Maurizio Zenezini L`Europa e l`illusione della competitività (In corso

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Maurizio Zenezini
L’Europa e l’illusione della competitività
(In corso di stampa su il Ponte).
1. Retoriche della crisi
Le crisi, come i delitti, producono storie in cerca di colpevoli. Non fa eccezione la crisi europea, che
ha accumulato lunghe liste di indiziati: l’avidità delle banche, l’esuberanza della finanza e gli imbrogli
delle agenzie di rating, la miopia dei mercati o la miopia dei governi, i difetti del disegno europeo e
il deragliamento della globalizzazione, il deficit democratico e i buchi nella governance europea, le
disfunzioni dei mercati del lavoro e la timidezza degli sforzi riformatori, il mercantilismo tedesco e
la corruzione nei paesi mediterranei, i debiti privati e il debito pubblico, il lassismo fiscale e le
politiche di austerità. Non fraintendiamo, però, perché sottotraccia, nella cacofonia delle voci, si
scorge il persistente motivo conduttore del dibattito europeo: l’ossessione per la competitività.
Che cos’è la competitività? Questa nozione viene di solito declinata in due modi piuttosto diversi,
facendo riferimento, da un lato, alla performance complessiva di un paese, dall’altro impiegando
indici di competitività, tipicamente basati sull’andamento dei prezzi e dei costi relativi. Nella prima
accezione, un paese è “competitivo” quando è in grado di produrre crescita e occupazione evitando
pervasivi squilibri macroeconomici, in particolare nei conti con l’estero; nella seconda accezione un
paese è competitivo se i suoi costi unitari del lavoro crescono meno che nei paesi concorrenti.
Nella politica economica europea le due concezioni sono strettamente connesse perché la
competitività di costo di solito è vista come il fondamento della competitività macroeconomica.
Questa interpretazione si è installata al centro del dibattito pubblico europeo, quasi alla stregua di un
teorema, perché è compatibile con le posizioni più diverse, dato che la competitività, legata
all’andamento dei prezzi e dei costi, può essere attaccata da molti lati.
Se infatti puntiamo il dito su salari ed efficienza del lavoro, chiederemo di riformare i mercati del
lavoro, se l’accento è invece sui prezzi, chiederemo un po’ più di concorrenza nei mercati dei beni e
magari un “patto ricardiano” dei produttori contro le posizioni protette (nei servizi, nella distribuzione
commerciale, nelle professioni, nel settore pubblico); se il vincolo, come nella eurozona, è la moneta
unica, potremmo pensare che la sovranità monetaria e la flessibilità dei cambi siano la via d’uscita
dalla crisi. Sono letture piuttosto diverse, talvolta enunciate nelle forme facilmente propagandistiche
dei rapporti sulla competitività dei grandi think thank globali o nei toni petulanti delle spiegazioni
culturali della crisi (nei paesi euro-mediterranei la corruzione, l’evasione fiscale, il deficit di spirito
protestante), ma tutte partono dal presupposto che l’andamento della competitività sia alla base del
diverso profilo evolutivo dei paesi europei, in particolare di quelli nella eurozona. Alla fine del 2014
il Presidente della Banca centrale europea, confrontando Finlandia e Grecia, segnalava che il paese
nordico era quarto nella classifica della competitività del World Economic Forum, mentre la Grecia
era all’81° posto, lasciando intendere che tale divario costituisca una chiave di lettura valida della
crisi europea (Draghi, 2014).
E’ tuttavia lecito dubitare di posizioni come questa sia perché la complementarietà tra competitività
di costo e performance macroeconomica non è scontata, sia perché la competitività di costo è, in
generale, un aspetto, quando non una conseguenza, della competitività macroeconomica.
1. La competitività prima della crisi
Nelle narrazioni correnti, non di rado anche nelle analisi non ortodosse, Grecia, Italia, Portogallo e
Spagna formano il quartetto che ha perso competitività nel decennio che precede l’avvio della grande
crisi europea e che, per questo, è stato duramente colpito quando la politica economica è diventata
una gara tra l’Europa del sud e l’Europa del nord.
1
Questa lettura presuppone, come abbiamo osservato, la complementarietà tra competitività di costo e
performance macroeconomica, la quale però non è affatto scontata. Invero, l’esperienza storica
mostra che i paesi che crescono più in fretta in termini di esportazioni e di Pil spesso sperimentano
divari sfavorevoli nella dinamica dei costi del lavoro unitari. Questa relazione “perversa” tra costi
unitari del lavoro e performance macroeconomica fu segnalata molti anni fa da Nicholas Kaldor, e da
allora è nota come “paradosso di Kaldor” (Kaldor, 1978).
Il paradosso di Kaldor ha diverse spiegazioni: i) limitati effetti della competitività di prezzo (in
particolare sul saldo commerciale, in gran parte determinato dall’andamento della domanda interna
ed estera); ii) importanza della competitività non di prezzo (innovazione, qualità della forza lavoro
etc.); iii) natura endogena della competitività (la crescita è associata a mutamenti strutturali che
richiedono una sostenuta dinamica dei prezzi e dei salari per facilitare gli aggiustamenti tra settori e
tra imprese); iv) controlli, politiche protezionistiche e “interferenze” nei processi di formazione dei
prezzi. In breve, l’associazione positiva tra competitività – in particolare i costi unitari del lavoro - e
performance economica di un paese, lungi dall’essere un fatto stilizzato, è invece soltanto un’ipotesi
non di rado in contrasto con i fatti (Krugman, 1994).
Per comprendere i profili evolutivi dei paesi europei prima e dopo la crisi, dobbiamo quindi mettere
in luce i fattori che muovono la competitività nel breve-medio periodo e poi valutarne gli effetti reali.
Per cominciare, consideriamo i dati raccolti nella tabella 1 che riassume i profili macroeconomici in
Europa nel periodo 1999-2008, il primo decennio dell’euro. La tabella racconta un fatto noto: prima
della crisi i paesi Euro-sud hanno perso competitività rispetto ai paesi del nord (Germania + Euronord). Nel decennio i costi unitari del lavoro aumentano infatti di circa 33 punti percentuali in media
nel primo gruppo di paesi, e di circa 7-8 punti nel secondo gruppo, con un divario cumulato di 2526 punti (Thimann, 2015; si tratta, approssimativamente, della variazione cumulata della differenza
tra la crescita dei salari e quella della produttività). E’ una cifra rilevante, ma dobbiamo chiederci
che cosa significhi veramente.
Tabella 1
L’Europa prima della crisi: 1999-2008
Grecia
Italia
Spagna
Portogallo
Euro Sud (6)
Francia
Germania
Euro Nord (7)
Est Europa (8)
Salari (1)
5,4
2,6
3,5
3,8
3,2
2,8
1,2
3,1
6,9
Produttività (2)
2,2
0
0,1
1
0,3
0,9
1
1,2
3,9
Occupazione (3) Inflazione (4)
13,4
3,3
13,5
2,4
39,6
3,2
6,6
2,9
22,6
2,8
10,9
1,9
6,6
1,7
11,8
2,2
3,9
4,4
Pil (5)
3,7
1,3
4,4
1,6
2,6
2
1,6
2,5
4,2
1, Retribuzione nominale per dipendente, economia nel suo complesso, tassi di variazione medi annui
2, Prodotto per occupato, economia nel suo complesso, tassi di variazione medi annui
3, Occupazione totale, variazione % complessiva nel decennio 1999-2008
4, Tassi di variazioni medi annui dei prezzi al consumo
5, Tassi di variazione medi annui del Pil a prezzi costanti
6, Medie ponderate dei quattro paesi, con i pesi Ocse del 2008.
7, Belgio, Finlandia, Olanda
Est Europa, Repubblica Ceka, Ungheria, Polonia, Slovenia, Repubblica Slovacca
Fonti. elaborazione propria su dati Ocse.
I dati della tab. 1 mostrano, innanzitutto, che i paesi Euro-sud non presentano profili uniformi al loro
interno. La Grecia esibisce una performance macroeconomica piuttosto buona: crea più occupazione
del gruppo Euro-nord, e ancor più della Germania, ha un alto tasso di crescita delle esportazioni (tab.
2
2) e presenta il migliore profilo della produttività del lavoro, ma paga questi risultati con una
inflazione più alta degli altri paesi. Italia e Spagna creano occupazione, i numeri della Spagna sono
spettacolari, ma ci riescono sacrificando la produttività e, in parte, la dinamica dei salari reali. Il
Portogallo, in ultima fila, non fa una gran figura, cresce poco e crea poca occupazione, mentre la
bassa disoccupazione misurata nasconde un’alta frazione di disoccupazione nascosta (Fmi, 2016).
L’informazione saliente, in ogni caso, è che, se si escludono Grecia e i paesi Est-Europa, gli altri paesi
presentano profili complessivamente mediocri della produttività.1
In secondo luogo, i legami tra dinamiche della competitività e performance sono piuttosto tenui. La
Germania presenta il miglior risultato in termini di competitività di costo, ma cresce poco e crea poca
occupazione, nonostante lo schiacciamento dei salari reali.
La tabella 2 integra queste informazioni confrontando l’andamento del tasso di cambio reale basato
sui costi unitari del lavoro con la crescita delle esportazioni e mostra che: i) il profilo evolutivo della
competitività nei paesi Euro-Sud è peggiore di quello dei paesi Euro-Nord (e ovviamente della
Germania), ma di gran lunga migliore di quello dei paesi UE dell’Europa dell’Est; ii) la Germania è
l’unico paese, tra quelli inclusi nella tabella 2, che presenta un deprezzamento del tasso di cambio
reale, ed è l’unico paese grande con una dinamica sostenuta delle esportazioni, ma non del Pil; iii) a
parte la Germania, solo alcuni paesi relativamente piccoli riescono a spingere in modo sostenuto sulle
esportazioni; iv) l’andamento comparativamente buono della competitività della Francia e del gruppo
Euro Nord non si accompagna a dinamiche particolarmente brillanti delle esportazioni; v) alcuni paesi
che perdono competitività in maniera più decisa – Grecia e il gruppo Est Europa - sono anche quelli
con le performance relativamente migliori di crescita (Pil ed esportazioni).2
Tabella 2
Competitività ed esportazioni prima della crisi, 1999-2008
Grecia
Italia
Spagna
Portogallo
Euro Sud (3)
Francia
Germania
Euro Nord (4)
Est Europa (5)
Competitività (1)
21,6
15,1
24,4
12,3
18,8
6
-16,3
9,1
33,1
Esportazioni (2)
8
3
4,5
4,5
4,1
3,9
7,3
5,5
10,5
1, Variazione totale nel decennio del tasso di cambio reale basato sui costi unitari del lavoro (in dollari). Il segno
positivo (negativo) indica apprezzamento (deprezzamento) rispetto alla media dei paesi concorrenti (con pesi che
riflettono l’importanza relativa delle esportazioni e importazioni nei diversi mercati).
2, Beni e servizi, tasso di crescita medio annuo dei volumi.
3, 4, 5, v. tab. 1.
Fonte: elaborazione propria su dati Ocse.
Per farla breve, il decennio europeo che precede la crisi non offre un evidente sostegno alla tesi che
pretende di associare competitività e performance economica. Il dibattito di politica economica ha
dovuto prenderne atto, da un lato presentando la competitività come un riflesso endogeno della
performance economica, piuttosto che come un indipendente fattore causale, dall’altro indicando le
1
Nel complesso, i paesi della euro zona, tranne Grecia e Olanda, registrano un rallentamento della produttività nel primo
decennio dell’euro, vistoso per i quattro paesi maggiori.
2
L’indicatore di competitività confronta l’andamento dei costi unitari nei diversi paesi, ma tiene conto della struttura
degli scambi commerciali e riflette l’andamento dei tassi di cambio nominali.
3
ragioni che possono indebolire gli effetti della competitività sulla performance (ad es., Fmi, 2007;
Ocse, 2007; Allard, 2009).
Per quanto riguarda il primo punto, l’andamento degli indici di competitività è in larga misura l’esito
scontato dei processi di convergenza nominale operanti prima della crisi, se appena si osservi che i
paesi che perdono più nettamente competitività sono anche quelli che, alla fine degli anni ’90, erano
particolarmente a buon mercato. Nei paesi Est Europa, ad es., il livello dei prezzi era il 40 per cento
di quello tedesco nel 1999 e nel decennio 1999-2008 aumenta di circa il 60 per cento rispetto alla
Germania e del 40 per cento rispetto ai tre paesi Euro Nord e all’Italia, mentre in Grecia i prezzi,
partendo da un livello comparativamente più alto, aumentano del 14-15 per cento rispetto alla
Germania, ma molto meno rispetto al gruppo Euro Nord; la tab. 3 mostra che il coefficiente di
variazione degli indici di prezzo per 16 paesi UE si riduce dal 32 per cento nel 1999 al 20 per cento
nel 2008; una certa limitata convergenza dei prezzi si osserva anche nel gruppo dei paesi euro, che
comunque già in partenza presentano livelli dei prezzi più omogenei.
Tabella 3
Prezzi e salari prima della crisi, 1999-2008
Grecia
Italia
Spagna
Portogallo
Euro Sud
Francia
Germania
Euro Nord (3)
Est Europa (4)
Convergenza Euro (5)
Convergenza (8)
Salari reali (1)
1999
2008
64,1
73
83
84,1
86,1
87
63
60,1
81,3
82,6
84,1
91,7
100
100
106,5
111,9
40,9
52,5
19,2 (6)
18,6 (6)
35,4 (6)
29,4 (6)
Livello dei prezzi (2)
1999
2008
72,6
86,6
84
97
75,5
88,4
71,7
80,4
79,1
92,1
98,1
108,9
100
100
94,5
106,7
41,5
66,5
14 (7)
11,5 (7)
32 (7)
19,9 (7)
1, Retribuzione annua per dipendente, intera economia, a parità di potere d’acquisto (Germania = 100)
2, Indice relativo al Pil: rapporto tra i tassi di cambio a parità di potere d’acquisto e i tassi di cambio nominali
(Germania = 100)
3, Olanda, Finlandia, Belgio (medie ponderate)
4, Repubblica Ceka, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Polonia (medie ponderate)
5, I nove paesi euro della tabella + Austria e Irlanda
6, Coefficiente di variazione (%) dei salari reali (nella definizione 1).
7, Coefficiente di variazione (%) degli indici di prezzo (nella definizione 2)
8, I 14 paesi della tabella + Austria e Irlanda
Fonte: elaborazione propria su dati Ocse.
La convergenza nominale dipende da una pluralità di circostanze (azione del mercato unico, effetti di
imitazione, spinte settoriali della domanda e rincorse salariali, forse l’espansione del settore
pubblico), trascina, almeno in parte, i salari nominali e, data la produttività, finisce per orientare gli
indicatori di competitività; per alcuni paesi euro, inoltre, l’apprezzamento del tasso di cambio reale è
parte del processo di convergenza dei tassi di interesse e della liberalizzazione finanziaria (Fmi,
2007). Proprio la natura endogena degli indicatori di competitività faceva dire all’Ocse, nel rapporto
del 2007 sulla Grecia, “che per un paese coinvolto in un processo di convergenza di reddito un più
alto tasso d’inflazione non implica necessariamente perdita di competitività”, spingendosi persino ad
affermare che metà del differenziale d’inflazione sperimentato dalla Grecia dall’avvio dell’euro
4
poteva essere interpretato come indizio di un sottostante aggiustamento strutturale compatibile con la
stabilità macroeconomica (Ocse, 2007, pp. 29-30).3
La convergenza nominale, in ogni caso, va valutata con riferimento alle sue ricadute reali, in
particolare sui salari. A questo proposito, la tab. 3 dice che, fatta eccezione per la Grecia, nel primo
decennio dell’euro i paesi Euro Sud non hanno ottenuto molto in termini di salari reali. Italia e Spagna
guadagnano un punto relativamente alla Germania, che nel decennio attua una politica salariale molto
restrittiva, ma perdono rispetto al gruppo Euro Nord. Il Portogallo è, in questa storia, il fanalino di
coda: parte nel 1999 con salari piuttosto bassi nel panorama europeo e arretra nel decennio dell’euro.
Nel gruppo Euro Sud solo i salari dei greci corrono e guadagnano rispetto a tutti gli altri paesi, ma
non rispetto al gruppo Est Europa verso i quali il vantaggio della Grecia si riduce di circa 10-12 punti.
L’ultima riga della tabella 3 mostra, in ogni caso, che nel decennio 1999-2008 nell’insieme della zona
euro la convergenza dei salari reali è virtualmente bloccata. Molto guadagnano invece i paesi Est
Europa, la cui rincorsa salariale, partendo da livelli salariali piuttosto bassi, può trarre vantaggio da
un sostenuto ritmo della produttività (ma nel decennio, come abbiamo visto, hanno risultati
complessivamente mediocri nella creazione di posti di lavoro).
Col senno di poi la dinamica dei salari diventerà una prova a carico della Grecia, ma prima della crisi
l’aumento dei salari reali era visto non solo come un’altra manifestazione (positiva) del processo di
convergenza, ma anche come un esito giustificato dagli incrementi di produttività e compatibile con
la stabilità macroeconomica. Basterà qui rammentare che, ancora nell’aprile 2009, il Rapporto
annuale della Banca di Grecia segnalava che il forte aumento dell’occupazione dipendente nel periodo
2000-2008 (ad un tasso doppio di quello dell’occupazione totale) aveva fatto aumentare la quota dei
salari nel reddito, ma non la quota corretta, visto che nel periodo la quota del “reddito lordo di
gestione” rimane sostanzialmente invariata (era pari al 54,8 per cento nel 2000 e al 54 per cento nel
2008: Banca di Grecia, 2009, p. 89).
In altri termini, prima della crisi, la performance interna favoriva un giudizio tutto sommato
favorevole di alcuni paesi che maggiormente perdevano competitività; può oggi sorprendere, ma nel
2007 un rapporto del Fondo monetario rappresentava l’esperienza della Grecia come un vero e
proprio “rinascimento” e lasciava persino intendere che la perdita di competitività potesse essere “un
fenomeno benigno” (Fmi, 2007, p. 4).
Resta la questione dei conti con l’estero. I paesi Euro Sud sperimentano ampi disavanzi nel conto
corrente nel primo decennio dell’euro che, retrospettivamente, sono stati interpretati come l’esito
inevitabile della perdita di competitività (l’Italia presenta un modesto saldo negativo di circa un punto
di pil tra il 2002 e il 2008). E’ una lettura che chiede però di essere scrutinata. I saldi della bilancia
corrente dipendono infatti non solo dalla competitività, ma anche dall’evoluzione della domanda
interna rispetto alla domanda nei mercati di esportazione e, a questo riguardo, l’opinione prevalente
prima della crisi era che l’andamento dei saldi con l’estero riflettesse la dinamica relativa della
domanda aggregata piuttosto che i differenziali di competitività. Il punto è probabilmente noto, e
possiamo limitarci a pochi richiami.
i) Est Europa. Questi paesi perdono competitività in modo rilevante, esibiscono nel decennio una
eccellente performance delle esportazioni, ma elevati deficit di conto corrente. Nel 2009 un rapporto
del Fondo monetario riconduceva questi sviluppi per lo più alla crescita della domanda esterna e
interna e agli investimenti diretti esteri che alimentano sia le esportazioni (delle imprese
delocalizzate), sia le importazioni, che, peraltro, dipendono anche dalle esportazioni che, in alcuni
paesi, hanno un alto contenuto di beni importati (Allard, 2009). Nel complesso, l’effetto diretto della
competitività di prezzo sulla dinamica delle esportazioni e delle importazioni è risultato virtualmente
nullo (ivi, pp. 10 sgg.).
ii) Euro Sud. Per quanto riguarda la Spagna, nel 2008 l’Ocse interpretava il differenziale d’inflazione
rispetto alla media degli altri paesi euro come un riflesso della convergenza verso il livello dei prezzi
3
Nello stessa direzione, si è preso atto che, prima della crisi, nei paesi in deficit esterno non si è osservata nessuna diretta
relazione tra dimensione del deficit e condizione dei conti pubblici (Bce, 2016, p. 37).
5
europei che tuttavia non sembrava avere eroso significativamente la competitività del paese nei
mercati esteri, mentre spiegava il deterioramento dei conti esteri con la vivace domanda interna, in
particolare degli investimenti che avevano però sostenuto una crescita estensiva con ricadute nulle
sulla produttività (Ocse, 2008, pp. 27-28, pp. 32-33). In parte speculare rispetto a quello della Spagna
è il caso dell’Italia che, nel primo decennio dell’euro, riesce a mantenere un modesto saldo corrente
negativo grazie ad una forte compressione della domanda interna (che nel decennio 1999-2008 cresce
di un punto e mezzo all’anno contro oltre quattro punti in Spagna). Anche per l’Italia, come per molti
altri paesi, un rapporto recente del Fondo monetario prende atto che la competitività di prezzo non è
un buon previsore degli andamenti dei saldi commerciali (Tiffin, 2014).
Venendo alla Grecia, abbiamo visto quanto brillante sia stato, nel primo decennio dell’euro,
l’andamento delle sue esportazioni che mantengono la quota nell’export mondiale non petrolifero, in
controtendenza rispetto alla caduta registrata nella seconda metà degli anni novanta. Questa
performance si spiega sia con la diversificazione dei flussi commerciali in direzione dei paesi
emergenti a più rapida crescita, sia con il miglioramento della qualità delle esportazioni (tra il 1996
e il 2006 l’incidenza dei settori low-tech nell’export greco scende dal 60 per cento al 40 per
cento)(Bennet et al., 2008; Fmi, 2008, pp. 3 sgg.); nel complesso, risultano poco importanti, o
trascurabili, gli effetti diretti della competitività di prezzo sulla performance dell’export (Fmi, 2007,
p. 19; Athanasoglou , 2010). Anche la Grecia, come la Spagna e i paesi Est Europa, non può evitare
un rilevante peggioramento del saldo corrente causato dalla dinamica dell’assorbimento interno, in
particolare dalla forte dinamica degli investimenti (Fmi, 2008; Banca di Grecia, 2009, pp. 121 sgg.).
Vale però la pena di rammentare che, ancora nel 2009, un rapporto dell’Ufficio studi della Banca di
Grecia dichiarava sostanzialmente sostenibile il deficit esterno della Grecia, segnalando tuttavia come
problematica sia la inelasticità di prezzo delle importazioni, sia l’elevata reattività delle importazioni
alla domanda interna dovuta ad un sforzo insufficiente di diversificazione e sostituzione delle
importazioni (Zombanakis et al., 2009).
2. La competitività dopo la crisi
Prima della crisi, gli squilibri interni dell’Eurozona erano visti per lo più come la risultante dei
differenziali di crescita e dei processi di integrazione finanziaria, piuttosto che come conseguenza dei
differenziali di competitività di prezzo o di costo, dopo la crisi, il tema della competitività diventa
centrale nelle narrative dominanti in Europa (Levy, 2012; Thimann, 2015). Visto che sono trascorsi
più di sette anni dall’avvio della crisi, siamo in grado di vedere che cosa abbiano significato per
l’economia europea le politiche per la competitività.
La tab. 4 mostra che i paesi Euro-sud hanno affrontato la crisi con politiche di drastico contenimento
salariale e di devastanti tagli occupazionali, diversamente dai paesi Euro-nord e Est-Europa che sono
riusciti ad aumentare i salari reali senza gravi danni per l’occupazione. La Germania, in
controtendenza, riesce ad aumentare l’occupazione, sia pure di poco. L’inflazione nella media dei
paesi euro rimane, nei sette anni, ben al sotto dell’obiettivo del 2 per cento della Bce, un indizio
persino troppo eloquente dell’“impotenza” della politica economica europea. Nei paesi euro la
produttività va piuttosto male, con l’eccezione della Spagna, che non può però evitare una drastica
caduta dell’occupazione.
Nei paesi Euro-sud i salari nominali crescono molto meno dei prezzi (precipitano in Grecia) e la
rincorsa salariale al ribasso produce effetti rilevanti: tra il 2008 e il 2015 il salario reale relativo del
Sud, tab. 5, arretra di circa 8 punti rispetto alla Germania e di 4 punti rispetto al gruppo Euro-nord
scendendo sotto le cifre del 1999; tra il 2008 e il 2015 si amplia il ventaglio dei salari reali nella zona
Euro (e nell’insieme dei paesi UE).
Nei paesi Euro-sud il drastico contenimento dei salari sotto la crescita della produttività, con
l’eccezione dell’Italia, genera significativi guadagni di competitività; particolarmente rilevanti, tra i
paesi euro, le cifre di Grecia e Spagna, persino superiori a quelle dei paesi Est-Europa.
6
I paesi Euro-sud, in deficit di conto corrente prima della crisi, registrano ingenti miglioramenti tra il
2008 e il 2015: una riduzione di 12 e 15 punti (sul pil) rispettivamente per il Portogallo e la Grecia
(che nel 2015 azzerano il saldo corrente), un miglioramento di 5 e 11 punti rispettivamente per Italia
e Spagna (che passano in surplus). Anche i paesi Est Europa registrano rilevanti miglioramenti dei
saldi correnti, compresi tra i 5 e i 10 punti di pil. A fronte di questi andamenti, solo la Finlandia, nel
gruppo Euro-nord, registra un modesto peggioramento del saldo corrente, mentre Germania e Olanda
esibiscono un aumento dei già elevati surplus, con la conseguenza che l’area euro, che nel 2008 era
approssimativamente in equilibrio esterno, presenta nel 2015 un surplus corrente di quasi 4 punti di
pil.
Tabella 4
L’economia europea dopo la crisi, 2008-2015
Grecia
Italia
Spagna
Portogallo
Euro Sud
Francia
Germania
Euro Nord (6)
Est Europa (7)
Salari (1)
-2,3
0,6
0,8
0,2
0,4
1,8
2,2
1,7
2,6
Produttività (2) Occupazione (3)
-1,7
-21,7
-0,5
-2,8
1,4
-12,7
0,7
-11,1
0,2
-9,4
0,4
1,9
0,2
4,3
0,1
-1,7
1,6
2,1
Industria (4)
-45,5
-14,3
-40,9
-26,7
-27,7
-7,2
-0,1
-11,9
-5,8
Inflazione (5)
1
1,5
1,1
1,1
1,3
1,1
1,2
1,6
2
1, Retribuzioni nominale per dipendente, economia nel suo complesso, tassi di variazione medi annui
2, Prodotto per occupato, economia nel suo complesso, tassi di variazione medi annui
3, Occupazione totale, variazione complessiva 2008-20015
4, Occupazione nell’industria, variazione complessiva 2008-2014
5, Tassi di variazioni medi annui dei prezzi al consumo
6, Olanda, Finlandia, Belgio (medie ponderate)
7, Repubblica Ceka, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Polonia (medie ponderate)
Fonti: elaborazioni propria su dati Ocse (database Economic Outlook, colonne 1, 2, 5); Commissione europea,
Employment and social development in Europe, 2016 (colonne 3, 4).
Per quanto riguarda la relazione tra competitività e performance il periodo 2008-2015 riproduce
grosso modo, ma con un andamento opposto rispetto al periodo pre-crisi, il “paradosso di Kaldor”,
visto che il miglioramento rilevante della competitività è in gran parte la conseguenza del
peggioramento della performance e che l’eccellente andamento della competitività si accompagna ad
un vistoso peggioramento dell’andamento delle esportazioni, che cadono in Grecia, ma vanno male
ovunque. I guadagni di competitività sono infatti conseguiti ovunque, tranne che in Germania, con
uno scrollone all’occupazione industriale, che nei paesi Euro-sud ha preso una piega catastrofica.
Invero, le cifre sull’occupazione restituiscono l’immagine più esatta della natura distruttiva della
politica economica europea nella crisi: ancora nel 2015 l’occupazione complessiva nella zona Euro
(19 paesi) è più di tre milioni sotto il livello del 2008, mentre tra il 2008 e il 2014 l’Eurozona distrugge
quasi cinque milioni di posti di lavoro industriali, l’80 per cento dei quali nei quattro paesi Euro-sud,
nei quali in sei anni scompare quasi un terzo dell’occupazione industriale del 2008.
Il punto è ora obliquamente riconosciuto anche in un ponderoso rapporto dell’Ufficio Studi della Bce
in cui si legge che prima della crisi “l’andamento congiunto dei deficit di conto corrente e del
deterioramento della competitività […] riflette fattori macroeconomici che li hanno simultaneamente
determinati o facilitati” producendo per questo un debole legame tra competitività ed esportazioni;
analogamente, negli anni post-crisi, il miglioramento della competitività è la conseguenza del declino
della domanda interna che, spingendo sulla disoccupazione e distruggendo occupazione, ha
7
compresso la dinamica dei salari e ha sostenuto la produttività, anche se non in paesi come la Grecia
e l’Italia (Bce, 2016, pp. 16 sgg.).
Non sorprende, dunque, che il riequilibrio della posizione esterna dei paesi europei negli anni della
crisi sia prevalentemente un riflesso dell’aggiustamento macroeconomico. Uno studio del Fondo
monetario, relativo a 13 paesi della zona euro nel periodo 2008-2012, mostra che l’andamento delle
esportazioni dipende per lo più dalla domanda esterna, mentre è trascurabile il ruolo della
competitività di prezzo (Tressel e Wang, 2014).4
Tabella 5
Competitività e salari dopo la crisi, 2008-2015
Grecia
Italia
Spagna
Portogallo
Euro Sud
Francia
Germania
Euro Nord (5)
Est Europa (6)
Convergenza Euro (7)
Convergenza (10)
Competitività (1)
-16,9
-7,4
-18
-11,1
-12,3
0
1,4
-7,2
-14,4
Esportazioni (2
-1
1,3
2,9
3,9
1,9
2,7
3,2
2,2
5,1
Salari reali (3)
56,8
76
80,9
53,5
74,7
91,8
100
107,4
51,4
22,2 (8)
30,8 (8)
Prezzi (4)
67
83
74,1
65,2
89,2
105,2
100
107
58,3
14,9 (9)
23,9 (9)
1, Variazione totale nel periodo del tasso di cambio reale basato sui costi unitari del lavoro (in dollari). Il segno positivo
(negativo) indica apprezzamento (deprezzamento) rispetto alla media dei paesi concorrenti (con pesi che riflettono
l’importanza relativa delle esportazioni e importazioni nei diversi mercati).
2, Esportazioni (beni e servizi)(quantità), tassi di variazioni medi annui
3, Retribuzione annua per l’intera economia a parità di potere d’acquisto (Germania = 100)
4, Indice relativo al Pil: rapporto tra i tassi di cambio a parità di potere d’acquisto e i tassi di cambio nominali
(Germania = 100)
5, Olanda, Finlandia, Belgio (medie ponderate)
6, Repubblica Ceka, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Polonia (medie ponderate)
7, I paesi della tabella più Austria e Irlanda
8, Coefficiente di variazione (%) dei salari reali (nella definizione 1).
9, Coefficiente di variazione (%) dei prezzi (nella definizione 2).
10, Repubblica Ceka, Ungheria, Polonia, Repubblica Slovacca, Slovenia
Fonte: elaborazione propria su dati Ocse.
Conclusioni
Dopo la crisi, il tema della competitività, in particolare l’accento sulla competitività nazionale,
diventa centrale nella politica economica europea, essenzialmente per tre ragioni.
In primo luogo, nel palinsesto della politica economia europea, significa mettere sotto pressione i
mercati del lavoro nazionali; in secondo luogo perché permette di leggere retrospettivamente la crisi
4
Meno del cinque per cento della varianza delle esportazioni è spiegata da fattori di costo o di prezzo, mentre il 95 per
cento è spiegato dall’evoluzione dei mercati di sbocco (Tressel e Wang, 2014, box 1, p. 11). L’argomento che i guadagni
di competitività non si sono tradotti in una più sostenute crescita delle esportazioni a causa delle politiche restrittive
dell’insieme dei paesi europei, è un non sequitur, perché l’andamento della competitività è il prodotto di quelle stesse
politiche, mentre, ovviamente, il vincolo della competitività sarebbe assai meno stringente in un contesto di politiche
macroeconomiche espansive.
Sulla debole sensibilità dei flussi del commercio internazionale alle variazioni della competitività, in particolar modo
nelle fasi di crisi nelle quali sono prevalenti gli impulsi di domanda aggregata, insistono anche Ollivaud e Schwellnus,
(2015).
8
come una manifestazione di squilibri strutturali interni ai singoli paesi piuttosto che come esito, in
gran parte inevitabile, della natura difettosa del disegno di integrazione economica europea; infine
perché l’accento sugli squilibri tra paesi obbliga ogni economia ad affrontare le conseguenze della
crisi in ordine sparso, per così dire, affidandosi alla leva della competitività.
Su questo impianto, che costituisce da tempo il fondamento della politica economia europea, non è
possibile coltivare illusioni.
Nel 2003 Tommaso Padoa Schioppa, allora membro del Consiglio direttivo della Bce, lodava
come manifestazione di realismo le politiche di disinflazione competitiva attuate dalla Francia negli
anni ottanta perché “il severissimo controllo dei salari accrebbe anno dopo anno la competitività
favorendo la crescita” (Padoa Schioppa, 2003); nello stesso anno, incoraggiava i sindacati italiani a
non irrigidirsi sulle riforme del mercato del lavoro, perché “il paese che riesce a riformare meglio il
proprio mercato del lavoro o il proprio sistema pensionistico acquisisce un meritato vantaggio”
(Bonanni, 2003).
Analoga è la posizione enunciata nel 2012 con esemplare chiarezza dal Presidente della Bce che, in
una intervista al quotidiano tedesco Bild Zeitung, confrontava Grecia e Germania spiegando che i
sacrifici sono l’inevitabile contrappasso del vizio economico. “La Germania è un modello”, diceva
Draghi (il suo “elemento prussiano” è un simbolo per la Bce) e all’intervistatore che gli chiedeva se
i Greci avrebbero dovuto rinunciare alla loro prosperità rispondeva: “Si, è quello a cui i greci stanno
esattamente rinunciando in conseguenza del taglio dei salari generalizzato a tutti i settori. Questo si
può fare più facilmente nella euro-area che al di fuori” (Bild, 2012).
In breve, la crisi strappa il velo della retorica europea e mostra che la ricerca della competitività è una
gara tra paesi che inevitabilmente alimenta, come nelle gare sportive, le risse dei nazionalismi, le
derive identitarie, la chiusura delle frontiere. L’Eurozona, avvisa Draghi, è un’arena sportiva, non
una società di mutuo soccorso (“l’area euro non può diventare una transfer union dove uno o due
paesi mettono i soldi e gli altri spendono”), ed è per questo che i paesi in difficoltà a causa di una
struttura economica-sociale poco dinamica possono sperare di farcela imitando modelli esemplari e
impegnandosi in uno sforzo competitivo che richiede tuttavia dolorosi adattamenti nello standard di
vita delle persone. Guadagnare competitività tagliando i salari e distruggendo occupazione, spiega
Draghi, “si può fare più facilmente nella euro-area che al di fuori”. I paesi europei hanno fatto molto
per recuperare competitività, possono quindi certificare nel 2016 i policy makers europei, ma Benoit
Coeuré, membro del Comitato esecutivo della Bce, dopo otto anni di crisi permanente della eurozona,
solleva il subdolo sospetto che “la ‘competitività’ potrebbe tradursi in un gioco a somma zero”
(Coeuré, 2016).
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alla Conferenza internazionale sulle Riforme strutturali nelle economie avanzate, Hertie School of
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