Guerra fredda anni Cinquanta La vittoria di Mao in Cina estende il conflitto bipolare, accentuando l’anticomunismo USA e Anni rafforzando il fronte comunista. URSS e Cina hanno bisogno l’una dell’altra per rafforzare Cinquanta l’unità del campo socialista e per fronteggiare, nel caso cinese, l’isolamento internazionale nel quale viene confinata dagli USA (ad esempio, viene estromessa dal Consiglio di sicurezza ONU, sostituita da Taiwan). I rapporti tra le due potenze entreranno in crisi sul finire degli anni Cinquanta. 1950-53: in Corea, dopo il ritiro delle truppe d’occupazione USA e sovietiche, si contrappongono il Nord comunista sostenuto dalla Cina e il Sud sostenuto dagli USA. Il Nord invade il Sud Corea contando sull’appoggio cinese e sovietico. L’ONU autorizza un’azione militare contro gli aggressori, gestita sostanzialmente dagli USA (nel Consiglio di sicurezza il delegato sovietico era assente per protesta contro l’esclusione della Cina a favore di Taiwan). La controffensiva si spinge fino ai confini cinesi, sotto il comando del generale MacArthur, ma la Cina reagisce inviando un massiccio corpo di volontari che respingono l’attacco sino alla vecchia linea di confine. MacArthur propone di attaccare la Cina e non esclude l’uso dell’atomica, ma viene richiamato da Truman, che teme un’estensione del conflitto e avvia estenuanti trattative. Il nuovo presidente USA Eisenhower conclude le trattative nel 1953. Il bilancio è di circa 3 milioni di morti, oltre alla devastazione di buona parte dell’area. 1953: in Iran il governo nazionalista di Muhammad Mossadeq tenta di nazionalizzare i giacimenti petroliferi del paese, contro gli interessi delle compagnie britanniche e USA, ma viene rovesciato da un colpo di stato dello shah Reza Pahlavi con l’appoggio dei servizi segreti USA. [La CIA, fondata nel 1947, comincia la serie di covert operations che con mezzi illegali tuteleranno gli interessi USA in vari paesi esteri.] Il padre di Reza Pahlavi era salito al potere con un colpo di stato nel 1921, entrando in conflitto con gli sciiti tradizionalisti e varando un deciso programma di modernizzazione e laicizzazione dello stato simile a quello attuato in quegli anni in Turchia da Mustafa Kemal (Ataturk). 1953: muore Stalin. In USA la politica del containment fa spazio alla dottrina del roll back, il cui principio di fondo era il ridimensionamento dell’influenza sovietica mediante la strategia della massive retaliation da opporre a ogni atto ostile. L’irrigidimento si traduce di fatto in pressioni sull’Europa affinché investa maggiormente in spese militari NATO. 1955: patto di Varsavia: alleanza militare tra i paesi dell’area sovietica, con l’eccezione della Yugoslavia comunista guidata da Tito (che aveva accettato aiuti USA). La logica bipolare è sempre più evidente. 1955: conferenza di Bandung di 29 paesi non allineati, perlopiù liberi da poco dalla dominazione coloniale e ancora fragili sotto il profilo economico: India, Cina, Indonesia, Pakistan, Birmania, Ceylon, Turchia, Iran, Iraq, Giordania, Vietnam etc. si esprimono contro la corsa agli armamenti e per l’autodeterminazione. Si tratta di una formula dal valore più simbolico che pratico, anche in considerazione dell’estrema eterogeneità del fronte (Cina e India entreranno dopo qualche anno in conflitto per il possesso del Tibet, per esempio). 1956 Il successore di Stalin Cruscev ne denuncia i crimini al XX congresso del Partito comunista URSS; a novembre una rivolta antisovietica in Ungheria viene repressa dall’Armata rossa. 1956: crisi di Suez. L’Egitto, caratterizzato da un regime militare nazionalista guidato da elNasser, allaccia relazioni col blocco sovietico in quanto gli USA hanno rapporti privilegiati con Israele e annuncia la nazionalizzazione del canale di Suez controllato dalle truppe britanniche. Su pressione di Parigi e Londra Israele attacca le truppe egiziane, coadiuvato da Francia e GB, ma l’ONU chiede il ritiro degli aggressori su sollecitazione degli USA che disapprovano iniziative esterne alla logica bipolare. I caschi blu garantiscono il cessate il fuoco sulla frontiera. Per la Francia si apre una crisi che porterà alla sofferta indipendenza della colonia algerina nel 1962. Al dominio coloniale europeo in Medio Oriente si sostituisce la logica bipolare: gli USA avviano un asse privilegiato con Israele, l’URSS con i paesi arabi. 1957: Trattato di Roma – nasce la CEE al fine di creare un mercato unico europeo, dopo il successo della CECA (1951), Comunità europea del carbone e dell’acciaio 1959: a Cuba una rivoluzione guidata da Fidel Castro abbatte il regime di Batista, che era stato sostenuto dagli USA Per tutto il decennio proseguono esperimenti nucleari, vengono messi a punto la bomba H, missili balistici, l’aviazione supersonica; la guerra fredda diventa gradualmente anche competizione aerospaziale. Le ingenti spese militari penalizzano fortemente gli investimenti URSS nell’industria leggera produttrice di beni di consumo, incidendo sulla qualità della vita dei suoi cittadini. Lo storico Paul Kennedy osserva che al crescere dell’estensione spaziale delle zone di influenza diventa sempre più difficile controllarle; inoltre il processo di decolonizzazione complica lo scacchiere mondiale introducendo nello scenario nuovi stati sovrani e quindi nuove variabili, acuendo il problema del controllo. L’URSS si affida a programmi statali di assistenza economica e militare in cambio della concessione di basi strategiche, gli USA avviano una penetrazione commerciale su base privata e rafforzano l’attività dei servizi segreti. L’ingresso nell’ONU di ex colonie non allineate alla logica del bipolarismo e spesso ostili alla politica USA, giudicata vicina alle potenze coloniali, complica ulteriormente il quadro. Osservazioni (molto) generali sulla decolonizzazione L’origine del termine “terzo mondo” risale a un testo dell’economista e demografo francese Alfred Sauvy, che nel 1952 aveva colto prima della conferenza di Bandung come la complessità globale non fosse esaurita dal bipolarismo USA-URSS. Sauvy osserva che i paesi del terzo mondo, come il terzo stato della Rivoluzione francese, sono “tutto”, ma non contano niente, pur costituendo la maggior parte dei popoli della terra. Cina e India avevano tuttavia avviato una stagione di decolonizzazione che nel giro di pochi anni avrebbe portato all’indipendenza la quasi totalità dei paesi asiatici e africani. Il modello di stato-nazione si sostituisce dunque agli imperi coloniali, dando forma a esperienze senza precedenti e arricchendo l’ONU di paesi di nuova costituzione. Come ha osservato il grande studioso ispanico-indiano Raimon Panikkar, gli anni Sessanta del Novecento hanno chiuso un ciclo che si era aperto mezzo millennio prima: una vera e propria età europea contrassegnata dalle scoperte geografiche del Cinquecento e dall’egemonia tecnologica, commerciale e militare del vecchio continente. Nuovi soggetti irrompono in questo decennio sulla scena della storia. A partire dagli anni Sessanta gli studi sul fenomeno della decolonizzazione si concentrano sulle figure chiave di Gandhi e Mao Zedong. Se molti studiosi sottolineano come l’impatto traumatico della penetrazione europea e occidentale abbia scosso le società rurali tradizionali contribuendo a formare élite dirigenti capaci di affermare e diffondere l’aspirazione all’autogoverno e all’indipendenza, altri colgono nel processo di decolonizzazione segnali di riscoperta di identità e vocazioni tradizionali schiacciate dal dominio straniero. I movimenti giovanili del Sessantotto dispiegano una logica terzomondista che assegna alle nuove nazioni un ruolo rivoluzionario che indicherebbe la direzione anche alle masse dei paesi sviluppati, impostazione tuttavia messa in discussione dall’evoluzione di molti paesi decolonizzati. La complessità del quadro e la difficoltà a parlare in modo generico e univoco di “terzo mondo” è parzialmente resa dalle seguenti considerazioni sparse: 1) i processi di impetuosa crescita economica dei NICS (Newly industrialized countries) del sudest asiatico come ad esempio Singapore, Taiwan, Corea del sud, Hong Kong, nel quadro e sul modello della globalizzazione finanziaria e produttiva del mondo capitalistico occidentale, hanno fatto parlare di fine del terzo mondo (Nigel Harris, The end of the third world) come termine riferito alle valenze rivendicative dell’accezione di Sauvy. (Si tratta comunque di una modernizzazione all’insegna di una marcata sperequazione: la forbice delle disuguaglianze in questi paesi è molto accentuata). 2) va tenuta presente la complessità dell’interazione tra culture economico/politiche occidentali e culture millenarie refrattarie all’innovazione e alla competizione, che ha dato luogo a esiti molto differenti (molto interessante il caso cinese, per il quale è emblematico il film Al di là delle montagne del 2016) 3) una recente storiografia sul caso africano coglie in alcuni casi una singolare continuità tra formazioni tribali pre-coloniali e la degenerazione contemporanea di certi stati postcoloniali in stati corrotti e predatori privi di capacità redistributiva e asserviti a fazioni. Altri studiosi sottolineano invece la perdurante frattura introdotta dalla dominazione coloniale e dunque le pesanti responsabilità dei paesi sviluppati nella cooptazione di élite indigene che si prestavano al mantenimento di rapporti economici ineguali. Ad esempio, le tribù centroafricane Tutsi e Hutu, protagoniste di un drammatico caso di genocidio in Rwanda nei primi anni Novanta, parlano la stessa lingua e sono vissute in pace per secoli prima della colonizzazione. Secondo la regola aurea del divide et impera i dominatori prima tedeschi e poi belgi hanno delegato i reticoli periferici dell’amministrazione statale alla minoranza aristocratica di pastori guerrieri tutsi contro la maggioranza contadina hutu, completamente esclusa dal potere, generando le tensioni che sarebbero sfociate nei massacri degli anni successivi. Molte delle guerre che insanguinano il continente africano vedono alle spalle dei signori della guerra locali l’ingerenza sotterranea ma decisiva di interessi privati occidentali nella gestione e sfruttamento delle risorse naturali presenti sul territorio. In questo senso la natura dello stato postcoloniale africano si dispiega in circuiti politici formati da istituzioni, milizie pubbliche e private, signori della guerra locali, compagnie multinazionali, del tutto indipendenti da qualsiasi forma di legittimazione popolare dal basso che segnano un profondo scollamento tra élite e società civile. Ecco un quadro generale per continente: Asia Il modello di riferimento per la decolonizzazione nell’area asiatica resta l’India, sebbene il primo paese asiatico a raggiungere l’indipendenza nel secondo dopoguerra siano le Filippine (1946). La conquista dell’indipendenza indiana nel 1947 apre una fase nuova e difficile che impone la gestione di due problemi: le tensioni religiose tra induisti e musulmani e la modernizzazione del paese, oltre alla lotta contro la fame. Gandhi, leader carismatico del Partito nazionalista del congresso che per decenni si è battuto per l’indipendenza, era favorevole a uno stato unitario che consentisse una convivenza pacifica tra fedi religiose. D’altro canto le autorità britanniche avevano alimentato le divisioni religiose per indebolire gli indipendentisti. A questo proposito, Hobsbawm osserva che gli inglesi con tale operazione dissiparono anche la già debole legittimazione morale che discendeva dall’essere riusciti a gestire il subcontinente indiano in una condizione di relativa pace, nonostante le divisioni religiose. La divisione tra Unione indiana a maggioranza induista e Pakistan a maggioranza musulmana determina un flusso massiccio di popolazione accompagnato da violenze. Gandhi stesso è vittima di un fanatico induista a causa della sua eccessiva tolleranza verso l’Islam. Dopo l’indipendenza l’India è stata governata per quarant’anni dal partito del congresso, protagonista delle lotte per l’indipendenza. Il primo ministro Nehru, al potere sino al 1964, ha avviato un processo di modernizzazione all’insegna di una certa neutralità, sebbene gli USA stanziassero aiuti. Nehru aveva una formazione europea (aveva studiato anche a Cambridge) e si sforzò di informare la sua azione ai principi della democrazia: soppresse il sistema delle caste, già avversato da Gandhi, promosse l’uguaglianza giuridica e la giustizia sociale, non trascurando di stimolare l’economia anche nella direzione dell’industrializzazione del paese. Mentre Filippine e Giappone diventano il terreno di attuazione della strategia di imperialismo informale da parte degli USA, la GB gestisce con alterne vicende il distacco dalla Birmania e dalla Malesia, dove si sviluppano fenomeni di guerriglia comunista, piuttosto diffusi in tutta l’area asiatica. Tali attività di guerriglia sono riconducibili alla natura contadina dei movimenti di resistenza armata, in quanto le campagne soffrivano più acutamente gli squilibri generati dal contatto con le economie europee. In Africa il movimento di decolonizzazione si evidenzia con un certo ritardo, intorno alla seconda metà degli anni Cinquanta. In generale, salvo le eccezioni del Kenya, dell’Algeria e del Congo, dove l’indipendenza fu accompagnata da forti violenze, il processo avviene in forma non particolarmente traumatica, considerando che nel giro di un decennio vengono coinvolti 35 paesi africani. In assenza di una tradizione nazionale, l’Africa ha costruito le proprie strutture statali “dall’esterno verso l’interno e dall’alto verso il basso”, come osserva T.H von Laue, ovvero riproducendo modelli occidentali disancorati dalle tradizioni locali e che non promuovono la partecipazione della società civile, peraltro più caratterizzata da appartenenze tribali che da appartenenze politiche. Tale debolezza favorisce involuzioni autoritarie e colpi di stato che si moltiplicano sull’intero continente, una fragilità politica cui si accompagna il persistere di forme neocoloniali di subordinazione e sfruttamento. Proprio il neocolonialismo diventa oggetto di una denuncia della terza conferenza panafricana nel 1961, che lamenta il diffondersi di governi-fantoccio controllati da potenze ex-coloniali, conflitti finanziati dall’esterno con presenza di mercenari occidentali, strapotere di imprese straniere, ingerenze economiche legate allo sfruttamento delle materie prime, presenza di basi militari e di pressioni ricattatorie da parte dei due blocchi. Lo sviluppo africano sembra condannato alla dipendenza dai mercati esteri e al ruolo di esportatori di materie prime. Un capitolo a parte è costituito dall’indipendenza del Sudafrica (1961) perché viene proclamata dalle minoranze bianche che di fatto detenevano il potere. Il partito nazionalista sudafricano si era consolidato dopo il secondo conflitto mondiale sancendo il lungo predominio degli afrikaner e l’avvio di un regime di apartheid. Il Partito nazionale del congresso, promotore dell’opposizione alla segregazione dei neri, viene messo fuori legge e i suoi leader arrestati (tra costoro spicca Nelson Mandela che resta in carcere dal 1962 al 1990). Con la fine della guerra fredda viene meno la connivenza da parte di alcuni paesi occidentali che ritenevano il regime dell’apartheid un argine alla diffusione del comunismo nell’area. Si avvia una fase di dialogo che conduce alla scarcerazione di Mandela e alle prime elezioni libere nel 1994. Mandela diventa presidente della repubblica e decide di avviare una originale esperienza di riconciliazione istituendo la Commissione per la verità e la riconciliazione fondata sulla confessione pubblica delle violazioni dei diritti umani resa di fronte alle vittime come condizione per godere dell’amnistia. America I paesi dell’America Latina erano indipendenti da oltre un secolo, per cui la priorità diventa Latina smarcarsi dalla dipendenza economica da paesi stranieri, in particolare gli USA, che li condannava al rango di esportatori di materie prime. Si moltiplicano in questa fase esperienze populiste, come quella di Juan Domingo Peròn in Argentina, e colpi di stato, sul cui sfondo permangono i vincoli determinati dai capitali stranieri. In questo contesto la situazione di Cuba introduce elementi di novità: negli anni Cinquanta il generale Batista aveva posto fine a un esperimento populista del presidente San Martin, impegnato a nazionalizzare l’industria dello zucchero. Batista avvia una alleanza con gli USA che pone Cuba in una condizione di subordinazione rispetto agli interessi americani, ma un movimento di guerriglia guidato da Fidel Castro, giovane avvocato, ottiene l’appoggio delle masse rurali promettendo una riforma agraria, la lotta all’analfabetismo, alla disoccupazione e all’imperialismo. La rivoluzione mette in fuga Batista nel 1959. Inizialmente Castro cerca un dialogo con gli USA, affermando che la sua rivoluzione era umanitaria e non comunista, ma il danno economico subito dagli americani in seguito alle politiche varate dal nuovo governo, orientato alla nazionalizzazione delle industrie e delle terre, induce il gelo nei rapporti portando Cuba a una vicinanza con l’URSS di Cruscev. Dopo l’episodio della baia dei porci (vedi oltre) Castro aderisce apertamente al socialismo e respinge il programma di investimenti pubblici e privati varato da Kennedy per l’America latina. Cuba si distingue in quegli anni come avamposto nella lotta all’analfabetismo, ma fallisce nel rilancio economico e avvia un regime caratterizzato da un controllo poliziesco contro ogni forma di dissenso. La vittoria castrista ispira altri movimenti rivoluzionari che trovano nella figura di Ernesto “Che” Guevara, medico argentino compagno d’armi di Castro che troverà la morte combattendo in Africa Bolivia nel 1967, un leader carismatico. I sandinisti in Nicaragua, i tupamaros in Uruguay, i montoneros in Argentina si riconoscono nella parola d’ordine lanciata da Guevara nel 1966: “creare due, tre, molti Vietnam”. Salvo eccezioni, raramente la guerriglia produrrà esiti significativi e sarà anzi motivo per le classi dirigenti per orientare in senso autoritario i propri regimi. Guerra fredda (e non solo) anni Sessanta Anni 1960: si consuma la crisi dei rapporti URSS-Cina con il ritiro dei tecnici URSS dal paese e la Sessanta sospensione degli accordi di cooperazione. La crisi era cominciata anni prima, dopo la svolta imposta da Cruscev nel 1956: la Cina di Mao rimaneva legata all’ortodossia stalinista e contraria alla riabilitazione di Tito, proponendosi come guida alternativa al comunismo internazionale. Nel corso degli anni Sessanta la Cina si muove nella direzione della collettivizzazione e della razionalizzazione dell’agricoltura con obiettivi ambiziosi che però non vengono raggiunti, determinando una crisi agricola cui si accompagna un inasprimento del carattere poliziesco del regime, che comunque si garantisce il consenso attraverso una martellante propaganda. Tra il 1966 e il 1968 Mao promuove la cosiddetta rivoluzione culturale, frutto di una sollecitazione dall’alto che invita i giovani a mettere in discussione la classe dirigente e le élite culturali, arrivando a imporre a queste ultime forme di internamento in campi di “rieducazione” in condizioni durissime (si parla di circa un milione di morti, ma i dati sono difficili da verificare). Il vero scopo è epurare il regime dai moderati o da possibili forme di dissenso e accentuare l’omologazione ideologica e culturale. 1960: l’abbattimento di un U2, aereo da ricognizione USA, nello spazio aereo URSS, provoca un’accesa discussione nel corso di un’assemblea dell’ONU, dove Cruscev batte una scarpa sul banco per enfatizzare il suo discorso di protesta. (Gli USA avevano cercato sino all’ultimo di negare l’accaduto.) Si consolida la strategia USA di gestione delle crisi diplomatiche all’insegna di strategie di rischio calcolato che valutano le opzioni del contendente, un metodo che è studiato nella teoria dei giochi e che considera i momenti di crisi come occasioni per guadagnare posizioni in un confronto a somma zero, in cui un punto guadagnato equivale a un punto perso dall’avversario. 1961: Invano il giovane presidente democratico neoeletto Kennedy si reca a Berlino per difendere il principio del libero accesso alla città (con il famoso discorso “Ich bin ein Berliner”). La risposta URSS è la costruzione del muro di Berlino, a fronte del fenomeno crescente delle fughe di cittadini dell’est che cercavano rifugio a Berlino ovest (perlopiù tecnici, medici, insegnanti; nei primi mesi del 1961 si era arrivati a più di mille fughe al giorno). (Film: Le vite degli altri, Goodbye Lenin, Il ponte delle spie) 1960-63: crisi di Cuba. Il regime di Castro a Cuba trova sostegno nell’URSS, che concede massicci prestiti: il comunismo penetra per la prima volta nell’emisfero occidentale. Gli USA impongono l’embargo sulle importazioni di zucchero cubano. Il nuovo presidente Kennedy nel 1961 autorizza un tentativo di sbarco sull’isola di volontari anticastristi addestrati dai servizi segreti (crisi della “baia dei porci”), il cui fallimento spinge Kennedy a mutare strategia e varare un piano di aiuti per il Sudamerica che esclude però Cuba. Nel 1962 l’URSS pianifica l’installazione di basi missilistiche a Cuba; Kennedy risponde ordinando il blocco delle navi dirette a Cuba con forniture militari. Il mondo intero teme un conflitto nel caso l’URSS forzi il blocco, ma si trova un compromesso che prevede lo smantellamento delle basi in cambio del riconoscimento del regime di Castro da parte degli USA e del ritiro dei missili in Turchia e Italia. La guerra fredda sembra allentarsi, si abbandona la dottrina del roll back e della massive retaliation per adottare quella della “risposta flessibile” (flexible response). Si giunge nell’agosto 1963 a un trattato tra USA, URSS e GB per la messa al bando di esperimenti nucleari che avrà scarsa efficacia per il rifiuto di firmarlo di Francia e Cina, che si stavano dotando di armi atomiche. Il trattato era stato tanto sollecitato dal papa Giovanni XXIII anche nell’enciclica Pacem in terris di quello stesso anno. Kennedy viene assassinato nel 1963 a Dallas in circostanze poco chiare. L’assassinio blocca il suo programma di riforme in campo assistenziale, assicurativo e sul fronte del riconoscimento dei diritti alle fasce deboli della popolazione (che aveva creato ostilità tra i conservatori). [Kennedy, primo cattolico alla Casa Bianca, si ispirava a una tradizione progressista orientata all’attualizzazione del concetto ottocentesco di frontiera, concepita come una frontiera scientifica, spirituale e culturale. L’URSS riprende la corsa agli armamenti per superare il divario tecnologico che la distanzia dagli USA.] 1958-63: pontificato di Giovanni XXIII, simbolo di una stagione del dialogo internazionale e di apertura al rinnovamento della tradizione millenaria grazie al Concilio Vaticano II, avviato nel 1962 e concluso da Paolo VI nel 1965: si avvia una valorizzazione della collegialità, viene dato spazio alle chiese locali, ci si apre al dialogo interreligioso e si attenua l’ostilità nei confronti del comunismo (il papa invita a distinguere l’errore, il comunismo, dall’errante); riforma liturgica con abbandono del latino. 1964-67: si costituisce l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) a tutela delle popolazioni arabe evacuate dai territori occupati dal nuovo stato israeliano che avevano mantenuto la loro identità palestinese. Si concentra in particolare nella regione di Gaza e in Cisgiordania. L’Egitto di Nasser alimenta le tensioni anti israeliane nell’area. Nel 1967 scoppia un nuovo conflitto quando Nasser annuncia l’intento di chiudere il golfo di Aquaba alle navi israeliane: Israele attacca a sorpresa Egitto, Giordania e Siria con la sua aviazione nella famosa guerra dei sei giorni, che consente a Israele di occupare il Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e il Golan, triplicando il territorio di Israele e inglobando circa un milione di Arabi. Una risoluzione ONU invita Israele a ritirarsi dai territori occupati, ma resta inosservata. 1965: la Francia di De Gaulle si mostra insofferente verso la politica americana che spesso estromette gli alleati europei da decisioni nevralgiche, come avvenuto con la crisi di Cuba; inoltre lamenta lo stato di minorità dell’Europa nei confronti del protettore USA; la Francia non trova sostegno in Europa e si astiene dalla partecipazione alle riunioni comunitarie dal 1965, evidenziando un problema di conflitto tra organismi e politiche comunitarie da un lato e sovranità nazionali dall’altro, tema in questi giorni di grande attualità. 1963-67: La marcia di Washington per i diritti civili ed economici degli afro-americani promossa dal leader nero M.L. King, pastore battista seguace della non violenza (“I have a dream…”), apre nel 1963 una intensa stagione di lotte e proteste che nel corso del decennio si moltiplicano e danno voce al disagio dei ghetti dove regna povertà, analfabetismo e incombe la leva per il Vietnam. Malcolm X si fa promotore del contropotere nero (Black Power), ma viene assassinato nel 1965 (King nel 1968). Si aggiungono movimenti giovanili contro l’autoritarismo e il conformismo USA, movimenti femministi che contestavano il ruolo domestico assegnato alle donne, rivendicando pari diritti e opportunità, movimenti pacifisti contro l’intervento in Vietnam. Nel 1967 un’enorme manifestazione per la pace a Washington culmina in scontri tra dimostranti ed esercito. Tali fermenti consentono di raggiungere importanti conquiste sul fronte dei diritti. Il presidente Johnson, succeduto a Kennedy, abolisce la segregazione razziale e le restrizioni al diritto di voto, estende benefici assistenziali e investe nella scolarizzazione, concretizzando in parte i progetti di Kennedy. In questo periodo si va definendo una cultura alternativa che esprime un profondo rifiuto nei confronti della società industrializzata e dell’omologazione sociale che prende corpo con l’occupazione dell’Università di Berkeley nel 1964. Gli studenti rivendicano il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente nel campus universitario. Tali sollecitazioni si intrecciano alle rivendicazioni dei neri afroamericani e al movimento contro la guerra in Vietnam. Intorno al 1968 la rivolta giovanile si estende anche a diversi paesi europei e del mondo. Qui le proteste assumono varie connotazioni ideologiche ispirate talvolta a un marxismo radicale, al terzomondismo o al modello della rivoluzione culturale cinese. Tratto comune è il rifiuto dell’establishment sociale, del consumismo, del moralismo, dell’autoritarismo e dell’imperialismo, che tuttavia si radica in forme alternative di consumismo espressione di una cultura giovanile orientata a un certo mercato musicale e a una certa industria dell’abbigliamento (jeans, minigonne). L’epicentro delle culture giovanili sono le università, sull’onda d’urto di una scolarizzazione sempre più di massa della baby boom generation, cresciuta all’ombra della bomba atomica (come osserva H. Arendt). A Parigi il quartiere latino e la Sorbona sono teatro di ripetuti scontri tra studenti e polizia. Gli slogan del maggio francese fanno il giro del mondo (“tutto è possibile”, “vietato vietare”, “l’immaginazione al potere”, “siate realisti, chiedete l’impossibile”). Il movimento non ottiene risultati politici concreti e tangibili ed anzi genera tendenzialmente uno spostamento a destra dell’elettorato, ma produce trasformazioni profonde della società, nella mentalità e nei costumi, incidendo sui rapporti di potere nelle istituzioni e nelle famiglie e preparando il terreno a una maggiore democratizzazione della società. 1964-73 guerra del Vietnam tra nord comunista e sud appoggiato da USA; dopo il ritiro dei francesi dalla penisola indocinese, nel filo-occidentale Vietnam del Sud si era costituito da tempo un fronte nazionale di liberazione impegnato in azioni di guerriglia chiamato comunemente Vietcong e appoggiato dal nord. Intervengono gli USA con il nuovo presidente Lyndon Johnson subentrato a Kennedy (che comunque aveva già inviato un contingente). L’intervento, costoso e logorante, mina le certezze dell’opinione pubblica USA, turbata anche dalle notizie sull’uso di armi che colpiscono la popolazione civile (ad esempio il napalm, già sperimentato durante il secondo conflitto mondiale e in Corea). Una sequenza televisiva che riprende l’esecuzione a sangue freddo di un ufficiale vietcong da parte di un ufficiale sudvietnamita viene vista da 20 milioni di persone; l’immagine della bambina nuda e piangente che fugge dalle devastazioni è l’emblema di una nuova modalità di raccontare la guerra nei suoi aspetti più crudi che probabilmente non ha precedenti. Si giunge ai negoziati avviati nel 1968, che preludono a un graduale disimpegno dall’area. Si avvia una fase di politica del low profile con il presidente Nixon. L’accordo definitivo risale al 1973. (Film: Il cacciatore). La guerra civile prosegue fino al 1975 con la vittoria del nord, che unifica il paese. 1968: carri armati URSS a Praga stroncano un tentativo riformista (“primavera di Praga”) 1969: uomo sulla Luna, tappa cruciale di una gara tra USA e URSS per la supremazia non solo terrestre, ma anche aerospaziale. Il primo successo è dell’URSS che nel 1957 aveva lanciato inaspettatamente il primo satellite artificiale, lo Sputnik, precedendo di un anno il lancio USA dell’Explorer. Ancora un primato URSS per l’invio del primo astronauta, Yuri Gagarin, in una missione spaziale nel 1961. La NASA a questo punto si impegna per mettere a punto il progetto dello sbarco sulla Luna, che vedrà Neil Armstrong e Edwin Aldrin arrivare sulla Luna con la navicella Apollo 11. (C’è ancora chi ritiene si sia trattato di un falso inscenato per puri motivi propagandistici.) La corsa allo spazio proseguirà negli anni successivi con la messa in orbita di satelliti meteorologici e per le telecomunicazioni, sonde spaziali, stazioni orbitanti, anche in funzione militare. I costi della corsa agli armamenti e dell’equilibrio del terrore pongono seri problemi di bilancio alle superpotenze. L’aumento delle spese sociali si aggiunge alle spese militari aggravando il deficit dei conti pubblici e creando per la prima volta segni di rallentamento nell’economia e una forte polarizzazione sociale. Nonostante ciò, gli anni Sessanta sono ricordati come un decennio di prosperità e di crescita senza uguali, pur tra le mille contraddizioni che li contraddistinguono. GUERRA FREDDA (e non solo) Sul finire degli anni Sessanta il processo di globalizzazione economica all’insegna della Anni logica del bipolarismo entra in crisi; le nuove generazioni, figlie del benessere, Settanta sembrano scagliarsi contro il modello consumistico occidentale 1971-74: difficoltà dell’economia USA provata anche dai costi della guerra in Vietnam, oltre che da un deficit commerciale (le importazioni superavano le esportazioni); fine del gold dollar standard; inizio di una fase di instabilità monetaria. Al graduale disimpegno in Vietnam si accompagna la tendenza ad una politica estera autonoma della Francia di De Gaulle e la Germania di Brandt. L’anno dopo Nixon stringe con Mosca il primo trattato SALT (Strategic Armaments Limitation Talks) che congelava per cinque anni gli arsenali delle due superpotenze. Segue un accordo per la fornitura di grano americano all’URSS. Nel 1974 il SALT 2 prosegue il dialogo. Apertura anche con la Cina (visitata da Nixon nel 1972, anno di riammissione della Cina all’ONU). Con lo scandalo Watergate, che rivela le attività di spionaggio perpetrate dal suo staff durante la campagna elettorale del 1972, Nixon è costretto a dimettersi nel 1974. Intanto in Medio oriente si instaurano regimi militari (Gheddafi in Libia, Assad in Siria, Saddam Hussein in Iraq) e l’OLP avvia una stagione di azioni terroristiche con l’uccisione di 15 atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Il clima è ulteriormente esacerbato dalla guerra del Kippur (1973) scatenata da Sadat, successore di Nasser in Egitto, per vendicare la guerra dei sei giorni. Il conflitto vede Israele in difficoltà in quanto colto di sorpresa, ma il contrattacco ben presto porta al cessate il fuoco. Si approda solo nel 1978 con la supervisione USA alla pace di Camp David firmata da Sadat e il leader israeliano Begin. Per la prima volta uno stato arabo riconosce il diritto di Israele di esistere, ma resta irrisolto il problema dello stato dello stato palestinese. L’Egitto viene espulso dalla lega dei paesi arabi e Sadat ucciso da estremisti islamici. Nel 1973 si verifica lo shock petrolifero che porta a un aumento vertiginoso del prezzo del greggio stabilito dal cartello dei paesi produttori (OPEC) in seguito alla guerra arabo-israeliana. Ciò determina, insieme ad altri fattori, l’avvio in Occidente di una fase di stagnazione e inflazione (stagflazione) e disoccupazione; si registra una crisi del welfare state, cresce la disoccupazione. Il sistema di Bretton Woods ormai è in declino. Si comincia a parlare di deindustrializzazione e società post-industriale. Il baricentro delle economie capitalistiche si sposta dall’industria al terziario (terziarizzazione) con la crescita della società dell’informazione: mass media, comunicazione telefonica, pubblicità e marketing; dal 1975 prende avvio la rivoluzione informatica, con la commercializzazione del primo PC Altair 8800. In questo contesto Bill Gates fonda la Microsoft, mentre Steve Jobs e Wozniak mettono a punto nel 1977 Apple II . Alla terziarizzazione si accompagna la delocalizzazione dei posti di lavoro dalle aree più sviluppate a quelle più povere, con manodopera più economica, meno protetta e sindacalizzata; le grandi aziende si trasformano in compagnie multinazionali con sedi e impianti in tutti i continenti. Il fenomeno comincia in questo decennio e mostra una crescita impetuosa: nel 1960 i paesi in via di sviluppo detenevano il 38% dei posti di lavoro industriali del pianeta, negli anni Novanta si arriva ai 2/3. L’URSS rimane invece legata a un modello economico obsoleto, incentrato sull’industria pesante. 1975: con la conferenza di Helsinki 33 paesi europei dell’est e dell’ovest convengono sui principi dell’inviolabilità dei confini, della non ingerenza negli affari interni, della rinuncia all’uso della forza nelle controversie internazionali. L’Europa rivendica il diritto di non essere il semplice luogo di scontro di una guerra fredda combattuta sopra la propria testa. Si delinea un’idea di Europa che si affranca dalla logica bipolare. La presidenza Carter negli USA dal 1976 al 1980 sembra ammorbidire la politica estera americana. Nel 1979 lo shah Rezha Pahlavi, sostenuto per lungo tempo dagli USA, lascia il paese sull’onda di manifestazioni guidate dall’ayatollah (autorità religiosa sciita) Khomeini, portando alla fondazione di una repubblica islamica fondata sui precetti del Corano. L’ambasciata USA a Teheran viene tenuta in ostaggio da manifestanti antiamericani che richiedono l’estradizione dello shah fuggito negli USA. 1979: Occupazione URSS dell’Afghanistan per timore che la rivoluzione iraniana si espanda: disastro militare e raffreddamento dei rapporti con gli USA dopo una fase di distensione. L’URSS si ritirerà nel 1988 lasciando il paese nella morsa di una guerra civile, esacerbata dal sostegno USA ai mujahidin afghani, la cui azione di guerriglia diventa uno strumento di propaganda e mobilitazione del fondamentalismo del mondo arabo. Iniziati all’insegna della distensione, gli anni Settanta si chiudono con rinnovati segnali di guerra e instabilità, accentuati dalla crisi petrolifera che aveva evidenziato le debolezze dello sviluppo impetuoso dell’età dell’oro. Movimenti femministi e diritti delle donne La conquista del diritto di voto per le donne (tra i primi paesi troviamo la Nuova Zelanda nel 1893, la Finlandia nel 1906, la Norvegia nel 1913) fu un traguardo raggiunto faticosamente dalle suffragiste. La prima guerra mondiale segnò una tappa cruciale, in quanto il coinvolgimento delle donne nel lavoro di fabbrica ne legittimò le rivendicazioni. Dopo il conflitto infatti molti paesi concessero il voto alle donne (GB, Austria, Germania, Polonia, USA, Russia). Il secondo conflitto mondiale, che ancora una volta coinvolse in molte forme le donne, consentì di allargare ulteriormente il diritto di voto in altri paesi come l’Italia, ma ciò non impedì l’affermazione di un modello tradizionalista che privilegiava il ruolo femminile di moglie e madre, modello codificato anche a livello giuridico. A metà degli anni Sessanta il voto alle donne era una conquista generalizzata in tutti i continenti, con l’eccezione della Svizzera e del Bangladesh, di alcuni paesi del Medio Oriente e africani. Negli anni Sessanta e Settanta le rivendicazioni delle donne si estesero alla conquista di diritti di cittadinanza quali il diritto all’istruzione, la tutela del lavoro femminile, l’acquisizione della piena capacità giuridica, in considerazione anche del dato di fatto dell’ingresso strutturale e non contingente delle donne nel mercato del lavoro, in particolare nei settori dei servizi. Il femminismo di questi anni si ispirava a un testo di Betty Friedan del 1963, La mistica della femminilità, un successo editoriale che costituì il punto di partenza di un nuovo movimento femminista dopo quello avviato dalle suffragiste a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il libro esprimeva la frustrazione delle donne del ceto medio chiuse tra le mura domestiche e condannate al ruolo di mogli e madri consumatrici nella società del benessere (un romanzo poi diventato film sul tema è Revolutionary Road di Richard Yates) e aveva come interlocutrici le donne che avevano fatte proprie le rivendicazioni dei movimenti per i diritti civili degli afroamericani e dei gruppi pacifisti. La Friedan rivendicava la parità tra i sessi (non era ancora stata acquisita la differenza tra sesso e genere) con lo slogan “il personale è politico”, che evidenzia come il movimento femminista mettesse in discussione la dicotomia tradizionale pubblico-privato, fondata anche sulle distinzioni di genere. Costumi sessuali, ruoli familiari, convenzioni quotidiane furono sottoposti a critica serrata. Negli anni Settanta il concetto di differenza sessuale consentì il superamento dell’orizzonte emancipazionista della parità dei diritti, cogliendo la dimensione della valorizzazione delle differenze all’insegna di un progetto di società che tenesse conto dei tempi e della sensibilità femminile. Si moltiplicarono le esperienze di promozione della conoscenza di sé attraverso i gruppi di “autocoscienza” che puntavano ad affrancarsi dagli schemi maschili. In Italia nel 1970 furono introdotti matrimonio civile e divorzio, quest’ultimo confermato dal referendum del 1974. Nel 1975 una riforma del diritto di famiglia sancì l’uguaglianza dei coniugi e furono istituiti i consultori familiari. Nel 1977 si stabilì per legge la parità tra uomo e donna in ambito lavorativo. Nel 1981 un referendum ratificò la legalizzazione dell’aborto, approvata nel 1978. Analoghi provvedimenti vennero presi in altri paesi occidentali. L’ONU lanciò, dopo l’anno internazionale della donna (1975), il decennio della donna (dal 1976), avviando molteplici iniziative contro la discriminazione. I convegni internazionali di Copenhagen nel 1980 e Nairobi nel 1980, con la partecipazione di donne di 150 paesi, denunciarono il silenzio sullo sfruttamento sessuale, lo stupro, l’incesto, l’abuso di autorità, il lavoro sottopagato, l’analfabetismo, i matrimoni forzati, gli infanticidi e le mutilazioni sessuali. (Ad esempio, nel 1980 le donne svolgevano i 2/3 delle attività lavorative del pianeta, ma guadagnavano il 10% dei redditi e possedevano l’1% dei patrimoni immobiliari e mobiliari.) Negli anni Novanta si inclusero tra i diritti umani i diritti delle donne e l’uguaglianza dei generi (con le conferenze internazionali di Vienna e Pechino); le violenze contro le donne furono considerate violazioni dei diritti umani. Resta da allora lo snodo del relativismo culturale che, nel nome del rispetto delle differenze, si traduce spesso in forme di tolleranza nei confronti di pratiche che alcuni giudicano negatrici dei diritti delle donne. [In Italia è solo dal 1996 che lo stupro non è più considerato un reato contro la morale (come prevedeva il codice Rocco che risaliva al periodo fascista), ma contro la persona.] Anni Ottanta Anni Ottanta USA: Il decennio si apre con la vittoria di Ronald Reagan alle elezioni presidenziali. Dopo la presidenza Carter, faticosamente orientata al disimpegno internazionale (pur con le difficoltà determinate dalla politica estera aggressiva di Mosca e dall’emergere di nuovi soggetti antiamericani come l’Iran di Khomeini), Reagan promette di far tornare grande l’America, sollecitando l’orgoglio nazionale messo a dura prova dalla crisi economica avviatasi negli anni Settanta. La politica economica diverge dalle teorie keynesiane, assumendo come priorità non più la lotta alla disoccupazione, ma la lotta all’inflazione, anche a costo di tagli alle spese sociali e ai posti di lavoro. Il mercato si apre sempre più all’iniziativa privata attraverso una progressiva deregulation (eliminazione di vincoli sindacali, amministrativi, contabili, e fiscali) e una diminuzione del carico tributario dei ceti medio-alti. Nel contempo lo stato riduce le spese nei settori del welfare e investe in armamenti. Si tratta di una tendenza neoliberista (definita Reaganomics) che perdura sino al nuovo millennio, in cui individualismo e paura del nemico (l’URSS è vista come l’impero del male) sono ingredienti fondamentali. Una nuova generazione di yuppies (young urban professionals), consacrati al lavoro e alla carriera, sostituisce la generazione idealista, impegnata e talvolta velleitaria del ’68. In GB dal 1979 la prima ministra Margaret Thatcher attua una politica di deregulation per certi aspetti simile, privatizzando molte industrie di stato e entrando in conflitto con le organizzazioni sindacali. Anche la Thatcher fa appello all’orgoglio nazionalistico, all’iniziativa individuale e alla competizione (“There is no such thing as society”). Le politiche neoliberiste sortiscono effetti sul fronte dell’inflazione, ma il dibattito è tuttora aperto circa la loro efficacia nel risanamento dei conti pubblici e nel sostegno della domanda interna. In particolare, si tratta di politiche che accentuano le differenze sociali e la sperequazione, evidenziando le carenze del mercato nel ridistribuire la ricchezza e produrre una crescita armonica della società. I rapporti USA-URSS vengono complicati dalla fase di transizione che si apre ai vertici del Cremilino con la morte del leader Breznev (la cosiddetta “era Breznev” dura dal 1964 al 1982) e dei suoi successori Andropov e Cernenko (1984 e 1985). Con Breznev aveva prevalso un conservatorismo che aveva paralizzato lo sviluppo della società grazie a un compromesso tra i principali gruppi dominanti all’insegna della disciplina di partito che accentua la distanza tra élite al potere e società. L’URSS era attanagliata da una prolungata caduta del tasso di crescita, aggravata dal peso crescente delle spese militari che avevano impedito investimenti nell’innovazione tecnologica. L’economia sovietica era caduta in uno stato di obsolescenza e stagnazione che aveva richiesto anche un inasprimento della repressione del dissenso provocato dalla crisi economica. Nell’ambito della politica estera, ai segnali di distensione degli anni Settanta succedono ora segnali di aggressività (vedi invasione Afghanistan). In ragione del disorientamento politico ed economico sovietico, Reagan lancia nuovi piani di riarmo (tra cui il famoso “scudo spaziale”, un sistema integrale di armi satellitari a tecnologia laser), una sfida costosa che l’URSS fatica a eguagliare e che rischia di impoverire ulteriormente il paese erodendo le già fragili basi di consenso del regime. Il successore di Cernenko, Mikhail Gorbacev, apre un dialogo con Reagan che si concretizza con un incontro a Ginevra nel 1985. Da lì prende avvio un piano di disarmo, un allentamento del clima repressivo sovietico e il ritiro dall’Afghanistan del 1989. E’ in questo contesto che nei paesi controllati dall’Urss prende forma un ciclo di rivoluzioni perlopiù pacifiche che interessa la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Bulgaria; solo in Romania la transazione è violenta a causa della intransigenza del regime di Ceausescu. Il caso polacco è particolarmente interessante: un focolaio di ribellione si era già aperto sul finire degli anni Settanta nella forma di una organizzazione operaia (Solidarnosc) che rivendicava libere associazioni sindacali e aveva trovato il sostegno della Chiesa cattolica e del nuovo papa polacco Karol Woytila (papa dal 1979 al 2005), Giovanni Paolo II, primo papa non italiano da 450 anni. L’emancipazione dei paesi dell’est europeo è associata nell’immaginario collettivo alla distruzione del muro di Berlino, avvenuta nel 1989, cui segue l’unificazione delle due Germanie. Anche sul fronte interno Gorbacev avvia una stagione di riforme all’insegna della ristrutturazione (perestrojka) e della trasparenza (glasnost). La prima mira a rivitalizzare l’economia favorendo la nascita di un mercato più aperto anche alla libera iniziativa. Con la seconda si tenta di deideologizzare l’informazione e favorire un maggiore pluralismo. Se a livello internazionale il nuovo clima viene guardato con favore, all’interno dell’Unione Sovietica viene accolto con diffidenza e resistenze dalla nomenklatura del partito, contro cui montava il dissenso dell’opinione pubblica. Gorbacev fatica a mediare tra ala riformatrice (rappresentata da Boris Eltsin) e ala reazionaria del partito; anche l’economia, in bilico tra pianificazione e mercato, non decolla. La fragilità politica consente un rigurgito dei nazionalismi dei paesi baltici, della Moldavia, dell’Armenia, della Georgia, dell’Ucraina, che mostrano insofferenza per la tendenza imperiale e russocentrica da sempre evidenziata dal cremilino. Nell’agosto del 1991 la risposta popolare fa fallire un tentativo di colpo di stato posto in essere dall’ala reazionaria, che tenta di deporre il presidente Eltsin regolarmente eletto. Nei giorni successivi ben otto repubbliche si proclamano indipendenti e a dicembre viene decretata la fine dell’URSS. Da lì a poco anche la Yugoslavia, già indebolita nel 1980 dalla morte di Tito, si disgregherà, sprofondando in una feroce guerra etnica. Un esito diverso hanno le vicende cinesi. Con la ripresa del dialogo con gli USA il commercio estero era ripreso, così come la produzione industriale (da ricordare che la Cina non aveva investito massicciamente nell’industria pesante come invece aveva fatto l’URSS). La morte di Mao Zedong nel 1976 apre la crisi per la successione che vede la sconfitta iniziale di Deng Xiaoping e l’affermazione di Hua Guofeng, indicato dallo stesso Mao come suo successore. L’instabilità politica tuttavia e permane e Guofeng denuncia un tentativo di colpo di stato a opera della cosiddetta “banda dei quattro”, espressione della fazione più radicale della rivoluzione culturale. Nel 1981 si conclude il drammatico processo a loro carico e il potere passa formalmente a Deng Xiaoping, esponente moderato favorevole a un parziale liberalizzazione dell’economia unita a un saldo controllo politico. La modernizzazione del paese prevede un rilancio dei settori industriale, agricolo, scientifico e militare. Nelle università vengono introdotti test di selezione, le retribuzioni diversificate in base al merito, nelle campagne vengono abolite le comuni e reintrodotta la proprietà privata della terra. I contadini sono vincolati a consegnare allo stato una certa quantità di prodotti agricoli e possono vendere il resto sul libero mercato. La modernizzazione produce gli effetti sperati: il PNL raddoppia, aumenta il reddito pro capite, il paese si apre ai capitali stranieri, si creano forti differenziazioni sociali. I valori di riferimento legati all’ideologia e al partito entrano in crisi. Nel 1989, in concomitanza con una visita di Gorbacev, figura simbolo delle riforme, la piazza Tian’anmen si riempie di studenti che protestano per l’assenza di libertà; la risposta è durissima: la piazza viene invasa da carri armati seminando morti e feriti (300 secondo le fonti ufficiali, circa 7.000 secondo i mezzi di comunicazione occidentali). Segue una forte repressione nelle università. Deng muore nel 1997.