BIOS
PSYCHÈ
| Proposte
3
Allan V. Horwitz, Jerome C. Wakefield
La perdita della tristezza
Come la psichiatria ha trasformato
la tristezza in depressione
a cura di Paolo Fiori Nastro,
Elena Pappagallo e Daniela Polese
Premessa di Mario Maj
Traduzione di Michele Sampaolo
In copertina:
disegno di Massimo Fagioli (1998)
Titolo originale:
The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed
Normal Sorrow into Depressive Disorder
Oxford University Press, Oxford-New York 2007
© 2007 Allan V. Horwitz and Jerome C. Wakefield
Per la Postfazione all’edizione italiana
© 2014 Allan V. Horwitz and Jerome C. Wakefield
This translation is published by arrangement
with Oxford University Press
Prima edizione italiana con la Premessa di Mario Maj
e una Postfazione degli autori
L’Asino d’oro edizioni 2015
© 2015 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-279-3
ISBN ePub 978-88-6443-280-9
ISBN pdf 978-88-6443-281-6
A David Mechanic
– AVH
Ai miei genitori, Helen e Ted Sherman
– JCW
| Indice
Premessa di Mario Maj
XI
Introduzione di Paolo Fiori Nastro, Elena Pappagallo e Daniela Polese
XV
Prefazione
3
Capitolo 1 | Il concetto di depressione
7
1.1 L’onnipresenza della depressione
8
1.2 Tristezza normale contro tristezza patologica
11
1.3 L’«età della depressione» deriva da un’erronea definizione
del disturbo depressivo
12
1.4 La definizione di «Depressione Maggiore» del DSM
14
1.5 La distinzione fra normalità e disturbo
23
1.6 I vantaggi di distinguere la tristezza normale dal disturbo
depressivo
30
1.7 Alcune avvertenze: ci sono svantaggi in questa distinzione?
34
1.8 Una nota sulla terminologia
37
1.9 Quello che speriamo di fare
39
Capitolo 2 | L’anatomia della tristezza normale
41
2.1 Componenti della tristezza normale
42
2.2 Esempi di tristezza normale
45
2.3 Prove del fatto che la tristezza è una normale risposta
fisiologica
57
2.4 Variazione culturale e tristezza normale
63
2.5 Funzioni adattative delle risposte non patologiche alla perdita
70
2.6 Conclusione
77
Capitolo 3 | Tristezza con e senza causa: la depressione
dai tempi antichi al XIX secolo
3.1 Avvertenze preliminari
79
81
3.2 Gli antichi
84
3.3 La depressione dal Rinascimento al XIX secolo
91
3.4 Il XIX secolo
97
3.5 Conclusione
103
Capitolo 4 | La depressione nel XX secolo
105
4.1 Prosecuzione della tradizione dei princìpi di «con causa»
e «senza causa» nel XX secolo
106
4.2 Il crollo della tradizione del «con causa» e «senza causa»
127
4.3 Conclusione
149
Capitolo 5 | La depressione nel DSM-IV
151
5.1 I disturbi affettivi nel DSM-IV
151
5.2 Criteri per il Disturbo Depressivo Maggiore
152
5.3 Come i criteri del DSM per la Depressione Maggiore
affrontano la distinzione fra patologia e tristezza normale
155
5.4 Il precedente del Disturbo della Condotta
162
5.5 Come il DSM cerca di affrontare i fattori scatenanti
contestuali della tristezza
164
5.6 Altre categorie e caratteristiche legate alla depressione
del DSM-IV
172
5.7 Conclusione
176
Capitolo 6 | Trasferimento della patologia nella comunità
179
6.1 Studi di comunità prima del DSM-III
180
6.2 Le diagnosi entrano negli studi di comunità
189
6.3 Il mito dell’equivalenza delle diagnosi nella comunità
e nelle cliniche
192
6.4 Ritorno agli anni Sessanta: eliminazione delle soglie
di sintomi del DSM negli studi di comunità
195
6.5 Gli errori che stanno dietro il movimento
della «depressione minore»
201
6.6 Conclusione
207
Capitolo 7 | La vigilanza sulla tristezza
209
7.1 Il movimento dello screening della depressione
210
7.2 Prescreening e screening diagnostico per il disturbo depressivo
213
7.3 Lo screening per la depressione fra pazienti di centri medici
218
7.4 Screening per depressione in età adolescenziale
229
7.5 Conclusione
239
Capitolo 8 | Il DSM e la ricerca biologica sulla depressione
241
8.1 Studi sui gemelli e i figli adottati
244
8.2 La depressione deriva da uno squilibrio chimico
245
8.3 La base genetica della depressione
250
8.4 Anomalie anatomiche del cervello come base
del disturbo depressivo
256
8.5 Conclusione
260
Capitolo 9 | L’ascesa delle cure con farmaci antidepressivi
263
9.1 Breve storia dei trattamenti farmacologici della tristezza
e della depressione
263
9.2 Gli antidepressivi e il trattamento della tristezza normale
276
9.3 Conclusione
283
Capitolo 10 | L’incapacità delle scienze sociali di distinguere
la tristezza dal disturbo depressivo
10.1 Antropologia
287
288
10.2 Sociologia
299
10.3 Conclusione
311
Capitolo 11 | Conclusione
313
11.1 I sostenitori del disturbo depressivo
313
11.2 Obiezioni contro la nostra posizione
321
11.3 Qualche indicazione per risolvere il problema
329
11.4 Conclusione
333
Note
335
Bibliografia
357
Postfazione all’edizione italiana | Continua a espandersi
l’area del disturbo depressivo in psichiatria: gli sviluppi recenti
387
I curatori
437
Indice analitico
439
| Premessa
di Mario Maj
Il dolore morale a seguito di eventi esistenziali sfavorevoli (lutti, perdite,
separazioni e insuccessi) è una risposta che si è consolidata nel corso
dell’evoluzione della specie umana, in quanto vantaggiosa per la sopravvivenza dell’individuo e per la conservazione della specie. L’esperienza
e la previsione del dolore morale – così come del dolore fisico – ci portano a evitare situazioni potenzialmente problematiche e a riconsiderare, quando opportuno, le nostre priorità e le nostre strategie.
Ci sono però casi in cui il dolore morale, per la sua intensità e la sua
durata, diventa fortemente svantaggioso per l’individuo, causandogli
una sofferenza intollerabile, compromettendone il funzionamento sociale e mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza. È in questi casi
che si parla di depressione.
Fissare il confine tra il dolore morale ‘fisiologico’ e quello ‘patologico’ (o depressione), però, non è affatto facile. Jerome Wakefield e
Allan Horwitz, in questo fortunato volume, propongono un criterio differenziale fondamentale, quello della «comprensibilità» del vissuto e
della sua «proporzionalità» all’evento scatenante. Se il dolore morale
appare comprensibile e proporzionato all’evento che l’ha provocato, la
diagnosi di depressione non deve essere posta.
Questa posizione, che riecheggia quella espressa oltre trent’anni fa
da un illustre psichiatra italiano emigrato negli Stati Uniti, Silvano
Arieti1, appare del tutto ragionevole e viene in realtà adottata da diversi
1 | S. Arieti, J. Bemporad, La depressione grave e lieve (1978), Feltrinelli, Milano 1981.
XI
La perdita della tristezza
clinici nella loro pratica quotidiana. Essa, però, si presta a diverse obiezioni2.
In primo luogo, quale sia la risposta ‘proporzionata’ a un determinato evento è assai difficile da stabilire. Anche di fronte a eventi esistenziali sfavorevoli estremi, la maggior parte degli esseri umani non reagisce
con un dolore morale intollerabile o inabilitante, mentre alcune persone possono avere una tale reazione a seguito di eventi esistenziali di
assai minore portata. È in gioco, dunque, anche la vulnerabilità dell’individuo, la quale è legata a sua volta a diversi fattori sia biologici che psicosociali. Nessun caso di depressione è in realtà ‘causato’ da un evento.
Ogni depressione è sempre il risultato dell’intreccio di fattori predisponenti e precipitanti, spesso solo parzialmente identificabili. Fino a che
punto un determinato evento abbia avuto un ruolo decisivo nel precipitare la condizione di dolore morale è in molti casi non chiaramente
ricostruibile.
Inoltre, il fatto che vi sia una relazione temporale tra un evento esistenziale sfavorevole e una condizione di dolore morale non significa
necessariamente che l’evento ha scatenato la condizione. A volte è la
stessa condizione depressiva a esporre l’individuo a un evento spiacevole, come la rottura di una relazione sentimentale o la perdita del posto
di lavoro. Ma nel racconto della persona l’evento viene presentato come
‘la causa’ della depressione.
Ancora, accade non raramente che la ricerca di una causa, il tentativo di dare un ‘senso’ alla propria condizione porti la persona ad attribuire un ruolo ‘causale’ o ‘precipitante’ a eventi che di per sé sono stati
del tutto neutri.
Infine, lasciare completamente all’osservatore la valutazione se una
condizione di dolore morale sia o meno ‘comprensibile’ o ‘proporzionata’ può essere rischioso. La pratica clinica ci presenta continuamente
casi di vera depressione che sono stati sottovalutati e a lungo non affrontati, fino ad avere conseguenze serie, compreso a volte il suicidio.
Da tutte queste considerazioni nasce il tentativo da parte di manuali
diagnostici come l’International Classification of Diseases (ICD) e il Diag2 | M. Maj, When does depression become a mental disorder?, in “British Journal of Psychiatry”,
199, 2011, pp. 85-86.
XII
Premessa
nostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) di fornire alcuni
criteri ‘obiettivi’, riguardanti la natura, il numero, l’intensità e la durata
dei sintomi, nonché il grado di sofferenza e di compromissione del funzionamento sociale, che possano guidare il clinico nella diagnosi differenziale tra la vera depressione e la «tristezza normale».
Lo stesso Jerome Wakefield si è infine convinto della necessità di
quest’approccio. Nella versione più recente della sua posizione3, infatti,
egli propone che la diagnosi di depressione venga posta in ogni caso in
cui sono presenti ideazione suicidaria, marcato rallentamento psicomotorio, sintomi psicotici, una grave compromissione del funzionamento
sociale, o una durata dei sintomi di oltre due mesi, anche se il quadro
appare comprensibile in rapporto a un grave evento esistenziale.
Il dibattito sui suddetti criteri ‘obiettivi’ (quelli dell’ICD e del DSM,
ma anche quelli proposti da Wakefield) è però aperto. La ricerca dovrà
soprattutto verificare se tali criteri hanno una validità predittiva, rispetto
sia agli esiti (in particolare, al rischio che il quadro si ripresenti a distanza di tempo) che alla risposta ai trattamenti oggi disponibili (che
comprendono una gamma di farmaci e una serie di interventi psicoterapeutici di efficacia documentata).
È possibile, inoltre, che anche nel caso della depressione, come in
quelli di malattie fisiche quali il diabete e l’ipertensione, che pure si trovano in un continuum con la normalità, sia necessario fissare diverse
‘soglie’. Ad esempio, una soglia per determinare se la condizione rappresenta o meno un ‘caso’ (il quale richiede un’attenzione clinica, che
può anche limitarsi al solo monitoraggio), una soglia per un intervento
psicoterapeutico di supporto, e una per un trattamento farmacologico
o una psicoterapia strutturata.
Il tema è dunque complesso, con rilevanti implicazioni non soltanto
cliniche e scientifiche, ma anche sociali ed etiche. Il volume di Wakefield e Horwitz lo affronta in modo articolato, anche in una prospettiva
storica, aiutando il lettore a riflettere e stimolandolo a ulteriori approfondimenti.
3 | J.C. Wakefield, M.F. Schmitz, When does depression become a disorder? Using recurrence
rates to evaluate the validity of proposed changes in major depression diagnostic thresholds, in “World
Psychiatry”, 12, 2013, pp. 44-52.
XIII
| Introduzione
di Paolo Fiori Nastro, Elena Pappagallo e Daniela Polese
Il tema della tristezza e dei suoi nessi con la patologia depressiva è decisamente attuale perché si inserisce nella riflessione contemporanea
sull’appropriatezza della diagnosi. Lo spunto che dà origine a questo
libro e che ha importanti implicazioni per la terapia delle malattie mentali è rappresentato dalla tendenza, oggi sempre più frequente, a sfumare i confini tra salute e malattia. Il volume centra l’attenzione sui
possibili rischi che questa tendenza nasconde, ma per comprenderne
l’attualità e l’importanza dobbiamo dare uno sguardo a cosa è accaduto
di recente nella psichiatria.
Negli ultimi anni si sono verificati alcuni fatti che sono la testimonianza di significativi cambiamenti nel modo di concepire la salute mentale e per questo sono destinati a condizionare il futuro più o meno
prossimo della psichiatria.
Per quanto riguarda il primo di questi avvenimenti, l’8 giugno 2013,
l’autorevole rivista scientifica “The Lancet”1 ha pubblicato un articolo
in cui veniva dato grande risalto a quanto deliberato, in materia di salute
mentale, dall’Assemblea mondiale della sanità che, in data 27 maggio
2013, aveva adottato il “Piano d’azione globale per la salute mentale
2013-2020” (Comprehensive Mental Health Action Plan 2013-2020)2,
1 | S. Saxena, M. Funk, D. Chisholm, World Health Assembly adopts Comprehensive Mental
Health Action Plan 2013-2020, in “The Lancet”, 381, 2013, pp. 1970-1971.
2 | WHO, Draft comprehensive mental health action plan 2013-2020 (16 maggio 2013), in
http://apps.who.int/gb/ebwha/pdf_files/WHA66/A66_10Rev1-en. (accesso del 3 giugno
2013).
XV
La perdita della tristezza
con l’intento di dare una nuova direzione alle politiche sanitarie nell’ambito della salute mentale, in tutto il mondo, per i prossimi otto anni.
In esso la salute mentale viene concettualizzata come uno stato di benessere in cui l’individuo può realizzare le proprie capacità ed è in
grado di affrontare le difficoltà della vita e di lavorare in modo produttivo, dando un contributo alla propria comunità. Nel documento, per
la prima volta nella storia della World Health Organization (WHO),
viene sancito un riconoscimento formale dell’importanza della salute
mentale su scala mondiale. Al contempo, l’Action Plan rappresenta un
impegno, da parte di tutti i 194 stati membri, ad adottare provvedimenti
specifici per migliorare le politiche di salute mentale e raggiungere una
serie di obiettivi concordati. Il documento ha l’ambizione di cambiare
il modo di concepire la salute mentale, affinché essa possa essere promossa e preservata, i disturbi mentali siano prevenuti, l’assistenza risulti
tempestiva e le persone affette da disturbi psichiatrici siano in grado di
esercitare i loro diritti. Tutto ciò, al fine di raggiungere il più alto livello
possibile di salute mentale e di liberare i pazienti dalla discriminazione
e dalla stigmatizzazione.
Il documento propone un aumento del 20% dei servizi per disturbi
mentali gravi e una riduzione del 10% del tasso di suicidi, in tutti i paesi,
entro il 2020. Quest’ultima percentuale è assolutamente rilevante, soprattutto in considerazione del fatto che il suicidio è la seconda causa
di morte tra i giovani in tutto il mondo.
L’Action Plan propone anche alcuni concetti innovativi: introduce
la nozione di recovery («miglioramento», «recupero»), allontanandosi
da una concezione che poneva l’accento su un’assistenza per malati cronici; denuncia la stigmatizzazione che ancora coinvolge il malato psichiatrico; mette in luce l’importanza del contesto socio-ambientale nello
sviluppo delle patologie mentali incentivando tutte le misure necessarie
a un intervento precoce.
Il secondo evento, altrettanto importante, è rappresentato dalla
pubblicazione, sempre nel 2013, dello studio denominato Global Burden
of Mental and Substance Use Disorders 3 i cui risultati si ritiene dovrebbero
3 | H.A. Whiteford, L. Degenhardt, J. Rehm, A.J. Baxter, A.J. Ferrari, H.E. Erskine, F.J.
Charlson, R.E. Norman, A.D. Flaxman, N. Johns, R. Burstein, C.J. Murray, T. Vos, Global
XVI
Introduzione
orientare le politiche sanitarie dei paesi in ogni angolo del nostro pianeta. Dallo studio emerge che le malattie mentali sono una delle principali cause di ‘disabilità’ intesa come incapacità a vivere una vita
sociale soddisfacente e/o ad assolvere le incombenze che il proprio
ruolo comporterebbe. Inoltre lo studio evidenzia come l’età in cui la
sofferenza prodotta dalle malattie psichiatriche è maggiore è quella
compresa tra i 10 e i 30 anni. A questo proposito dobbiamo tenere presente che i giovani costituiscono una fetta enorme della popolazione
(i giovani tra 0 e 24 anni sono il 47% dell’intera popolazione mondiale) e che mentre nei paesi in via di sviluppo (a basso reddito) le
principali cause di disabilità sono ancora le malattie infettive e le carenze nutrizionali, nei paesi sviluppati (ad alto reddito) le malattie
mentali rappresentano la principale e più grave causa di sofferenza nei
giovani.
Il terzo evento, anch’esso ritenuto molto importante soprattutto
nell’ambito della comunità psichiatrica, è rappresentato dalla pubblicazione del DSM-5, avvenuta tra polemiche, discussioni e critiche che
l’hanno preceduta e accompagnata.
Sono ormai molti anni che anche gli ideatori del manuale sono ben
consapevoli dei gravi limiti che la sua impostazione, falsamente definita
ateoretica, nasconde4. Questa consapevolezza, aggravata dall’assoluta
mancanza di una valida e condivisa alternativa, ha fatto sì che l’ultima
edizione del DSM vedesse la luce circondata da un alone di diffidenza
come mai era accaduto prima.
In realtà nell’ultimo ventennio, a partire dalla metà degli anni Novanta, abbiamo assistito a grossi cambiamenti sostenuti dall’idea che la
malattia mentale abbia una sua storia naturale nella quale possiamo rintracciare fasi via via ingravescenti che prendono le mosse in epoche
molto precoci della vita degli esseri umani. Questa idea, che la malattia
abbia un andamento ingravescente, è di enorme importanza perché si
accompagna alla convinzione che la terapia, impostata molto presto,
burden of disease attributable to mental and substance use disorders: findings from the Global Burden
of Disease Study 2010, in “The Lancet”, 382, 2013, pp. 1575-1586.
4 | N.C. Andreasen, DSM and the Death of Phenomenology in America: An Example of Unintended Consequences, in “Schizophrenia Bulletin”, 33, 2007, pp. 108-112.
XVII
La perdita della tristezza
possa avere maggiori margini di successo opponendosi a un danno che
ancora non ha incrinato irreversibilmente la realtà mentale individuale.
Purtroppo, però, questi cambiamenti non hanno scalfito in profondità
la convinzione che sia solo l’oggettività la garanzia nella pratica clinica.
La qualità del rapporto interumano, essendo un vissuto assolutamente
soggettivo, non viene presa in considerazione: il mondo degli affetti,
delle immagini e dei sogni rimane fuori dalle grandi ricerche perché
privo di possibilità di oggettivazione.
Le nuove conquiste della ricerca, in particolare nel campo della diagnosi precoce e della prevenzione delle malattie mentali gravi, non
sono riuscite a travolgere e demolire convinzioni e credenze che resistono da duecento e forse da duemila anni e che ancora inducono una
fetta di psichiatri, soprattutto americani, a conservare o addirittura accrescere gli investimenti in progetti che aderiscono alla corrente di pensiero sostenuta dal National Institute of Mental Health (NIMH) e,
segnatamente, dal suo direttore Thomas Insel, che si propone di redigere una nuova classificazione delle malattie mentali non più basata su
‘categorie’ bensì su dimensioni e sul legame stretto fra esse e i circuiti
neuronali corrispondenti. È chiaro come questa impostazione che ha
preso il nome di Research Domain Criteria (RDoC)5, pur essendo il
prodotto dello stesso mondo che ha dato vita al DSM, ne sancisce il tramonto dal momento che, di fronte alle difficoltà diagnostiche e terapeutiche prodotte dal metodo che si ferma alla superficie della realtà
umana, sceglie con ostinata determinazione6 di accrescere la deriva organicista che già impregna in modo massiccio la ‘filosofia’ dei vari manuali statistici a partire dalla terza edizione del 1980. E siccome l’NIMH
è il principale ente governativo che negli Stati Uniti controlla i finanziamenti alla ricerca, è evidente come questa impostazione possa condizionare la direzione del flusso di denaro verso le ricerche che
maggiormente vi si avvicinano: una critica non può essere immaginata,
5 | B.N. Cuthbert, The RDoC framework: facilitating transition from ICD/DSM to dimensional
approaches that integrate neuroscience and psychopathology, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp.
28-35.
6 | M. Maj, Keeping an open attitude towards the RDoC project, in “World Psychiatry”, 13,
2014, pp. 1-3
XVIII
Introduzione
o ancor più espressa, pena il vedersi rifiutata la propria richiesta di finanziamento7.
Ma, accanto a questo ‘zoccolo duro’ rappresentato prevalentemente
dalla psichiatria americana, si muove un gruppo di psichiatri, soprattutto europei ma non solo, che invece privilegia la psicopatologia8 e la
ricerca condotta mantenendo ferma la specificità della psichiatria che
si rivolge a persone sofferenti per turbe della coscienza, del pensiero,
delle percezioni e degli affetti.
Gli autori del presente volume possono essere considerati appartenenti a questo gruppo: essi denunciano, in modo fermo, la confusione
che esiste oggi tra tristezza e depressione, e in particolare si soffermano
sui rischi che la mancanza di una corretta diagnosi differenziale può
produrre. Nel libro vengono considerati gli ostacoli sociali, culturali e
personali che potrebbero essere motivo di tristezza ma che nulla hanno
a che vedere con le possibili cause di depressione. Questi ostacoli potrebbero anche apparire banali ma, a causa di una cultura radicata nella
società e nella psichiatria internazionale, finiscono per determinare una
facile prescrizione farmacologica, con conseguenze gravi non solo perché si considerano patologiche realtà umane che non lo sono, ma anche
perché giustificano un abuso di farmaci che possono avere un impatto
negativo sia sul piano neurobiologico che comportamentale, soprattutto
là dove la popolazione maggiormente a rischio è rappresentata dai giovani e dalle donne.
Un libro tradotto e pubblicato di recente sempre dall’Asino d’oro
edizioni, Le pillole della felicità 9, mette in luce come, sin dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti sia comparsa la cultura della naturale incapacità
a essere sé stessi; questo stereotipo culturale avrebbe come unica soluzione per raggiungere gli obiettivi personali, altrimenti non realizzabili,
l’assunzione di ‘pillole’, un favoloso strumento per essere felici.
Allan V. Horwitz e Jerome C. Wakefield in questo lavoro operano
una critica alla diagnosi di depressione del DSM che si basa, secondo
7 | G.A. Fava, Road to nowhere, in “World Psychiatry”, 13, 2014, pp. 49-50.
8 | J. Parnas, The RDoC program: psychiatry without psyche?, in “World Psychiatry”, 13, 2014,
pp. 46-47.
9 | D. Herzberg, Le pillole della felicità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014.
XIX
La perdita della tristezza
loro, su criteri inaccettabili dal momento che nel manuale non vengono
considerati né una delusione affettiva, né un fallimento lavorativo, né
una qualsiasi situazione personale difficile quale congruo motivo di tristezza profonda, non ascrivibile a un quadro depressivo.
Inoltre, con un’accurata analisi della letteratura internazionale, essi
sottolineano come vi sia una mentalità ‘a priori’ che vorrebbe ritenere
la Depressione Maggiore una patologia su base neurobiologica, mentre
risultati obiettivi di studi di neuroimaging mostrano che il cervello di
un paziente con depressione non è differente da quello di un soggetto
che versa in uno stato di tristezza profonda. La differenza che li caratterizza è l’assenza di una causa evidente nel primo caso. Vi sarebbero tutti
i presupposti per una riflessione su come nella depressione possa esserci
un’altra causa, apparentemente non visibile, che potrebbe essere cercata oltre il piano della coscienza.
Secondo gli autori, merita una riflessione a sé l’importanza attribuita al lutto per distinguere le reazioni ‘fisiologiche’ dalla depressione
vera e propria: se nel DSM-IV si concepisce ancora il lutto come elemento distintivo tra tristezza fisiologica e depressione, nel DSM-5
invece il parametro temporale è considerato insufficiente per una diagnosi corretta. In effetti il tempo non è che un limite arbitrario, che
sembra non contemplare una ‘normale’ reazione umana di tristezza la
cui durata, tra l’altro, è soggettiva, soprattutto in relazione al tipo di
lutto. La perdita di un amico ha una valenza diversa da quella di un
coniuge; inoltre con quest’ultimo la reazione può essere opposta in
base all’intensità della relazione o alla conflittualità che caratterizzava
il rapporto10. A questo proposito gli autori passano al vaglio diversi
accadimenti della vita umana quotidiana, anche quelli più comuni e
frequenti, e notano come essi non vengano oggi per nulla considerati
dagli psichiatri. Ma allora come possono essi comprendere la mente se
la loro cultura risulta così superficiale sugli aspetti più comuni della
vita umana?
Questo libro sembra mettere a nudo alcuni degli errori più gravi dell’attuale psichiatria, costringendo inevitabilmente a una riflessione, ma
10 | Ricordiamo che nell’attuale versione del DSM-5 il lutto non si trova più tra i criteri
di esclusione per la diagnosi di Depressione Maggiore.
XX
Introduzione
anche al cambiamento di una pratica clinica troppo intossicata da uno
scarso interesse verso il paziente.
Nel Capitolo 8 del libro leggiamo:
Abbiamo sostenuto che se i ricercatori del cervello non prendono in
considerazione il contesto in cui la tristezza si sviluppa, rischiano di dare
diagnosi sbagliate a persone normalmente tristi affibbiando loro disturbi
depressivi, e di fare confusione formando i loro campioni con un miscuglio eterogeneo di soggetti malati e normali. La tristezza normale, non
meno del disturbo depressivo, è in correlazione con gli stati cerebrali e
può includere sintomi di intensa tristezza: i soggetti che provano tristezza
possono avere alcuni dei marcatori biologici in comune con i soggetti
affetti da veri disturbi depressivi. Riscontrare perciò la presenza di un
substrato biologico in una condizione con sintomi di tristezza intensa
che soddisfano i criteri del DSM non basta per dire se quel particolare
substrato o la condizione stessa siano fisiologici o patologici. Conoscere
il contesto in cui l’attività cerebrale si verifica è precondizione essenziale
per capire se i cervelli funzionano in maniera normale o anomala.
Gli autori di La perdita della tristezza passano al vaglio tutto il sistema
di screening effettuato abitualmente dai medici di base nello Stato di
New York e lo criticano sottolineando come la diagnosi differenziale tra
depressione e tristezza sia essenziale per evitare il trattamento di soggetti
‘normalmente tristi’.
Ancora, essi denunciano come con gli attuali criteri diagnostici vengano a mancare la diagnosi e il conseguente trattamento in soggetti in
cui la depressione è all’esordio: in quest’ultimo caso, infatti, può essere
difficile formulare una diagnosi in quanto le misure diagnostiche sono
state concepite per cogliere un disturbo manifesto e non una forma iniziale che presenta un quadro più sfumato e complesso.
Nel Capitolo 9 leggiamo:
La nostra analisi suggerisce la necessità di una maggiore chiarezza concettuale da parte del professionista della diagnosi e di un consenso più
informato da parte del paziente. Un aspetto fondamentale del consenso
informato è che il paziente riceva una diagnosi il più accurata possibile,
e non c’è distinzione diagnostica più fondamentale di quella fra patologia e stato emotivo fisiologico in risposta a circostanze della vita, che con
tutta probabilità si risanerà con il tempo senza intervento. La prognosi
e le decisioni sulla adeguatezza di possibili trattamenti dipendono da
XXI