10 — focus on
Purcell,
un continente
da scoprire
Il destino travagliato
di «Dido and Aeneas»
di Enzo Restagno
Questo intervento, il cui carattere è volutamente frammentario, nasce da un’intervista realizzata a Venezia nel mese di febbraio 2010.
I
focus on
l primo argomento che vorrei toccare relativamen-
punto di vista tonale e inserirsi a creare un finale più armonioso. Nell’attuazione del progetto, Britten ci mise del
suo – ad esempio rivide i bassi e l’armonia – e la sua soluzione fu molto criticata, addirittura suscitando una diatriba che finì stampata nelle colonne del «Times». Fu dunque un’operazione controversa, accettata e discussa, che
è possibile andare a verificare e valutare grazie a un’incisione discografica molto rara. L’idea di inserire delle parti
che concludano in maniera più armoniosa il secondo atto è una soluzione corrente, che si trova anche in molti
altri interpreti. Fra questi vorrei ricordare almeno quella
realizzata dall’orchestra delle cosiddette Arts Florissants
di Parigi diretta da William Christie, particolarmente autorevole sul piano dello stile e della qualità. Ma non voglio qui addentrarmi in maniera eccessiva in questioni filologiche, che sono infinite e circa le quali esiste un’enorme letteratura.
Il destino di Dido and Aeneas fu piuttosto travagliato, curioso e interessante. Rappresentata un’unica volta men-
te a Dido and Aeneas di Purcell, riguarda la questione dell’incompiutezza, delle parti mancanti. Si tratta di un problema tutt’ora vivo,
che si ripresenta ogni volta che
quest’opera viene interpretata.
È infatti possibile ravvisare una
discrepanza abbastanza rilevante tra il libretto e la partitura: alcune parti di testo, ad esempio
un prologo, non risultano musicate, o perlomeno la musica non
è stata rinvenuta e non si è nemmeno in grado di stabilire se
Purcell l’abbia realmente scritta. Il punto più dolente di questa questione riguarda il finale
del secondo atto, durante il quale, in un recitativo molto nobile e drammatico, Enea annuncia
la sua partenza a Didone. L’atto finisce con uno stacco netto, venendo così a rompere quegli schemi di simmetria – essenziali non solo nel lavoro di Purcell ma anche in tutta l’opera di
quel periodo – ravvisabili invece negli altri atti, che prevedono
parti corali e altre danzate. Tale stravolgimento delle simmetrie ha sempre lasciato profontre Purcell era ancora in vita, cadde presto nel dimenticade perplessità, alle quali non si è mai riusciti a dare ritoio. Fu negli anni successivi che il maestro inglese assursposte efficaci. Un problema ulteriore scaturisce dal fatse alla fama, grazie a lavori quali King Arthur o The Fairyto che la partitura di cui si dispone è un manoscritto non
Queen, che vennero considerati dal pubblico risultati più
autografo, che risale a quasi cinquant’anni dopo la data
elevati rispetto a Dido and Aeneas. Bisognerà attendere il
della vera rappresentazione dell’opera, che avvenne nel
1700 per assistere alla ripresa di quest’opera, che avverrà
1689 nel collegio femminile di Chelsea. Unita alla rottuin una maniera molto singolare. Messa in scena al Lincora della simmetria, tale mancanza ha sempre inquietato
ln’s Inn Fields di Londra, fu rappresentata incastonandonon solo i critici ma anche e soprattutto i musicisti. Tra le
ne i tre atti tra l’uno e l’altro dei
molte proposte di soluzione vorcinque che compongono la pièce
rei ricordare quella pensata da
Venezia – Teatro La Fenice
di Shakespeare Misura per misura.
Benjamin Britten, probabilmenDido and Aeneas di Henry Purcell
E per riempire il «buco» dell’atto
te la più importante e autorevomaestro concertatore e direttore Attilio Cremonesi
mancante, si decise di musicare il
le. Nel 1950 circa, Britten propoOrchestra e Coro del Teatro La Fenice
prologo, lavoro che, come già rise di colmare la lacuna utilizzanregia, scene, costumi e coreografia Saburo Teshigawara
levato, Purcell non aveva mai redo musiche dello stesso Purcell
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
alizzato. In questa forma l’opeestratte da altri suoi lavori, che
14, 16, 18 marzo, ore 19.00
ra riscosse un certo successo, aspotessero però convenire dal
20, 21 marzo, ore 15.30
solvendo anche a uno scopo didascalico: l’argomento di
Misura per misura, infatti, era piuttosto scabroso, e quindi
per una sorta di lezione di moralità funzionò bene l’inserimento di una pièce musicale come Dido and Aeneas.
La storia dell’opera si dipana dunque lunga e contrastata. Il pieno recupero di questo lavoro, la coscienza completa del suo grande valore musicale la si acquista molto
più tardi, agli inizi del Novecento, periodo in cui prendono il via interpretazioni importanti da parte non solo
di grandi musicisti ma anche di grandi registi, tra cui ad
esempio Gordon Craig.
La Dido di Purcell è stata definita l’opera più bella che
mai sia stata scritta tra Monteverdi e Mozart. Non è poco
ed è probabilmente vero: il pubblico infatti l’ama moltissimo. La musica che la compone è meravigliosa, e Purcell
ebbe il dono unico di saper far cantare la lingua inglese. E
ci riuscì stupendamente, grazie anche all’esperienza compositiva di una lunghissima serie di Song, di canzoni, nelle
quali si può cogliere la straordinaria operazione di meta-
bolizzazione che il compositore compì dei modelli italiani. Nel 1660 circa erano stati tradotti in inglese i cosiddetti Principi sulla tecnica del canto del Caccini, il che testimonia
come l’arte di far cantare la parola, di partire dalla sua pura fonicità e ampliarla nel canto fosse stata un’invenzione
del nostro Paese. Nel 1680 Purcell ha oramai ventun’anni
ed è già un grande musicista, dotato di un orecchio sensibilissimo nel cogliere questi stimoli, che lo portano a impadronirsi ad esempio della tecnica della ripetizione delle parole allungando l’arcata espressiva della frase, tratto
tipico della musica italiana fin dagli inizi. Questo invece
non si riscontra nei Song che Purcell aveva scritto in precedenza seguendo la tradizione popolare inglese, che era
più semplice e al tempo stesso più vivace dal punto di vista ritmico. E in questi due contenitori di stile vanno a
collocarsi le grandi pagine liriche di Dido and Aeneas: da
un lato abbiamo il Song di origine popolare, quello appun-
to più ritmico, mentre dall’altro è possibile ravvisare il genere dei Song declamati di origine italiana, in cui si verifica un’attenta opera di meditazione sul potere sonoro della parola in sé. Le arie più nobili, come ad esempio il grande lamento di Didone, sono tutte caratterizzate da questo
uso della lingua e quindi dall’abile ripetizione modellata
sull’esempio italiano, che già allora a Londra si era imposto in maniera significativa.
La grandezza e il talento di Purcell sono unici anche nel
saper cogliere quelli che sono gli aspetti atmosferici: basti pensare al secondo atto, alle scene della caccia, a quelle che si svolgono nei campi, dove si apprezzano sia una
sorta di sublime leggerezza, che circola in una musica lieve, volatile, leggerissima, sia momenti in cui tutto va a
intensificarsi.
Ancora una volta senza sprofondare nelle sabbie mobili della filologia, vorrei infine porre l’attenzione sull’elemento soprannaturale che caratterizza l’opera. Si pensi
al momento in cui, poiché così gli viene ingiunto da un
messaggero celeste, Enea viene
costretto a riprendere il mare e
ad abbandonare Didone. Uomo
di fede e coraggio, china il capo
e ubbidisce, sia pur a malincuore. In realtà tutto ciò è un perfido gioco tramato dalle streghe,
che incombono in primo piano con cori che inneggiano e dichiarano quella che è la loro natura: queste creature – considerate fautrici di complotti terribili, mortali, che avranno esiti funesti – godono nel fare il male,
e le disgrazie altrui sono per loro fonte di benessere e soddisfazione. La presenza delle streghe
è tipica della tradizione teatrale
inglese, non esclusiva ma molto diffusa: si pensi ad esempio
all’importanza che queste figure
hanno nel Macbeth di Shakespeare e poi, a tanti anni di distanza,
anche in quello di Verdi. Le perfide intenzioni di questo mondo
soprannaturale rispecchiano di
fatto vicende politiche: le streghe sarebbero infatti il simbolo
dei papisti, delle congiure del clero romano ai danni della riformata Inghilterra. In quegli anni il clima religioso era ancora caratterizzato da una forte turbolenza e da
molte tensioni. Ma se all’epoca di Shakespeare tutto ciò
veniva visto come qualcosa di drammatico e di terribile,
nell’opera di Purcell, non volendo insistere e sostare troppo a lungo in questa visione negativa, vi è piuttosto una
sorta di scivolamento verso un registro che si muove tra
il comico e il grottesco. E grazie all’uso di stravolgimenti timbrici, facendo cantare per esempio la regina delle
streghe in un registro spesso molto grave, Purcell scrive in questo senso delle pagine davvero straordinarie. ◼
Nelle immagini:
Dido and Aeneas, bozzetti di Hein Heckroth, Münster, 1926.
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Nahum Tate,
poeta ovidiano
e sentimentale
Un ritratto del librettista
di «Dido and Aeneas»
I
di Flavio Gregori
l poeta e commediografo Nahum Tate nacque in Irlanda intorno al 1652 da Faithful e Katherine Teate (Nahum soppresse la «e» dalla grafia del cognome). Non molto è noto della sua infanzia, se non che probabilmente dovette viaggiare spesso fra Inghilterra e Irlanda con il padre, poeta e prelato protestante dalle for-
ti simpatie puritane. Nahum Tate venne educato nel prestigioso Trinity College di Dublino, che più tardi ricordò
in un’ode, musicata da Purcell nel 1694. Stabilitosi a Londra, Tate entrò presto nei circoli letterari più importanti
della capitale. Le sue doti di poeta e traduttore e la sua fedeltà nei confronti dei sovrani che si erano nuovamente
insediati sul trono d’Inghilterra, dopo la Rivoluzione puritana, gli guadagnarono l’attenzione della corte e gli permisero di mettere a frutto i propri talenti. Attraverso il
suo principale mecenate, il conte di Dorset, Tate entrò in
rapporto con il più importante scrittore inglese del tempo, John Dryden, con il quale collaborò scrivendo alcune
versioni delle Eroidi e delle Epistole di Ovidio.
Ovidio sembra essere stato una delle maggiori fonti
d’ispirazione per Tate, che tradusse anche i Rimedia amoris, alcuni libri delle Metamorfosi, e il frammento del poemetto Medicamina faciei feminae. L’influenza di Ovidio, uno
degli autori classici più venerati dalla cultura inglese della Restaurazione e del primo Settecento, si fa sentire anche nel libretto Dido and Aeneas, che – certo – è tratto dal
quarto libro dell’Eneide di Virgilio ma pone tutta la sua attenzione sul tema ovidiano, svolto nella settima epistola
delle Eroidi, dell’amore elegiaco e tragico di Didone, anziché sul destino dinastico di Enea.
Tate aveva iniziato la sua carriera di commediografo,
undici anni prima del Dido and Aeneas, proprio partendo da una riscrittura dell’episodio di Didone ed Enea,
con Brutus of Alba, or The Enchanted Lovers (Bruto di Alba,
ovvero Gli amanti incantati, 1678), tragedia che narra le vicende di Bruto, nipote di Enea e mitico primo re di Britannia, ma si concentra
soprattutto sui complicati amori dell’eroe per
una nobildonna. Per i
suoi successivi lavori teatrali, dopo l’insuccesso di una seconda tragedia, The Loyal General (Il
generale fedele, 1679), Tate decise di concentrarsi
soprattutto sugli adattamenti da Shakespeare. Il
bardo inglese, da quando Dryden lo aveva rilanciato sulle scene con
la sua versione dell’Antonio e Cleopatra, intitolata
All for Love (Tutto per amore, 1677), era diventato
oggetto delle attenzioni
dei commediografi della
Restaurazione che lo volevano adeguare al gusto
raffinato e razionalista
dei canoni neoclassici. I
tre adattamenti di Tate,
dal Riccardo II, King Lear
e Coriolano, sono ineguali per successo e risultati. Il primo venne censurato per ben due volte a
causa di un fortuito ma
quantomai improvvido
impigliarsi del testo nelle feroci discussioni sulla successione dinastica che stavano dividendo l’Inghilterra, alla ricerca di un legittimo
erede di Carlo II, regnante senza figli. Al suo involontario sostegno della ribellione antimonarchica, Tate pose
poi rimedio con una riscrittura fortemente politica del
Coriolano, The Ingratitude of a Commonwealth (L’ingratitudine di
un Commonwealth, 1682), trasformando l’eroe del dramma
shakespeariano in un’allegoria del duca di York, il più diretto successore a Carlo II e futuro sovrano d’Inghilterra con il nome di Giacomo II. Come detto, Tate non fece mai mancare il suo tributo di fedeltà al sovrano legittimo, anche se ben presto smise di appoggiare Giaco-
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mo a causa delle sue aspirazioni assolutiste e filocattoliche, per sostenere invece la causa di Guglielmo d’Orange, divenuto Guglielmo III d’Inghilterra dopo la «rivoluzione gloriosa» del 1688 che depose Giacomo. La nuova
e convinta fedeltà a Guglielmo, salutato da Tate come il
difensore delle libertà costituzionali, gli procurò nel 1692
l’elezione alla carica di poeta di corte o «poeta laureato»,
la massima onorificenza per uno scrittore inglese.
Tornando agli adattamenti da Shakespeare, se i due sopra menzionati furono un fiasco per Tate, il primo a causa
della censura, l’altro per la fredda accoglienza del pubblico, la riscrittura di Re Lear gli procurò invece un enorme
successo. Come gli altri commediografi neoclassici, Tate si era incaricato di rifinire i testi shakespeariani secondo i canoni estetici e sociali allora imperanti. Come egli
stesso scrive nella dedica del suo King Lear (1680-1681),
Tate aveva trovato «un mucchio di gioielli sparpagliati e sporchi» e si era
prefisso di levigarli, dotandoli di uno stile più regolare,
di una maggiore simmetria nella distribuzione dell’azione, e di una moralità poetica
fondata sulla giustizia
distributiva. Inoltre
aveva aumentato a
dismisura il ruolo
dei sentimenti melodrammatici, al punto da inventare di sana
pianta una love story fra Edmund e Cordelia, trasformare
Edgar in un tipico libertino della Restaurazione che tenta di sedurre e
violentare la giovane eroina, e
infine introdurre un happy ending in
cui Lear sopravvive e abdica al trono in favore di Edgar, che a sua volta sposa l’amata Cordelia facendola regina. Non deve sorprendere che in epoche successive il Lear sarebbe diventato uno degli esempi per eccellenza di come il neoclassicismo sfigurava le opere di
Shakespeare per adattarle ai propri gusti. Il termine Tatification, «tatificazione», sarebbe divenuto sinonimo per
descrivere la ridicola pretesa di «migliorare» le opere del
grande bardo. Tuttavia alcune soluzioni melodrammatiche adottate da Tate erano, e restano interessanti.
In Dido and Aeneas, libretto composto per le allieve della scuola femminile di Josias Priest a Chelsea ma forse già
in parte messo in scena per le celebrazioni per l’incoronazione di Guglielmo III (1688), il sentimentalismo patetico è portato ai massimi risultati: la regina di Cartagine
diviene la vera eroina del testo, un personaggio traboccante di passione dolorosa e portavoce di una pietas piena di misericordia, dunque dalla parte della civiltà e non
del mondo «barbaro» come accadeva in Virgilio. Infatti, in Tate la barbarie è trasferita nel mondo misterioso e
malvagio delle streghe che preparano la distruzione del
regno di Cartagine. Forse le streghe – come fa intendere
l’epilogo al dramma composto da Thomas D’Urfey – potrebbero essere un’allusione satirica alla nefasta influenza dei sobillatori papisti che avevano traviato il re da poco deposto, Giacomo II (Enea), facendogli dimenticare
l’amore dovuto alla sua nazione (Didone). Che questa interpretazione politica delle streghe sia accettabile o meno, esse restano una delle invenzioni più strabilianti del
testo di Tate, insieme al patetismo della regina. Nelle loro
parole e nei loro gesti risuonano infatti gli echi di quella
cultura bassa e carnevalesca che costituisce il controcanto della ricercatezza classicheggiante della Restaurazione. Dido and Aeneas così riesce a raggiungere vette liriche fatte di voluttà, elegia, abbandono,
e al contempo a
scendere nelle strade, fra
le grida popolane: una
tensione
fra il pathos
e il bathos
sperimentata da
Tate anche in alcune commedie che
molto devono all’impertinenza robusta della farsa, a
cui egli dedica anche un saggio fondamentale (1693).
Dopo aver scritto
un’importante versione dei
salmi di David e essersi dedicato a una vasta raccolta antologica di
poesie su argomenti religiosi, fra il 1696 e
il 1705, Tate ebbe la sventura di concludere la sua vita in
malattia e fra insormontabili problemi economici. Rinchiuso in prigione per debiti, vi morì abbandonato da tutti, il 30 luglio 1715. Alla sua morte seguì un’immeritata
fama di «poetastro», attribuitagli con durezza eccessiva
dagli scrittori settecenteschi e dal disprezzo ottocentesco per le sue versioni da Shakespeare. Ma i suoi testi migliori, tra cui proprio Dido and Aeneas, riscattano ampiamente Nahum Tate da tanta fama negativa, che talvolta sembra uscita da un intruglio delle sue streghe malvagie e schiamazzanti anziché da un giudizio equanime. ◼
Sopra: John Dryden e William Shakespeare.
Nella pagina precedente: Andrea Sacchi (1599-1661)
Didone abbandonata (foto Maicar Förlag GML).
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Didone,
regina illusa
e abbandonata
L
a dolorosa storia di Didone, narrata nel IV libro
dell’Eneide, è probabilmente la più sofferta e straordinaria di tutta la letteratura classica, che pure
grazione, oltre a richiamare alla memoria la saga crudele che ha visto opporsi le truppe degli occupanti Achei e
l’esercito assediato di Priamo. Didone ascolta, viene rapita dal racconto, e progressivamente, senza avvedersene, si innamora di quell’eroico figlio di Venere. Sospinta dalla sorella Anna – una delle tante figure sororali che
compongono la mitologia grecoromana, e che, come insegnano le coppie Antigone/Ismene ed Elettra/Crisotemi, condividono, o cercano di condividere il destino funesto delle eroine cui sono legate – a rinunciare alla pregressa vedovanza e a unirsi per sempre allo straniero, Didone apre gli argini alla passione, che ancora cercava di
reprimere dentro di sé. Virgilio ci offre una descrizione
del suo stato d’animo che, nella sua enorme potenza lirica, delinea un quadro quasi «patologico»:
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Arde l’infelice Didone e vaga per tutta la città,
invasata; quale una cerva colpita da una freccia,
che un pastore inseguendola incauta trafisse con dardi
da lontano nei boschi cretesi, e le lasciò dentro l’alato ferro,
ignaro; quella percorre in fuga le selve e le balze
dittee; ma non si distacca dal fianco l’asta mortale.
Ora conduce Enea con sé attraverso le mura,
e mostra le ricchezze sidonie e la città preparata;
comincia a parlare, e a metà del discorso s’arresta;
ora sul calare del sole desidera un nuovo convito,
e chiede, folle, di udire ancora una volta i travagli
di Troia, e ancora una volta pende dalle labbra del narratore.
Poi, appena si congedano, e la luna a sua volta oscurandosi
nasconde la luce, e le stelle calanti conciliano il sonno,
si tormenta sola nel vuoto palazzo, e giace sui tappeti
abbandonati; lui, lontana, lontano ascolta e vede;
o tiene in grembo Ascanio, presa dall’immagine
del padre, per cercare di ingannare così l’indicibile amore.1
più volte si è concentrata sulle vicende tragiche di amori
sfortunati e declinati al femminile, basti pensare all’addio
di Andromaca a Ettore, cantato nel XXII libro dell’Iliade, o alla parabola drammatica di Medea, abbandonata
dall’uomo per il quale aveva a sua volta abbandonato tutto, patria, famiglia e identità.
Ma la regina cartaginese, nella sua folle corsa verso la
morte, possiede qualcosa in più, qualcosa che immediatamente suscita l’adesione emotiva del lettore contemporaneo. Incarna un sentimento assoluto, incapace di mediazioni, irreversibile, che si trasforma nel suo opposto, cioè
in un odio altrettanto assoluto e irreversibile.
Come è a tutti noto, Enea, nel suo viaggio da Troia all’Italia, dove il volere divino lo spingeva per fondare quella che sarebbe diventata in futuro la grande città
di Roma, approda sulle coste libiche, accolto con amicizia e antico senso dell’ospitalità da colei che, donna sola,
governa quei luoghi marini. Il «pio» Enea narra alle sue
orecchie bendisposte l’epopea sua e del suo popolo, le peripezie di un viaggio che ha le caratteristiche di una mi-
I sintomi dell’innamoramento, magistralmente messi in
evidenza dal poeta, sono colti da Giunone, tradizionale nemica della stirpe dardanide, che escogita un imeneo
clandestino tra la monarca sidonia e il figlio di Anchise,
silenziosamente celebrato in una spelonca presso la quale i due amanti si erano messi al riparo dalla tempesta. Ma
la moglie di Giove non si limita a ordire un matrimonio
che dovrebbe fatalmente distogliere Enea dal suo compito principale, erigere un nuovo regno in terra italica e rinverdire i fasti del popolo troiano: la dea infatti sparge la
Fama ai quattro venti, la incarica di descrivere i due innamorati abbandonati a «reciproche mollezze»2 e in preda a
una «turpe passione»3. Senza riassumere la trama nei particolari, trattandosi di una vicenda da tutti conosciuta, ci
limitiamo a dire che Enea è indotto dal destino – sotto
forma di emissario celeste – a lasciare il regno offertogli
dalla regina e, nella sua pietas, obbedisce agli dei e si appresta a partire. E, come si può notare nei versi seguenti, l’eroe non brilla certo per il suo coraggio, tentando un
po’ maldestramente di nascondere la decisione presa, e
mettendo in atto una tecnica di dissimulazione adoperata con successo da suoi predecessori illustri come Odisseo e Giasone:
Enea ammutolì smarrito a tale visione.
I capelli si drizzarono per l’orrore, la voce si arrestò nella gola.
Arde di fuggire e di lasciare le dolci terre,
attonito all’alto ammonimento e all’ordine degli dei.
Ahi, che fare? con quali parole oserà
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quando me l’avrà concessa, la ricambierò con l’aggiunta
[ della morte.5
Il IV libro dell’Eneide è insomma il canto di Didone, la
parabola immutabile di un amore assoluto e impossibile,
che sfocerà nell’unica alternativa alla mercè dell’amante tradita, cioè la morte, dopo aver maledetto Enea e trasformato il suo sentimento in un odio perenne e indelebile. Il poeta delle Bucoliche ne forgia un ritratto straordinario, che analizza ed evidenzia tutti i contrastanti stati
d’animo, le incertezze prima, il dolore in seguito. Da una
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circuire la regina in delirio? come inizierà il discorso?
Divide il veloce animo di qua, di là,
e lo trae in diverse parti e lo volge a ogni espediente.
Questa a lui che esitava sembrò la decisione migliore:
chiama Mnesteo e Sergesto e il forte Seresto:
apprestino in silenzio la flotta e raccolgano i compagni
sulla riva, preparino gli attrezzi e dissimulino la causa
di quei mutamenti; egli frattanto, mentre la dolcissima
Didone, ignara, non pensa che un amore così grande s’infranga,
tenterà la via, il momento più agevole di parlarle,
il modo più adatto all’impresa.4
Ma questo comportamento si rivela infine vano e inutile, perché gli occhi innamorati di Didone comprendono
immediatamente il proposito del novello sposo. E qui si
apre forse la più bella e moderna parte di questo strepitoso canto d’amore. Dimenticata la propria regalità, la pulcherrima Dido mette da parte orgoglio e nobiltà, si umilia
e giunge a supplicare ciò che supplicano tutti gli amanti
abbandonati: tempo. Un tempo che in cuor suo sa già che
le verrà negato, ma che per lei è essenziale per procrastinare indefinitamente il momento dell’addio:
Va’, sorella, e implora
il superbo nemico: non io con i Danai in Aulide giurai
di distruggere il popolo troiano, o mandai la flotta a Pergamo,
né violai le ceneri e i Mani del padre Anchise;
perché negli orecchi crudeli non accoglie le mie parole?
Dove corre? Conceda un estremo dono all’amante
sventurata: aspetti una facile fuga e favorevoli venti.
Non imploro l’antico connubio, che egli tradì,
e neppure che si privi del bel Lazio e rinunzi al regno;
poco tempo chiedo, requie e intervallo al furore,
finché la mia sorte m’insegni a soffrire vinta.
Quest’ultima grazia imploro – abbi pietà della sorella –;
parte la visceralità della passione, dall’altra motivazioni
che si sforzano di essere razionali, e che – proprio per
questo – sono rifiutate con sdegno. Virgilio ci consegna
una donna sola, disperata, preda di una sofferenza indicibile e ingiusta. Tutto il resto passa in secondo piano, così come le pressanti richieste e lamentele dei pretendenti
e gli obblighi inderogabili cui è chiamato Enea. Al centro
di questi più di settecento versi non c’è una vicenda politica – anche se è chiaro a tutti che la separazione tra Didone ed Enea diverrà la causa dell’infinita guerra tra Roma
e Cartagine – ma il ritratto dolente di una solitudine insopportabile, cui soltanto la morte può porre fine. (l.m.) ◼
1. Eneide, Quarto Libro, vv. 69-85. Nelle citazioni si segue la traduzione di Luca Canali tratta da: Virgilio, Eneide, Mondadori, Milano 1991.
2. V. 193.
3. V. 194.
4. Vv. 279-294.
5. Vv. 424-436.
Sopra: Francesco Solimena, Didone riceve Enea (1720 circa, olio su
tela, 207 x 310 cm National Gallery, Londra).
Nella pagina a fianco: Peter Paul Rubens, La morte di Didone,
(circa 1640, olio su tela, Museo J.P. Getty, Los Angeles).
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Saburo Teshigawara,
un viaggiatore
nello spazio,
nel tempo, nel corpo
Il coreografo giapponese
affronta l'opera di Purcell
focus on
U
di Elisa Guzzo Vaccarino
n maestro orientale di oggi per
un capolavoro occidentale di ieri:
quello che potrebbe sembrare un
incontro singolare è in realtà frutto dell’attrazione reciproca di due mondi che possono esistere, in quanto ovest ed est, solo
l’uno in virtù dell’altro. Un incontro perfetto per Venezia, porta aperta sul mondo.
Saburo Teshigawara, giapponese ben noto in Europa da Berlino dove ha una base
operativa importante al nostro Paese, ha accolto l’invito del Teatro La Fenice di Venezia per allestire in marzo, firmando in toto
regia, coreografia – per sette dei suoi danzatori – scene, costumi e luci, un’opera ammaliante come Dido and Aeneas di Henry
Purcell, a quanto si sa rappresentata per la
prima volta nel 1689 con le ragazze della Josias Priest’s Boarding School a Chelsey, cenacolo londinese intitolato al suo direttore,
ballerino, didatta e coreografo di cui si conserva la scrittura di un garbato minuetto.
Non è superfluo chiedersi per quali motivazioni quest’opera di circa
un’ora, in tre atti, su
libretto che Nahum
Tate, uomo di teatro
dublinese, noto anche
per l’impegno come drammaturgo dei drammi shakespeariani, trasse
dal quarto libro dell’Eneide di Virgilio, abbia ispirato in anni recenti uno scelto manipolo di coreoautori contemporanei
dando luogo a versioni quanto mai
pregevoli, e tutte molto interessanti,
nella loro diversità peculiare.
Nel 2006 è toccato all’inglesescozzese Wayne McGregor, un talento definito in Gran Bretagna
«ballet outsider», gran campione di
destrutturazioni corporali, portare in
scena la sua lettura coreo-registica essenziale, luminosa, di Dido and Aeneas,
storia della passione tragicamente interrotta tra la regina africana di Cartagine
e il suo nobile amante, figlio della mitica Troia, opera allegorica, dove la
rottura amorosa può essere let-
ta anche come rottura politica. Senza dubbio, un debutto
molto fortunato alla Scala di Milano, mescolando i ballerini al coro, riproposto l’anno scorso alla Royal Opera
House Covent Garden di Londra, con una caratteristica
distintiva: la danza interviene, astratta e pura, atletica e
flessibile, negli intermezzi strumentali.
Nel 2005, sotto la direzione di Attilio Cremonesi, lo
stesso apprezzato esperto di musica barocca chiamato ora alla guida dell’orchestra dalla Fenice, e con musica aggiuntiva di Purcell, era stata l’immaginosa tedesca
Sasha Waltz, sul crinale tra danza e teatrodanza, ad affrontare a Berlino l’opera di Purcell muovendo cinquanta tra ballerini, cantanti – ogni voce con il suo danzatore corrispondente – e musicisti, a partire da un inci-
pit visualmente folgorante, con evoluzioni in una vasca colma d’acqua. La Waltz
non esita a inserire episodietti narrativi, anche umoristici, e usa l’«armamentario» tipico del Tanztheater, come il cross-dress, vale a dire i costumi
scambiati per uomini e donne, la parola gridata, il corpo contorto.
Ma prima ancora era stato l’eccentrico
«bad boy» statunitense Mark Morris a firmare nel 1989 a Bruxelles, dove era
succeduto a Maurice Béjart migrato a Losanna, una incisiva
edizione moderna di Dido and
Aeneas dove lui stesso era interprete tanto della Regina quanto
della Strega con l’intero cast di ballerini – ognuno come doppio in scena dei
cantanti e dei coristi in buca – in gonna pareo
nera unisex stile Martha Graham, la «Madre»
leggendaria del modern Usa. Anche qui i
ruoli maschili e femminili vengono indossati al di là del «genere» per farsi
universali.
Ma cosa attrae artisti contemporanei di punta come quelli citati a dare corpo a un’opera ba-
focus on — 19
cinetico, atletico, virtuosistico, per attingere a un incantamento ipnotico, di spettacolarità cristallina.
Oltre ai titoli firmati negli anni 2000 per il suo gruppo,
come Green con caprette in scena, Bones in Pages tra pareti di libri, Kazahana con tende-pioggia, Scream and Whisper,
programma misto a contrasti tematici e formali, Black
Water sull’enigmaticità di ciò che è invisibile, Substance, installazione poetica danzata, Miroku con la nevicata finale
di carta bianca nel buio, Double Silence con i suoi salti-voli
tra nuvole di polvere chiara, Mirror and Music da intendere come duplicazioni del mondo, Obsession, duetto ispirato al Buñuel di Un chien andalou, Teshigawara ha ricevuto
commissioni da altre compagnie di primo piano. La lista
è significativa: il Ballett Frankfurt del campione postclas-
nuova forma di bellezza, tra terra e cielo» con un linguaggio di danza proprio, che non somiglia né a quello della
tradizione classica giapponese, Kabuki o Nô, né al Butoh
nipponico, la «danza delle tenebre», moderna e postatomica, né prende a prestito tout court gli idiomi coreutici
euro-americani.
Teshigawara, maestro orientale del corpo che lievita
nella musica e nel respiro, come una «scultura d’aria» mescola suoni e luci, velocità e lentezza, tecnologia e artigianato sapiente, senza etichette, fin dal suo Absolute Zero del 1998, un «poema in danza» denso e trasparente su
musiche di Händel, Gurdieff, Mozart, Toru Takemitsu,
un capolavoro personalissimo che lo ha proiettato all’attenzione generale. Da quel momento ogni sua produzione si è fatta ammirare per rigore, eleganza, purezza, spesso nell’essenzialità del bianco e nero, con un’attenzione
raffinata alle luci – non a caso due suoi pezzi, Light Behind
Light e Luminous, vi alludono – e con un uso sorprendente
della materia – basta pensare alle sue camminate sui cocci
di vetro crocchianti, fragili e pericolosi insieme, in Glass
Tooth, recentemente ospite di RomaEuropa, l’ultima città
italiana in ordine cronologico a invitare Karas dopo Civitanova e Ferrara, che l’hanno chiamato ripetutamente nei
loro bei teatri. Una speciale atmosfera di sospensione della normale dimensione temporale è la cifra autoriale specifica di Saburo Teshigawara, che mostra tutta la fascinazione del movimento umano al di là del mero esercizio
sico William Forsythe, nel 1994, con White Clouds under
the Heels, poi la compagnia di Monaco di Baviera nel 1999
per cui ha riscritto una asciutta Sagra della Primavera stravinskiana, il balletto di Ginevra nel 2002 con Para-Dice e
nel 2006 con Vacant e l’Opéra di Parigi nel 2003 con Air.
È sicuro, dunque, che il coreografo di Tokyo saprà trovare un approccio originale a Purcell in un teatro d’opera
glorioso come quello veneziano, ma anche a un piccolo
brano con funzioni di ouverture, un quarto d’ora regolato sul divertissement elettro-acustico per nastro registrato Le rire (1964) di Maderna, nato a Venezia novanta anni fa e scomparso nel 1953 a Darmstadt, culla della straordinaria scuola musicale, che evoca immediatamente la
corrente multinazionale detta «seriale» e compositori come Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez,
Luciano Berio.
Per questo brano lo stesso Saburo si farà interprete in
prima persona al centro del suo piccolo gruppo, incarnando e contrappuntando le risate, lo sciabordio d’acqua, i rumori di cani e pennuti, che si annidano in questo animato mix di suoni intessuti con la stessa libertà di
spirito che distingue la leggerezza profonda di un raffinato performer-creatore, come Saburo Teshigawara. ◼
focus on
rocca potente – e lontana secoli da noi – come Dido and
Aeneas?
Un fatto evidente: l’opera pre-romantica appare assai
più consona alla sensibilità odierna rispetto a un Ottocento appunto romantico estraneo a una cultura laica,
postilluminista e multietnica come quella che intreccia
Occidente e Oriente ai giorni nostri, globali, «liquidi»,
trasversali al tempo e allo spazio.
Saburo Teshigawara, nato a Tokyo nel 1953, è una personalità emblematica, in questo senso. Formato a più arti, scultura, mimo e danza classica occidentale, è danzatore, coreografo, fotografo e videomaker e dal 1985 direttore della compagnia Karas, cioé corvi, fondata insieme
alla danzatrice Kei Myiata, mirando alla «ricerca di una
Nelle immagini: Dido and Aeneas nelle interpretazioni di Sasha
Waltz (Ferrara, Teatro Comunale, 2006), Wayne McGregor (Milano,
Teatro alla Scala, 2006), e Mark Morris (Washington, George Mason
University Center, 2008); nella pagina a fianco, Saburo Teshigawara.
20 — focus on
Emozioni
in partitura
Attilio Cremonesi
dirige
alla Fenice la «Dido»
focus on
«
L
di Patrizia Parnisari
a sua ispirazione si rivela franca, nuda, incisiva,
talvolta d’una rudezza primitiva, che dà nel secco e nello schematico; tal’altra d’una
ricchezza tutta interiore,
martellata da assidui travagli spirituali, pulsante
d’intensa vitalità». Così
scriveva Antonio Capri
nel 1933 a proposito della Dido and Aeneas (16881689) di Henry Purcell.
Abbiamo chiesto ad Attilio Cremonesi, che dirigerà l’opera al Teatro
La Fenice, se condivide
questo giudizio.
Pensa che questa citazione si presti bene a descrivere
l’opera di Purcell?
Non conosco altra opera nella quale vengano
espresse emozioni così
contrastanti in poco più
di un’ora di musica. Purcell e il suo librettista Tate sono riusciti in questo
capolavoro a trasmettere le informazioni salienti dei primi quattro libri
dell’Eneide di Virgilio,
così come alcuni episodi
delle Metamorfosi di Ovidio. Proprio pensando
a ques’ultimo, ogni volta che leggo il testo e la
musica affidati a Belinda, sono convinto che
essa fosse innamorata di
Enea, e che questo amore venisse corrisposto.
Nella direzione, cosa punta
a mettere in evidenza?
Dat a l a « densit à »
d’emozioni di cui è carica questa partitura – si
passa dall’esaltante gioia alla più cruda disperazione, dalla promessa di un amore eterno alla morte – è
mia intenzione rendere intelligibile il processo che accompagna tutti quegli estremi affetti, sostenendo, e in
parte esaltando, i ruoli secondari. Il coro, nelle sue molteplici vesti di spettatore imparziale, catalizzatore d’eventi, «macchina» infernale e doglioso consenso famigliare
davanti alla morte di Dido, gioca un ruolo musicale e psicologico estremo.
Cosa pensa della versione che ne fece Benjamin Britten nel 1951
per il Festival of Britain?
Ahimé, purtroppo non la conosco. Anni fa avevo studiato la sua versione del Fairy Queen di Purcell e ne ero rimasto impressionato.
Che traccia ha lasciato, nelle Sue successive interpretazioni della Dido, la collaborazione nel 2006 con la «coreautrice» Sasha
Waltz?
Negli ultimi dieci anni ho lavorato con diversi coreografi e ognuno di loro ha lasciato una traccia importante
nel mio modo di vedere e sentire la musica, e percepire il
teatro. Sasha Waltz è un’artista straordinaria, con la quale ho potuto condividere tutte le mie idee su quest’ope-
ra. Durante le prove di quella produzione avevo l’impressione di vedere realizzato attraverso le sue coreografie il
mondo sonoro che avevo immaginato. Questa è la prima
volta, da allora, che mi accingo a lavorare al Dido and Aeneas con un altro coreografo .
Pur essendo probabilmente Dido and Aeneas la più antica opera inglese, rimane una delle poche del periodo a venire ancora oggi
rappresentata. Perché?
Prima di tutto devo dire che oggi non siamo più sicuri del fatto che Dido and Aeneas sia la più antica opera inglese. Di sicuro è pero una delle pochissime, di quel periodo, il cui testo venne completamente musicato. Per intenderci: la forma teatrale più amata dagli inglesi era la
«semiopera», ovvero la commedia nella quale venivano
inseriti alcuni episodi musicali, poiché, secondo il gusto
inglese, «solamente gli Dei o Semidei o le figure allegoriche cantano, gli uomini parlano».
Tra queste rarissime opere pervenuteci, il Dido è senz’ombra di dubbio
la composizione più geniale.
Per quale motivo questo tipo di
opera viene eseguita così raramente? È un problema che
riguarda principalmente il gusto del pubblico, o
ci sono anche motivi legati a particolari difficoltà musicali e poca consuetudine a frequentare quel periodo storico-musicale?
Negli ultimi decenni l’interesse
del pubblico verso il repertorio
«antico» è cresciuto costantemente.
Il Dido and Aeneas di
Purcell si è ritagliato uno spazio all’interno dei cartelloni dei
più importanti teatri al
mondo, anche se naturalmente non ha, ne forse avrà
mai, lo stesso successo che
hanno una Traviata o una Boheme.
Di Henry Purcell si è spesso affermato che
la sua musica rivela un eclettismo stilistico che
non sempre riesce a fondersi in perfetto equilibrio formale. Forse però ciò non è vero in quest’opera d’intensa vitalità e vigore tragico. Lei pensa che la musica del compositore inglese difetti
per qualche aspetto nella Dido?
Onestamente non riesco a trovare nessun difetto in
questa composizione. Naturalmente lo stile inglese di
quell’epoca ci è meno consono di quello italiano, ma davanti a un’opera d’arte di tale intensità non posso che rimanere a bocca aperta. Persino alcune danze, che secondo gli ultimi studi musicologici potrebbero non essere di Purcell, sono diventate per me assolutamente
insostituibili.
Il profondo influsso su Purcell della musica italiana e soprattutto
della scuola veneziana, in cosa si palesa in quest’opera?
Ricordo il mio stupore quando, alcuni anni fa, lessi il
commento di un cronista dell’epoca secondo il quale lo
stile di Purcell, a partire da un determinato momento
della sua attività, fu fortemente influenzato dalla musica
italiana. Onestamente non saprei dove trovare quell’influenza. L’unico parallelo che mi sento di tracciare è
quello tra Purcell e Monteverdi: a mio giudizio solamente questi due compositori riuscirono a profondere tanta
bellezza, ricchezza, genialità e amore nei loro recitativi.
Ci sono, al contrario, caratteri fortemente nazionali? Quanto della tradizione musicale inglese è presente?
L’energia, lo swing, la sensualità di molte danze parlano, a mio giudizio, un linguaggio prettamente inglese. La meravigliosa scrittura contrappuntistica dei cori ci rammenta invece la mai estinta tradizione corale
anglosassone.
Quali tra i personaggi dell’opera l’affascina di più musicalmente e perché?
Il ruolo di Dido è quello che mi affascina musicalmente più di tutti gli altri.Dal punto di vista del libretto, invece, sono particolarmente affascinato dalle figure di Enea e della Strega: Enea perché da un
lato mente sapendo di
mentire e dall’altro
perchè vittima sacrificale di una guerra giocata tra gli
dei dell’Olimpo; la
strega, a tratti, mi
rammenta la Giunone dell’Eneide, pronta a tutto pur d’evitare
che Enea, arrivato in Italia, fondi Roma e la stirpe
dalla quale discenderà l’uomo che distruggerà l’amatissima Cartagine. E mi fa
pensare anche a Venere,
che appare a Enea con le
sembianze di Mercurio, per
redarguirlo ed esortarlo a tranciare la relazione con Dido e lasciare Cartagine.
Su cosa punta principalmente l’allestimento di
Saburo Teshigawara? C’è una sintonia d’intenti?
Ho incontrato Teshigawara per la prima volta lo scorso ottobre, e in quell’occasione non abbiamo potuto parlare a lungo. In questi mesi però siamo rimasti spesso in
contatto. Sono sicuro che lavoreremo bene insieme. ◼
Sopra: Henry Purcell ritratto da John Closterman (1660–1711), senza
data; nella pagina a fianco: Dido and Aeneas nell’interpretazione
ancora di Sasha Waltz (Ferrara, Teatro Comunale, 2006)
focus on
focus on — 21
CAMPONOGARA
TEATRO • DANZA • LETTERATURA • POESIA
PAESAGGIO
CON UOMINI 2010
CAMPAGNA LUPIA › CAMPONOGARA › DOLO › FIESSO D’ARTICO
MIRANO › NOALE › PIANIGA › SALZANO › STRA › VIGONOVO
Casello 11 Teatro
VORREI I sOLDI
DI RONCONI
Vasco Mirandola
L’uOMO CHE AMAVA
LE DONNE
L’ ABBANDONO ALLA
DIVINA PROVVIDENZA
Tiziano Scarpa
Giuliana Urciuoli
Vasco Mirandola
I VERsI DELLE BEsTIE
EX
LA PAROLA sOsPEsA
Erri De Luca - Gianmaria Testa
Chiara Frigo
Lorenza Zambon
CHE sTORIA E’ QuEsTA
TAKEyA
Marta Cuscunà
Monica Francia
CORPOGIOCHI OFF
Mosika
Anagoor
Silvia Gribuadi, Atelier Gruppo
Danza, Laura Moro,
Il Corpo Pensante
Alessandro Bergonzoni
DANCE, WINDOWs&ROOMs
Giuliana Musso
PATANOsTRADA
LA TERRA
AREAREA - Marta Bevilacqua
LABORATORIO FIsICO
DI DANZA NEGLI sPAZI
Arearea
LEZIONI DI GIARDINAGGIO
PLANETARIO
E’ BELLO VIVERE LIBERI!
Stefano Rota
VIAGGIO DI NANE OCA
RIVELATO sOPRA LA
“VACCA MORA”
Alessandro Berti
I DIALOGHI DI FEDERICO
RuIysCH E DELLE suE
MuMMIE
MAGNIFICAT DI ALDA
MERINI
Giuliano Scabia
Piccola Bottega Baltazar
Mele Ferrarini
FEBBRAIO › MAGGIO
uN PAEsE DI sTELLE E
sORRIsI
Silvia Gribaudi - Giuliana Musso
CIODI
Laboratorio fisico
Danza negli spazi
PERFORMANCE
Arearea
NuOVO sPETTACOLO
INDEFINITO
Mariangela Gualtieri
sEX MACHINE
BOX TWO
NEL sILENZIO DEI FIORI
Moira Mion
Itineraria
ACQuA MEsCHIssA
H2 ORO
Dolo
Campagna lupia
Camponogara
Fiesso d’Artico
Mirano
Noale
Pianiga
Salzano
Stra
Vigonovo