzare in modo pertinente l'essere umano e di giustificarne la centralità assiologico-normativa, la soggettività morale e giuridica»10; di conseguenza «la difesa dell'importanza del concetto di persona acquista la valenza di una difesa della necessità di fondare oggettivamente le norme di condotta in bioetica e nel biodiritto: solo a partire da una indagine teorica sul concetto di persona e da una identificazione empirica dei soggetti ai quali è riconoscibile lo statuto di persone è possibile fondare norme che siano valide oggettivamente, ossia criteri di comportamento che valgano per tutti (indistintamente), in tutte le situazioni»11. Inoltre il concetto filosofico di persona è fondamentale anche perché le scienze naturali limitandosi ad un’analisi dei fenomeni vitali in termini energetici e fisico-chimici, non sono in grado di affrontare in modo pienamente esauriente concetti come quelli di “volontà”, di “corporeità”, di 8 Papa Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, n. 60. L.Palazzani, I significati del concetto filosofico di persona e implicazioni nel dibattito bioetica e giuridico attuale sullo statuto dell’embrione umano, in Pontificia Accademia Pro Vita (a cura di), Identità e Statuto dell0ebrione umano,Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998. 10 L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, G. Giappichelli Editore, Torino 1996, p. 220. 11 Ibi, p.218. 9 6 “attività metabiologiche” che qualificano la persona e che sono oggetto di spiegazione della filosofia e delle scienze umane. Alla luce dell’importanza della riflessione filosofica diviene ora necessario tracciare le linee principali dello sviluppo del concetto di persona al fine di valutare quale concettualizzazione possa essere ritenuta la più completa e vicina a definire l’essere umano nella sua totalità e integrità. Nel mondo classico il concetto di persona indica la maschera, riferendosi sia al ruolo teatrale ricoperto dall’attore nel dramma, sia al ruolo che l’individuo gioca nell’ambito delle relazioni familiari e nell’agire sociale. Il concetto di persona è successivamente sviluppato all’interno delle discussioni di natura teologica per fare riferimento alla dottrina della Trinità e dell’Incarnazione, in modo particolare serve ad indicare la triplice individualità (nel contesto trinitario) e l’unità del soggetto (Cristo) nella duplicità di natura (umana e divina). Uno dei primi tentativi finalizzati a sviluppare una definizione squisitamente filosofica di persona, facendo riferimento all’individuo concreto, risale a Severino Boezio (480-526) il cui tentativo viene apprezzato e valorizzato da Tommaso d’Aquino (1225-1274) che definisce la persona come “sostanza individuale di natura razionale”. Penso sia importante chiarire i termini della definizione. Sostanza. La sostanza è la prima “categoria” individuata da Aristotele (384-322 A.C) per spiegare la complessità della realtà e si riferisce al soggetto distinto che sussiste in sé, alla determinata individualità di qualcosa. 12 Per quanto riguarda la persona la sostanza si riferisce all’unione di anima e corpo che rappresenta il fondamento di ogni essere umano mentre “l’accidente” a tutte quelle qualità che ogni singolo essere umano può presentare ma che non deve possedere necessariamente (l’essere un insegnante piuttosto che un maratoneta o un laureato in fisica ambientale). Individuo. La sostanza, nel senso pieno della parola, è l’individuo; di conseguenza l’individuo «è il soggetto che esiste a sé come un tutto»13. I concetti di individuo e di persona sono inscindibilmente intrecciati in quanto nella persona è insito il carattere dell’individualità. La caratteristica fondamentale che permette l’identificazione della persona da tutte le altre sostanze individuali è la sua natura razionale. Il termine natura si riferisce «all’essenza stessa di una cosa in quanto principio di operazioni: ogni essere ha una sua natura che determina il suo posto tra gli esseri e che 12 Per una analisi del concetto di sostanza in Aristotele e delle linee della critica sull’argomento si veda E.Berti, Il concetto di «sostanza prima» nel libro Z della Metafisica, «Rivista di Filosofia», 80 (1),1989, pp.3-23. 13 R. Lucas Lucas,, Statuto antropologico dell’embrione umano, in Pontificia Accademia Pro Vita (a cura di), Identità e statuto dell’embrione umano,Libreria Editrice Vaticana, Città del vaticano 1998, p.176. 7 specifica il suo modo tipico di agire»14 e quindi è «qualcosa intrinseco al soggetto, non un fattore che lo condiziona dall’esterno»15. L’aggettivo “razionale” riguarda tutte quelle caratteristiche proprie dell’uomo (la ragione, il pensiero, la capacità di relazionarsi con se stesso e con gli altri) che derivano dalla sua natura umana e che possono essere presenti anche solamente in potenza, come capacità. La persona è quindi una individualità caratterizzata da una sostanza che si specifica in un intreccio tra una dimensione di natura spirituale e una di natura materiale; la natura specifica della persona è data poi dalla possibilità di esprimere tutte quelle caratteristiche (pensiero, volontà, sentimenti) che sono determinate dalla sua ragione. Con il pensiero di Cartesio (1596-1650) e con l’avvento dell’età moderna s’indebolisce il riconoscimento del carattere sostanziale della persona, in quanto, attraverso la teoria della separazione tra pensiero (res cogitans) e materia (res extensa), si assiste al riconoscimento dello “statuto personale” alla sola dimensione spirituale e consapevole, e conseguentemente si realizza una frattura interna alla persona che appare essere insanabile. L'elaborazione concettuale di Cartesio viene supportata da Locke (1632-1704) il quale sostiene che la persona è un essere pensante e che può considerare se stesso, grazie a quella coscienza che è inseparabile ed essenziale al pensare stesso, in diversi tempi e luoghi. Hume (1711-1776) giunge persino a ridurre la persona ad un fascio di percezioni che si succedono in un flusso continuo dove la coscienza diviene una forma di credenza, ricostruibile solo grazie all'immaginazione e alla memoria che garantiscono il collegamento e coordinamento delle percezioni16. La persona viene fatta coincidere dunque con l’identità personale (cioè con l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io) e quest’ultima con la coscienza; di conseguenza per essere considerati una persona non è sufficiente essere degli individui appartenenti alla specie umana in quanto è necessario dimostrare di essere consapevoli della propria esistenza e della propria storia personale. Contro la definizione di persona appena analizzata vi sono posizioni filosofiche che si rifiutano di ridurre l’essenza dell’uomo alla sua coscienza; tra queste l’antropologia marxista, essa sostiene, ad esempio, che la persona sia costituita essenzialmente dai “rapporti di produzione e lavoro”, cioè da quei rapporti che l’uomo instaura con la natura e con gli altri uomini per soddisfare i propri bisogni. Anche la stessa dottrina morale kantiana, che rappresenta un’eccezione alla crisi moderna del concetto di persona, valorizza la persona all’interno del rapporto intersoggettivo perché afferma 14 Ibi., p. 172. Ibidem 16 D.Hume, Treatise on Human nature, 1. I, parte 4, sez. 6 (tr.it. Trattato sulla natura umana, in Opere Filosofiche, Laterza, Roma-Bari 1987, Vol. I, pp.263 ss.) 15 8 che in ogni essere razionale è inscritta una morale che ben si esprime con le diverse formulazioni dell’imperativo categorico; esse ci invitano a considerare ogni persona come un fine e mai semplicemente come un puro mezzo17. La rivoluzione copernicana operata da Kant nell’ambito della morale consiste quindi nell’aver riconosciuto, attraverso l’autorevolezza della ragione, una dignità intrinseca ad ogni essere umano. Inoltre il valore del rapporto intersoggettivo, di etero-relazione con il mondo e con gli altri viene valorizzato dall’approccio fenomenologico di Husserl (1859-1938) tanto da divenire l’elemento costitutivo della coscienza e quindi della persona stessa. La fenomenologia fornisce poi quegli strumenti metodologici alla corrente dell’esistenzialismo per poter individuare le caratteristiche fondamentali della persona: Scheler (1874-1928), ad esempio, definisce la persona come “rapporto con il mondo”; Heidegger (1889-1976) come “l’esserci” in rapporto con il mondo. “Esserci” definito dalla dimensione della “cura”. La “cura” esprime la situazione di un ente particolare (la persona) che, gettato nel mondo, progetta in avanti le sue possibilità18. Dunque l’uomo viene definito persona tendenzialmente in base alla sua capacità di intessere relazioni significative con il mondo delle cose, delle persone e dei valori. È significativo alla fine di questa proposta storica del concetto filosofico di persona ricordare il pensiero di Mounier, il quale collocandosi nella tradizione della filosofia cristiana evidenzia che «l’uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito, tutto intero “corpo” e tutto intero spirito».19 Mounier definisce dunque l’essere umano come “spirito incarnato”; individuando un primato della persona rispetto alle sue “operazioni”, per cui la persona è presente anche in mancanza di esse. Un individuo viene quindi considerato persona in virtù della sua essenza, della sua appartenenza alla “natura umana” e presenta come dimensioni qualificanti “l’incarnazione”, la “vocazione” e “la comunicazione”. Alla luce del percorso sviluppato possiamo definire “funzionaliste” sia le definizioni che identificano la persona con la sua identità personale e quindi con la sua coscienza, sia quelle che la definiscono in base ai suoi rapporti con il mondo, poiché, secondo tali concezioni, ciò che discrimina la persona da qualsiasi altro ente non è la sua natura umana ma la presenza di determinate caratteristiche e qualità. In contrapposizione a tale visione si situano quelle concezioni “sostanzialiste” che tutelano la persona in virtù della sua appartenenza alla specie umana e del conseguente riconoscimento della dignità e dei valori che la contraddistinguono indipendentemente dalle sue manifestazioni visibili e dai risultati ottenuti a livello sociale. 17 I.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1982, p.133. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005. 19 E. Mounier. Il Personalismo, a cura di G.Campanili- M.Pesenti, Editrice AVE, Roma 2004, p.43. 18 9 Nel dibattito bioetico contemporaneo la corrente funzionalista viene rappresentata in modo particolare da Engelhardt e da Singer; i quali sostengono che un individuo diventa gradualmente persona e cessa gradualmente di esserlo. Engelhardt identifica la persona con il soggetto adulto, autonomo, capace di intendere e di volere; questo comporta che gli esseri umani diventano persone diversi anni dopo la nascita e cessano di esistere qualche tempo prima della morte dell’organismo. Inoltre i feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non persone umane e, in quanto tali, essi non risultano titolari di diritti20. Singer individua invece nella “sensibilità”, intesa come capacità di provare piacere e dolore, il criterio per verificare l’esistenza in atto di una persona e riconosce come diritto fondamentale il diritto a non soffrire inutilmente. La teoria di Singer determina che deve essere riconosciuta una maggior tutela agli esseri razionali e autocoscienti (o persone), per il fatto che essi soffrono di più (in virtù del loro maggior grado di consapevolezza), ma soprattutto perché sanno di esistere (avendo concezione di sé come esseri proiettati nel futuro). I soggetti umani non senzienti (embrioni, individui in coma), invece, non possiedono alcuno stato morale e giuridico. Essi non meritano nemmeno quel minimo di tutela cui hanno diritto gli animali “senzienti”; quindi su di essi è possibile qualsiasi intervento sperimentale. Gli esseri umani marginali, ossia gli esseri umani dotati di sensibilità, ma non autocoscienti (feti sufficientemente sviluppati, neonati, bambini nei primi anni di vita, anziani, cerebrolesi, dementi, malati terminali) godono degli stessi diritti di cui godono gli animali21. Dopo aver riportato alcune possibili conseguenze correlate alla concezione “funzionalista” della persona è fondamentale sottolineare che la definizione filosofica che affronta con maggior rigore il concetto di persona - perché non dà luogo a nessun dualismo antropologico considerando la persona nella sua totalità e complessità, identificandola empiricamente con l’individuo di natura umana - è quella proposta da Boezio, ripresa da Tommaso d’Aquino e attualizzata da Mounier, ossia: la persona è un essere individuale di una natura razionale, caratterizzato da una unità profonda tra una dimensione corporea e da una esistenziale-esperienziale. Quest’ultima dimensione nel corso dei secoli e delle tradizioni culturali ha assunto via via il nome-definizione di anima, ragione, cogito, coscienza, personalità, e si esprime fenomenicamente nella irrepetibilità e unicità degli atti umani. La definizione valorizza e non esclude quelle concettualizzazioni che considerano quali caratteristiche fondamentali della persona la relazione con se stessi, con gli altri e con il mondo dei 20 21 H.J Engelhardt Jr. Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999. P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più. Il Saggiatore, Milano 1996. 10 valori; tali relazioni sono le naturali possibili manifestazioni della natura della persona e quindi non possono rappresentarne il fondamento, bensì l’espressione tangibile e fenomenica. La definizione di persona che trae alimento dal pensiero di Tommaso d’Aquino, come sottolinea L. Palazzani, «consente di giustificare la presenza nell’uomo di un principio ontologico di unificazione delle proprietà e di permanenza delle funzioni e degli atti presente indipendentemente dalla loro manifestazione attuale»22 e di riconoscere, anche nell’essere umano in condizioni di “potenzialità” e/o di “privazione” momentanea o permanente di determinate funzioni o capacità, la presenza di una persona. Guardini supporta tale posizione filosofica evidenziando come «concepimento e morte, ascesa e decadenza, infanzia e maturità, salute e malattia, appartengono a quel tutto che chiamiamo “uomo”. Sono elementi della totalità della sua esistenza, che non è infatti soltanto natura, ma anche storia; che non possiede soltanto uno sviluppo, ma anche un destino; in cui si compiono non solo incremento e danneggiamento, ma anche conservazione e deperimento, vittoria e sconfitta, superamento ed espiazione»23. È importante sottolineare come la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, pur non introducendo la categoria di persona, sembra presupporre la definizione di Tommaso d’Aquino quando attraverso l’articolo 1 (“tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”) e l’articolo 3 (“ogni individuo ha diritto alla vita”) afferma che la condizione necessaria e sufficiente per essere portatore del diritto alla vita è l’esistenza, intesa come dimensione originaria di ogni vivente, il quale si ritrova in vita, e non autoproduce, né all'inizio, né in qualsiasi momento successivo, la sua vita. La Dichiarazione áncora, quindi, i diritti dell'uomo «alla pura e semplice esistenza di un individuo in vita, in tal modo rifiutandosi qualsivoglia rilievo ai fini della tutela di giudizi ulteriori riferiti alle capacità, alle qualità o all'epoca di sviluppo della vita di un essere umano. Il che ha permesso di dare un fondamento sostanziale alla democrazia, sottraendo la titolarità dei diritti dell'uomo a valutazioni esterne, concernenti le caratteristiche con cui la vita di un individuo attualmente si manifesti».24 La Dichiarazione dei diritti del fanciullo riconosce il valore e la dignità del fanciullo indipendentemente dall’espressione di determinate capacità che saranno portate a compimento solo con la pienezza dello sviluppo fisico e psichico; proprio in virtù di tale “immaturità” riconosce la necessità di conferirgli un maggior grado di tutela rispetto al soggetto adulto: «Il fanciullo, a causa 22 L. Palazzani , I significati del concetto filosofico di persona, in Pontificia Accademia Pro Vita (a cura di), Identità e statuto dell’embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, p. 73. 23 R. Guardini, Il diritto alla vita prima della nascita, Morcelliana, Brescia 2005, pp.31-32. 24 L. Eusebi, Embrione e tecniche procreative: problemi giuridici, «La Famiglia. Bimestrale di problemi familiari», 2005, 230, pag. 21. 11 della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita»25. In modo analogo il Comitato Nazionale di Bioetica riconosce l’importanza e il valore della visione personalista in riferimento alla natura dell’embrione umano: «Il Comitato è pervenuto unanimemente a riconoscere il dovere morale di trattare l’embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di tutela e rispetto che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone»26. Le allettanti utopie. Nonostante la tradizione giuridica e la cultura occidentale siano imbevute dei valori che fanno riferimento alla visione personalista, nel contesto odierno, con gli sviluppi delle conoscenze sul genoma e con le relative ipotesi di terapie geniche, incomincia a diffondersi lentamente la credenza di poter progettare il proprio figlio biologicamente sano e dotato di possibili caratteristiche qualitative ritenute “vincenti” a livello sociale. Le terapie geniche in modo particolare sembrano offrire la possibilità di effettuare un controllo biologico “protettivo” e preventivo per attenuare il “pericolo” correlato alla possibilità di sviluppo di determinate patologie di natura genetica (eugenetica negativa), e l’opportunità di compiere una selezione pianificata allo scopo di perfezionare la specie (eugenetica positiva). Il quadro delineato, con le relative implicazioni antropologiche, non rappresenta la descrizione di un ipotetico futuro ma in qualche misura una realtà già attuale in quanto con la possibilità offerta dalle tecniche di fecondazione in vitro di selezionare i donatori, i gameti e gli embrioni stessi con le tecniche diagnosi preimpianto, si è già dato un notevole impulso, come evidenzia Testart27 all’istanza eugenistica. Alla luce di tali opportunità Veggetti Finzi28 sviluppa un interessante elenco di interrogativi che alimentano il dibattito bioetico a diversi livelli: perché non assicurare a chi nascerà le migliori 25 Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione dei diritti del fanciullo. Preambolo, Approvata il 20 novembre 1959 e revisionata nel 1989. 26 Comitato Nazionale di Bioetica, Identità e Statuto dell’embrione umano, 22 giugno 1996 J. Testart, C. Godin, La vita in vendita. Biologia, medicina, bioetica e il potere del mercato. Lindau, Torino 2004, p.31. 28 S. Veggetti Finzi., Biotecnologie e nuovi scenari familiari. Una prospettiva psicoanalitica e femminista, «Bioetica», 1994, 1, pp. 60-82. 27 12 condizioni non solo in termini di salute, ma anche di felicità? Perché non perseguire, attraverso un’ingegneria della vita, un mondo senza malati, brutti e deboli? Gli interrogativi posti sono condivisibili rispetto alle finalità individuate in quanto l’obiettivo della conoscenza e il compito della società devono essere quelli di rendere possibile, attraverso la ricerca scientifica e lo sviluppo della cultura, la realizzazione di quelle condizioni sociali ed economiche che possono permettere ad ogni persona di vivere in modo dignitoso. I quesiti di natura antropologica sono dunque correlati in modo particolare ai possibili scenari determinati da tecniche che possono incidere profondamente sulla modalità di costruire e di vivere le relazioni familiari sotto un punto di vista psicologico ed educativo. La finalità di per sé auspicabile ed estremamente desiderabile di dare alla luce figli sani, dotati di un corredo cromosomico di buona qualità, richiama la necessità di comprendere e di valutare due ordini di problemi che interagiscono tra di loro: il significato e il valore che si vuole riconoscere al concetto di salute e a quello di relazione filiale. Il concetto di salute è stato oggetto di un profondo rinnovamento semantico nel corso della seconda metà del XX secolo e abbraccia oggi aspetti che non si riferiscono più solamente ad una valutazione di natura fisiologica della persona ma anche alla sfera psicologica e sociale. La salute è intesa dunque sempre più a livello sociale, come evidenzia anche Sgreccia29 in modo critico, come «benessere pieno» che favorisce a livello culturale il possibile sviluppo di un nuovo statuto che si potrebbe definire come «medicina dei desideri». L’evoluzione del concetto di salute correlato alle nuove possibilità tecniche può determinare a livello sociale comportamenti e scelte inerenti il progetto generativo basati sul concetto di selezione. Le implicazioni etiche correlate a tale possibile atteggiamento sono profondamente diverse in quanto vi possono essere livelli di selezione differenti che tecnicamente possono riguardare o una vita non ancora iniziata (gameti), o a una vita già esistente (embrione). La valutazione di generare una nuova vita attraverso la selezione dei gameti per evitare, ad esempio, la possibilità di trasmettere determinate malattie ereditarie presenta un profilo etico profondamente diverso rispetto a quell’ipotetico scenario determinato da una selezione che avviene per le medesime motivazioni ma a vita già iniziata. Il valore sommo riconosciuto alla vita implica, di fronte ad una coppia che desidera diventare coppia genitoriale ma che rischia di trasmettere determinate patologie al figlio, il massimo impegno della scienza finalizzato a promuovere il valore della salute della persona anche attraverso una possibile selezione dei gameti. 29 E. Sgreccia, La bioetica nel quotidiano, Vita e Pensiero, Milano 2006, p.7. 13 Lo stesso valore riconosciuto alla vita umana impone alla scienza di intraprendere percorsi di natura terapeutica rispetto ad una nuova esistenza che si scopre malata o che comunque presenta alte probabilità di sviluppare patologie che potrebbero arrecare un elevato grado di sofferenza fisica o psichica. I nuovi scenari delineati dalla medicina predittiva amplificano le problematiche in gioco in quanto la valutazione delle possibilità di poter sviluppare una determinata patologia per la quale non è ancora prevista una possibile terapia stravolge il concetto tradizionale di malattia con la creazione di vissuti psicologici e comportamenti sociali totalmente nuovi. Per esempio, una persona che al momento è sana, ma possiede una specifica predisposizione genetica a qualche tipo di malattia, potrebbe essere considerata e definita “potenzialmente ammalata”. Quale tipologia di comportamenti e di decisioni dovrebbe determinare una simile conoscenza? Dovremmo usare le sue implicazioni sociali e individuali in rapporto alla polizza assicurativa, al lavoro e ai rapporti umani così come rispetto alle scelte riproduttive? L’eugenetica definita come “positiva” offre ulteriori spunti di riflessione di natura etica correlati alla possibilità futura di progettare vite umane con specifiche caratteristiche fisiche-psicologichesociali in grado di agevolare un percorso esistenziale di “successo”. Ma perché non spingersi oltre e sviluppare un’eugenetica in grado di ripensare la natura umana attraverso la programmazione di qualità totalmente nuove per l’uomo, desunte, ad esempio, dal mondo animale e/o vegetale? L’eugenetica si presenta dunque oggi come una nuova frontiera non solo tecnologica ma antropologica in quanto, permettendo all’uomo di realizzare interventi qualitativamente nuovi, richiede all’uomo stesso di rispondere ad un interrogativo cruciale: la natura umana può essere ripensata e riprogettata dall’uomo stesso o vi sono determinate caratteristiche umane di tipo fisico, psicologico e spirituale che sono talmente qualificanti l’essere umano stesso da non poter essere poste in discussione? Rispetto al possibile sviluppo di una logica basata sulla selezione Casalone30 evidenzia i rischi insiti in una prospettiva di natura eugenetica: con l’eugenetica negativa la biomedicina rischia di collocarsi in una posizione di giudice, compiendo una sorta di esame di ammissione all’esistenza, permettendo l’accesso alla tappa successiva della vita solo a quegli esseri umani che presentano determinate qualità. Per quanto concerne l’eugenetica positiva, che mira soprattutto a intervenire sul genotipo delle cellule germinali o dell’embrione ai primi stadi di sviluppo, il timore espresso da Casalone fa 30 C. Casalone, Culto dei geni, accoglienza e cura della vita umana, «Humanitas. La sfida dell’eugenetica. Scienza, filosofia, religione», 2004, 4, pp. 771-782. 14 riferimento alla possibilità di assumere una precomprensione meccanicistica della vita in base alla quale il genotipo si esprime immediatamente nel fenotipo. Jonas esplicita le conseguenze di tale potere-possibilità, rispetto al rapporto tra le generazioni, con la seguente problematizzazione: «Ma a chi appartiene questo potere? E su chi, o che cosa, esso si esercita? Evidentemente è il potere dei viventi sugli uomini venturi, che sono gli oggetti inermi di decisioni prese in anticipo da chi pianifica oggi. L’altra faccia dell’odierno potere è la futura schiavitù dei vivi nei confronti dei morti».31 Le pratiche eugenetiche determinerebbero dunque una grave violazione del principio di uguaglianza, dal momento che coloro che saranno sottoposti a un intervento eugenetico non potrebbero più concepirsi come persone uguali per nascita e per valore nel loro rapporto con le generazioni precedenti e, come evidenzia Nicolussi32, anche con coloro che non abbiano subito tale intervento. A tale proposito Habermas sostiene che la logica eugenetica scardina il modello comunicativo – relazionale che caratterizza da sempre il rapporto tra le generazioni in quanto «il giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà il proprio corpo come qualcosa di tecnicamente prodotto. A questo punto, la prospettiva del partecipante che caratterizza la «vita vissuta» entra in collisione con la prospettiva oggettivante di produttori e sperimentatori. Infatti al programma genetico i genitori hanno collegato intenzioni che – trasformandosi in aspettative – investono il bambino come destinatario, senza tuttavia concedergli la possibilità di una presa di posizione revisionistica».33 Habermas prosegue sostenendo che «le intenzioni pianificatrici dei genitori – siano essi mossi da ambizione, desiderio di sperimentare o anche solo da ansia protettiva – hanno il peculiare statuto di un’aspettativa unilaterale e incontestabile. Trasformandosi in aspettative all’interno della storia-divita dell’interessato, queste intenzioni dei genitori si presentano come un normale elemento costitutivo dell’interazione, e tuttavia non si assoggettano ai prerequisiti di reciprocità dell’intesa comunicativa. I genitori, senza presupporre nessun consenso, hanno semplicemente deciso in base alle loro preferenze, come se potessero arbitrariamente disporre di una cosa».34 Eusebi rafforza le possibili conseguenze antropologiche individuate da Habermas quando evidenzia come l’ottica eugenetica influenza i rapporti intersoggettivi in quanto può determinare «all’origine del rapporto io-tu un giudizio volto a stabilire se l’altro abbia caratteristiche che si ritengano adeguate all’instaurarsi di quel rapporto con lui, giudizio il quale incide profondamente sul modo di 31 H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, a cura di P.Becchi P, Einaudi, Torino 1997, p. 125. 32 A.Nicolussi, Eugenetica e diritto, «Humanitas», 2004, 4, pp. 808-840. 33 J. Habermas J., Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, pp.52-53 34 Ibidem. 15 intendere le stesse relazioni personali fondamentali, rendendole sempre più estranee a logiche di gratuità».35 Da quanto è emerso il rischio di una generazione ispirata a principi di natura eugenetica potrebbe essere quello di stravolgere il significato della relazione genitori-figli improntandola a una logica di mercato, dove la donazione gratuita di amore potrebbe essere sostituita da una relazione basata sulla valutazione dei genitori delle capacità del figlio di attualizzare determinati “criteri di efficienza”. Alcune delle più recenti carte dei diritti si sono espresse nei confronti dei pericoli di tale natura: la Convenzione di Oviedo del 1997 vieta espressamente “qualsiasi forma di discriminazione nei confronti di una persona a causa del suo patrimonio genetico” (art.11) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea conferma il divieto “di qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, […] sulle caratteristiche genetiche”(art.21). Il diffondersi di tests genetici prenatali è comunque incalzante e come evidenzia Eusebi «pone un quesito complessivo di enorme spessore, sia dal punto di vista culturale sia bioetico, per la nostra epoca: se si vorrà utilizzare il patrimonio di conoscenze genetiche che siamo in grado di ottenere, e sempre più lo saremo in futuro, nei confronti di ciascun individuo secondo modalità di alto profilo, cioè per fare in senso ampio terapia, oppure secondo modalità applicative di spessore molto basso e indifferenti alla dignità del soggetto sul quale si acquisiscono conoscenze, cioè per fare selezione a esistenza già iniziata».36 Conclusioni: quale dialogo tra personalismo e utilitarismo? 35 L. Eusebi, Embrione e tecniche procreative: problemi giuridici, «La Famiglia», 2005, 230, p. 27. L. Eusebi, Embrione e tecniche procreative: problemi giuridici, «La Famiglia. Bimestrale di problemi familiari», 2005, 230, p.25. 36 16 Dopo aver delineato le differenze tra le due concezioni di persona che animano le discussioni di natura bioetica e alcuni possibili scenari correlati alle possibilità della biomedicina vorrei concludere con una riflessione di natura educativa, la quale, attraverso il riconoscimento di alcuni valori, vorrebbe favorire un possibile dialogo tra utilitarismo e personalismo. Consapevole del progressivo “disincantamento del mondo” e del radicarsi di una sensazione di estraneamento dell’uomo contemporaneo rispetto ai valori religiosi e laici, ritengo possibile il dialogo tra visioni filosofiche e bioetiche diverse rispetto alle concezioni dell’esistenza e della persona affinché all’essere umano possa essere riconosciuta un’umanità e quindi una dignità specifica. Fornero evidenzia a tale proposito che «la verità genuina del rapporto fra bioetica cattolica e bioetica laica (e della loro contrapposizione «corposa e innegabile») è che esse, pur essendo strutturalmente diverse (e, su certi punti, inconciliabili), non possono fare a meno di coesistere e di dialogare (e quindi di interagire)».37 Dialogo riconosciuto come faticoso, ma necessario, per prendere consapevolezza della necessità e dell’importanza di rispondere all’interrogativo posto all’inizio della relazione: “Che cosa vogliamo potere?”. Per rispondere a tale interrogativo è necessario recuperare quella saggezza-prudenza aristotelica che valuta il significato dell’azione morale all’interno di situazioni contingenti e non pienamente prevedibili dove: «non si ha a che fare con ciò che accade sempre, come nella matematica o nella geometria, ma con ciò che fa la sua comparsa di volta in volta, in modo imprevisto e in tutti quei casi in cui non è chiaro come andranno a finire le cose, e quelli in cui la conclusione è del tutto indeterminata».38 Saggezza aristotelica che deve essere arricchita del riconoscimento della dignità intrinseca della persona e del valore della responsabilità. In un contesto teorico di derivazione Kantiana il riconoscimento del valore intrinseco della persona e della sua dignità dovrebbe rappresentare il criterio ultimo dell’eticità e il valore fondante e incondizionato di ogni bioetica. Jonas, alla luce della rivoluzione copernicana operata da Kant, ha elaborato un nuovo imperativo morale per l’uomo dell’era tecnologica: agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra39. 37 G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondatori, Milano 2005, p.203 Aristotele, Etica nicomachea, 1112 b, 2-9. 39 H. Jonas, Il Principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. Einaudi, Torino 1990. 38 17 La categoria della “responsabilità” in Jonas coincide con la manifestazione concreta dell’imperativo categorico kantiano e quindi con la disponibilità a favorire, attraverso l’azione, il sì alla vita: «La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere».40 Il concetto di responsabilità di Jonas può essere arricchito dal significato che Heidegger conferisce al concetto di “cura”. Nel linguaggio heideggeriano, il concetto di “cura” indica una dimensione che qualifica profondamente l’uomo rispetto alla sua modalità di interagire con il mondo: l’essere dell’esserci nella sua costitutiva unità di autenticità e in autenticità41. La cura è quindi l’apertura originaria dell’uomo verso il mondo, nella duplice modalità del prendersi cura delle cose e dell’aver cura degli uomini a partire dalla situazione esistenziale specifica. Il contributo offerto nell’ambito della filosofia morale da Kant, Jonas e Heidegger è fondamentale per comprendere come Personalismo e Utilitarismo, più che scontrarsi sterilmente possono cercare di condividere l’imperativo etico di Jonas e costruire un proficuo dialogo rispetto ai concetti di “responsabilità” e di “cura”, in riferimento al valore della vita e della famiglia. In relazione ai quesiti antropologici determinati dalla diffusione delle tecniche di procreazione artificiale, ad esempio, si potrebbe sottolineare come il pensiero di Jonas si concretizza nel riconoscimento che una vita pienamente umana necessita, in modo particolare nei primi anni di sviluppo, come attestano le scienze umane, della presenza della famiglia intesa come coppia eterosessuale fondata sul legame del matrimonio. D’Agostino sottolinea come «la familiarità è un principio antropologico. Essa non è cioè riducibile a una mera dimensione storico-culturale (pur vivendo, come è ovvio, nella storia e nella cultura), ma appartiene alla struttura costitutiva dell’essere dell’uomo. Ciò significa che è nella famiglia e attraverso la famiglia (nella coniugalità, nella genitorialità/filialità, nella fraternità/sororità) che l’uomo acquisisce, instaura e porta a compimento la propria identità relazionale».42 In modo particolare vorrei concludere con le parole di Guardini che specifica la relazione che si dovrebbe instaurare all’interno della società per tutelare il valore e la dignità di ogni persona: «al forte è affidato l’indifeso, e nel fatto che l’uno usa la sua superiorità per proteggere l’altro, sta la differenza tra forza e prepotenza. Questo prendersi cura, laddove si tratta della vita in divenire, assume uno speciale carattere per tutta la vita umana. 40 H. Jonas, Il Principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. Einaudi, Torino 1990, p. 285 M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005 42 F. D’Agostino, La famiglia, il diritto e le nuove tecnologie riproduttive. Considerazioni preliminari in una prospettiva metafisica, «Bioetica», 1994, 1, pp. 83-88. 41 18 Perciò ci si commuove sempre per il sacrificio che la vera madre compie a favore di questo compito. Lo stesso compito adempie il padre quando protegge la madre e il bambino che in lei si forma. E così pure fa il medico, che sa vedere l’essere umano laddove l’occhio inesperto non lo riconosce ancora, e si fa quasi suo procuratore contro tutte le considerazioni utilitaristiche che lo sollecitano».43 Bibliografia 43 R. Guardini, Il diritto alla vita prima di nascere, a cura di O.Brino, Morcelliana, Brescia 2005, p.32 19 AA.VV., Identità e statuto dell’embrione umano, a cura della Ponitificia Academia Pro Vita, , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998. Aristotele, Etica Nicomachea, Bompiani, Milano 2000. 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