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Italian Journal of
Geriatrics and Gerontology
2013;1(2-3): 47-52
Articolo originale
IL NETWORK NEURORECETTORIALE NEL MECCANISMO D’AZIONE
DELLA TERAPIA FARMACOLOGICA DELLE DEMENZE: LIMITI E PROSPETTIVE
THE NEURORECEPTORIAL NETWORK IN THE MECHANISM OF ACTION OF
THE PHARMACOLOGIC THERAPHY OF THE DEMENTIAS: LIMITS AND PERSPECTIVES
E. Ettorre°, A. Vulcano°, P. Andreozzi°, G. Viscogliosi°, A. Servello*
° Dipartimento di Scienze Cardiovascolari, Respiratorie, Nefrologiche, Anestesiologiche e Geriatriche,
“Sapienza” Università di Roma, Policlinico Umberto I, Roma
* Dipartimento di Sanità Publica e Malattie Infettive,
“Sapienza” Università di Roma, Policlinico Umberto I, Roma
Riassunto
La Demenza di Alzheimer (AD) e quella vascolare (VaD) rappresentano rispettivamente il 50-70%
e il 15-25% di tutti i casi di demenza. La AD rappresenta la più frequente forma di demenza nell’anziano e costituisce una delle patologie più disabilitanti dell’età geriatrica. Le due principali ipotesi
patogenetiche postulate per chiarire i meccanismo alla base dell’AD sono, in realtà, strettamente
interelazionate. L’ipotesi amiloidea riconosce, come meccanismo determinante, l’innesco del quadro neurodegenerativo, l’anomala processazione di una proteina glicosilata ubiquitaria di 770 KD,
l’Amyloid Precursor Protein (APP) e la successiva produzione, aggregazione, deposito e tossicità del
suo derivato, il peptide αβ 1-42. L’ipotesi di un deficit del sistema colinergico è sostenuta da alcune
evidenze: (i) in modelli animali di malattia di Alzheimer un sistema colinergico disfunzionale è in grado di provocare deficit mnesici, (ii) il tessuto cerebrale di pazienti affetti da AD è caratterizzato da
degenerazione dei neuroni colinergici ed a livello corticale è osservabile un decremento nei markers di
neurotrasmissione colinergica. Sebbene il deficit nel sistema neurotrasmettitoriale colinergico giochi
sicuramente un ruolo nella patogenesi della malattia non è sufficiente a giustificare in toto il quadro
neuropatologico e sintomatologico. La complessità di questa sindrome, già a livello molecolare, ha
finora ostacolato la comprensione dei vari meccanismi che concorrono alla sua determinazione ed
anche i farmaci saggiati contro i possibili responsabili molecolari si sono rivelati un fallimento, con
ricadute negative anche economiche importanti che hanno, probabilmente, rallentato lo sviluppo nel
settore. Ma il fatto più importante è l’assenza di una cura risolutiva, o meglio preventiva, che possa
quantomeno posticiparne l’esordio o ritardarne gli effetti.
Parole chiave: AD, farmaci, MCI, recettori, trattamento
Abstract
The Alzheimer and vascular dementia represtent respectively the fifty-seventy and the fiftheentwentyfive of all the cases of dementia. The Alzheimer dementia represents the most frequent form
of dementia in the old people. The two most important pathogenetic hypothesis postulated to explain the mechanism of AD are strictly connected. They are the amyloid hypothesis that knows, as
important mechanism, the primer of the neurodegenerative situation, the unusual pro cessation of a
protein ubiquitous glycosylated 770 KD, the amyloid precursor protein (APP) and the following production, aggregation, deposit and toxicity of its derivates, the peptide alfa beta 1-42. The hypothesis
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of a deficit of the cholinergic system is supported by some evidences: in a lot of animal model of
Alzheimer disease a cholinergic disordered system is able to cause deficit mnesics, the cerebral tissue
of patients affected by AD is characterized by degeneration of cholinergic neurons and in the cortical
level there is a decrease in the markers of cholinergic neurotransmission. Although the deficit in the
cholinergic neurotransmitter system has an important rule in the pathogenesis of the disease it isn’t
sufficient to giustify the neuropathological and symptomatolocic situation. The difficult thing of this
disease, in a molecular level, has obstruct yet the knowledge of some mechanisms that are important
for its determination and the drugs tested against the molecular responsibles has been failed, with
negatives and economics important relapse too that has probably decrease the development in the
sector. But the most important thing is the lack of a resolutive cure,t hat could postpone the start ot
could retard the effects.
Keywords: AD, drugs, MCI, receptors, treatment
La malattia di Alzheimer (AD) è la causa più
comune di demenza, una condizione patologica
sempre più riscontrata in una popolazione la
cui vita media si sta allungando. Si stima infatti
che i casi clinici aumenteranno dagli odierni 30
milioni nel mondo fino a quadruplicarsi nel 2050
(1). A più di 100 anni dalla scoperta dell’AD a che
punto siamo? Ancora non c’è la possibilità di
diagnosticare la malattia in forma asintomatica
ma solo il 60% dei pazienti con AD riceve una
corretta diagnosi (2) e circa la metà di questi
riceve un trattamento (3) con gli inibitori dell’enzima acetilcolinesterasi (AChEI). Nei decenni
trascorsi sono stati mossi passi importanti come
l’introduzione tra gli anni novanta e duemila
degli AChEI e la memantina, l’inizio di trials clinici su terapie anti-amioloide fino ad arrivare
ad oggi. Il presente quindi cosa ci propone? Allo
stato attuale delle conoscenze per la terapia
farmacologica della AD, non disponiamo di un
trattamento “causale” (cioè consistente nella
rimozione della causa della malattia) ma solo
di farmaci “sintomatici” (cioè finalizzati all’attenuazione delle manifestazioni cliniche della malattia) (4); allarmante è inoltre l’assenza, finora,
di una cura risolutiva, o meglio preventiva, che
possa quantomeno posticipare l’esordio o ritardarne gli effetti (5).
Qual è lo stato dell’arte dei farmaci per la
malattia di Alzheimer?
I composti usati comunemente nella AD di
grado lieve-moderato sono gli AChEI ovvero il
donepezil, la galantamina e la rivastigmina che
costituiscono un rimedio sintomatico in quanto
“alleviano” i deficit cognitivi senza modificare
il decorso patologico della malattia. Alla base dell’uso razionale degli AChEI c’è “l’ipotesi
colinergica” che prende in considerazione la
degenerazione dei neuroni colinergici, specie
nella corteccia e nell’ippocampo, il diminuito
uptake della colina e dell’attività della colinaacetiltrasferasica conducendo ad una carenza
di acetilcolina che è la diretta responsabile
dell’espressione sintomatologica. Il deficit del
sistema colinergico, che caratterizza la AD ha
costituito la premessa fondamentale per lo sviluppo di farmaci anticolinesterasici: la strategia
colinomimetica aumenta l’attività colinergica
e dovrebbe tradursi in un miglioramento delle
capacità cognitive. Le forme molecolari G1 delle
colinesterasi sono meno ubiquitarie rispetto alle
G4 in molte aree cerebrali normali ma diventano
gradualmente più diffuse nella progressione della AD mentre l’espressione relativa delle forme
G4 decresce soprattutto a livello ippocampale.
La rivastigmina è l’unica a mostrare selettività
preferenziale per la forma G1 e ciò comporta
minore incidenza di effetti extrapiramidali, effetti cardiotossici, disturbi del sonno, debolezza
muscolare. Non è possibile identificare a priori
i soggetti responsivi al trattamento. Il Donezepil, per esempio, è metabolizzato dall’isoenzima CYP2D6, coinvolto nel metabolismo della
maggior parte dei farmaci. Il locus CYP2D6 è
altamente polimorfico, con più di 100 differenti
alleli identificati che dividono la popolazione
dei pazienti che assume il donepezil in metabolizzatori normali, poveri ed ultrarapidi (6).
Nonostante i meccanismi d’azione dei tre inibitori differiscano parzialmente, il loro effetto
terapeutico è pressocchè equivalente ed in caso
di cattiva tollerabilità od inefficacia del farmaco
originariamente prescritto è possibile sostituirlo
con uno degli altri due (7).
Accanto all’ipotesi colinergica, è stata formulata “l’ipotesi glutammatergica” che vede
Il network neurorecettoriale nel meccanismo d’azione della terapia farmacologica delle demenze 49
nell’eccessivo rilascio di aminoacidi eccitatori un
possibile meccanismo di neurotossicità. Il principale neurotrasmettitore del Sistema Nervoso
Centrale (SNC) è risultato essere il glutammato,
responsabile del 70% delle risposte eccitatorie a
livello del SNC. Si ipotizza come un’eccessiva stimolazione dei recettori per il glutammato possa
contribuire alla perdita dei neuroni nel SNC con
conseguente formazione di placche amiloidee
(8) o determinare un danno di tipo eccitotossico a carico dei neuroni resi più vulnerabili
dopo l’esposizione all’amiloide (9). È stato infatti
proposto l’uso terapeutico di molecole in grado
di bloccare l’iperattività glutammatregica ed il
conseguente incremento di calcio all’interno
della cellula nervosa, causa del danno funzionale e strutturale. Il secondo farmaco attualmente
disponibile (entrato in commercio nel 2004 con
l’indicazione per il trattamento della demenza di
Alzheimer di grado severo) che interviene sul sistema glutammatergico, come antagonista di un
sottotipo dei recettori del glutammato, N-metilD-aspartato (NMDA) è proprio la memantina.
Oltre agli AChEI e alla memantina, sono stati
sperimentati dei composti e altri ancora sono
in via di sperimentazione nella terapia dell’AD.
Alcuni hanno preso come bersaglio il peptide
αβ, sia direttamente cercando di neutralizzarlo
con anticorpi specifici, oppure sfruttando molecole che ne impedissero l’aggregazione, sia
indirettamente, agendo sulle secretasi per sbilanciare l’equilibrio verso la via non amiloidogenica oppure cercando di aumentare la clearance
del peptide solubile, inducendo fagocitosi dei
peptidi amilodei oppure sviluppando un vaccino
(10-11).
Tra i composti che hanno come target la proteina tau, vengono annoverati, per esempio, gli
inibitori GSK-3, il blu di metilene e la taslaclidina.
L’ipotesi dell’ inibizione della glicogeno sintetasichinasi 3 (GSK3) ritiene che tale chinasi sia implicata nello sviluppo di tutti gli hallmarkers della
patologia poiché media l’iper-fosforilazione della proteina tau, l’aumento della produzione di
αβ da APP (proteina precursore di αβ), i processi
che causano la compromissione mnesica e il
potenziamento delle risposte infiammatorie in
prossimità delle placche amiloidee (12). Un altro
farmaco che ha come bersaglio la proteina tau è
il blu di metilene (Rember), un colorante chimico, che diminuisce l’aggregazione della suddetta
proteina ed aumenta l’attività mitocondriale
(13). Uno studio condotto su 321 pazienti affetti
da AD di grado moderato ha dimostrato, assumendo 60 mg /die di tale farmaco paragonato
ad altri trattamenti, di poter ridurre di oltre 80
punti percentuali la progressione della malattia
con un miglioramento delle funzioni cognitive.
Attualmente è in fase di studio una nuova formulazione (Leuco-methylthioninium) con maggiore
biodisponibilità. La Talsaclidina (altro composto
che ha come target la proteina tau), agonista
del recettore M1, agirebbe sia attivando l’alfasecretasi, sia inibendo la beta (BACE-1, beta-site
APP-cleaving enzyme 1) e la gamma-secretasi,
ma non sono ad oggi disponibili dati significativi
su outcome clinici rilevanti nell’AD. Tra le nuove
strategie terapeutiche, annoveriamo Latrepirdine (Dimebon) nato come antistaminico, utilizzato oggi come possibile farmaco nelle malattie
neurodegenerative come la AD e la Corea di
Huntingon. L’Omotaurina (tamiprosate), composto solfonato di basso peso molecolare, sarebbe
in grado di legarsi al peptide αβ nella sua forma
solubile impedendo così al peptide di assumere
la struttura fibrillare, non più solubile e ne favorirebbe l’eliminazione prevenendone l’accumulo. Questo meccanismo d’azione del tamiprosate sarebbe in grado di proteggere l’ippocampo
dalla neurotossicità contrastandone la perdita di
volume (14). Ciò è stato dimostrato in uno studio che ha valutato un sottogruppo di pazienti,
affetti da AD di grado da lieve a moderato, a cui
sono state effettuate analisi di imaging mediante risonanza magnetica volumetrica per valutare
l’andamento della perdita di volume dell’ippocampo durante il periodo del trattamento. In
questa pubblicazione gli autori dimostrano per
la prima volta che l’omotaurina somministrata
due volte al giorno ad un dosaggio di 100 mg
o di 150 mg, sia in grado di ridurre in maniera
significativa la perdita di volume dell’ippocampo
tipica della patologia di Alzheimer (15). Un nostro studio, appena completato, ha dimostrato
che l’omotaurina sarebbe in grado di rallentare
la progressione del declino cognitivo e della depressione associata alla AD. Abbiamo arruolato,
presso il nostro Centro U.V.A. (Unità Valutazione
Alzheimer), 100 pazienti di cui un gruppo con
diagnosi di MCI, un altro con diagnosi di AD di
grado lieve ed un ultimo gruppo con diagnosi
di AD di grado moderato-severo. I pazienti venivano ulteriormente suddivisi in due gruppi: al
I gruppo veniva somministrata l’omotaurina 50
mg/die in associazione con AChEI mentre al II
gruppo venivano somministrati solo gli inibitori
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dell’acetilcolinesterasi. Lo studio ha dimostrato
che i pazienti del II gruppo, a 6 mesi, mostravano un aumento del CDR (Clinical Dementia
rating scale), traducendosi in un peggioramento
delle performance cognitive, associato ad una
maggiore tasso di progressione verso la depressione mentre il I gruppo mostrava una stabilità del quadro cognitivo ed un miglioramento
dell’alterazione del tono dell’umore. Le strategie
terapeutiche si sono mosse anche verso lo sviluppo di vaccini che, nonostante un decennio di
risultati deludenti, rimangono per molti una speranza da perseguire. Lo scopo dell’ immunoterapia è stimolare il sistema immune a riconoscere
ed eliminare Aβ o introdurre anticorpi preformati
per prevenire la deposizione in placche di Aβ
o aumentare l’eliminazione delle placche. La
vaccinazione attiva è in grado di indurre un’eccessiva risposta autoimmune proinfiammatoria
TH1-mediata, compromettendo gli eventuali benefici derivanti dalla rimozione delle placche.
Nell’immunoterapia passiva la somministrazione
passiva di anticorpi può aggirare la risposta Tcellulare indesiderata associata alla vaccinazione
attiva, mantenendo le importanti attività biologiche correlate all’efficacia (16). Il quesito che
oggi ci si pone è se rimuovere le placche Aβ non
basti ad impedire la progressione della e verso la
neurodegenerazione. Ciò potrebbe essere legato
a vari motivi come necessità della presenza delle
placche, per l’inizio, ma non per il mantenimento
della neuro degenerazione e/o un'eccessiva risposta proinfiammatoria Th1-mediata.
La complessità delle patologie neurodegenerative ha ormai dimostrato che è impensabile
il binomio un target-un farmaco; così come nel
campo dell’oncologia, i trattamenti dovranno
comprendere un cocktail di sostanze, ognuna con un diverso bersaglio, che agiscano in
sinergia tra loro ed in sincronia con ogni fase
specifica della malattia (17). Attualmente viene
già associato l’uso degli AChEI con memantina,
grazie ai distinti meccanismi d’azione ed alla
buona tollerabilità degli effetti collaterali (18).
La scelta di quando iniziare a trattare riveste un
ruolo fondamentale nella strategia terapeutica:
iniziare presto il trattamento o ritardarlo fino
alla fase conclamata della demenza? Uno studio
osservazionale ha dimostrato che soggetti con
diagnosi di Mild Cognitive Impairment (MCI),
trattati con AChEI (associati o meno a memantina), hanno peggiorato le performance cognitive
e mostrato un declino maggiore nei punteggi
dei test ed un progresso accelerato verso la
fase di demenza conclamata. Inoltre, chi assumeva entrambi i farmaci per più tempo, prima
di entrare nella fase moderata, ha mostrato
un grado di demenza ed un decorso più severo
(19). Lo studio osservazionale appena ricordato,
ha evidenziato come l’impiego di tali farmaci,
soprattutto se combinati, sia controproducente
nelle fasi precoci della patologia. Dunque è necessario differenziare il trattamento a seconda della
finestra temporale e biologica in cui si colloca il
paziente, ad es. colpendo i meccanismi patologici alla radice in soggetti ad alto rischio ancora
in fase pre-sintomatica, agendo invece su meccanismi secondari più a valle nella progressione
degenerativa e tamponando condizioni collaterali
pato-fisiologiche come la neuro-infiammazione e
psicologiche come la depressione o altre psicosi
(17). Uno studio osservazionale, ancora in corso
presso il nostro centro U.V.A. ha evidenziato che
trattando pazienti con diagnosi di MCI, con acido
acetilsalicilico (ASA) associato ad antiossidanti,
dopo 6 mesi, questi mostravano dopo trattamento
una stabilità del quadro cognitivo (74,5%) mentre
l’80% dei soggetti, trattati con AchEI (rivastigmina
25%, Donepezil 20%, altri 5%) progrediva verso il
deficit cognitivo. È stata utilizzata l’ASA in quanto
potrebbe essere considerato un trattamento farmacologico in grado di intervenire nella patogenesi dell’AD, poiché sarebbe in grado di prevenire o,
addirittura, invertire la formazione di β-amiloide,
riducendo, inoltre, la fosforilazione a proteina TAU
della serina 422 (20) e sopprimendo la secrezione
della proteina precursore dell’amiloide. La molecola, inoltre, è in grado di ridurre l’attivazione della
microglia ed inibire la ciclossigenasi, intervenendo
nella prevenzione dell’ictus cerebri.
Il dibattito rimane, nonostante si acquisiscano sempre più notizie sulla patogenesi dell’AD,
ancora aperto su come e quando trattare il
paziente nella fase pre-clinica della demenza.
Per quanto riguarda la fase conclamata della
malattia purtroppo disponiamo solo di farmaci
“sintomatici” ma non di farmaci che rimuovano la causa della malattia. È anche opportuno
proseguire nella ricerca di rimedi palliativi che
accompagnino con la giusta dignità il paziente
nella fase terminale della malattia.
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Corrispondenza:
Dott. Ettorre Evaristo
Viale del Policlinico 155, 00161, Roma, Italia
e-mail: [email protected]