ANDREA SALUSTRI L`“effettoBrexit” è un fenomeno che può essere

ANDREA SALUSTRI
L’“effettoBrexit” è un fenomeno che può essere letto a diverse scale. A livello finanziario, l’esito
del referendum ha determinato una vera e propria catastrofe per le borse europee, nelle quali i titoli
bancari hanno perso quote di mercato consistenti. In particolare, i prezzi dei titoli bancari di Spagna
e Italia sono scesi del 15% e del 27% rispettivamente nella settimana dopo il voto Brexit1. L’UE,
inoltre, costituisce la principale destinazione delle esportazioni di beni e servizi del Regno Unito, in
quanto assorbe circa il 40% dei flussi commerciali in uscita, e l’abbandono dell’Unione non lascia
certo sperare in un approfondimento dei legami commerciali UK-UE. Infine, l’effetto Brexit ha
ripercussioni sulla tenuta politica dell’Unione, in quanto rischia di generare un effetto domino,
alimentando spinte secessioniste in molti paesi dell’Unione che potrebbero vanificare i processi di
integrazione economica e politica in atto a livello mesoregionale.
Nei primi giorni dopo li referendum, la preferenza per il “leave” è stata spiegata in termini di un
(im)prevedibile prevalere di spinte xenofobe ed isolazioniste. Uscendo dall’Unione, infatti, il Regno
Unito non sarebbe soggetto al rispetto delle norme sull’accoglienza, oltre a poter meglio controllare
le frontiere. D’altra parte, il voto contrario di molte aree del Paese (Scozia, Galles e Irlanda del
Nord) ed il fatto che il numero dei votanti sia stato pari a circa i due terzi della popolazione avente
diritto (quindi non alla totalità dei votanti) lascia intendere la possibilità di rinegoziare, o quanto
meno di non tener conto a livello legislativo, dei risultati del referendum. In un secondo momento,
il dibattito si è sposato sulle relazioni geopolitiche del Regno Unito nell’ambito del
Commonwealth: allentando i rapporti con l’UE, il Regno Unito avrebbe la possibilità di
approfondire le proprie relazioni commerciali extra-UE, anche se attualmente i flussi commerciali
UK-Commonwealth sono pari ad un quarto dei flussi commerciali UK-UE. In realtà, le stesse
istituzioni del Commonwealth hanno immediatamente dichiarato la loro adesione alla politica
dell’“and” piuttosto che dell’ “or”, in quanto il Regno Unito può senza dubbio restare all’interno
dell’UE e commerciare con i paesi del Commonwealth. Infine, a livello finanziario, vale la pena
osservare come le perdite consistenti delle banche europee mettano a rischio anche la tenuta dei
mercati finanziari del Regno Unito, in quanto l’esposizione delle banche inglesi ai mercati europei è
consistente, ed in caso di fallimenti la probabilità di un effetto contagio è elevata.
Dunque, dato che il “leave” non sembra garantire all’UK dei chiari vantaggi economici, le cause
profonde dell’esito del referendum andrebbero ricercate non tanto in questioni di convenienza
economica, quanto in istanze “glocali” che mettono in luce, da un lato, la progressiva disaffezione
1
http://www.wallstreetitalia.com/bank-of-england-lancia-bazooka-alert-fuga-capitali/.
dei cittadini europei verso le politiche dell’Unione, “colpevole” di non essere riuscita a generare
maggior benessere, occupazione e crescita economica mediante i processi di integrazione, ma
soltanto una perdita di sovranità nazionale spesso chiamata in causa nel momento in cui si
rendevano necessarie politiche economiche restrittive a discapito della qualità della vita dei
cittadini. Dall’altro, le pressioni demografiche provenienti dall’Africa ed una geopolitica sempre
più orientata verso il multilateralismo avvicinano i fondamentali del continente europeo a quelli del
Sud-Est Asiatico, ed anche se la convergenza ancora non si intravede all’orizzonte, si potrebbe
pensare al manifestarsi di dinamiche simili nelle due regioni del continente euroasiatico.
Ad esempio, in un’area ricca di lavoro a basso costo come l’ASEAN si può osservare la seguente
organizzazione interna:
-
la Cina è la principale fonte di lavoro a basso a costo, materie prime e semilavorati da
impiegare nelle global valuechain:
-
la Thailandia, la Malaysia e l’Indonesia costituiscono la “cintura industriale” della regione;
-
Singapore è l’hub commerciale che anche se legato all’area catalizza i flussi commerciali
internazionali in virtù di accordi preferenziali con molti partner extra-ASEAN;
-
l’Australia e la Nuova Zelanda rappresentano un modello di riferimento in termini di qualità
della vita da valorizzare nell’ambito dei processi di cooperazione internazionale.
Allo stesso modo, in un’area che si prepara ad accogliere ingenti flussi migratori dall’Africa, e già
ricca di risorse e materie prime, si potrebbe ipotizzare la seguente organizzazione interna:
-
l’Europa dell’Est e la Russia potrebbero costituire la principale fonte di lavoro a basso costo,
materie prime e prodotti semilavorati;
-
Francia, Germania ed aree limitrofe (compreso il Nord-Italia) possono costituire la cintura
industriale del continente;
-
Londra già è la principale piazza finanziaria dell’UE e potrebbe facilmente diventare l’hub
commerciale dell’Unione, insieme ai Paesi Bassi, in virtù delle relazioni privilegiate con i
paesi del Commonwealth;
-
i paesi Scandinavi potrebbero costituire il modello di riferimento in termini di qualità della
vita da valorizzare nell’ambito dei processi di cooperazione internazionale.
Una volta evidenziate le analogie, vanno comunque fatti dei distinguo importanti. In primo luogo, il
PIL dell’UE è di gran lunga superiore a quello del Sud-Est Asiatico, ed anche i flussi commerciali
con il resto del mondo sono significativamente più consistenti. Dunque, anche a fronte di una
organizzazione geopolitica simile, e di esperienze simili già documentate di utilizzo predatorio delle
risorse umane e naturali, l’economia europea si muove su un sentiero di gran lunga più vicino al
concetto di sostenibilità espresso dalle Nazioni Unite rispetto all’ASEAN, ed il benessere materiale
dei cittadini dell’Unione sembrerebbe mantenersi su livelli comunque più elevati, anche se
ridimensionati rispetto al passato, rispetto al benessere dei popoli dell’ASEAN. Allo stesso modo,
l’economia UE è decisamente più capital-intensive dell’economia del Sud-Est Asiatico, ed
attualmente non sembrano esserci segnali significativi di inversione del trend. In terzo luogo, così
come l’economia dell’ASEAN può risentire in termini di competitività della crescita dell’India
(un’altra economia labour intensive), così l’UE può perdere quote significative di valore aggiunto a
fronte di aumenti del prezzo del petrolio acquistato dai paesi OPEC (il dibattito, dunque, è sul costo
delle risorse energetiche, non sul costo del lavoro).In entrambi i casi, dunque, l’estensione dei
processi di integrazione ai territori confinanti potrebbe favorire anche i processi di coesione interna
grazie allo sviluppo di forme di cooperazione in sostituzione delle attuali “minacce”.
In conclusione, l’effetto Brexit sembra ricordare con forza ai policymaker dell’Unione, spesso
troppo concentrati sul rispetto (o sul mancato rispetto) del Patto di Stabilità e Crescita, l’importanza
del contesto geopolitico e socioeconomico nel determinare gli esiti dei percorsi di crescita e
sviluppo intrapresi. Se la visione proposta può essere presa in considerazione, il rischio più grave
che sembra profilarsi all’orizzonte è proprio quello di dover pagare un “doppio mark-up” in termini
di produttività, e cioè di veder crescere a livello UE la rendita derivante da una posizione
geopolitica privilegiata dell’Europa del Nord rispetto al resto del continente, e di veder lievitare i
costi amministrativi di gestione delle frontiere dell’Unione, a causa di una mancata gestione di
fenomeni migratori importanti, che, oltre a produrre occupazione in settori quali la formazione,
l’accoglienza ecc., fa lievitare i costi della sicurezza, in quanto il mancato rispetto dei diritti umani
lascia i migranti nelle mani delle economie criminali anche all’interno del territorio UE.
D’altra parte, l’UE, prima che un’Unione Monetaria e fiscale, è un’Unione di popoli e di culture,
che possono essere valorizzate proprio nei loro tratti identitari per produrre valore economico
contabilizzabile e quindi trasferibile, in parte, ai livelli istituzionali (imprese, settore pubblico,
intermediari ed istituzioni internazionali), in modo da alimentare lo sviluppo di politiche
economiche e sociali in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile sanciti dalle Nazioni Unite.
Infine, la migliore soluzione alle criticità messe in luce dall’effetto Brexit è l’innovazione, ed in
particolare un’innovazione sociale in grado di trasformare un doppio mark-up in un doppio
dividendo, sfruttando, da un lato, i vantaggi commerciali di una maggiore proiezione nell’economia
internazionale del Regno Unito, con il quale comunque l’UE intratterrebbe significative relazioni
commerciali e finanziarie, e dall’altro sfruttare i vantaggi comparati che si creano con i paesi extraUE e con i paesi MENA attraverso il completamento dell’allargamento ad Est (con particolare
riferimento ai Balcani) ed il potenziamento delle relazioni euromediterranee, che farebbero del
Mezzogiorno un’importante base logistica per il commercio nel marittimo.