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BIOETICA
Risale agli anni ‘60 e ‘70 il grande fermento che ha portato ad una spontanea ed irrefrenabile “domanda di
Bioetica”.
Due sono state le direttrici storico-scientifiche lungo le quali si è sviluppata la dinamica che ha condotto
all’indifferibile bisogno culturale e civile di una riflessione morale sulle scienze biomediche: le terribili
rivelazioni al processo di Norimberga circa l’uso improprio di esseri umani nella sperimentazione
scientifica e i grandi progressi in ambito biomedico che si sono verificati in quegl’anni.
Secondo gli atti del processo di Norimberga, numerosi prigionieri dei lager nazisti furono torturati, usati
come cavie per lo studio di microrganismi dagli effetti clinici ancora poco conosciuti. I prigionieri, a cui
venivano inoculati i patogeni, venivano tenuti in osservazione, senza ricevere cure, fino alla morte. Fu
proprio dietro la pressione emotiva della scoperta di quegli orrori, che fu enunciata nel 1947
dall’Associazione Medica Mondiale, sotto il nome di Codice di Norimberga, la prima codificazione
internazionale di regole sui diritti umani nell’ambito della sperimentazione. La stessa Associazione aveva
integrato ed arricchito la normativa (a pura valenza deontologica), riguardante la sperimentazione
sull’uomo, sino alla stesura della Dichiarazione di Helsinki del 1964 (“Raccomandazioni a guida dei medici
nella ricerca clinica”).
Agli inizi degli anni 70’, lo storico ed umanista spagnolo Pedro Luis Llain Entralgo scrisse che le novità
degli ultimi 20 anni erano state, in campo scientifico, maggiori che nei 20 secoli precedenti. Si erano infatti
verificati grandi progressi in ambito biomedico quali: la scoperta del DNA ad opera di Watson, le prime
realistiche ipotesi di fecondazioni in vitro (che nel ’78 troveranno la prima realizzazione e che daranno vita
al dibattito etico sullo statuto dell’embrione) e nuove tecniche di trapianti d’organo.
L’espressione “Bioetica”che deriva dall’anglosassone bioethics, apparve per la prima volta in un’ opera del
1971 “Bioethics, Bridge to the Future” dell’oncologo Van R. Potter, che definì tale disciplina come lo
studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla
luce di principi morali.
Potter intravedeva nella bioetica la “scienza della sopravvivenza” ovvero quella disciplina in grado di
rispondere ai dilemmi morali che le tecnologie di più recente introduzione nella biomedicina avevano posto
all’attenzione di medici e pazienti.
Sono ormai trascorsi più di trent’anni da allora, ma sono ancora le stesse direttive che ci spingono a parlare
nel 2008 di bio-etica, o etica della vita.
Oggi, gli scienziati si stanno dedicando allo studio della biologia molecolare, alle tecniche di lettura del
genoma, all’uso delle cellule staminali, alla preparazione di metodiche di fecondazione assistita e di
diagnosi preimpianto sempre più accurate e sistematiche.
Tutte queste scoperte hanno portato a grandi cambiamenti e alla formulazione di domande che spesso non
hanno risposte. Fin dove si può spingere il progresso? Può la tecnologia ledere i capisaldi della natura umana
e ridurre l’uomo a DNA, a qualcosa che è conoscibile, analizzabile, dunque posseduto e manipolabile?
La bioetica avanza delle risposte, grazie al suo carattere multidisciplinare, biologico, medico, filosofico,
giuridico. Essa affronta tematiche che coinvolgono tutti noi.
Diventa allora indispensabile approfondire e ampliare il dibattito sulle problematiche che riguardano l’
inizio, la fine della vita e il campo della ricerca.
Trattare di bioetica vuol dire mettere a nudo quello che noi pensiamo della vita, rivelare quello che di più
nascosto c’è in noi, in difesa del presente e del futuro della nostra stessa esistenza.
Valentina Spartà.
Salvatore Annunziata