La Roma repubblicana e la conquista dell’Italia 509 a.C. - 272 a.C. 1. NASCITA ED EVOLUZIONE DELLA REPUBBLICA ROMANA NEL V SECOLO A.C. 1.1 Una repubblica aristocratica Le prime magistrature Nel VI secolo, i re etruschi avevano accentrato il potere nelle loro mani, fondandolo sull’appoggio dei ceti mercantili, a scapito dell’aristocrazia. Ma nel 509 a.C. una congiura di aristocratici cacciò l’ultimo re etrusco, senza per questo eliminare la figura del re, a cui si riconobbero le prerogative religiose come rex sacrificulus o rex sacrorum. Il potere politico invece fu affidato a due magistrati, i consoli, scelti ovviamente tra gli aristocratici e destinati a rimanere in carica solo un anno, dopo il quale entravano a far parte del senato. Ai consoli furono poi affiancati altri magistrati: i pretori, incaricati di condurre inchieste giudiziarie; i questori, col compito di amministrare le finanze dello stato. I poteri dei consoli I due consoli erano accompagnati, come il re, dai littori, guardie del corpo che portavano i simboli del potere regio, i fasci. A differenza degli arconti ateniesi, ognuno dei quali aveva un compito particolare (l’arconte polemarco, ad esempio, aveva il comando militare), i consoli, per l’anno in cui rimanevano in carica, concentravano nelle loro mani i più alti poteri: godevano infatti entrambi dell’imperium, che assommava il potere esecutivo (il compito di fare eseguire le deliberazioni delle assemblee e del senato, di amministrare la giustizia, di prendere gli auspici) e il supremo comando militare in guerra. Custodi della legalità repubblicana, potevano far decapitare chi attentava alla repubblica. A loro spettava convocare il senato, convocare e presiedere le assemblee, proporre le leggi. I consoli non dovevano render conto dei propri atti al popolo, come accadeva ai magistrati ateniesi, bensì solamente al senato. Il loro potere era sottoposto a due sole limitazioni: il rapporto col senato e la presenza di un collega. Ognuno dei due magistrati aveva infatti il diritto di veto (l’intercessio, da intercedere, “frapporsi”) nei confronti dell’altro: in caso di disaccordo, per non paralizzare l’attività di governo, i consoli governavano o comandavano l’esercito a mesi o a giorni alterni. Caratteristiche comuni delle magistrature Il nuovo sistema era teso a evitare il predominio politico e militare di un singolo e il ritorno della monarchia, che divenne un vero e proprio tabù nella cultura romana repubblicana. Tutte le magistrature repubblicane presentavano perciò alcune caratteristiche comuni: l’elettività: i magistrati venivano scelti da assemblee, controllate, soprattutto nella prima età repubblicana, dai patrizi; la collegialità: la presenza di colleghi di pari grado impediva che uno di loro abusasse del proprio potere; l’annualità: la breve durata impediva al magistrato di acquisire un eccesso di potere (com’era accaduto invece ad Atene con Pericle, in carica per circa trent’anni); la gratuità: l’assenza di retribuzione evitava che si aspirasse alle cariche politiche per motivi economici e di fatto riservava le magistrature a chi aveva un reddito considerevole, quindi inizialmente soltanto ai patrizi. Era prevista però una magistratura non collegiale, la dittatura, ma era straordinaria e consentita solo in caso di pericolo estremo e per soli sei mesi. Il dittatore era nominato da un console su invito del senato, che gli conferiva i pieni poteri. Glossario Tabu Il termine deriva dalle religioni primitive presso le quali alcuni oggetti, luoghi o azioni, in quanto sacri e magici, erano ritenuti misteriosi e pericolosi e per questo circondati da divieti. In italiano si intende tutto ciò che per ragioni culturali incute tanta soggezione o repulsione da impedire addirittura di parlarne. Storia di parole: Res publica / Repubblica In latino il termine res publica (o respublica), “la cosa pubblica”, era da intendere come contrapposto a res privata. A Roma indicava la forma di organizzazione politica e giuridica opposta alla monarchia (regnum) perché basata sulla libertà del popolo romano dal re o dalla tirannia e gestita nell’interesse pubblico collettivo. Oggi la parola “repubblica” indica un preciso ordinamento politico-istituzionale di uno Stato nelle sue varianti (repubblica parlamentare, repubblica presidenziale), distinto dalle monarchie. Il termine non va però confuso con “democrazia”. Le basi del potere aristocratico Con la cacciata dei re etruschi il potere era ormai tutto nelle mani dell’aristocrazia patrizia e ogni patrizio aspirava ad accumulare nel tempo più magistrature possibile, per accrescere il proprio prestigio, favorire l’ascesa di altri membri della propria gens ed estendere l’influenza dell’intero gruppo familiare sullo Stato. Per ottenere il potere si ricorreva, soprattutto attraverso i matrimoni, alle alleanze tra più gentes, che permettevano di mettere insieme enormi masse di clienti-elettori e di avere quindi i voti necessari per ottenere una carica o per far passare una legge a cui si era interessati. 1.2 Il predominio nel Lazio (V secolo a.C.) Box La storia in parallelo Nel V secolo a.C.: la colonie greche della Ionia si ribellano (499 a.C.) all’impero persiano, che distrugge Mileto nel 494 a.C. Sparta e Atene raggiungono l’apice della loro potenza: - sconfiggono l’impero persiano (490-480 a.C.) - si spartiscono il controllo su tutto il mondo greco attraverso le loro rispettive leghe; Atene costruisce con Temistocle e Pericle (460-429 a.C.) un vero e proprio impero, che la porta a scontrarsi con Sparta nella guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), dalla quale esce sconfitta tanto che alla fine del secolo la sua potenza risulta definitivamente ridimensionata. In Sicilia greci e cartaginesi si scontrano per il predominio sull’isola (battaglia di Imera 480 a.C.). Nelle acque di Cuma nel 474 a.C., la flotta di Gelone tiranno di Siracusa sconfigge quella etrusca. Dall’Europa centro-settentrionale calano lentamente nella zona settentrionale della penisola gruppi di celti. I primi problemi della repubblica Con la fine della monarchia, Roma dovette affrontare una serie di problemi sia economico-sociali sia nei rapporti con i popoli vicini. L’aristocrazia, infatti, si chiuse nei suoi privilegi, regolamentò l’accesso degli stranieri e rallentò lo sviluppo economico, facendo perdere alla città la prosperità che aveva raggiunto in epoca etrusca e suscitando ben presto la reazione dei plebei, soprattutto artigiani e mercanti che, arricchitisi sotto i re etruschi, ora vedevano diminuire i loro traffici e il loro ruolo nella società. I popoli vicini approfittarono della debolezza della città per attaccarla. È vero che nel 508 a.C. Roma riuscì a concludere un trattato con la potente Cartagine, che riconosceva la sua supremazia nel Lazio, ma altri popoli assai più vicini la minacciavano. Memo Cartagine Cartagine era la più potente e ricca colonia fenicia nel Mediterraneo occidentale, fondata alla fine del IX secolo a.C. sulle coste del Nord-Africa, nell’odierna Tunisia. Ben presto aveva occupato porti e terre anche in Sicilia occidentale, Sardegna, Corsica e Spagna. Lo scontro con gli etruschi Il re Tarquinio, appena cacciato da Roma, tentò di riprendersi il potere convincendo il lucumone di Chiusi Porsenna ad attaccare la città e confidando non solo nell’appoggio delle altre città etrusche, ma anche delle città latine e sabine pronte a liberarsi del giogo di Roma. Porsenna calò su Roma da nord e per la città fu una disfatta, malgrado gli atti di eroismo con cui la tradizione ha voluto nasconderla. Porsenna impose una pace umiliante: Roma dovette restituire tutti i territori etruschi e non poté più usare il ferro per costruire armi, ma solo per fabbricare attrezzi agricoli. Alla città occorse un secolo per risollevarsi. Infatti, per tutto il V secolo a.C. dovette contendere il controllo del Tevere e delle saline all’etrusca Veio, che sorgeva al di là del fiume, a soli 17 chilometri da Roma. Dopo una serie di guerre, soltanto nel 396 a.C. i romani riuscirono a conquistare la città etrusca e a spartire la maggior parte delle sue terre tra i cittadini romani, raddoppiando così il proprio territorio. Memo Lucumone Era il nome dei re delle città-stato etrusche. Una volta eletti, i lucumoni restavano in carica a vita con ampi poteri giudiziari, militari e religiosi. Lo scontro con i latini I latini cominciarono a preoccuparsi della potenza di Porsenna e si coalizzarono, com’era loro consuetudine, in una alleanza, la Lega latina. Sulla Lega Roma tentò di imporre la propria supremazia, ma le città resistettero: l’inevitabile scontro avvenne al lago Regillo (499 a.C.), oggi scomparso, presso Tuscolo. Roma vinse, ma il patto che fu stipulato nel 493 a.C., il foedus Cassianum, era in realtà un accordo tra pari: Roma veniva ammessa nella Lega latina, e tutte le città si impegnavano a una pace perpetua e all’aiuto reciproco in caso di attacco esterno. Lo scontro con i popoli degli Appennini Un attacco in effetti si prospettava: i popoli stanziati sulle montagne della pianura laziale – a nord i sabini, a est gli equi e a sud i volsci – erano sempre più attratti dalle fiorenti campagne della pianura e vi facevano frequenti incursioni e razzie, soprattutto nel periodo dei raccolti. Anche in questo caso lo stato di guerra, o meglio di guerriglia, si protrasse per quasi tutto il V secolo a.C. e si concluse intorno al 430 a.C., quando Roma fondò sui territori degli equi e dei volsci colonie di cittadini romani. Oltre a svolgere una funzione di controllo, le colonie favorirono l’assimilazione dei popoli conquistati. 1.3 Le lotte e le prime conquiste della plebe La secessione sull’Aventino e i tribuni della plebe (494 a.C.) Per più di due secoli i plebei reagirono al predominio aristocratico intraprendendo forme di lotta tese a ottenere parità di diritti con i patrizi e un potere politico che consentisse loro di soddisfare le proprie esigenze e ne favorisse lo sviluppo. La prima forma fu la secessione che i plebei, costretti a gravi sacrifici a causa della guerra contro i latini, attuarono nel 494 a.C.: si ritirarono in massa fuori dal pomerio, sull’Aventino, sottraendo forze all’esercito e all’economia. Istituirono quindi una sorta di stato parallelo: si diedero due capi, i tribuni della plebe, che potevano bloccare le leggi lesive nei confronti dei plebei; crearono una loro assemblea, i concili tributi (concilia plebis tributa), fondati, come i comizi tributi, sulle tribù territoriali stabilite da Servio Tullio, con la differenza che ai concili potevano partecipare solo i plebei, sotto la presidenza dei tribuni della plebe. Nei concili tributi si prendevano deliberazioni definite plebis scita, “decisioni della plebe” o “plebisciti”, che per il momento avevano valore solo per i plebei, ma costituivano un elemento di pressione popolare sul governo dei patrizi; ottennero la nuova magistratura degli edili, riservata ai plebei, con compiti di polizia urbana. BOX Storia di parole Plebis scitum Il plebis scitum era una deliberazione (scitum, al plurale scita) della plebe (plebs) riunita nei concili tributi (concilium plebis tributa la concordanza è sbagliata, dovrebbe essere concilia plebis tributa) riguardo a una proposta dei tribuni della plebe. Inizialmente i plebis scita erano vincolanti soltanto per la plebe, e solo più tardi, con la Lex Hortensia, assunsero valore di leggi (leges) per l’intero popolo romano. Dalla locuzione latina deriva la parola italiana “plebiscito”. Con questo termine si indica in generale una consultazione popolare su temi di rilevanza costituzionale: un esempio sono stati i plebisciti d’annessione, con i quali, dal 1848 al 1870, fu votata l’unione delle nuove province al regno di Sardegna prima e al regno d’Italia poi. Il plebiscito può essere considerato dunque uno strumento di democrazia diretta (ma in questo senso oggi si parla piuttosto di “referendum”), ma, soprattutto nel XX secolo, è stato usato dai regimi autoritari o dittatoriali per legittimare il loro potere, in assenza di libere elezioni. L’aggettivo “plebiscitario”, con significato figurato, indica invece un consenso unanime o fortemente maggioritario in una votazione o elezione. Memo Pomerio Da post murum, “dopo il muro”, il termine indicava lo spazio al di qua e al di là delle mura della città. Era il confine sacro che Romolo aveva tracciato sul Palatino al momento della fondazione di Roma. Il pomerio, presente in ogni città romana, era consacrato agli dèi e interdetto alle attività militari e politiche. Memo Servio Tullio Il sesto re di Roma, secondo la tradizione, probabilmente di origine etrusca. Era stato autore di numerose riforme, tra cui la suddivisione della popolazione in tribù territoriali, che superavano le più arcaiche tribù gentilizie. Il tribunato della plebe I tribuni della plebe inizialmente furono espressione della plebe, come il consolato lo era dei patrizi. Erano due, ma col tempo il loro numero aumentò fino a dieci. Nominati dai concili tributi per un anno, avevano il diritto di veto con cui potevano bloccare le decisioni dei consoli e i lavori di un’assemblea che si accingesse a votare una legge lesiva per la plebe. Questa loro prerogativa ben presto fu sfruttata dall’aristocrazia, che non aveva difficoltà a far eleggere tra i dieci tribuni almeno uno di sua fiducia che bloccasse col suo veto iniziative politiche a essa sgradite. I tribuni erano “sacrosanti”, cioè sacri e inviolabili: non potevano essere arrestati né condannati. Avevano il diritto di difendere, contro decisioni arbitrarie di un magistrato, sia la plebe nel suo insieme sia singoli plebei. All’inizio potevano convocare solo i concili tributi, cioè l’assemblea della plebe; in seguito acquisirono altri poteri, come quello di convocare i comizi tributi (l’assemblea delle tribù) e persino il senato, e dal 287 a.C., con la lex Hortensia, di promulgare delibere con valore di legge per l’intera collettività. BOX Tra storia e letteratura Tito Livio narra l’apologo di Menenio Agrippa Lo storico latino Tito Livio, vissuto tra il I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., nella sua lunga e dettagliata opera sulla storia di Roma (Ab Urbe condita), narra l’episodio che placò gli animi dei plebei in rivolta durante la secessione dell’Aventino. È il famoso “apologo di Menenio Agrippa”. L’episodio è preceduto da una breve descrizione della secessione e della situazione a Roma: «La secessione avvenne sull’Aventino. Lì, senza nessuno che li guidasse, fortificarono in tutta calma il campo con fossati e palizzate. [...] Roma era nel panico più totale e il clima di mutua apprensione teneva tutto in sospeso. [...] La sola speranza era rappresentata dalla concordia interna: per il bene dello Stato andava restaurata e a qualunque costo. […] Si decise allora di mandare alla plebe come portavoce Menenio Agrippa, uomo dotato di straordinaria dialettica e ben visto per le sue origini popolari. Una volta introdotto nel campo, pare che raccontò questo apologo con lo stile un po’ rozzo tipico degli antichi: “Quando le membra del corpo umano non costituivano ancora un tutt’uno armonico, ma ciascuna di esse aveva un suo linguaggio e un suo modo di pensare autonomi, tutte le altre parti erano indignate di dover sgobbare a destra e a sinistra per provvedere a ogni necessità dello stomaco, mentre questo se ne stava zitto zitto lì nel mezzo a godersi il bendidio che gli veniva dato. Allora decisero di accordarsi così: le mani non avrebbero più portato il cibo alla bocca, la bocca non si sarebbe più aperta per prenderlo, né i denti lo avrebbero più masticato. Mentre, arrabbiate, credevano di far morire di fame lo stomaco, le membra stesse e il corpo tutto erano ridotti pelle e ossa. In quel momento capirono che anche lo stomaco aveva una sua funzione e non se ne stava inoperoso: nutriva tanto quanto era nutrito e a tutte le parti del corpo restituiva, distribuito equamente per le vene e arricchito dal cibo digerito, il sangue che ci dà vita e forza. Mettendo in parallelo la ribellione interna delle parti del corpo e quella dei plebei nei confronti del senato, Menenio riuscì a farli ragionare. Venne allora affrontato il tema della riconciliazione» (Tito Livio, Ab Urbe condita, II, 32-33). Le leggi delle XII Tavole e la lex Canuleia (451-450 e 445 a.C.) Nel 451 a.C. i plebei ottennero le prime leggi scritte, compilate, secondo la tradizione, da una commissione di dieci uomini, i decemviri, che prima, a quanto è stato tramandato, furono inviati ad Atene per studiare le leggi di Solone. Perché il testo potesse essere esposto al pubblico e tutti ne venissero a conoscenza, fu inciso su dodici tavole. Per evitare che venissero danneggiate pare fossero di bronzo (ma ugualmente andarono poi bruciate nell’incendio di Roma del 390 a.C.) e per questo le leggi vennero chiamate delle XII Tavole. Non erano leggi particolarmente rivoluzionarie, erano anzi per lo più severe e basate ancora sulla legge del taglione; sancivano il predominio dei patrizi, del pater familias, del forte sul debole, del creditore sul debitore, ma la loro caratteristica più importante fu che erano scritte e questo le sottraeva all’arbitrio dei pontefici. Alcune leggi tuttavia mitigavano la rigidità delle norme allora in uso: stabilirono, ad esempio, che a condannare a morte non poteva più essere il pater familias ma solo un tribunale, che un condannato a morte o all’esilio si potesse appellare al popolo, e così via. Fu proprio da queste prime leggi scritte che nacque quel sentimento del diritto, dello ius, sottratto alle interpretazioni arbitrarie, che sarà uno dei maggiori apporti che Roma lascerà in eredità alla cultura mondiale. Per altro, le XII Tavole furono l’unico codice organico di leggi, perché, non solo Roma non ebbe mai una costituzione, ma dopo la stesura delle XII Tavole, la produzione giuridica di Roma fu costituita dall’insieme di leggi promulgate di volta in volta e di sentenze emesse dai giudici, che continuavano a considerare come fondamento del diritto le XII Tavole. Solo nel VI secolo d.C. un imperatore, Giustiniano, metterà ordine nel diritto romano. Nel 445 a.C. il plebiscito proposto dal tribuno Canuleio, diventato la lex Canuleia, concesse il diritto di matrimonio (ius connubii) tra patrizi e plebei. I matrimoni misti in realtà furono rari, ma l’affermazione del principio era fondamentale per stabilire la parità sociale tra i due ordini. Nel 409 a.C. i plebei ottennero anche l’accesso alla questura. [Box] Storia di parole Mos, ius e lex A Roma lo ius indicava il diritto, cioè l’insieme delle norme e delle leggi che regolavano la vita della comunità cittadina. Lo ius era costituito in età monarchica soltanto da norme consuetudinarie, cioè non scritte (definite mos, al plurale mores), e solo con le leggi delle XII Tavole Roma ebbe la prima legislazione scritta (cioè delle leges, dal singolare lex). Da ius derivano le parole “giusto” (iustum), “giustizia” (iustitia), “giurisprudenza” (iuris prudentia) e altre. Le leges indicavano le singole norme emanate dai magistrati e presentate ai comizi popolari per essere o meno approvate. Anche da lex/leges derivano numerose parole, tra cui “legge”, “legislazione” (legis actiones), “legislatore” (legis lator). I romani sono considerati oggi dagli storici gli ideatori del diritto occidentale, che oltre alla terminologia ha ripreso dal diritto romano molti concetti giuridici fondamentali. Generi e generazioni Il matrimonio a Roma Il matrimonio come privilegio Nella Roma repubblicana la famiglia continuava a essere l’unità fondamentale dello stato romano; per questo il matrimonio, con cui si formava un nuovo nucleo familiare, era regolato da precise norme. Inoltre a Roma era cittadino soltanto chi nasceva da un giusto matrimonio (iustum matrimonium), in cui cioè entrambi i coniugi fossero in possesso del diritto di connubio (ius conubii). Godevano dello ius connubii i cittadini romani di condizione libera, ma in un primo tempo le leggi delle XII Tavole (451-450 a.C.) vietarono il matrimonio tra patrizi e plebei, anche se poi il divieto fu abrogato con la lex Canuleia del 445. Già nel 493 a.C., inoltre, il foedus Cassianum aveva concesso anche ai latini il diritto di connubio con un cittadino romano. Furono concessioni di grande importanza. Infatti il matrimonio era uno strumento politico di salvaguardia della cittadinanza romana ed era stato, nella fase monarchica, un’importante occasione per intessere legami tra le famiglie patrizie; ma con la lex Canuleia anche i plebei ebbero la possibilità di migliorare la condizione economica e sociale della propria famiglia, e i latini di integrarsi nella società romana. Matrimoni per generare Lo scopo principale del matrimonio restava ovviamente quello di generare figli, come conferma il fatto che il termine matrimonium deriva dalla parola mater, “madre”, e significa “la condizione legale di madre”. La procreazione era un dovere civico necessario a garantire figli legittimi e la sopravvivenza della gens, oltre che ad aumentare la popolazione di Roma. La donna romana quindi, fin da bambina, riceveva un’educazione interamente finalizzata al matrimonio e al suo ruolo di moglie (matrona) e di madre. Scelta obbligata L’amore era il più delle volte un elemento secondario, se non del tutto assente, nei matrimoni romani. L’età minima stabilita per legge era di dodici anni per le bambine e di 14 per i maschi. Un’età così precoce era dettata dalla necessità di sfruttare al massimo la fertilità della donna in un’epoca in cui la vita media era molto più breve di quella odierna e la mortalità infantile altissima. A concordare i matrimoni erano i padri delle due famiglie, anche e soprattutto, come abbiamo detto, per ragioni di interesse. Molti semplici modi per sposarsi Il matrimonio a Roma era monogamico e non prevedeva una registrazione ufficiale: era sufficiente che i due sposi andassero a vivere sotto lo stesso tetto. Si celebravano tuttavia alcune cerimonie che potevano servire come prova, in caso di contestazione, della volontà (affectio maritalis) di essere marito e moglie. Erano sufficienti comunque anche altre prove per confermare che una donna era la legittima sposa di un uomo: se partecipava a cerimonie a cui solo donne sposate erano ammesse o se indossava abiti tipici delle matrone, come la stola, un abito lungo fino ai piedi. La prima cerimonia era quella del fidanzamento, gli sponsalia, che si concludevano con la consegna alla sponsa (cioè alla “promessa”, da spondére, “promettere”) di un anello che ella infilava all’anulare (da anulus, “anello”) sinistro, da cui si credeva partisse un nervo collegato al cuore. Con la cerimonia la donna contraeva l’obbligo di sposare il fidanzato. La più antica cerimonia nuziale era la confarreatio, un solenne rito religioso in cui gli sposi si dividevano una focaccia di farro, come simbolo della condivisione della vita. Il rito fu ben presto sostituito dalla coemptio, la cerimonia più comune, di carattere civile, che consisteva in un vero e proprio atto di compravendita tra il padre della sposa e lo sposo, che sanciva il trasferimento della donna dalla patria potestas, cioè dal potere del padre, alla manus (“potere”) del marito. Infine vi era la forma dell’usus, che, più della precedente, equiparava la donna a un oggetto. Per una delle leggi delle XII Tavole, l’uso di un oggetto per un anno ne garantiva la proprietà. Così anche una donna dopo un anno di convivenza con un uomo diventava sua proprietà in qualità di moglie. Era sufficiente però che ella trascorresse in un anno tre notti lontana dalla casa del marito per liberarsi dalla sua manus. Di solito però, quando lo faceva, non si trattava di una sua scelta, ma di un accordo tra il padre e il marito per sciogliere il vincolo matrimoniale e magari stabilirne un altro più vantaggioso con un’altra persona. Nozze in bianco La cerimonia di nozze variava in base alla ricchezza e alla posizione sociale delle famiglie, ma in genere prevedeva che si compissero sacrifici agli dei, che la sposa si agghindasse con cura, indossando un abito bianco su cui metteva un mantello, la palla, e coprendo i capelli con un velo. Quindi nella casa della sposa si imbandiva un banchetto, finito il quale la donna veniva condotta in processione, alla luce delle torce, nella casa del marito, che la faceva entrare sorreggendola sulle braccia, mentre gli amici cantavano le lodi della sua virilità. Da questo momento la donna entrava a far parte della gens del marito e ne assumeva il nomen, perdendo quello della gens di origine. Un modo ancor più semplice per divorziare A Roma era previsto anche il divorzio, ma inizialmente era solo il marito che poteva ripudiare la moglie. Se però lo faceva senza giusta causa, doveva pagare una pena pecuniaria alla moglie e alla sua famiglia. Erano considerate giuste cause di ripudio: la sterilità della donna, l’aborto senza l’approvazione del marito, il furto delle chiavi della cantina e, ancora più gravi e passibili di morte, erano l’adulterio e l’assunzione vino, come abbiamo detto parlando della condizione femminile nel capitolo precedente. Solo con il tempo anche la moglie ottenne il diritto di divorziare, ma non era ben vista dalla società se lo faceva; i figli, poi, restavano con il padre. Per divorziare era sufficiente dichiarare che era venuta meno l’affectio maritalis, la volontà di essere marito e moglie. Spesso si divorziava per cedere la propria moglie a un altro uomo che la richiedesse in sposa per averne dei figli o per stringere un’alleanza vantaggiosa. Un esempio famoso è quello dell’imperatore Augusto, che chiese di sposare la moglie, per altro incinta di sei mesi, dell’amico Tiberio Claudio. Ma per avere figli si ricorreva spesso all’adozione, anche di persone adulte. Cesare, ad esempio, adottò il nipote adolescente, appunto il futuro imperatore Augusto. A garantire figli a un uomo erano anche le concubine, donne con cui poteva mantenere un rapporto stabile oltre alla moglie. Anch’esse dovevano essere fedeli, vestire in modo decoroso ed essere sottomesse. 1.4 L’ordinamento centuriato La riforma in base al censo Superata con le leggi via via promulgate la distinzione sociale tra patrizi e plebei, la società romana risultò spaccata tra ricchi e poveri, come riconobbe definitivamente la riforma attribuita a Servio Tullio (il re al potere nel VI secolo a.C.), ma in realtà perfezionata probabilmente proprio alla fine del V secolo a.C. Le guerre contro le popolazioni vicine avevano spinto i patrizi ad arruolare un numero sempre maggiore di plebei allo scopo di scaricare anche sulle loro spalle i sacrifici imposti dalle esigenze belliche. Ma di contro i plebei facoltosi chiedevano sempre più insistentemente di ottenere maggiori diritti politici. Perciò tutti i cittadini furono divisi in cinque classi di censo sulla base del loro reddito – calcolato non più sul possesso di bestiame ma in assi – e del contributo di centurie di soldati che dovevano fornire alla formazione dell’esercito. Ogni classe aveva un diverso peso politico. Infatti, siccome l’equipaggiamento militare restava ancora a carico dei cittadini ed era una delle poche forme di tassazione accettabile nel mondo romano, si stabilì che le classi più ricche, non più solo quella aristocratica, fossero meglio equipaggiate e fornissero un numero maggiore di centurie, ma godessero anche di maggiori diritti, ad esempio quello di avere accesso alle magistrature più importanti. Le magistrature, peraltro, non erano retribuite e per essere eletti occorrevano molti voti, che a Roma si ottenevano principalmente dai clienti: quindi solo i ricchi, grazie al loro vasto seguito di clientela, potevano aspirare nel concreto a ricoprire una magistratura. I comizi centuriati Nella nuova assemblea che riuniva tutte le classi, i comizi centuriati, ogni classe aveva diritto a tanti voti quante erano le centurie che forniva. Al di sopra della prima classe era la classe dei cavalieri, in origine solo aristocratici, che avevano un ferma militare decennale e il diritto a un cavallo fornito e mantenuto a spese dello stato. Al di sotto della quinta classe erano i capite censi, i cittadini censiti in base alla sola persona, visto che non avevano un reddito, o proletari, perché avevano come reddito solo la prole, i figli. classi I II capitale oltre 100.000 assi oltre 100.000 assi 100.00075.000 assi centurie e voti 18 di cavalleria 80 di fanteria pesante 20 di fanteria pesante III 75.00050.000 assi IV 50.00025.000 assi V 25.00011.000 assi proletari nullatenenti 20 di fanteria pesante 20 di fanteria leggera 30 di frombolieri e arcieri 5 di falegnami, fabbri, trombettieri ecc. Il luogo e lo scopo delle riunioni I comizi centuriati, in quanto assemblea di uomini in armi, erano convocati dai consoli o dai pretori nel campo Marzio, una grande pianura fra la città e il Tevere, fuori dal pomerio. L’assemblea eleggeva le magistrature maggiori (consoli, censori e pretori), approvava o respingeva le proposte di legge dei magistrati, approvate precedentemente dal senato, decideva sulla pace e sulla guerra, poteva condannare a morte. I più ricchi, cavalieri e prima classe, che fornivano 98 centurie sulle 193 totali e avevano quindi diritto a 98 voti, nelle votazioni avevano la maggioranza assoluta. Però ricchi erano ormai anche molti plebei, quindi la riforma fu un’ulteriore tappa del processo di parificazione politica tra i due ordini che si sarebbe conclusa quasi due secoli dopo. L’aes La prima moneta romana, quando cessò il semplice baratto delle merci, era costituita da pezzi di rame grezzo o della sua lega, il bronzo, il cui valore era determinato dal peso. Solo nel IV secolo a.C. si coniò una vera moneta di rame del peso di 1 libbra (327 g), chiamata asse (da aes, “rame”, “bronzo”). Censimento e censori Per stabilire la classe di appartenenza dei cittadini, periodicamente occorreva verificare il loro censo, in base al numero dei componenti della famiglia, ai beni posseduti e al reddito, effettuando ogni cinque anni il censimento, affidato a un censore. Originariamente a svolgere la funzione di censore era il re, poi l’incarico passò ai consoli, ma quando anche i plebei poterono essere eletti al consolato, i patrizi conservarono per sé il diritto alla censura, che divenne una magistratura autonoma (443 a.C.), della durata di cinque anni (poi ridotta a 18 mesi) e molto potente. Infatti i due censori ebbero anche incarichi politici, come quello di giudicare la moralità dei cittadini e, dal 312 a.C., quello di redigere le liste dei senatori, valutando chi fosse degno di sedere in senato ed eleggendo nuovi senatori in sostituzione di quelli morti o di quelli espulsi perché “censurati”. I poteri del senato in età repubblicana L’espressione dell’oligarchia al potere dopo la cacciata dei re rimaneva il senato, l’unica sede delle discussioni politiche. Infatti le altre assemblee (comizi centuriati e tributi) approvavano o respingevano le proposte di un magistrato, ma non potevano proporre o modificare nulla. Il magistrato che proponeva una legge trovava prima un accordo con l’oligarchia senatoria e poi usava la propria influenza per condizionare le altre assemblee e ottenere l’approvazione della legge proposta. Il senato manteneva quindi la sua funzione consultiva: prima di qualsiasi decisione i magistrati erano soliti chiederne il parere, il senatus consultum, non perché lo imponesse una legge, né perché i magistrati fossero tenuti a rispettare tale parere, ma per l’auctoritas stessa del senato, cioè per il potere che gli conferiva la tradizione. La funzione consultiva divenne il mezzo con cui il senato, di fatto, governò la città e l’impero fino al I secolo a.C. L’autorità del senato derivava da una serie di fattori: il senato era costituito dai più anziani, autorevoli e influenti capi delle gentes e delle familiae, che, in carica a vita, acquisivano una lunga esperienza di governo; del senato facevano parte anche gli ex consoli e gli ex pretori (cui si aggiunsero col tempo altri ex magistrati), quindi personalità che avevano anch’essi esperienza di governo, con un patrimonio di capacità e di conoscenze accumulate sul campo, dall’amministrazione alla guerra alla politica estera; tutte le magistrature duravano in carica un anno, un periodo troppo breve perché i magistrati, soprattutto se giovani e inesperti, fossero in grado di svincolarsi dal potere dei senatori in carica a vita; i magistrati appartenevano alla stessa classe sociale dei senatori e nessuno di loro sarebbe andato contro gli interessi della propria classe; i magistrati aspiravano a essere rieletti, a fare carriera ricoprendo magistrature sempre più alte e, terminato il loro mandato, a far parte del senato; ma per ottenere un simile privilegio il loro operato doveva ottenere il giudizio favorevole dei censori, ovviamente nobili. È quindi facilmente comprensibile perché il senatus consultum, pur essendo solo un “consiglio” non vincolante, venisse sempre rispettato. I limiti delle altre assemblee Le assemblee dei cittadini, comizi e concili tributi, comizi centuriati, che in età repubblicana sostituirono gli antichi comizi curiati di età regia, ormai privi di importanza, erano riservate ai maschi adulti con diritto di cittadinanza e avevano poteri limitati. Infatti: non potevano assumere iniziative autonome; potevano approvare o respingere le proposte dei magistrati, ma non discuterle né modificarle; le loro deliberazioni, per essere vincolanti, dovevano essere approvate dal senato; erano composte nominalmente da tutti i cittadini romani, ma ormai erano cittadini anche gli abitanti dell’Italia centrale, che per votare si sarebbero dovuti recare in città, con gravi disagi e il più delle volte con l’impossibilità di farlo. Di fatto quindi gran parte dei cittadini era esclusa dal diritto di voto. GUIDA ALLO STUDIO 1. Il V secolo a.C. vede, da un alto, l’espansione di Roma e dall’altro le lotte della plebe che rivendica maggiori diritti. Rifletti su come le guerre all’esterno influiscano sulle rivendicazioni della plebe. 2. L’espansione di Roma non è programmata, ma nasce, in questa fase, dal contatto-scontro con popoli che circondano la città. Seguine il percorso individuando sulla carta le città di Veio e Chiusi, il lago Regillo, gli stanziamenti di Sabini, Equi e Volsci. Spiega che direzioni prende l’espansione di Roma e quali sono le cause degli scontri: perché abbiamo parlato di espansione non programmata? 3. All’interno della città, da un lato, il patriziato prende il potere con una serie di magistrature, che presentano caratteristiche comuni: compilane un elenco; dall’altro i plebei chiedono maggiori diritti: compila una tabella, seguendo un criterio cronologico, dei diritti acquisiti e delle loro caratteristiche. 2. L’ESPANSIONE NON PROGRAMMATA E LE CONQUISTE DELLA PLEBE NEL IV SECOLO A.C. Alternativa: La storia e la società della Roma repubblicana nel IV secolo Box La storia in parallelo Nella prima metà del IV secolo a.C. in Grecia, dopo uno scontro con Sparta, Tebe impone la sua supremazia per un decennio (371-361 a.C.). Poi tutte le poleis cominciano a decadere. In Sicilia, Siracusa con il tiranno Dionisio il Vecchio (431-367 a.C.) riesce a realizzare uno stato territoriale che comprende la Sicilia orientale e la Calabria meridionale. Nella seconda metà del IV secolo a.C. l’ascesa del regno di Macedonia porta allo scontro con l’Atene di Demostene, alla sottomissione delle città greche (battaglia di Cheronea, 338 a.C.) alle conquiste di Alessandro (334-323 a.C.) . 2.1 L’espansione nell’Italia centrale (IV secolo a.C.) L’attacco dei galli (390 a.C.) All’inizio del IV secolo a.C. Roma era diventata la più grande città del Lazio e dell’Italia centrale: controllava 2500 km² di territorio e altrettanti ne controllavano le città alleate. Ma si profilava un nuovo pericolo. Quelli che i romani chiamavano galli, cioè tribù celtiche di lingua indoeuropea, che da molto tempo si erano stanziate nell’Europa centrale, dal Danubio all’Atlantico, nel V secolo a.C. si erano infiltrati nella zona dei laghi lombardi, dove insubri e cenomani fondarono quella che in lingua celtica si chiamava Mid-land, “la città nel mezzo” della regione, in latino Mediolanum (Milano). In Emilia invece tribù di boi e sénoni occuparono città etrusche come Felsina, che dai boi fu chiamata Bononia (Bologna), e si espansero sulla costa adriatica fino ad Ancona. Nel 390 a.C. un gruppo di sénoni guidati da Brenno penetrò in Etruria e puntò prima su Chiusi, che non poté espugnare, poi si diresse, il 18 luglio (che rimase nel calendario romano come giorno nefasto, si scontrò con una legione romana e la annientò presso il fiume Allia, un piccolo affluente di sinistra del Tevere, 16 km a nord di Roma. La popolazione romana, sgomenta per il pericolo che incombeva su una città sostanzialmente priva di mura – quelle serviane erano ormai insufficienti – si rifugiò nella città etrusca di Cere, alleata di Roma, mentre un gruppo di armati rimase a difendere il colle del Campidoglio. Brenno incendiò la città e assediò il Campidoglio finché non ottenne un cospicuo riscatto in oro. L’evento segnò a lungo una ferita profonda nel ricordo e nell’orgoglio dei romani. Poi i galli lasciarono Roma e si diressero verso l’Italia meridionale, dove divennero soldati mercenari al servizio delle città greche. Le incursioni dei galli danneggiarono però soprattutto gli etruschi che, dopo aver perso il predominio sul mare, dovettero concentrare le loro energie verso nord, abbandonando le regioni meridionali all’influenza di Roma, che si presentò alle città della Magna Grecia come potenza in grado di opporre resistenza (oppure di difenderle?) sia agli attacchi dei galli, sia alle incursioni delle popolazioni italiche. Memo Mura serviane La cinta muraria di sette chilometri fatta edificare a Roma dal re Servio Tullio nel VI secolo a.C., che ampliava il perimetro delle mura originarie fino a comprendere tutti i colli romani. Storia di parole Il nome del capo: Brenno È accaduto spesso nella storia che un nome comune di una lingua straniera sia stato assunto come nome proprio perché non se ne capiva il significato. Lo abbiamo visto nel caso di Minosse (che a Creta significava “re”) e lo vediamo ora con Brenno, che appare come un nome proprio e invece in lingua celtica significava semplicemente “capo”. Gli scontri con le popolazioni italiche (390-350 a.C. ca.) I romani si ripresero rapidamente: ricostruirono la città e la cinsero di mura lunghe 11 km, che comprendevano anche il Campidoglio e l’Aventino. Roma diventava per estensione la terza città in Italia, dopo Taranto e Siracusa. Ma le popolazioni italiche (etruschi, equi, volsci e latini) approfittarono dell’indebolimento della città, conseguente all’attacco dei galli, per ribellarsi al suo predominio, impegnandola in una lunga guerriglia per tutta la prima metà del IV secolo a.C. Alla fine però Roma le vinse ed estese il proprio dominio dall’Etruria meridionale, sottratta agli etruschi ormai in decadenza, fino all’agro pontino, sottratto ai volsci. La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) Tra il VI e il V secolo a.C., sugli Appennini meridionali, nell’entroterra di Marche, Abruzzo e Campania, tra il fiume Sangro, in Abruzzo, e l’Ofanto in Puglia, si erano stanziati i sanniti, un popolo di pastori-soldati forse di stirpe sabina. Spinti dalla povertà dei luoghi, avevano cercato risorse con periodiche migrazioni nelle regioni verso il mar Ionio – fondendosi con le popolazioni locali e dando vita alle popolazioni dei lucani e dei bruzi – e nella pianura campana, la più fertile della penisola, colonizzata da greci ed etruschi. Qui, avevano conquistato nel V secolo a.C. le due città più floride, Cuma e Capua, avevano assimilato elementi della cultura greca ed etrusca e si erano evoluti nella popolazione degli osci (o oschi), divenendo agricoltori e mercanti. La società campana si trasformò allora in una società mista greco-italica con caratteristiche originali. I sanniti occupavano così, all’inizio del IV secolo a.C., un territorio più vasto di quello controllato dalla federazione romano-latina, anche se molto meno popoloso. Le popolazioni sannitiche rimaste sulle montagne dell’Irpinia e del Sangro, a livelli di vita assai arretrati, nel IV secolo a.C. aspiravano a espandersi nelle fertili pianure di Capua. I campani si rivolsero a Roma che, nel 343 a.C., intraprese la prima guerra sannitica. Dopo solo due anni, nel 341 a.C., entrambi i contendenti preferirono firmare la pace perché i sanniti dovevano affrontare le minacce di Taranto, appoggiata dalla madrepatria Sparta, e i romani quella dei latini, che cercavano di sottrarre i capuani all’alleanza con Roma. Valorosi guerrieri I dida Il nome dei sanniti nella loro lingua significa “federati” e, in effetti, essi costituivano una federazione di tribù. Vivevano in villaggi e accampamenti fortificati sugli Appennini. II dida Abituati a combattere in zone impervie, in guerra puntavano sull’agilità: indossavano una corazza leggera e un ampio scudo ovale molto leggero, per non intralciare la velocità di movimento, e gambali di bronzo; erano armati di una lancia corta e un giavellotto che si poteva scagliare lontano o usare nel combattimento ravvicinato. III dida Erano divisi in manipoli, piccoli gruppi che attaccavano il nemico e fuggivano. I romani chiamavano il loro modo di combattere cunctatio, che indicava l’indugio ad attaccare e quindi la guerriglia. Erano dotati di un’ottima cavalleria, sebbene il territorio impervio del Sannio non ne facilitasse l’uso. Nei confronti dell’abilità in guerra dei sanniti, i romani avevano un rispetto che non concedevano ad altri popoli, ammiravano il loro coraggio che li portava a sfidare la morte anche quando avevano poca speranza di vincere e per questo tra i tutti i popoli italici con cui si scontrarono, solo ai sanniti i romani riservarono il titolo di belligeri, “guerrieri”. Proprio per il loro coraggio e il loro orgoglio, i sanniti non smisero mai, neppure dopo la sconfitta, di ribellarsi al dominio romano, finché nel I secolo a.C. furono sterminati in massa da Lucio Cornelio Silla. Romani contro latini: la guerra latina (340-338 a.C.) Firmata la pace con i sanniti, i romani affrontarono dunque la Lega latina, ma solo dopo due anni di episodi drammatici riuscirono a sconfiggerla, la sciolsero e: distrussero alcune città che avevano guidato la rivolta e confiscarono una parte delle loro terre, che furono assegnate a cittadini romani; vietarono alle altre città di allearsi tra loro; ma concessero loro: - il diritto di mantenere il proprio territorio e la propria autonomia, con l’obbligo però di demandare a Roma la politica estera; - il titolo di socii latini, a metà strada tra i cittadini romani e gli altri alleati; - il diritto di partecipare alla distribuzione delle terre conquistate ai nemici per fondarvi colonie; alle colonie latine lasciarono l’autonomia e concessero lo ius commercii, obbligandole solo a inviare contingenti militari a Roma in caso di necessità. Proprio la scelta di Roma di non infierire sui vinti e la sistemazione diversificata dei territori conquistati sarà la vera forza dell’impero romano. La seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) Dopo la guerra latina Roma controllava 6000 km² e altrettanti i suoi alleati e le colonie latine ed era evidente che la città intendeva estendere ulteriormente il suo territorio. Nel 326 a.C. assediò la greca Neapolis (Napoli), fondata dai cumani, e la costrinse all’alleanza. I sanniti reagirono scatenando contro Roma una seconda guerra, che tuttavia si protrasse senza battaglie decisive, perché i sanniti non osavano affrontare in pianura le legioni romane e i romani non osavano avventurarsi sugli impervi monti del Sannio. Quando lo fecero, nel 321 a.C., rimasero intrappolati alle Forche caudine, le gole del Caudio, dovettero arrendersi per fame e furono liberati solo dopo essere passati sotto un rudimentale giogo, improvvisato dai sanniti con le lance per umiliarli. Roma dovette abbandonare il Sannio. Dopo alterne vicende nel 304 a.C. la città, che aveva nel frattempo reso più agile il suo esercito, riuscì a conseguire sui sanniti una vittoria a Boviano e a stipulare una pace che riduceva drasticamente la loro potenza e sanciva il dominio di Roma sulla Campania, la più fertile regione italiana: il territorio romano arrivò a estendersi per 8000 km² e quello degli alleati per 20.000, ed era quindi più che raddoppiato rispetto a quello che l’intera confederazione romana occupava prima della guerra. Storia di parole Passare sotto il giogo Il giogo è originariamente una trave di legno arcuata che poggia sul collo di due buoi o di altre bestie da tiro per sottoporli in coppia al lavoro. Per analogia indica uno strumento di sottomissione. I sanniti lo costruirono poggiando su due aste conficcate in verticale al suolo un’altra orizzontale a un’altezza inferiore a quella di un uomo, in modo che i soldati romani, spogliati delle loro armature, fossero costretti a umiliarsi piegandosi per passarvi sotto. Per un esercito fiero come quello romano fu un’umiliazione insostenibile. Ancora oggi “passare sotto il giogo” significa “assoggettarsi a una dura umiliazione”. La terza guerra sannitica (298-290 a.C.) Una simile potenza preoccupava i popoli italici, le città dell’Etruria meridionale e persino i galli sénoni che temevano un’espansione di Roma verso la costa adriatica, dove si erano stabiliti. Di conseguenza nel 298 a.C. si creò un’ampia alleanza che diede vita alla terza guerra sannitica. D’altro canto anche Roma aveva stretto patti con le popolazioni di Puglia, Abruzzo e Lucania: così la terza guerra sannitica si può considerare una guerra italica; la battaglia decisiva, che si svolse a Sentino, in Umbria, nel 295 a.C. fu infatti denominata la “battaglia delle nazioni”, cioè delle varie popolazioni della penisola. Era la battaglia in campo aperto che tanto desideravano i romani per vincere. Roma estese i suoi territori sulla costa adriatica dalla Puglia alle Marche, dove fondò, nel territorio dei sénoni, la colonia di Sena Gallica (oggi Senigallia). I sanniti non si arresero però fino al 290 a.C., solo dopo aver subito terribili devastazioni del loro territorio. Tutta l’Italia centrale dal Tirreno all’Adriatico era nelle mani di Roma, il cui territorio superava ormai i 20.000 km², con oltre un milione di abitanti, a cui si aggiungeva il territorio degli alleati esteso a circa 60.000 km² con due milioni di abitanti. La federazione romano-italica costituiva il quarto stato più grande del Mediterraneo (dopo Cartagine, Siria ed Egitto). Le città della Magna Grecia cominciavano a preoccuparsi. 2.2 Le conquiste della plebe nel IV secolo a.C. Fame di terra Le lotte della plebe continuarono ancora nel IV secolo a.C.: i plebei richiedevano nuove distribuzioni di terra perché le guerre contro le popolazioni italiche, che durarono per tutto il secolo, danneggiavano campi e raccolti e i contadini, arruolati nell’esercito e costretti a lasciare le terre incolte per parecchio tempo, al ritorno si ritrovavano in miseria. Le guerre però aumentavano l’estensione dell’ager publicus e si poté così procedere all’assegnazione di terra a ben 40.000 famiglie plebee, con la fondazione di nuove colonie su tutta la penisola. Tuttavia i patrizi si accaparrarono la maggior parte dell’ager publicus perché erano in grado di controllarne la distribuzione. La crisi dell’aristocrazia e i primi homines novi Nel corso del tempo però, molte gentes patrizie si erano ormai estinte, proprio a causa delle guerre in Italia, ma anche perché continuavano a rifiutarsi di contrarre matrimoni con i plebei. I plebei, al contrario, acquistavano sempre maggior potere economico, perché, con l’espansione territoriale, si ampliavano i mercati, si favoriva la produzione artigianale e i commerci, si produceva nuova ricchezza. I nuovi ricchi acquistavano terre, perché la vera ricchezza continuava a essere considerata quella terriera, e si accaparravano anch’essi parte dell’ager publicus. Il patriziato si rese conto di non poter mantenere il monopolio del potere. Quando le pressioni della plebe si fecero più forti, cercò di tenere sotto controllo l’allargamento della classe dirigente: appoggiò le famiglie plebee più ricche e influenti, garantendo i voti dei propri clienti per eleggere un loro esponente alle magistrature maggiori. Nella prima metà del IV secolo a.C., di conseguenza, parecchi homines novi, “uomini nuovi”, com’erano definiti i personaggi non patrizi che si affacciavano alla vita pubblica, poterono diventare magistrati e persino tra i senatori molti erano ormai ricchi plebei. Le famiglie plebee ricche, gratificate dalla promozione sociale, contribuivano a loro volta con la massa dei propri clienti ad appoggiare l’elezione dei patrizi. Le spinte dal basso della plebe povera, di cui i plebei ricchi si facevano portavoce, non rischiavano così di sovvertire l’ordine dello stato. Le leggi Licinie Sestie (367 a.C.) La plebe continuava a chiedere anche una maggiore presenza nelle istituzioni. Una legge in tre punti, proposta nel 367 a.C. dai tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, venne incontro, almeno in parte, alle loro richieste. Essa prevedeva infatti: un primo tentativo di riforma agraria che, per mettere a disposizione più terra da distribuire ai plebei, poneva un limite al possesso di ager publicus; nuove regole sui debiti a vantaggio dei debitori, secondo le quali gli interessi pagati venivano calcolati come capitale restituito; la possibilità che uno dei due consoli fosse plebeo e, di conseguenza, fosse ammesso al senato; l’accesso alla magistratura degli edili, riservata finora ai plebei, anche ai patrizi: gli edili patrizi furono definiti curuli (G). Quando furono ammessi in senato gli ex consoli plebei, essi furono definiti conscripti, “arruolati”. Quindi il senato venne a essere costituito dai patres e dai conscripti. Dalla formula patres et conscripti si passò poi semplicemente a patres conscripti, un altro modo per definire i senatori. Glossario In origine gli edili erano addetti al tempio, aedis, di Cerere, il centro religioso della plebe. Quando ebbero accesso all’edilità anche i patrizi, essi furono detti curuli perché avevano diritto alla sella curulis, uno speciale sgabello pieghevole in avorio, in marmo o in metallo, finemente lavorato. Appio Claudio Cieco (310 a.C.) Il senato rimaneva comunque tenacemente legato al mos maiorum, alle tradizioni degli antenati, e alla propria politica conservatrice, che non teneva conto delle esigenze delle nuove forze sociali. Negli ultimi anni del IV secolo a.C. Appio Claudio Cieco, censore nel 310 a.C., si batté contro un tale atteggiamento e, forte della sua autorità, per favorire i plebei riuscì a promuovere grandi lavori pubblici: ampliò il porto di Ostia, costruì il primo acquedotto romano e la prima strada militare, lastricata, che giungeva fino a Capua e che da lui prese il nome, la famosa via Appia, detta anche la “regina delle strade”, su cui, oltre agli eserciti, passava gran parte del commercio italico. dida I sacerdoti perdono il monopolio della legge Con la stesura delle leggi delle XII Tavole (451-450 a.C.), che separavano il diritto civile da quello divino, i sacerdoti avevano perso il monopolio della legge. Appio Claudio Cieco pubblicò un calendario di dies fasti, con l’elenco dei giorni in cui era consentito discutere le cause e con l’indicazione della procedura da seguire, tutte notizie che fino ad allora i sacerdoti avevano custodito gelosamente. Fu poi creata una scuola per avvocati, che diventarono gli esperti della legge. Le leggi delle XII Tavole divennero materia obbligatoria di insegnamento dei ragazzi e contribuirono al carattere romano, ordinato e severo, legalistico e… litigioso. Da quel momento i sacerdoti si occuparono solo di questioni religiose e si organizzarono in collegi, divennero funzionari pubblici, non una casta separata, e collaborarono con lo stato. GUIDA ALLO STUDIO 1. Prova a mettere in parallelo la storia romana e quella della Grecia nel IV secolo a.C. Quali avvenimenti caratterizzano la storia greca nel periodo in cui si svolge la II guerra sannitica? Esprimi un tuo parere sulla diversa situazione storica dei due popoli. 2. Disegna sulla carta un cerchio che comprenda i territori di Roma e dei suoi alleati alla fine del V secolo a.C. e un altro dei territori alla fine del IV secolo: che cosa noti? Come potresti definire questa espansione? 3. A che punto ti pare sia giunto, alla fine del IV secolo a.C., il percorso di avvicinamento dei plebei ai patrizi in fatto di diritti? 3. VOLONTÀ DI CONQUISTA E ORGANIZZAZIONE DELLO STATO ALL’INIZIO DEL III SECOLO A.C. Alternativa: La storia e la società della Roma repubblicana all’inizio del III secolo a.C. Box La storia in parallelo Intorno al 300 a.C. Si formano i grandi e potenti regni ellenistici d’Egitto, di Siria, di Macedonia e altri. Tra questi regni, quello dell’Epiro, sulla costa occidentale della penisola balcanica, assume una certa importanza quando ne diventa re Pirro, uno stratega geniale e un valoroso condottiero, che tenta la scalata al trono di Macedonia e cerca di imitare le imprese di Alessandro. 3.1 La conquista dell’Italia meridionale (III secolo a.C.) La situazione della Magna Grecia all’inizio del III secolo a.C. La vittoria sui sanniti, allargando i confini di Roma, portò la città a contatto con le colonie greche dell’Italia meridionale. La Magna Grecia, esposta da tempo agli attacchi dei popoli italici, all’inizio del IV secolo a.C. aveva trovato la protezione di Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, morto il quale Taranto aveva chiamato in aiuto Sparta. Verso la fine del secolo, il nuovo tiranno di Siracusa Agatocle tentava di costituire un grande stato comprendente la Sicilia e l’Italia meridionale. Ma il particolarismo e il senso di indipendenza delle città greche ne impedì la coesione sia intorno al progetto della greca Siracusa sia intorno all’altra grande potenza, Taranto. Esse preferirono piuttosto chiedere aiuto a potenze straniere, come Roma. Cominciò la colonia greca di Turi, che, di fronte alle minacce dei bruzi e dei lucani, preferì chiedere aiuto a Roma piuttosto che alla greca Taranto. Roma rappresentava da tempo un pericolo e Taranto si era premunita stipulando con la città laziale, nel 303 a.C., un trattato per impedire che le navi romane valicassero il capo Lacinio ed entrassero in acque tarantine. Roma però aveva tutto l’interesse a evitare la formazione di uno stato nell’Italia meridionale e ad arginare la potenza tarantina. Così, contravvenendo all’accordo del 303, per venire in aiuto di Turi, una flotta romana di dieci navi, nel 282 a.C., superò il capo Lacinio e si presentò nel porto di Taranto. La città reagì affondando le navi ed espellendo il presidio che Roma aveva stanziato a Turi. I romani però invasero agevolmente gran parte del territorio di Taranto che aveva intanto chiesto l’aiuto di Pirro, il re dell’Epiro. La più ricca colonia della Magna Crecia Taranto, fondata nel 707 a.C. da giovani coloni spartani in un territorio assai fertile che si affaccia sul golfo omonimo, era divenuta assai presto un’importante città commerciale, oltre che culturale. Alla fine del IV secolo a.C. controllava, in collegamento con Corinto, l’esportazione verso la Grecia del grano e dei prodotti della pianura pugliese. La spedizione di Pirro e la guerra tarantina (282-272 a.C.) L’abile condottiero, che aveva tentato invano di conquistare il trono di Macedonia, dopo aver sposato la figlia del tiranno di Siracusa Agatocle, aspirava a realizzare il sogno del suocero di un grande stato nell’Italia meridionale e forse, una volta abbattuta la potenza di Cartagine, anche di un impero d’Occidente come quello creato da Alessandro Magno in Oriente. Nella richiesta di Taranto vide la possibilità di realizzare il suo sogno e preparò una spedizione di soli 30.000 uomini scelti, accompagnati da una ventina di elefanti da combattimento che da poco erano entrati nell’armamento degli eserciti ellenistici, ma che nella penisola italica costituivano una novità. Pirro sapeva che Roma avrebbe avuto a disposizione riserve umane più numerose delle sue, ma contava sulla propria superiore esperienza militare, che gli derivava dalla tradizione greca ed ellenistica, ancora ignota ai romani. Inoltre sperava nell’aiuto delle città greche e dei popoli italici, da poco sottomessi a Roma. Memo Pirro e il trono di Macedonia Pirro, re del regno d’Epiro, di origine greca, aveva tentato di assumere il trono di Macedonia durante le guerre tra i successori al regno dopo la morte di Alessandro Magno, desideroso di eguagliare la grandezza del suo predecessore. Le vittorie di Pirro (280-279 a.C.) Pirro sbarcò in Italia nel 280 a.C. Il primo scontro con i romani avvenne a Eraclea, dove la cavalleria molto ben addestrata e gli elefanti di Pirro ebbero la meglio sulle due legioni romane che persero 10.000 uomini. Ma anche le forze di Pirro riportarono molte perdite. Numerose città greche passarono dalla parte del re, che, cercando di sfruttare la vittoria, si spostò in Campania e poi giunse fino a poche decine di chilometri da Roma. Lungo il percorso aveva sperato di suscitare rivolte antiromane tra gli alleati di Roma, ma restò deluso perché il tipo di rapporti che la città laziale aveva stabilito con gli alleati ne favoriva la fedeltà. Pirro, senza marciare su Roma, tornò quindi a Taranto per rafforzare l’esercito e attaccare i romani ad Ascoli Satriano nel 279 a.C. La sua tattica lo spinse a deviare la battaglia su un terreno accidentato, dove la legione romana non seppe dispiegarsi in tutta la sua potenzialità. Per evitare la disfatta le truppe si ritirarono ordinatamente, rivelando disciplina e senso morale. Storia di parole La vittoria di Pirro Quella di Pirro a Eraclea, ottenuta con tali perdite da rasentare una sconfitta, si rivelò una vera “vittoria di Pirro”, un successo limitato, più fittizio che reale, riportato a un prezzo troppo elevato: in questo senso l’espressione è passata alla storia e al linguaggio comune di oggi, proprio come sinonimo di “successo illusorio”. Due differenti macchine belliche La battaglia di Ascoli Satriano fu il terreno di confronto tra la falange macedone di Pirro, che aveva una forza d’urto potentissima, perché i soldati combattevano gomito a gomito, e la legione romana suddivisa in manipoli. In realtà sul terreno accidentato la legione avrebbe potuto sfruttare meglio, rispetto alla falange, la propria agilità di movimento. Ma i comandanti romani erano meno esperti di Pirro, che era stato educato alla scuola militare macedone, e non seppero utilizzare a pieno le potenzialità della legione. Glossario Manipolo Era l’unità tattica di base della legione romana, costituita da due centurie. Inizialmente era preceduto da un’asta su cui era legato un fascio di fieno (manipulus). La spedizione in Sicilia (278-276 a.C.) Cosciente che, malgrado le sue vittorie, non aveva intaccato le forze di Roma, Pirro volle tentare la conquista della Sicilia, dove reclamavano il suo aiuto le città greche minacciate da Cartagine che, dopo la morte di Agatocle di Siracusa, aveva conquistato gran parte dell’isola. Sbarcato sull’isola nel 278 a.C., Pirro passò da una vittoria all’altra costringendo Cartagine a sgomberare la zona occidentale dell’isola e a ridursi alla sola fortezza di Lilibeo. La situazione però si faceva poco propizia per Pirro a causa dei soliti contrasti tra le città ed egli, ormai abbandonato dagli alleati siciliani, preferì tornare a Taranto. Dopo la sua partenza Cartagine riconquistò quasi tutta l’isola. La sconfitta di Pirro e la presa di Taranto (275-272 a.C.) Tornato sulla penisola, Pirro, nel 275 a.C., marciò contro le truppe romane stanziate a Maleventum, in Campania. Qui, nonostante la sorpresa, i romani riuscirono a far infuriare gli elefanti di Pirro colpendoli da lontano con armi da getto e creando scompiglio tra le truppe epirote. La vittoria suggerì ai romani di modificare il nome della località in quello di Benevento e a Pirro di tornare in patria, lasciando solo un presidio a difesa di Taranto. Roma a quel punto pose sotto assedio la città greca che capitolò nel 272 a.C., lasciando campo libero a Roma su tutta l’Italia meridionale. Roma non infierì neppure questa volta: lasciò a Taranto l’autonomia e ne fece un’alleata, che si impegnava a ospitare una guarnigione romana e a inviare aiuti navali in caso di guerra (divenne, cioè, una socia navalis). Anche sanniti, lucani e bruzi, nello stesso anno, furono costretti alla pace: il territorio dei sanniti si ridusse a 8000 km²; i romani fondarono nuove colonie nella penisola salentina, in Campania (a Paestum, sul sito della colonia greca di Posidonia) e in Calabria, dove la colonia greca di Reggio si arrese nel 270 a.C. Tutte le città meridionali accettarono l’alleanza con Roma e presidi romani sul loro territorio. L’intera Italia peninsulare da Rimini a Reggio era sotto il controllo diretto o indiretto di Roma. 3.2 L’organizzazione dei territori conquistati Da città a stato Le conquiste operate da Roma ponevano seri problemi a una città nata come città-stato, quindi con strutture politico-amministrative atte a governare un territorio limitato. Con la conquista di Taranto Roma si trovò invece ad amministrare gran parte della penisola italica, quindi uno stato territoriale. Le modalità delle conquiste, protratte nel corso di due secoli, favorirono l’elaborazione di soluzioni progressive, mano a mano che i problemi si presentavano. Adeguate alle diverse situazioni, le varie soluzioni non costrinsero Roma a cambiare la costituzione dello stato. I romani rivelarono proprio nel campo dell’amministrazione pubblica qualità ineguagliabili, che permetteranno al loro impero una durata di quasi mille anni. Un patto per ogni città Una soluzione decisamente innovativa, in questa prima fase, fu l’istituzione della doppia cittadinanza. Mentre nel resto del mondo antico un individuo poteva godere della cittadinanza in un solo stato, Roma, dopo le prime conquiste, concesse ad alcuni dei popoli vinti la possibilità di godere della cittadinanza sia della propria città sia di quella di Roma. Inoltre, mentre altri imperi erano fondati sul diretto dominio di una città o di un popolo sui territori conquistati, il dominio di Roma sull’Italia si articolò in forme complesse e variegate. Per impedire, innanzitutto, che i popoli sconfitti si alleassero tra loro in funzione antiromana, il trattamento loro riservato fu differenziato, secondo il principio del dívide et impera (“dividi e comanda”). Solo le città conquistate che non garantivano affidabilità e lealtà persero l’autonomia e furono governate da magistrati inviati da Roma. Ma era una misura radicale, che Roma adottò raramente e per periodi limitati. La soluzione preferita fu quella delle alleanze. Con la conquista della penisola, lo stato romano divenne pertanto un’originale federazione, una rete di città alleate o sottomesse, con diritti e doveri diversi, al cui centro era Roma. Col tempo poi le differenze di trattamento dei territori si attenuarono o si modificarono, con una progressiva integrazione dei vinti. Alla fine delle conquiste romane, i cittadini della penisola avevano condizioni giuridiche diverse: i socii, sparsi per tutta la penisola, erano gli alleati che godevano di condizioni diverse in base ai patti stipulati con Roma, più o meno vantaggiosi: tra loro particolarmente privilegiati erano i latini; le colonie, fondate in varie zone dell’Italia, spesso strategiche, a seconda del popolo fondatore si distinguevano in colonie romane e colonie latine; il territorio della città di Roma, poi, era, come nel mondo greco, allargato all’intera regione, grosso modo coincidente con il Lazio. I socii Per evitare di gravare sulle finanze dello stato per l’amministrazione di tante città conquistate, Roma preferì stipulare patti di alleanza e costituire una federazione. Gli abitanti delle città federate, che mantenevano la propria autonomia amministrativa, dovevano versare tributi a Roma e fornire navi e truppe ausiliarie, che venivano schierate alle ali dell’esercito al comando di generali romani. I trattati di alleanza potevano essere: - foedera aequa, trattati “equi”, erano i più antichi, riconoscevano l’indipendenza delle due città che stipulavano l’accordo (cioè Roma e un’alleata), ma ognuna di esse aveva l’obbligo di portare aiuto all’altra se veniva aggredita da un nemico: erano i patti che Roma stabilì con latini, equi, volsci prima della guerre sannitiche; foedera iniqua, trattati “iniqui”, stabilivano che una delle due città (ma ovviamente si trattava sempre di quella conquistata) perdesse il diritto di dichiarare guerra e acquisisse l’obbligo di combattere a fianco di Roma. Ma anche tra questi patti alcuni erano più miti, altri molto duri. I socii Latini I socii Latini erano gli alleati latini privilegiati rispetto agli altri, perché godevano ancora dei diritti stabiliti con il foedus Cassianum, che era un foedus aequum: oltre al diritto di trasferirsi a Roma (ius migrandi) e acquisire i pieni diritti, godevano dello ius connubii, cioè il diritto di sposarsi con cittadini romani e avere, in questo caso, figli con la cittadinanza romana, e dello ius commercii, cioè il diritto di commerciare con cittadini romani, di essere difesi nei tribunali romani su questioni relative agli affari commerciali e di trasmettere le proprietà agli eredi. Anche le colonie latine godevano degli stessi diritti. - Le colonie Durante la sua espansione, Roma spesso confiscò alle città vinte parte dei territori che furono inglobati nell’ager publicus, nel territorio pubblico dello stato romano, e furono distribuiti a cittadini romani o latini per fondarvi colonie. Alcune colonie sorsero in punti strategici, con lo scopo di tenere sotto controllo i territori conquistati, come, ad esempio, Ostia; altre, soprattutto nelle zone più fertili, come la Campania, servirono a trovare uno sbocco per i cittadini più poveri; quelle fondate nelle zone arretrate della penisola ne favorirono l’urbanizzazione. A volte le colonie convivevano con le città preesistenti, altre volte gli abitanti venivano cacciati e i romani ripopolavano il territorio, come accadde con equi e galli boi. Le colonie comprendevano un centro urbano e la campagna circostante, che veniva suddivisa in tanti lotti di terreno agricolo quante erano le famiglie dei coloni a cui ogni lotto veniva assegnato. La suddivisione, chiamata centuriazione, seguiva uno schema a scacchiera ortogonale. Chiare tracce di centuriazione delle campagne e di planimetrie ortogonali presentano varie località italiane, soprattutto i campi della pianura padana, e città come Torino. Anche le colonie, come i municipi, avevano diritti e doveri diversi. Le colonie romane Le colonie, fondate da un numero esiguo di cittadini romani (circa 300), spesso militari in congedo, erano in genere piccole, a volte veri e propri presidi militari posti in luoghi strategici, specie lungo le coste. Facevano parte integrante dello stato romano, non dovevano quindi pagare tributi. I coloni non perdevano la cittadinanza romana e potevano votare recandosi a Roma. Le colonie latine Le colonie fondate da latini o da romani e latini insieme erano comunità autonome, disseminate per la penisola, legate alla madre patria da un’alleanza perenne. Fondate in genere da circa 2000 coloni, erano più grandi di quelle romane. I cittadini delle colonie latine, anche se romani, diventavano socii Latini e avevano i loro stessi diritti, ma non la cittadinanza romana. Da accampamento a città Spesso le città nascevano da grandi accampamenti, castra, che restavano parecchio tempo in una regione e favorivano l’insediamento di artigiani e venditori e col tempo diventavano città. La pianta di queste città era quella dell’accampamento, con due strade principali, il cardo e il decumano, che si incrociavano ad angolo retto all’altezza della tenda del comandante, il pretorio, destinato a diventare il foro, la piazza della città e il suo centro. Tutte le altre strade erano parallele a una delle due vie principali e ortogonali tra loro. Il territorio di Roma Il territorio di Roma comprendeva l’agro romano ed era abitato da cittadini di diritto romano con tutti i diritti civili e politici. L’unica città era Roma, l’Urbs per antonomasia, gli altri centri urbani presenti nel territorio erano o colonie romane, i cui cittadini avevano gli stessi diritti degli abitanti della città, o municipii. I municipii, da munus capere (“assumere un dovere”), erano le città conquistate che mantenevano la propria autonomia amministrativa, le proprie istituzioni e i propri magistrati. I loro cittadini godevano anche della cittadinanza romana, anche se potevano essere: - cives cum suffragio, “cittadini col diritto di voto” nelle assemblee di Roma: erano i cittadini dei municipii optimo iure, che avevano un’autonomia limitata, perché facevano parte integrante di Roma, ma erano originariamente piuttosto rari; - cives sine suffragio, “cittadini senza diritto di voto”, erano governati da un prefetto romano; col tempo anche questi municipi acquisirono la cittadinanza piena, con diritto di voto. Roma grande città? Non è possibile conoscere quanti abitanti contasse Roma alla fine della conquista dell’Italia perché, tra l’altro, è difficile stabilire quanti abitassero all’interno del pomerio e quanti fuori, in campagna o nei villaggi. Probabilmente in città abitavano centomila persone, di diverse etnie, anche se di stranieri con la fine della monarchia etrusca ne venivano accolti meno. Scheda Cultura e identità Una cittadinanza inclusiva La nascita di un’idea La cittadinanza indica l’appartenenza a uno stato e comporta una serie di diritti e di doveri: proprio per questo, deve essere stabilita e tutelata per legge. L’idea di cittadinanza nacque in Grecia con le póleis, cioè quelle comunità di individui liberi che si autogovernavano su un piano di reciproca uguaglianza civile e politica, i cittadini, che si contrapponevano orgogliosamente ai sudditi delle monarchie orientali. Una cittadinanza diversa La politéia, cioè la cittadinanza greca, tuttavia, era diversa dalla civitas, la cittadinanza romana. Il termine civitas, che deriva da civis, “cittadino”, cioè l’uomo libero che vive in una comunità regolata da leggi, indica in latino: la cittadinanza, cioè la condizione del cittadino, l’insieme dei cittadini, quindi gli abitanti di una città, la città stessa, non come insieme di edifici (urbs), ma come comunità politica e giuridica. I greci consideravano cittadini di una pólis gli individui appartenenti alle stirpi fondatrici della città, che godevano del diritto di prendere le decisioni politiche, perché come soldati difendevano la città, e ne escludevano gli stranieri e gli schiavi. A Roma era cittadino solo chi era riconosciuto libero, innanzitutto per diritto di sangue; inizialmente ne erano quindi esclusi gli schiavi e gli stranieri, ma presto furono considerati cittadini tutti gli individui liberi soggetti alle stesse leggi: la cittadinanza divenne un dato politico e non più etnico. Cittadinanza e integrazione Sin dalle origini, con il ratto delle Sabine e la conseguente fusione dei due popoli, Roma manifestò la volontà di integrare altre stirpi al suo interno. Fu una scelta vincente che permise alla città di sopravvivere molto più a lungo delle póleis greche e dei loro fragili imperi: il tratto distintivo della città greca era infatti l’identità, che occorreva tutelare dalle contaminazioni esterne: la pólis era perciò esclusiva e considerava la cittadinanza un privilegio da non condividere con gli stranieri e neppure con i greci delle colonie; Roma era inclusiva: non solo considerava cittadini gli abitanti delle colonie, ma integrò via via i popoli che conquistava trasformandoli da sudditi in cittadini. Fu proprio la disponibilità a lasciarsi “contaminare” dagli altri popoli, quindi a diventare un miscuglio etnico – che divenne il tratto distintivo della società romana –, a favorire la creazione di un impero che rimase in vita per quasi mille anni. Nascere e diventare cittadini A Roma dunque cittadini si nasceva, ma si poteva anche diventare. Si nasceva cittadini quando si era figli legittimi di un cittadino romano oppure quando si era nati fuori dal matrimonio da una cittadina romana. Le possibilità di acquisire la cittadinanza individualmente erano molte: poteva concederla un magistrato; un privato cittadino poteva adottare un individuo e quindi trasmettergli la cittadinanza; un pater familias poteva emancipare uno schiavo, dargli la libertà e quindi la cittadinanza. Civis romanus sum! Il diritto di cittadinanza romana comportava l’acquisizione: a. dei diritti civili: di connubio e di conseguenza dei diritti di successione, di fare testamento, di ricevere un’eredità; di stipulare contratti e di rivolgersi a un tribunale in caso di controversie; di appellarsi al popolo: in caso di condanna, se ne poteva chiedere una revisione ai comizi; di non essere sottoposti a tortura; di non essere condannati a morte. b. dei diritti politici: di votare nelle assemblee; di scegliere i magistrati; di candidarsi alle elezioni per le diverse magistrature. Ma la cittadinanza comportava anche l’assunzione di determinati doveri, come quello di partecipare alla difesa della città come soldato e di contribuire alle spese pubbliche. Il dono prezioso della cittadinanza Il diritto di cittadinanza assunse a Roma un ruolo determinante non solo nei rapporti sociali all’interno della città, ma anche e soprattutto nelle relazioni con i popoli conquistati. I romani infatti concessero anche la cittadinanza collettiva alle colonie e alle città che volevano integrare. I cittadini non romani ebbero così il vantaggio della doppia cittadinanza, un privilegio che solo Roma, tra tutti i popoli antichi, concesse agli abitanti dei territori conquistati. Il vantaggio era reciproco: Roma acquisiva nuovi cittadini, in grado di contribuire al benessere economico dello stato, e nuovi soldati per la sua difesa; i cittadini stranieri entravano a far parte integrante di una grande potenza e potevano aspirare a diventarne la classe dirigente. Era un’attrattiva irresistibile e Roma usò sempre la concessione della cittadinanza come un privilegio che occorreva conquistarsi, incentivo per stringere alleanze e deterrente contro defezioni e ribellioni. Quando nel 340 a.C. un certo Annio, a nome dei popoli latini, propose al senato una fusione con Roma, il console Manlio rivolgendosi all’altare di Giove in senato, esclamò indignato: «Potrai tu sopportare , o dio, che uno straniero venga a sedere presso il tuo sacro tempio come senatore, come console?». Ma solo due anni dopo, alla fine della guerra latina, nel 338, il console Lucio Furio Camillo così si rivolse ai senatori: «Volete comportarvi duramente verso i vostri nemici, arresi e sconfitti? Potete distruggere tutto il Lazio, e farete un deserto spopolato di quella terra da cui spesso avete tratto un ottimo esercito alleato. o volete accrescere la potenza di Roma accogliendo i vinti nella cittadinanza? Certo la dominazione di gran lunga più stabile è quella in cui i sudditi sono contenti». 3.3 L’evoluzione della società romana nel III secolo a.C. L'esercito in età repubblicana La riforma dell’esercito Quanto più un cittadino era ricco, tante più tasse doveva pagare e tanti più anni doveva servire nell’esercito. Per chi voleva avviarsi alla carriera politica il minimo erano dieci anni: naturalmente solo i ricchi potevano permetterselo. Ma anche il semplice cittadino che voleva esercitare il diritto di voto doveva aver militato nell’esercito, perché solo come membro di una centuria poteva prender parte ai comizi centuriati. L’espansione di Roma fu merito della sua organizzazione militare, ma soprattutto della sua capacità di adeguarsi alle situazioni anche facendo tesoro delle tecniche dei nemici. In numerose occasioni, infatti, all’inizio di un conflitto, come nel caso di quello con i sanniti, l’esercito romano si era trovato in difficoltà, ma ben presto era riuscito ad adeguarsi acquisendo nuove tattiche militari. Così, se all’epoca della monarchia etrusca l’esercito aveva adottato la falange oplitica che, con il suo armamento pesante e la sua formazione solida, era adatta ai combattimenti in campo aperto, essa ma si era rivelata poco maneggevole e assolutamente inadeguata durante le guerre sannitiche combattute su terreni montuosi. Fu allora che, sul modello delle stesse formazioni sannitiche, i Romani raddoppiarono il numero delle legioni da due a quattro e divisero ogni legione in manipoli, rendendole più agili e adattabili alle varie situazioni di combattimento. La legione acquisì una struttura elastica che permetteva ai Romani di usarla come falange oplitica oppure in manipoli, così come combattevano i sanniti. Dai sanniti i Romani presero anche l’armamento più leggero, di minor costo e quindi accessibile a un maggior numero di cittadini. L’unità di base dell’esercito era la legione, formata da 4200 fanti, 300 cavalieri e vari gruppi ausiliari. Ogni console ne comandava due, quindi circa 10.000 uomini. Ogni legione aveva il suo vessillo ed era impegno d’onore per ogni soldato impedire che esso cadesse in mani nemiche. Perciò gli ufficiali, quando vedevano che la battaglia volgeva al peggio, lo impugnavano e correvano contro il nemico in modo che i soldati, per difenderlo, li seguissero: molte battaglie furono vinte così. Quello che faceva la forza dell’esercito non era solamente la struttura né l’abilità dei generali spesso privi di una formazione sulla strategia militare come quella ellenistica, bensì la rigida disciplina che prevedeva frustate e punizioni terribili, sino alla morte, dei soldati vigliacchi, il taglio della mano destra dei disertori, fino al punto che il generale poteva tagliare la testa a chiunque, soldato o ufficiale, per la minima disobbedienza. Un nuovo sviluppo economico Nel 270 a.C. l’estensione del territorio di Roma a tutta la penisola offriva enormi vantaggi: l’aumento della produzione agricola con la messa a coltura delle campagne laziali e campane determinò un notevole incremento demografico; la popolazione in eccedenza fu inviata in nuove colonie; si svilupparono i commerci e a Roma giungevano sempre nuove merci straniere, via mare o sulle nuove strade consolari; i bottini di guerra incrementarono le entrate nelle casse dello stato che poté ridurre i tributi ai cittadini e scaricarli sui nuovi alleati; a Roma affluirono masse di italici che favorirono le attività artigianali, edilizie e produttive in genere, e l’arricchimento di nuovi strati della popolazione; nel 268 a.C. fu anche coniato, sul modello delle monete greche, il denarius d’argento, che col suo valore di dieci assi di rame rispondeva alle esigenze di un’economia più ricca e divenne da allora la moneta di uso corrente, finché nel I secolo a.C., dopo la conquista della Gallia, si diffusero anche le monete d’oro. La lex Hortensia e l’equiparazione degli ordini (287 a.C.) All’inizio del III secolo a.C. le lotte della plebe si avviarono verso la conclusione. Nel 287 a.C. la lex Hortensia riconosceva come leggi valide per tutti i cittadini romani, anche per i patrizi, i plebisciti, cioè le decisioni prese dai concili tributi, espressione della plebe da cui erano esclusi i patrizi. Era la definitiva equiparazione dei due ordini: la distinzione tra patrizi e plebei perse definitivamente ogni valore e il termine plebe cominciò a essere usato per gli strati più poveri della popolazione, nello stesso senso in cui lo usiamo oggi. Da quel momento i concilia plebis, cioè i concili tributi, svolsero gran parte dell’attività legislativa di Roma, sostituendo i vecchi comizi tributi. I compiti furono così ripartiti: i comizi centuriati eleggevano i magistrati maggiori, forniti di imperium, i concilia plebis eleggevano i tribuni della plebe e i magistrati minori??? e votavano le proposte di legge. Dalla repubblica aristocratica a quella oligarchica La lex Hortensia concluse il lungo e complesso processo evolutivo dei rapporti tra gli ordines con la fusione di patrizi e plebei ricchi in un unico gruppo detentore del potere, una nuova nobiltà, il cui carattere distintivo era la ricchezza e non la nascita. Ma si creò una nuova distinzione: erano considerate di rango senatorio le famiglie nobili (letteralmente “note”, famose) i cui componenti avevano ricoperto una magistratura, di rango consolare quelle famiglie che contavano almeno un parente console o per lo meno pretore. La repubblica da aristocratica, dominata dai nobili patrizi, si trasformò in oligarchica, “dominata da pochi” nuovi nobili, non più solo patrizi. La chiusura della nobiltà Ben presto però anche la nuova nobiltà si chiuse nei suoi privilegi di classe dominante. Se tra il 367 e il 287 a.C., cioè dal momento in cui furono approvati i matrimoni misti fino al riconoscimento dei plebisciti come leggi, furono molti gli “uomini nuovi” che giunsero al potere, dopo la lex Hortensia invece la nuova nobiltà concesse sempre più raramente ai non nobili la possibilità di accedere alle magistrature. Dal momento della completa conquista dell’Italia nel 270 a.C. per quasi un secolo e mezzo, tuttavia Roma, superati i conflitti sociali, visse un periodo di pacificazione sociale e di appoggio popolare alla politica della classe dirigente nobile. Persino lo stato di guerra permanente in cui Roma si venne a trovare all’esterno favorì la coesione interna, tanto che il periodo è stato definito età del consenso. Sempre solo nobili Sulla chiusura della nobiltà nei suoi privilegi le cifre non lasciano dubbi. Nel corso del III secolo a.C. sei famiglie da sole ottennero 83 volte il consolato o la dittatura, il 62% dei consoli era figlio di un console e la maggioranza del restante 38% era di famiglia consolare. Il cursus honorum Nel corso del tempo le magistrature si erano evolute e nel III secolo a.C. l'assetto delle istituzioni repubblicane era completo. La consuetudine e poi la legge Villia Annalis del 180 a.C. fissarono il cursus honorum, cioè la sequenza di magistrature che si dovevano ricoprire prima di accedere al consolato, e l’età minima necessaria per accedervi. Per essere eletti alla magistratura di grado superiore occorreva che fossero trascorsi due anni da quella precedente. Per iniziare il cursus era indispensabile aver prestato servizio militare per almeno dieci anni nella cavalleria o nella prima classe di fanteria, riservate ai più ricchi. Tutte le magistrature duravano un anno, tranne la dittatura (6 mesi) e la censura (18 mesi). Le magistrature non erano mai retribuite. Alcune magistrature restarono fuori del percorso necessario per fare carriera politica, ma non per questo erano meno importanti. Da città-stato a stato federale: un’evoluzione incompleta Nonostante la sua lunga evoluzione nel corso dei secoli e le profonde trasformazioni, Roma non aveva ancora superato la sua costituzione di città-stato. L’attaccamento alla tradizione determinò però una grave sproporzione tra l’ampiezza del territorio dominato e l’arretratezza sia dell’economia di Roma sia delle sue strutture politiche. Ancora nel III secolo a.C., mentre altre potenze mediterranee avevano un’economia avanzata, quella romana restava fondata sull’agricoltura e anche il capitale accumulato con i commerci, in assenza di un reale spirito imprenditoriale, veniva investito in proprietà fondiarie e non serviva a incrementare la produzione e il commercio. Persino l’efficientissima rete stradale nasceva più da esigenze militari che da esigenze commerciali. La brevità e la rotazione delle cariche politiche, tipiche della città-stato e indispensabili a evitare la concentrazione personale del potere, rendevano inefficiente l’amministrazione di un territorio sempre più vasto, che avrebbe richiesto un’organizzazione in tempi lunghi, possibile solo con la stabilità dei magistrati. GUIDA ALLO STUDIO 1. Osserva con attenzione la carta e memorizza i nomi dei popoli italici e le regioni dei loro rispettivi stanziamenti. Perché le conquiste di Roma si rivolgono verso sud e non all’Italia settentrionale? 2. La guerra tarantina rivela la precisa volontà di Roma di attaccare una potenza straniera, mentre fino a quel momento aveva presentato le guerre come difesa contro attacchi nemici. Quale azioni dimostra questo cambiamento? 3. Le città della Magna Grecia rivelarono un atteggiamento caratteristico delle póleis greche che le portò a perdere l’autonomia. Spiega il loro comportamento di fronte all’avanzata di Roma. 4. In che cosa consiste in principio del «Dívide et impera»? Che vantaggi offre? 5. Indica che diversi diritti avevano i seguenti tipi di città: colonie romane, municipii con cives cum suffragio e cives sine suffragio; socii con foedera aequa e con foedera iniqua; socii Latini, colonie, colonie romane, colonie latine. LE ISTITUZIONI DELLA REPUBBLICA ROMANA Le assemblee in ordine di nascita assemblea definizione comizi curiati senato comizi tributi assemblea delle 30 curiae: 10 per tribù assemblea ristretta degli “anziani” assemblea di tribù (distretti territoriali) comitatus comizi centuriati maximus: assemblea del popolo diviso in classi in base al censo concili tributi (concilia plebis) assemblea della plebe costituita da presieduta scelta da da membri maschi di 10 gentes per curia religiose: solo alcune funzioni 300 patres princeps conscripti, patrizi senatus e dal 367 a.C. plebei, ex consoli, ex pretori, dal 287 a.C. ex magistrati minori patrizi e plebei consoli divisi per domicilio in 35 tribù eletto a vita dai consoli e dal 312 a.C. dai censori 193 centurie di consoli o patrizi e plebei: pretori 1 classe di cavalieri + 5 classi di censo + 1 classe di proletari (capite censi) -proprietari terrieri (reddito fondiario -dal 310 a.C. reddito in denaro plebei delle 35 tribù funzioni tribuni della plebe consultive: esprimere pareri in politica interna ed estera, con senatus consultum; approvare proposte di legge dei consoli, godeva di auctoritas, unica sede delle discussioni politiche elettive: eleggere questori, edili curuli e tribuni militari giudiziarie: nella maggior parte dei processi religiose: alcune funzioni elettive: eleggere consoli, censori e pretori, legislative: approvare o respingere proposte di legge dei magistrati, decidere pace-guerra, giudiziarie: condannare a morte, militari: fornire 18 centurie di cavalieri (I cl), 120 di fanteria pesante (80 I, 20 II e III cl), 20 di fanteria leggera (IV cl), 30 di arcieri e frombolieri (V cl), 5 di falegnami ecc.(proletari). legislative: delibere (plebis scita) con valore di legge dal 287 (Lex Hortensia) giudiziarie: crimini con pene pecuniarie elettive: eleggere edili plebis e tribuni della plebe Le magistrature del cursus honorum secondo l’ordine del cursus magistr definizione atura costituita da questor magistrati che patrizi e dal indagano 409 a.C. i (quaero) anche plebei, da 2 iniziali a 40 finali 4 magistrati 2 plebei e poi edili che si 2 patrizi occupano (curuli) edifici praetor pretori da prae-ire, andare innanzi urbanus e (inizialmente dal 242 a.C. nell’esercito) praetor scelta da comizi tributi comizi tributi età funzioni minim a 28 amministrare il denaro pubblico, incassare i tributi, anni pagare gli stipendi ai soldati e ai dipendenti statali, affiancare un governatore provinciale. 31 anni. comizi 34 centuria anni ti sovrintendere a: mercati, approvvigionamento della città, distribuzioni di grano, spettacoli e giochi, manutenzione di strade ed edifici, ordine pubblico. giudiziarie: amministrare la giustizia civile a Roma (praetor urbanus), fuori Roma dal 242 a.C. (praetor peregrinus) legislative: promulgare nuove regole giuridiche; consoli peregrinus (8 finali) coloro che si due patrizi e consultano e dal 367 a.C. deliberano (da un patrizio e consulere) un plebeo re provvisori comizi 37 centuria anni ti presentare proposte di legge alle assemblee. Poi militari ed esecutive simili a quelli dei consoli. Accompagnati da littori, godevano di Imperium= a. potere esecutivo: fare eseguire le deliberazioni delle assemblee e del senato, amministrare la giustizia, prendere gli auspici b.supremo comando militare convocare il senato, convocare e presiedere le assemblee, legislative: proporre le leggi. intercessio: diritto di veto custodi della legalità repubblicana: supremo controllo pubblico (esclusa la religione), decapitare chi attentava alla repubblica La magistrature al di fuori del cursus honorum in ordine di importanza crescente scelta da età magistr definizione costituita da funzioni minim atura a comizi 22 militari: comandare un battaglione di 600 soldati, tribuni comandanti tributi anni prima tappa della carriera militare e politica militari di una coorte 2 iniziali - 10 concili 27 sacrosanti tribuni magistrati espressione finali tributi anni intercessio sulle decisioni lesive della plebe della delle tribù e (concilia difendere la plebe plebe della plebe plebis) convocare i concili tributi, poi anche i comizi tributi e il senato legislative: dal 287 a.C. promulgare delibere con valore di legge. dal 443 a.C. 2 comizi 44 effettuare ogni cinque anni il censimento dei cittadini e censori magistrati che patrizi centuriati anni dei patrimoni, giudicare la moralità degli individui, censiscono dal 312 a.C. redigere le liste dei senatori, occuparsi dell’ager publicus e degli appalti. In carica per 18 mesi scelto dal pieni poteri per 6 mesi, con sospensione di tutte le dittator magistrato 1 magistrato che straordinario senato e magistrature ordinarie in situazioni di emergenza. e prescrive ex console nominato (dictat) dai consoli 1. Inserisci nella tabella l’elenco delle guerre e delle conquiste della plebe nei tre secoli indicati secolo V a.C. IV a.C. III a.C. Guerre contro Conquiste della plebe 2. Associa con una linea ad ogni termine la corretta definizione intercessio plebis scita senatus consultum homines novi patres conscripti mos maiorum cursus honorum pomerio decisioni della plebe senatori tradizioni degli antenati lo spazio sacro al di là e al di qua delle mura cittadine sequenza di magistrature da ricoprire prima del consolato parere del senato diritto di veto personaggi non patrizi che si affacciavano per la prima volta alla vita pubblica 3. Inserisci in una tabella i dati che ti vengono forniti alla rinfusa. Date: 445 a.C., 367 a.C., 180 a.C. Leggi: leggi Licinie Sestie, lex Villia Annalis, lex Canuleia, lex Hortensia Contenuti: a. cursus honorum ed età minima necessaria per accedere alle magistrature. b. plebisciti validi per tutti i cittadini romani. c. ius connubii d. riforma agraria, nuove regole sui debiti, la possibilità che uno dei due consoli fosse plebeo e, di conseguenza, fosse ammesso al senato; l’accesso alla magistratura degli edili ai patrizi. 4. Rispondi alle seguenti domande: 1. In che cosa consiste il potere esecutivo e chi lo deteneva a Roma? 2. Spiega, elaborando un testo schematico o una mappa concettuale, come mai il senato di fatto governava Roma. 3. facoltativa: Chi proponeva le leggi a Roma e quali assemblee le approvavano? 5. Inserisci sui puntini la data relativa alla battaglia o al trattato, scegliendo tra le seguenti: 508 a.C., 493 a.C., 303 a.C., 275 a.C., 279 a.C. ………Maleventum ………Ascoli Satriano ………trattato con Cartagine ………trattato con Taranto ………foedus Cassianum 6. Indica quali avvenimenti sono accaduti contemporaneamente in Grecia e a Roma nelle date indicate in tabella. Date Grecia Roma 499 a.C. Rivolta ionica Secessione dell’Aventino 494 a.C. Distruzione di Mileto Sconfitta della Lega Latina 338 a.C. Battaglia di Cheronea Battaglia del Lago Regillo 7. Indica il diverso significato che i seguenti termini avevano in latino e hanno in italiano. Magistrature In latino In italiano Console Pretore Edile Questore Censore Magistrato Dittatore 8. Quando, assistendo a un matrimonio cattolico, si vede un padre accompagnare la figlia all’altare e consegnarla al futuro sposo, di fronte a una scena così carica di sentimentalismo non si pensa all’origine di una simile usanza. Sai dire qual è? LABORATORIO DELLE COMPETENZE LE PRIME LEGGI SCRITTE A ROMA Le leggi delle XII Tavole furono una conquista della plebe e rimasero il fondamento della legislazione romana. Anche se risentivano dell’influsso greco, esse rispettavano l’autentica antica tradizione romana. Del testo originale delle XII Tavole ci è giunto solo un certo numero di frammenti, per lo più molto brevi, riportati da autori posteriori. La versione che ce ne è pervenuta è senz’altro rimaneggiata, anche perché le Tavole vennero rielaborate nel 200 a.C., ma conserva ancora un forte sapore di lingua arcaica. Tabula III 1. Per un debito riconosciuto e giudicato secondo il diritto, siano dalla legge concessi 30 giorni per la restituzione. 2. Poi [il creditore] getti le mani sopra il debitore [gesto che indicava il diritto di proprietà]. [ll debitore] sia tratto allora in giudizio. 3. Se non assolve a quanto fissato dal giudice, e se nessuno, durante il giudizio, si fa garante per lui, [il creditore] se lo porti via. Lo leghi con catene o con ceppi di almeno trenta libbre. […] 5. Se i creditori sono più di uno, dopo 60 giorni sia portato per tre volte consecutive al mercato per essere venduto. 6. Nel giorno del terzo mercato, [se non sarà venduto], i creditori lo taglino a pezzi [Tertiis nundinis partes secanto] Tabula IV 2. Si pater filium ter venum duuit (=venum dederit), filius a patre liber esto. Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sarà sciolto dalla patria potestà. Tabula V Le donne, a causa del loro animo leggero, restino sotto tutela. Tabula VIII 1a. Qui malum carmen incantassit… Chi recitasse contro qualcuno una formula di malaugurio (sarà punito con la morte). 2. Se uno avrà rotto una parte del corpo di un altro, se non si accorda con lui facendo pace, valga il principio del taglione. 3. Manu fustive si os fregit libero CCC, si servo CL poenam subito. Se con la mano o col bastone ha spaccato la faccia a un uomo libero, sarà assoggettato alla pena di 300 assi; se l’ha rotta a un servo, alla pena di 150 assi. 8a Qui fruges excantassit… Chi avrà lanciato un incantesimo contro le messi altrui o avrà attirato le messi dal campo vicino sul proprio con arti magiche sia punito con la pena di morte. 21. Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto. Se un patrono avrà commesso frode a danno di un suo cliente, sia votato agli dei [cioè: come vittima consacrata da immolare agli dei inferi, lo si potrà uccidere impunemente] Tabula IX Privilegia ne irroganto. 1. Non si avanzino proposte di leggi che interessino singole persone. 3. Il giudice o l’arbitro, legittimamente assegnati, e riconosciuti colpevoli di aver accettato denaro per esprimere il giudizio, siano puniti con la morte. Tabula X Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito. Nessun morto sarà cremato né sepolto in città. Tabula XI Conubia plebi cum patribus sanxerunt. È vietato ai plebei il matrimonio con i patrizi. Lavorare sulle fonti 1. Leggi i brani che seguono e inserisci nei quadratini il numero della tavola o delle tavole che esemplificano il testo. Il grande oratore Cicerone (106-43 a.C.) definì le leggi delle XII Tavole carmina, “canti”, perché espresse in una prosa ritmica, di una solenne arcaicità, modulata con allitterazioni e assonanze, che ne rendevano facile la memorizzazione agli studenti che nelle scuole dovevano impararle a memoria. La formulazione delle leggi scritte conserva le connotazioni proprie dell’oralità originaria: forme concise, periodi essenziali e paratattici, con un ritmo cadenzato, <> <> continui cambi di soggetti spesso sottintesi <> un succedersi, in latino, di imperativi futuri tipici delle formule e delle sentenze (resi in italiano con indicativi futuri o con congiuntivi presenti) (indicane un esempio a scelta) <> Pur nella stringatezza tipica delle sentenze, nelle leggi delle XII Tavole si possono cogliere vari aspetti della vita quotidiana, che a volte sono espressione di una società arcaica, pastorale, dominata dalla superstizione, in cui non esisteva una netta separazione tra diritto e credenze magico-religiose <> <> Anche una legge che a noi moderni può sembrare dettata da ragioni igienico-sanitarie, invece denota una mentalità arcaica, secondo la quale occorreva che lo spazio della vita non fosse contaminato dalla morte: già gli antichi egizi, come ricorderai, seppellivano i morti nella terra rossa del deserto, lontano dalla terra nera fertile lungo il Nilo. <> Altre norme poi rivelano una concezione del diritto che a noi appare davvero disumana <> A volte le leggi rappresentavano, invece, un’evoluzione rispetto a norme più antiche. Ne è un esempio la limitazione per il pater familias di vendere un figlio più di tre volte. A quanto pare risalirebbe all’epoca di Romolo la facoltà per i padri di vendere i figli maschi infinite volte. In realtà non si trattava di vendita vera e propria, in quanto il padre, spesso plebeo, affidava, per un certo periodo di tempo, il figlio a un estraneo, più facoltoso o bisognoso di manodopera: il termine giuridico è venum dare, che significa “vendere”, ma nelle leggi delle XII Tavole assume una sfumatura diversa, di vendita temporanea. Infatti, dopo un certo periodo in cui il giovane lavorava per lui, il padrone con la manumissio gli restituiva la libertà ed egli tornava sotto la patria potestas. Ma una legge delle XII Tavole limitò a due volte la facoltà del padre di “vendere” un figlio, perché alla terza quello si emancipava, diventava libero e poteva essere adottato da un altro. Le figlie femmine o i nipoti invece si emancipavano dopo una sola “vendita”. <> Altre leggi appaiono di una attualità straordinaria, come quella che prescriveva di non proporre leggi “ad personam” e di punire i giudici corrotti <> <> 2. sulla base di quanto hai appreso in questo capitolo, scrivi un breve testo per ognuno degli argomenti sottoelencati, facendo riferimento alle leggi delle XII tavole e confrontale con il nostro attuale modo di vedere questi problemi: visione della donna <> rapporti tra patrono e clienti, basati sulla fides (per cui v. cap. 1, par. 2,1) <> la schiavitù per debiti <> la legge del taglione <> la disparità di trattamento in base alla classe sociale <> la netta separazione degli ordini <> 3. Scrivi un testo descrittivo, in cui presenterai le leggi delle XII Tavole, seguendo lo schema proposto dalle domande seguenti: Che cosa sono le leggi delle XII Tavole? Perché sono definite così? Come mai non ce ne è pervenuto il testo originale? E come mai, secondo la tua opinione, tanti scrittori latini citano le Tavole e ci hanno permesso di conoscerle, sia pure parzialmente? Perché le XII Tavole rappresentano una conquista della plebe? Sono forse rivoluzionarie? SINTESI 5600 battute Occorre rifare con la nuova sistemazione e cambiare i titoli quando si saranno decisi. 1. La società e le istituzioni della Roma repubblicana nel V secolo La monarchia fu abbattuta dai patrizi che dettero vita a una repubblica aristocratica e affidarono il potere a due consoli, magistrati dotati di imperium, quindi di ampi poteri: il supremo comando militare, il potere esecutivo e l’intercessio, il diritto di veto sul collega per evitarne lo strapotere. Altri magistrati erano i pretori, con compiti giudiziari, e i questori, con compiti amministrativi. Tutte le magistrature avevano caratteristiche comuni: elettività, collegialità, annualità e gratuità, allo scopo di impedire il ritorno della monarchia. L’accentramento del potere e dei privilegi da parte dell’aristocrazia provocò la reazione dei plebei, che intrapresero lotte per ottenere la parità dei diritti. Con la secessione dell’Aventino i plebei si dettero due capi, i tribuni della plebe, inviolabili e dotati di diritto di veto sulle leggi lesive per la plebe. Inoltre crearono una propria assemblea, i concili tributi, le cui deliberazioni erano valide solo per la plebe. Nel 451 a.C. i plebei ottennero le prime leggi scritte, note come Leggi delle XII Tavole, che divennero la base del diritto romano. Al V secolo a.C. risale l’ordinamento centuriato, che suddivideva la popolazione in cinque classi in base al censo e non più in base alla nascita; la ricchezza era stabilita con dei censimenti, affidati a un censore patrizio. Il senato, la principale assemblea politica ed espressione dell’oligarchia, aveva funzioni consultive ma grazie alla sua auctoritas, cioè alla sua autorevolezza, le sue decisioni venivano sempre rispettate. 2. L’espansione non programmata Finita la monarchia, la prima repubblica dovette affrontare numerose guerre con i popoli confinanti. Primi fra tutti i latini riuniti nella Lega latina, sulla quale Roma tentò di imporsi; lo scontro del lago Regillo nel 499 a.C. si concluse con il foedus Cassianum del 493 a.C., un accordo di pace perpetua e aiuto reciproco. Solo con la guerra latina nel 340-338 a.C. però la Lega latina fu sciolta e i latini assoggettati e ridotti a socii latini. Poi Roma affrontò i popoli appenninici di sabini, equi, volsci e altri in una serie di battaglie che nel corso del V e IV secolo a.C. la portarono a un’espansione su nuovi territori e all’assimilazione dei popoli vinti. Dopodiché vi fu il duro scontro con gli Etruschi della potente città di Veio, sconfitti dai romani nel 396 a.C. Nel 390 a.C. Roma subì il pesante sacco dei galli o celti, ma seppe riprendersi ed espandersi a gran parte del Lazio. Per questo motivo Roma entrò in contrasto con i sanniti, stanziati nell’Italia appenninica centro-meridionale, che Roma riuscì a sconfiggere definitivamente solo dopo tre guerre sannitiche e dopo l’umiliante sconfitta delle Forche caudine. L’Italia centrale era ormai dominata da Roma, che puntava ora all’Italia meridionale. Quando nel 282 a.C. la greca Taranto si sentì minacciata da Roma, chiamò in aiuto Pirro, re dell’Epiro, il quale desiderava creare un grande impero nel Mediterraneo occidentale. Grazie alla tattica della falange e all’uso degli elefanti, Pirro vinse le legioni romane ad Ascoli Satriano nel 279 a.C., ma non riuscì a sfruttare la sua vittoria. Pirro allora tentò la conquista della Sicilia, ma tornato nella penisola nel 272 a.C. si scontrò di nuovo con i romani a Beneventum, ma fu sconfitto e tornò in patria. Roma allora conquistò Taranto. Ora Roma dominava l’intera Italia centrale e meridionale, e organizzò abilmente i territori evitando punizioni pesanti e differenziando gli ordinamenti. Distinse infatti i territori e i cittadini di Roma, con piena cittadinanza, dai territori e i cittadini latini, con cittadinanza limitata. Le altre città erano municipi, le città conquistate, o colonie, le città di nuova fondazione usate per popolare e controllare i nuovi territori. 3. L’evoluzione della società romana tra il IV e il III secolo a.C. Nel IV secolo a.C. proseguirono le rivendicazioni della plebe che chiedeva nuove terre, perché molti campi erano stati abbandonati dai contadini arruolati nell’esercito durante le guerre o saccheggiati dai nemici. I patrizi si accaparrarono gran parte dell’ager publicus, e molti contadini caddero in miseria. Alcune gentes plebee, invece, si erano arricchite con i commerci ed estesero le loro terre: grazie al loro nuovo potere economico, molti plebei, detti homines novi, riuscirono ad accedere alle principali magistrature e al senato. Nel 367 a.C. le leggi Licinie-Sestie stabilirono che uno dei due consoli fosse plebeo, posero un limite al possesso di ager publicus e fissarono nuove regole per i debiti. Appio Claudio Cieco, censore nel 310 a.C., si batté contro la politica conservatrice del senato attraverso lavori pubblici per dare lavoro a molti plebei: il porto di Ostia, il primo acquedotto e la prima strada, la via Appia. Nel III secolo a.C. l’espansione territoriale portò un incremento demografico e dei commerci che favorirono un arricchimento di nuovi strati della popolazione. La lex Hortensia del 287 a.C. sancì queste trasformazioni socio-economiche attribuendo ai plebisciti valore di legge; così si concludeva la lotta degli ordini a Roma. Nacque una nuova nobiltà, non più fondata sulla nascita ma sulla ricchezza, e la repubblica da aristocratica si trasformò in oligarchica. La lex Villia Annalis del 180 a.C. fissò il cursus honorum per tutte le magistrature. Nonostante la profonda trasformazione di secoli, Roma continuava a essere una città-stato, quindi con una struttura politica, amministrativa ed economica ancora inadeguata alla nuova ampiezza dei territori dominati.