2.
2.1.
LE PROSPETTIVE DELLA RIPRESA ECONOMICA
Crescita, commercio mondiale e materie prime
Durante i mesi estivi si sono rinforzati i segnali di ripresa del quadro
L’evoluzione
globale.
L’eliminazione di alcuni dei fattori che avevano condizionato
del quadro
pesantemente l’attività economica, in particolare il conflitto in Iraq e l’epidemia
globale
della Sars, ha contribuito al miglioramento delle aspettative delle imprese e
delle famiglie, una delle condizioni fondamentali per il processo di
normalizzazione dell’economia reale. Sui mercati finanziari, è proseguito il
rialzo delle quotazioni di borsa iniziato a metà marzo. Ciò ha riflesso l’arresto
del processo di riallocazione dal comparto azionario a quello obbligazionario
del portafoglio degli investitori, i quali hanno ripreso a mostrare interesse
anche per strumenti finanziari a rischio elevato. Il ritrovato entusiasmo degli
operatori sul mercato azionario ha contribuito, da un lato, a rafforzare la
fiducia delle famiglie e, dall’altro lato, a consentire alle imprese, confortate dai
buoni profitti del secondo trimestre, di raccogliere ulteriore liquidità (cfr. par.
2.2). Sembrano, a questo punto, allontanarsi i rischi di deflazione paventati
fino a pochi mesi fa (cfr. il riquadro: Esiste un pericolo di deflazione
generalizzata?).
Condizionatamente all’assenza di nuovi shock, prevediamo che la crescita
del Pil mondiale raggiunga quest’anno il 3,1%. Nel corso del biennio
successivo, il consolidamento delle tendenze in corso comporta un’ulteriore
accelerazione della crescita, che oscillerebbe intorno al 4%. Finora, tuttavia, le
performance delle macroregioni sono risultate alquanto diversificate (tabb. 2.1
e 2.2). Gli Stati Uniti, il cui recupero risulta determinante per la ripresa
dell’attività economica globale, hanno mostrato una dinamicità che lascia
motivo di credere che si stiano avviando verso una nuova fase di sviluppo.
Analogamente, la Cina, le economie asiatiche di nuova industrializzazione ed i
paesi dell’Europa Centro-orientale hanno continuato a crescere a tassi elevati.
Anche il Giappone, nonostante i problemi ancora irrisolti, inizia a mostrare i
primi segni di ripresa. Questi andamenti contrastano con quelli modesti
dell’America latina e dei paesi dell’area dell’euro. La situazione già precaria di
questi ultimi, che ancora stentano a ripartire, è stata ulteriormente aggravata
dal recente apprezzamento dell’euro.
Nel nostro scenario, gli Stati Uniti si portano su un sentiero di crescita più
sostenuto già a partire da quest’anno. Le politiche macroeconomiche
rimarrebbero fortemente accomodanti senza sollecitare pressioni
inflazionistiche e continuerebbero a sostenere la ripresa americana. Il Pil
statunitense si attesterebbe quest’anno al 2,4% e tornerebbe a crescere a
tassi prossimi al suo potenziale già nel 2004 e nel 2005, portandosi al 3,5% e
19
4% rispettivamente. Nell’area dell’euro, le cui rigidità strutturali e gli strumenti
di politica macroeconomica impediscono di reagire con la stessa rapidità degli
Stati Uniti ai mutamenti economici e finanziari, il 2003 costituirebbe un anno di
risanamento e transizione verso ritmi di crescita più elevati, che passerebbero
dal modesto 0,5% di quest’anno all’1,6% del 2004. Il consolidamento degli
investimenti a partire dal prossimo anno imprimerebbe un’ulteriore
accelerazione a questa dinamica nel 2005, durante il quale il Pil dell’area
dell’euro si attesterebbe sul 2,3%. Complessivamente, le economie avanzate
crescerebbero del 2% quest’anno, del 2,8% nel 2004 e del 3,2% nell’anno
successivo.
Tab. 2.1 - Tassi di crescita del Pil nelle economie avanzate
Mondo
Economie avanzate
Stati Uniti
Canada
Giappone
Area dell'euro
Regno Unito
Nies (a)
2001
2,3
0,9
0,3
1,5
-0,3
1,5
2,0
0,8
2002
3,0
1,8
2,4
3,4
0,2
0,8
1,6
4,6
2003
3,1
2,0
2,4
2,1
2,0
0,5
1,8
4,1
2004
3,8
2,8
3,5
3,0
1,3
1,6
2,4
4,5
2005
4,2
3,2
3,8
3,3
1,5
2,3
2,7
5,0
(a) Hong Kong, Corea del Sud, Singapore, Taiwan.
Fonte: FMI, dal 2003 previsioni CSC.
Tab. 2.2 - Tassi di crescita del Pil nelle economie non avanzate
Asia (a)
Cina
India
America latina
Argentina
Brasile
Europa Centro-orientale (b)
Russia
Africa
2001
5,7
7,3
4,2
0,6
-4,4
1,4
3,0
5,0
3,6
2002
6,5
8,0
4,9
-0,1
-11,0
1,5
2,8
4,3
3,4
2003
6,3
6,7
5,1
1,5
3,0
2,8
3,4
4,0
3,9
2004
6,5
7,0
5,9
4,2
4,5
3,5
4,3
3,5
5,2
2005
7,0
7,2
6,3
4,5
4,8
3,8
4,8
4,0
5,5
(a) Esclusi il Giappone e le Nies.
(b) Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Slovenia, Repubblica Slovacca, Polonia,
Ungheria, Lettonia, Lituania, Estonia, Cipro e Malta.
Fonte: FMI, dal 2003 previsioni CSC.
20
Gli scambi
Nel corso dei primi mesi del 2003 le transazioni internazionali hanno
continuato ad essere di modesta entità e condizionate soprattutto dall’elevato
rischio geopolitico. Pesanti le ripercussioni sul turismo a causa dell’aumento
considerevole dei costi di viaggio, trasporto e assicurazione e della ridotta
propensione ad effettuare spostamenti. Rispetto al Rapporto del mese di
giugno, segnaliamo l’inaspettata vivacità durante il secondo trimestre
dell’economia statunitense, che se dovesse proseguire lungo questo sentiero
di crescita favorirebbe l’intensificazione delle transazioni commerciali
internazionali, dato il peso degli Stati Uniti sulle importazioni mondiali (oltre il
20%). Per questa ragione, rivediamo leggermente al rialzo le previsioni sul
commercio internazionale sia per il 2003 che per l’anno successivo (3,5% e
5,5% rispettivamente). Il consolidarsi dell’attività economica anche in Europa e
in Giappone nel 2005 imprimerebbe un’accelerazione alle transazioni
internazionali, che aumenterebbero del 6,5% rispetto all’anno precedente.
Tra i rischi che potrebbero compromettere lo scenario presentato sono
particolarmente importanti quelli relativi all’incertezza geopolitica del
dopoguerra iracheno. L’esito dei negoziati della quinta Conferenza Ministeriale
del WTO a Cancun, inoltre, è di fondamentale importanza per la
liberalizzazione del commercio internazionale e rappresenta l’occasione per
rafforzare i fondamenti di un sistema di scambi multilaterale. Tra le principali
contrapposizioni in ambito WTO vi è infatti quella che vede da una parte i
paesi industrializzati, che richiedono un maggior rispetto dei diritti di proprietà
intellettuale e dei marchi, e dall’altra i paesi emergenti o in ritardo di sviluppo,
che domandano un più ampio accesso ai mercati OCSE, in particolare per i
prodotti agricoli e del settore tessile-abbigliamento. Il compromesso sulla
riforma della Politica agricola comune, raggiunto in seno all’UE nel giugno
scorso, potrebbe aver rimosso uno degli ostacoli sulla via del successo
dell’ambizioso Development Round lanciato dal WTO a Doha all’indomani
dell’11 settembre 2001. Permangono tuttavia altri ostacoli, di cui il più
ingombrante è forse il contenzioso tra Stati Uniti ed Europa, che si alimenta
della sentenza favorevole all’UE sul caso delle Foreign Sales Corporations e
della disputa sui dazi in campo siderurgico (cfr. il riquadro: I negoziati WTO
per la liberalizzazione del commercio mondiale, Previsioni Macroeconomiche,
CSC, giugno 2003).
Dopo il brusco calo delle quotazioni seguito alla fine del conflitto in Iraq (sui
Il petrolio e le
altre materie 23 dollari al barile), il prezzo del Brent ha inaspettatamente ripreso a salire,
raggiungendo un picco di 30,6 dollari al barile nella prima settimana di agosto
prime
(fig. 2.1). Tale risalita, più che a carenze produttive, è da attribuirsi ai nuovi
episodi terroristici, oltre che ai ripetuti sabotaggi delle installazione petrolifere
in Iraq, che hanno fatto perdurare quelle tensioni geopolitiche di cui ci si
attendeva invece la fine con il chiudersi delle operazioni militari in quel paese.
Difatti, solamente nel primo trimestre 2003 si è avuta una effettiva carenza
di offerta di greggio. Già nel secondo trimestre, con una domanda mondiale di
petrolio molto contenuta, a causa principalmente della debolezza della
congiuntura internazionale, la produzione di greggio ha decisamente superato
le richieste, a seguito anche della piena normalizzazione della produzione
21
in Venezuela e in Nigeria. Questa eccedenza produttiva si è verificata
nonostante il taglio di 2 milioni di barili al giorno alle quote OPEC operato nel
mese di giugno (ma deciso in aprile quando le quotazioni erano poco sopra i
23 dollari). Le scorte di greggio sia negli Stati Uniti che in Europa e Giappone
sono risultate, di conseguenza, in netto aumento tra i mesi di giugno e luglio.
Dalla metà di agosto si è assistito quindi ad una frenata delle quotazioni,
che restano tuttavia intorno ai 29-30 dollari al barile. La discesa dovrebbe
riprendere nei prossimi mesi soprattutto quando, con la fine delle sanzioni
economiche all’Iraq (che dovrebbe divenire effettiva da novembre), le
esportazioni di petrolio iracheno potranno rientrare sul mercato libero.
Fig. 2.1
PREZZO DEL PETROLIO
(Quotazioni brent; dollari per barile)
35
33
31
28
26
24
22
19
17
2002
Fonte: Thomson Financial.
2003
Con la ripresa dell’export iracheno, si verrà a creare in seno al cartello un
serio problema di gestione del surplus di greggio, reso ancora più arduo dalla
continua crescita delle esportazioni da parte dei paesi petroliferi non-OPEC
(Russia in particolare), che secondo le previsioni dovrebbero da sole coprire
l’intero aumento della domanda nel 2004. Senza un accordo con l’OPEC, il
surplus potrebbe divenire pesante e le quotazioni sarebbero destinate a una
discesa probabilmente eccessiva, una volta venute meno le tensioni che le
tengono artificialmente elevate.
Nel nostro scenario assumiamo che la discesa del prezzo del petrolio sarà
graduale. Negli ultimi mesi del 2003 le quotazioni si muoveranno verso i 26-27
dollari al barile; dovrebbero poi far segnare una ulteriore riduzione nella prima
22
metà del prossimo anno. In media d’anno il prezzo del Brent sarebbe pari a 28
e 25 dollari al barile, rispettivamente, nei due anni.
Le quotazioni in dollari delle materie prime non combustibili, misurate
dall’Indice Confindustria, hanno mostrato un andamento molto moderato nel
corso dei primi sette mesi del 2003 (+0,9%); un dato che nasconde dinamiche
molto diversificate tra prezzi delle materie prime alimentari, scesi del 5,5%,
per il riassorbirsi delle tensioni che le hanno caratterizzate lo scorso anno, e
non alimentari, che hanno fatto segnare un aumento del 4,1%, anche a
seguito dei primi segnali di ripresa dell’attività economica (tab. 2.3). Tenuto
conto dell’accelerazione della domanda mondiale che si sta materializzando,
ipotizziamo che le quotazioni in dollari delle materie prime non combustibili
proseguano fino al termine del 2003 il trend lievemente crescente; in media
d’anno i prezzi segnerebbero una risalita del 2-3%. Per il 2004, una volta
concretizzatasi la ripresa dell’economia internazionale, prevediamo un rialzo
delle quotazioni intorno al 4-5%.
Tab. 2.3 — Indice Confindustria dei prezzi delle materie prime in dollari (a)
(Variazioni % sul periodo corrispondente)
Totale generale
Combustibili
Petrolio
Alimentari
Non alimentari
Fibre
Prodotti vari per l’industria
Minerali
Metalli
Totale esclusi i combustibili
Pesi
100,0
37,8
27,1
18,1
44,1
3,9
11,3
2,8
10,0
62,2
1999
14,5
28,7
39,2
-11,7
-6,0
-13,3
-4,7
-8,5
-6,8
-7,9
2000
41,8
57,2
60,4
0,1
11,4
11,5
14,6
4,1
10,2
7,8
2001
-11,4
-12,7
-14,5
-1,1
-9,4
-16,2
-14,5
-4,4
-8,8
-7,0
2002
1,8
1,7
2,1
0,8
2,7
12,4
11,2
-0,3
-1,6
2,1
2003(b)
2,1
2,7
2,8
-5,5
4,1
9,0
3,1
0,0
4,1
0,9
(a) Ponderazione effettuata con le quote 1997-2000 dei vari prodotti nel commercio mondiale.
(b) Gennaio - agosto.
Fonte: CSC.
Esiste un pericolo di deflazione generalizzata?
Introduzione – Negli ultimi mesi il pericolo deflazione è stato sollevato con forza a
1
livello internazionale: prima una ricerca del Fondo Monetario Internazionale , poi il
discorso di Greenspan in occasione della riunione di inizio maggio del Federal Open
Market Committee sulla possibilità, seppur ridotta, di un significativo calo
dell’inflazione negli Usa, hanno portato la questione all’attenzione degli analisti. La
persistente debolezza dell’economia mondiale e la contemporanea riduzione
dell’inflazione in molti paesi hanno infatti alimentato il timore che il malessere
giapponese possa investire anche l’America e l’Europa. Negli Stati Uniti, la Federal
Reserve ha abbassato il tasso sui federal funds ai minimi degli ultimi quarant’anni
1
Fondo Monetario Internazionale, “Deflation: determinants, risks and policy options. Findings
of an interdepartmental task force”, aprile 2003.
23
(1%) nel tentativo di stimolare la ripresa economica. In Europa, oltre alla manovra
sui tassi, la Banca Centrale Europea, nel rivedere la propria strategia di politica
2
monetaria ha da un lato ribadito che per stabilità dei prezzi si intende un’inflazione
sotto il 2% ma, dall’altro, precisato che, nel perseguire tale obiettivo, tenterà di
mantenere l’inflazione vicino al 2% nel medio periodo.
In cerca di una definizione – La deflazione viene comunemente definita come il
calo generalizzato del livello dei prezzi. La riduzione dei prezzi di determinati beni
e/o servizi che si può verificare in un’economia a bassa inflazione non costituisce
quindi di per sé deflazione. Quest’ultima, invece, si manifesta quando la caduta dei
prezzi è così diffusa da far registrare continue riduzioni negli indici generali dei
prezzi (deflatore del Pil, indice dei prezzi al consumo).
Una regola precisa per definire la deflazione nella dimensione temporale
tuttavia non esiste: se un breve periodo di calo dell’indice dei prezzi al consumo
costituisce tecnicamente deflazione, sembrerebbe esserci da parte delle autorità
monetarie un margine di tolleranza di circa sei mesi.
Il fenomeno della deflazione va inoltre distinto da quello della disinflazione: la
caduta dei prezzi non deve infatti essere confusa con il rallentamento della loro
crescita. Tuttavia, tenendo conto del fatto che l’indice dei prezzi al consumo
potrebbe essere soggetto ad una sovrastima nell’ordine di circa 0,5-1,0 punti
3
percentuali , è possibile che tassi d’inflazione inferiori all’1% mascherino già una
stabilità dei prezzi se non addirittura una loro diminuzione.
Le possibili cause della deflazione – La deflazione può essere causata da due tipi
di shock: uno positivo di offerta, l’altro negativo di domanda. Nel primo caso un
eccesso di offerta derivato dall’innovazione tecnologica e dalla crescita della
produttività comporta sia un abbassamento dei prezzi che un aumento della
produzione. All’opposto, il caso più frequente di contrazione della domanda
aggregata (grave recessione, scoppio di una bolla azionaria) nel determinare una
riduzione dell’indice generale dei prezzi provoca anche una diminuzione della
produzione.
Tali effetti negativi vengono inoltre amplificati dalle aspettative dei consumatori:
questi, nell’attesa di un’ulteriore diminuzione dei prezzi, rimandano i loro acquisti e
diventano sempre più inclini al risparmio. Ciò riduce la domanda aggregata e genera
un ulteriore abbassamento dei prezzi, creando così un circolo vizioso.
Dall’analisi del concetto di deflazione risulta, quindi, quanto sia difficile rilevare
tale fenomeno: contrazioni della domanda aggregata che rischiano di trascinare
l’economia in deflazione potrebbero essere confuse con una normale recessione,
mentre nel caso di uno shock positivo di offerta l’economia sembra addirittura
migliorare. Da qui, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la necessità di
ricorrere a vari tipi di indicatori per avvertire le pressioni deflazionistiche: indice
generale dei prezzi (indice dei prezzi al consumo, indice dei prezzi alla produzione,
deflatore del Pil), output gap (scarto tra il Pil effettivo e quello potenziale), indicatori
finanziari (indici di borsa e tassi di cambio) e creditizi (prestiti bancari, aggregati
monetari).
Quali sarebbero i suoi effetti sul sistema economico? – La deflazione genera
tipicamente un peggioramento del quadro congiunturale dovuto a diversi tipi di
asimmetrie economiche. La vischiosità verso il basso dei salari nominali in
concomitanza di una diminuzione dei prezzi genera una perdita di competitività che
si traduce in un aumento della disoccupazione.
La deflazione normalmente sollecita le autorità monetarie ad abbassare i tassi
d’interesse nominali. Tuttavia, un calo dei prezzi sufficientemente pronunciato da
portare i tassi d’interesse sulla soglia dello zero crea una serie di problemi per il
2
3
Banca Centrale Europea, Bollettino mensile, maggio 2003.
Tale sovrastima potrebbe derivare dal fatto che, in generale, l’indice dei prezzi al consumo
non prende in considerazione la sostituzione tra beni da parte dei consumatori in corso
d’anno, l’introduzione di nuovi prodotti e, in molti casi, anche il miglioramento della qualità dei
prodotti esistenti. Per gli Stati Uniti, la Commissione Boskin nel 1996 quantificò la sovrastima
in circa l’1%.
24
settore finanziario, l’economia reale e la politica monetaria. Con tassi d’interesse
nominali già allo zero, il procedere della deflazione comporta una progressiva
redistribuzione di risorse dai debitori ai creditori: i tassi d’interesse reali ed il valore
della somma presa a prestito (fissata in termini nominali) tendono infatti a crescere
sempre più, incrementando i rischi di bancarotta nel caso delle imprese.
Parallelamente la diminuzione dei prezzi riduce, in genere, il valore delle
garanzie collaterali fornite alle banche dai clienti. La solidità patrimoniale del sistema
bancario risulta così indebolita e, tipicamente, vengono quindi attuate politiche di
razionamento del credito, con conseguenti effetti restrittivi sulla domanda aggregata.
Inoltre, tassi d’interesse vicini allo zero, nel rendere la domanda di moneta
infinitamente elastica, fanno perdere efficacia alla politica monetaria (trappola della
liquidità). Le autorità monetarie, che utilizzano in genere i tassi d’interesse a breve
come strumento di politica monetaria, si troverebbero di conseguenza senza margini
di manovra. Non potendo più far ricorso alle tradizionali misure di politica monetaria,
per stimolare la domanda aggregata e l’attività economica le banche centrali devono
ricorrere allora a politiche non convenzionali.
Le politiche economiche per la deflazione
La politica monetaria: come prevenire la deflazione - La recente esperienza
giapponese, ma anche quella della grande depressione degli anni Trenta, mostrano
come un’economia apparentemente sana con bassa inflazione si possa trasformare
in breve in una con una deflazione distruttiva. Di qui il bisogno di politiche
economiche accorte che evitino il materializzarsi di tale rischio. Visto che la
deflazione nasce, come detto, generalmente dalla caduta della domanda aggregata,
la prescrizione di politica economica è semplice e diretta: usare politica monetaria e
fiscale per sostenere la domanda prima di entrare in deflazione. Il motto ripetuto da
più parti è: prevenire la deflazione è meglio che curarla.
Riguardo alla politica monetaria, che è naturalmente la principale protagonista
della lotta alla deflazione, esistono alcune misure specifiche che nel corso degli anni
sono state suggerite da diversi economisti ed esperti di questioni monetarie per
4
prevenirla .
Innanzitutto, la Banca centrale non dovrebbe tentare di ridurre l’inflazione verso
lo zero, ma lasciare una margine di sicurezza (2% per la BCE, in generale tra l’1 e il
3% per le Banche centrali che hanno un esplicito target di inflazione); ciò mette al
riparo da shock non anticipati alla domanda aggregata che spingano in territorio
deflazionistico.
In secondo luogo usare i poteri di supervisione e regolamentazione tipicamente
conferiti alla Banca Centrale per mantenere la stabilità del sistema finanziario ed
evitare violente crisi che potrebbero far calare bruscamente la domanda aggregata.
Infine, dato che lo zero-bound impone un’asimmetria sui movimenti del tasso di
interesse nominale, si è suggerito da più parti di condurre la manovra di politica
monetaria in modo parimenti asimmetrico: in un’economia a bassa inflazione,
nell’avvicinarsi di un rallentamento dell’economia, con conseguente processo di
disinflazione, il tasso di interesse dovrebbe essere ridotto più rapidamente e di un
ammontare maggiore che non nel caso opposto di un’economia da raffreddare; ma
soprattutto dovrebbe essere tenuto basso molto più a lungo. Questo è esattamente
ciò che ha fatto la FED tra il 2001 e il 2003 (fig.1).
La politica monetaria: come curare la deflazione – Anche quando la deflazione,
nonostante tutti gli sforzi, si è ormai diffusa nel paese la politica da adottare rimane
quella naturale di ridurre ancora il tasso ufficiale. Le difficoltà che una banca centrale
si trova ad affrontare in un’economia in deflazione divengono massime solo quando
si tocca lo zero-bound sul tasso di interesse nominale. Il problema principale che
deriva dal raggiungimento del limite è che la banca centrale viene costretta ad
adottare misure non convenzionali per allentare ulteriormente le condizioni
monetarie.
Mentre le misure per prevenire la deflazione, di cui si è detto, sono state
oggetto di studi scientifici e di un ampio dibattito, quelle da adottare nel caso in cui
4
Bernanke, Ben, “Deflation: making sure it doesn’t happen here”, novembre 2002; Bank for
International Settlements, “73esimo rapporto annuale”, giugno 2003.
25
l’economia sia ormai caduta in deflazione e si sia già raggiunto lo zero-bound sono
meno delineate nella teoria economica e non hanno l’avvallo dell’esperienza dato
che la gran parte delle moderne banche centrali (come la FED e la BCE) non si sono
mai trovate in tali condizioni.
Ma anche con il tasso allo zero-bound la banca centrale può sempre, in linea
teorica, stampare moneta (o anche solo annunciare credibilmente di volerlo fare)
distribuendola ai consumatori che subito accresceranno la domanda aggregata;
questo ridurrà il valore della moneta in termini di beni e servizi o, in altre parole,
accrescerà il prezzo in moneta locale di beni e servizi, generando così inflazione.
Nella pratica, molto difficilmente la banca centrale agirà stampando direttamente
moneta, ma può approssimare tale misura tramite modi non standard di immettere
moneta nel sistema, come maggiori acquisti di asset già nel suo portafoglio ordinario
Fig.1
7.0
TASSI UFFICIALI DI SCONTO
6.0
5.0
4.0
3.0
2.0
1.0
0.0
Bce
Fed
1999
2000
Fonte: Thomson Financial.
2001
2002
2003
o estensione ad asset normalmente esclusi, o anche massicci prestiti a tassi ridotti
alle banche puntando alla riduzione dei rendimenti dei titoli usati come collaterale e
quindi alla riduzione del costo del capitale come stimolo alle imprese.
Oltre a questo la Banca Centrale può puntare sulla riduzione dei tassi di
interesse a lungo termine, dato che quello a breve è già allo zero. E può farlo, ad
esempio, impegnandosi a tenere a zero i tassi a brevissimo termine (overnight) per
un certo periodo di tempo, non solo nell’immediato come fatto di recente dalla
Banca del Giappone). La riduzione dei tassi a lungo termine agirebbe da stimolo
della domanda aggregata nelle forme solite.
Infine, ma forse ormai solo per alcuni paesi, per la precisione quelli meno
sviluppati, un’opportunità aperta è quella della politica del tasso di cambio: una forte
svalutazione del cambio rispetto alle valute principali (unita a immissione di moneta
nell’economia) può essere uno strumento molto efficace contro la deflazione perché
fa crescere i prezzi all’import nel paese.
La politica fiscale – Tutte le misure finora viste coinvolgono la sola Banca Centrale,
ma ovviamente un’azione coordinata con misure di politica fiscale potrebbe dare
risultati anche migliori. La politica fiscale potrebbe agire con un vasto programma di
tagli alle imposte come stimolo al consumo; un programma che potrebbe essere
finanziato da “creazione” di moneta da parte della Banca Centrale (operazione che
complessivamente equivarrebbe a “gettare moneta dagli elicotteri”). Un’alternativa
sono i trasferimenti pubblici al settore privato, nelle loro varie forme, o anche
l’aumento degli acquisti di beni e servizi, magari anch’essi finanziati da creazione di
moneta.
26
Le riforme strutturali – Anche la rimozione di impedimenti al meccanismo di
trasmissione della politica monetaria, come il credit crunch, l’eccesso di debito nei
bilanci societari o l’eccessiva avversione al rischio, può giocare un ruolo importante.
Molti di questi problemi, che sono in gran parte correlati tra loro e autorinforzantisi,
ma soprattutto il credit crunch (ovvero il razionamento del credito bancario alle
imprese), possono essere affrontati mediante la stabilizzazione del sistema bancario
attraverso provvedimenti di regolamentazione di varia natura. O con altre misure,
come la sospensione di clausole legali per l’indicizzazione dei titoli emessi dalle
imprese, per evitare un loro eccessivo deprezzamento.
Complessivamente, va detto che azioni coordinate da parte delle varie
istituzioni di un paese possono risultare più credibili presso gli operatori economici.
Ciò può tra l’altro consentire alla Banca Centrale di accrescere gli effetti delle sue
politiche determinando una sequenza ottima di interventi monetari, fiscali e di
regolamentazione. Ma consente anche di tenere solo come ultima risorsa le misure
di politica monetaria meno piacevoli per l’economia.
Alcuni casi correnti e uno sguardo al passato
Area dell’euro e Germania – Nell’area dell’euro sia l’inflazione generale che la core
inflation si sono avvicinate da inizio 2003, come del resto previsto dalla maggior
parte degli analisti, a quel livello del 2% che è, fin dalla sua nascita, l’obiettivo
prioritario della BCE (fig. 2). Obiettivo, come detto, ribadito di recente nella revisione
della strategia di politica monetaria laddove, nel togliere enfasi all’altro obiettivo di un
tasso di crescita della moneta M3 del 4,5% si è sottolineato che l’obiettivo della
Banca Centrale rimane il mantenimento dell’inflazione generale su livelli prossimi al
2% nel medio termine.
Di conseguenza siamo ora nell’area dell’euro nella situazione ideale di obiettivo
raggiunto e non in una in cui si debbano paventare rischi di deflazione. La stessa
BCE, nel sottolineare la sua visione positiva per i prossimi mesi, con un’inflazione
destinata a scendere sotto il 2% per tutto il 2004, non fa assolutamente cenno
all’eventuale rischio deflazionistico che ciò potrebbe comportare.
Ovviamente, l’inflazione dell’area è una media ponderata di situazioni
abbastanza diversificate tra i suoi dodici paesi membri. Un caso leggermente
particolare è la Germania laddove l’inflazione generale è circa la metà di quella
dell’area nel suo complesso (0,9% tendenziale a giugno 2003 contro il 2,0%
Fig.2
DISINFLAZIONE NELL'AREA DELL'EURO E NEGLI STATI UNITI
(Indice generale dei prezzi al consumo, variazioni % tendenziali)
4.0%
3.5%
Stati Uniti
Area dell'euro
3.0%
Germania
2.5%
2.0%
1.5%
1.0%
0.5%
0.0%
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
Fonte: Thomson Financial.
dell’area). Ma soprattutto per una componente molto importante, i beni industriali
non energetici, da alcuni mesi permangono riduzioni tendenziali del livello dei prezzi
27
(-0,4% a giugno); riduzioni riscontrate anche per gli alimentari freschi che sono però
una componente volatile dell’inflazione.
Tuttavia, ciò non significa di per sé, anche guardando alla possibile definizione
di deflazione di cui si diceva più sopra (riferita all’indice generale e non a singole sue
componenti), che la Germania sia già in deflazione né che sia necessariamente
elevato il rischio che vi possa cadere; il FMI ritiene che questo rischio sia più alto
che per gli altri paesi dell’area ma non elevatissimo in termini assoluti. Certo, di pari
passo con un’inflazione molto ridotta la Germania presenta anche un’attività
economica che stenta a riprendere il sentiero di crescita e, come naturale in
un’unione monetaria, delle condizioni monetarie più stringenti che in altri paesi
membri (con un tasso di interesse reale positivo, intorno all’1%, mentre alcuni altri
paesi a più alta inflazione presentano tassi reali negativi).
Giappone e altri paesi asiatici – Dallo scoppio della bolla speculativa sui mercati
azionario e immobiliare di fine anni Ottanta il Giappone vive in una fase di
stagnazione prolungata, alla quale si è poi aggiunta, a partire dal 1998, la deflazione
(nella media del 2002 l’indice generale dei prezzi al consumo ha registrato un calo
dello 0,9%, fig. 3). Le singole politiche macroeconomiche sinora intraprese non sono
riuscite a risollevare né la crescita né il livello dei prezzi: da una parte il sistema
5
bancario, afflitto dallo strutturale problema dei non performing loans , non ha potuto
fungere da efficace meccanismo di trasmissione degli stimoli di politica monetaria
(consistenti ora per lo più in ingenti immissioni di moneta da parte della Banca
Centrale, una volta raggiunto nel settembre 2001 lo zero-bound sul tasso di
interesse nominale); dall’altra, le aspettative dei consumatori circa l’aumento del
livello della tassazione futura, in considerazione dell’elevato debito pubblico
corrente, hanno neutralizzato l’impulso della politica fiscale (pari a circa il 140% del
Pil).
Il governo giapponese, nell’intento di risolvere il problema della deflazione, si è
quindi dato la priorità di ristrutturare il sistema bancario presentando a fine 2002 un
“Piano di risanamento finanziario” che prevede di dimezzare l’incidenza delle
sofferenze sull’attivo delle banche entro la fine dell’anno fiscale 2004 (marzo 2005).
Contemporaneamente, un’altra soluzione potrebbe essere quella di un maggior
6
coordinamento tra la politica monetaria e quella fiscale . Una riduzione delle tasse
finanziata direttamente dalla Banca del Giappone tramite creazione di moneta,
anziché dal settore privato, non implicherebbe infatti nessun incremento del debito
pubblico e quindi nessun aumento della tassazione futura. I consumatori sarebbero
quindi invogliati maggiormente a spendere piuttosto che a risparmiare le risorse
liberate. Così facendo, inoltre, la Banca Centrale aggirerebbe anche il problema
della paralisi del meccanismo di trasmissione della politica monetaria: un’espansione
congiunta di politica monetaria e fiscale incrementerebbe la spesa privata
indipendentemente dallo stato di salute delle banche.
Nel 2002 (e, in parte, già negli anni immediatamente precedenti), oltre al
Giappone, anche altri paesi asiatici hanno riportato episodi di deflazione: Cina, Hong
7
Kong , Singapore e Taiwan (fig. 3). Per le economie dell’est asiatico, tre delle
cosiddette “tigri”, la ragione di fondo del calo dei prezzi va ricercata nello scoppio
delle due bolle speculative (azionaria e immobiliare) avvenuto nel 1997 con la “crisi
asiatica”. La quarta “tigre”, la Corea del Sud, si è al contrario già da tempo ripresa da
quella crisi finanziaria grazie ad un policy mix efficace che ha messo fine alla
deflazione.
Nel caso cinese, invece, la diminuzione dei prezzi è stata originata da fattori dal
lato dell’offerta: ingresso nella World Trade Organisation, accesso a nuove
tecnologie a seguito dell’aumento degli investimenti diretti esteri da parte dei paesi
occidentali, apertura ai privati nella proprietà delle imprese pubbliche. Ma ciò che più
conta, in Cina la deflazione si è accompagnata a una crescita assai sostenuta
5
Secondo le più recenti stime della Financial Service Agency (FSA) l’ammontare di crediti
bancari inesigibili, al lordo degli accantonamenti, era pari alla fine di marzo a 35,3 mila miliardi
di yen (circa il 6% del Pil).
6
Bernanke, Ben, “Some thoughts on Monetary Policy in Japan”, discorso alla Japan Society
of Monetary Economics, maggio 2003.
7
28
Schellekens, Philip, “Deflation in Hong Kong Sar”, IMF Working Paper n. 03/77, aprile 2003.
dell’attività economica, il che ne riduce di molto il potenziale corrosivo del
funzionamento del sistema economico.
Nella prima metà di quest’anno, tuttavia, va rilevato un miglioramento della
situazione in Asia, con tassi d’inflazione che si sono avvicinati allo zero (Giappone) o
sono addirittura risaliti in territorio positivo (Cina).
Fig.3
DEFLAZIONE IN ASIA
(Indice generale dei prezzi al consumo, variazioni % tendenziali)
8.0%
Giappone
Hong Kong
Taiwan
6.0%
4.0%
Cina
Singapore
2.0%
0.0%
-2.0%
-4.0%
-6.0%
-8.0%
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
Fonte: Thomson Financial.
Stati Uniti – L’inflazione americana ha registrato nella seconda metà del 2002 un
notevole rialzo (dall’1,1% di giugno 2002 al 3% di febbraio 2003, per lo più a causa
della componente energetica) e si è poi stabilizzata a luglio 2003 sul 2,1%. Tuttavia,
8
guardando alla core inflation , che non ha mai smesso di scendere dal novembre del
2001, gli Stati Uniti stanno in realtà sperimentando da quasi due anni una graduale
9
disinflazione . Alla luce di questo andamento, il 6 maggio scorso la Federal Reserve
ha quindi espresso, per la prima volta, la sua preoccupazione circa la possibilità che
l’inflazione si riduca troppo.
Sembra infatti esserci negli Stati Uniti il rischio che l’attuale tendenza
10
disinflazionistica continui nel medio periodo . Il principale fattore ad aver esercitato
delle pressioni al ribasso sulla dinamica dei prezzi è stato naturalmente il
rallentamento dell’economia. Nonostante gli Stati Uniti siano ora ufficialmente in una
11
fase di ripresa , il tasso di disoccupazione rimane elevato e l’output gap si profila
ancora negativo. Ad attenuare la riduzione dell’inflazione vi è tuttavia il
deprezzamento del dollaro ed il fatto che le aspettative d’inflazione dei consumatori
non sono calate.
La Federal Reserve rimane comunque vigile sulla situazione e si dice pronta a
mantenere il tasso sui federal funds all’attuale livello (1%) per un lungo periodo.
Nell’eventualità in cui ciò non fosse sufficiente, è già stato preventivato un ulteriore
taglio dei tassi, addirittura fino allo zero. Dall’esperienza giapponese la Federal
8
Misurata dall’indice dei prezzi al consumo al netto delle componenti volatili (prezzi dei
prodotti alimentari ed energetici).
9
Resta vero il fatto che, come detto precedentemente, l’eventuale deflazione va riferita
all’indice generale dei prezzi al consumo.
10
Bernanke, Ben, “An unwelcome fall in inflation?”, discorso alla University of California, 23
luglio 2003.
11
Secondo il National Bureau of Economic Research la recessione iniziata nel marzo 2001
sarebbe finita dopo solo otto mesi (novembre 2001).
29
Reserve ha infatti tratto la lezione che quando i tassi d’interesse scendono vicino
allo zero ed il rischio di deflazione è alto, gli stimoli di politica fiscale e monetaria
devono spingersi oltre i livelli che convenzionalmente sarebbero richiesti in base alle
12
previsioni d’inflazione ed attività economica . Una volta ridotto il margine di
manovra sui tassi poi non rimarrebbe alla Federal Reserve che far ricorso a
strumenti di politica economica non convenzionali, come l’acquisto di titoli di stato a
lunga scadenza.
La Grande depressione: Stati Uniti in deflazione, Germania in iperinflazione –
Finora nessuno degli attuali casi di deflazione assomiglia neanche lontanamente alla
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massiccia deflazione che accompagnò la grande depressione degli anni Trenta . In
quegli anni al crollo delle borse si associò una profonda recessione e una deflazione
in alcuni casi, come gli Stati Uniti, anche a due cifre.
Ma proprio negli Stati Uniti gli anni 1933-1934 sono un esempio di un successo
clamoroso nella lotta alla deflazione; la politica adottata fu per lo più la svalutazione
del dollaro sull’oro, nell’ordine del 40% nel biennio resa possibile per mezzo di un
programma di acquisti di oro e creazione di moneta. Ciò permise di passare da
un’inflazione del -10,3% nel 1932 al -5,1% del 1933 fino al 3,4% nel 1934, con una
parallela fortissima crescita dell’economia e del mercato di borsa.
Contemporaneamente, in Germania si soffriva di una delle maggiori
iperinflazioni della storia che nasceva dalle conseguenze del primo conflitto
mondiale, in particolare dalla questione delle riparazioni di guerra. Anche se,
ovviamente, va tenuto conto delle circostanze del tutto particolari di quel periodo, ciò
potrebbe tra l’altro indicare che la deflazione non è necessariamente un fenomeno
globale ma può rimanere confinata a singole economie. Se è vero, infatti, che
nell’attuale sistema economico mondiale la correlazione del ciclo economico tra
paesi è molto più elevata che negli anni Trenta e potrebbe creare comunque una
probabilità positiva, sebbene molto ridotta, di declini simultanei dei prezzi, è vero
altresì che ciò concorda con una delle conclusioni della recente ricerca del FMI
secondo cui anche nella situazione corrente non vi è evidenza di una diffusa
trasmissione internazionale della deflazione.
Una valutazione d’insieme della situazione corrente
Deflazione o disinflazione? – Una prima conclusione sembra essere che,
probabilmente, da qualche parte si sta confondendo deflazione con disinflazione.
Difatti, quello che sta avvenendo nell’area dell’euro o anche negli Stati Uniti è,
almeno per ora, semplicemente la tanto a lungo auspicata riduzione del tasso di
inflazione. Sull’onda della deflazione asiatica, però, questo fenomeno positivo
potrebbe essere confuso con il pericolo di deflazione, che invece è la riduzione del
livello dei prezzi. Così come quando si parla di inflazione, anche parlando di
deflazione non va invece confuso il tasso di crescita con il livello dei prezzi.
Siamo, o rischiamo di entrare, in una deflazione generalizzata? - Il rischio di una
deflazione generalizzata, che cioè coinvolga contemporaneamente le principale
economie sviluppate e le altre aree sembra veramente ridotto, come sostenuto
anche dal FMI. Piuttosto vi sono alcuni fenomeni isolati, principalmente nel
continente asiatico, che si trovano o rischiano di trovarsi in tali condizioni ma che
probabilmente sono destinati anch’essi ad uscire dalla deflazione con il
materializzarsi dell’attesa fase espansiva dell’economia su scala internazionale. Stati
Uniti e Area dell’euro, invece, sembrano essere abbastanza al riparo da tali
fenomeni, sia per le forze interne di queste economie che per la determinazione
delle rispettive Banche Centrali e degli altri attori di politica economica ad agire
contro la deflazione, oltre che contro l’inflazione.
12
Ahearne, Alan; Joseph Gagnon; Jane Haltmaier, Steve Kamin et al., “Preventing deflation:
lessons from Japan’s experience in the 1990s”, Fed Board of Governors, International
Finance Discussion Paper n. 729, giugno 2002.
13
30
Kindleberger, Charles, “The World in Depression, 1929-1939”, 1971.
Complessivamente, ci pare di poter dire che, premesso che prevenire la
deflazione sembra essere decisamente preferibile che lasciarla diffondere e poi
combatterla, le politiche economiche sono ben attrezzate per poter fronteggiare
l’eventuale rischio di deflazione, anche se essa dovesse diffondersi e si dovesse
toccare lo zero-bound sul tasso di interesse.
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