L’etica nelle scelte di investimento diretto all’estero SERGIO SCIARELLI* Abstract L’articolo affronta il delicato e complesso tema delle decisioni dell’impresa multinazionale sotto il profilo etico. Il divario culturale esistente a livello internazionale spesso si traduce in un divario morale (moral divide) tra chi investe e chi è destinatario di un investimento diretto: da ciò il dilemma etico sulla necessità e, a volte, sull’opportunità di conciliazione dei propri valori etici con quelli prevalenti in altri Paesi. Il problema riguarda la tollerabilità e, quindi, l’adattabilità tra principî etici a volte molto dissimili ed anche la giustificazione di comportamenti fondati essenzialmente su criteri etnocentrici nei confronti di Paesi in via di sviluppo. Una soluzione possibile appare non tanto quella di determinazione di norme etiche universali di “ global corporate governance” o di applicazione di modelli “contrattualistici”, quanto quella di concepimento di progetti d’investimento proiettati nel medio-lungo termine verso un avanzamento, sotto il profilo etico, delle pratiche correnti nel Paese destinatario dell’investimento diretto. Al riguardo, emblematici appaiono i casi dell’investimento in Cina da parte della Microsoft oppure dell’allargamento del network internazionale di catering da parte della Lufthansa in South-Vietnam. Parole chiave: divario culturale; etica d’impresa; governance internazionale; impresa multinazionale This paper deals with the complex subject of decision’s ethical outline of multinational direct investments. Often, cultural international differences produce a moral divide between investors abroad and the investment’s recipient leading to an ethical dilemma about the necessity, or at least, the opportunity to reconcile the ethical values of the two countries. A possible solution of this ethical dilemma can’t rely on the mere attempt to find and to enforce universal ethical rules but rather it must lead to a project addressed to facilitate improvement of ethical outline expressed by the recipient country’s current practices. On this subject ( global corporate governance ), much relevant are the cases of the Microsoft investment toward China and Lufthansa investment toward South-Vietnam (for the enlargement of its international catering network). Key words: moral divide; business ethics; global corporate governance; multinational enterprise * Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università di Napoli Federico II e-mail: [email protected] sinergie n. 85/11 142 L’ETICA NELLE SCELTE DI INVESTIMENTO DIRETTO ALL’ESTERO 1. Internazionalizzazione ed etica d’impresa La sempre più diffusa espansione internazionale dei mercati ha creato un’opportunità di razionalizzazione della gestione per le imprese che ne hanno saputo cogliere i valori positivi (crescente competitività e conseguente economicità nell’acquisizione dei fattori produttivi, ampliamento degli sbocchi commerciali, acquisizione più rapida delle conoscenze e dei valori di culture diverse). È naturale che una risposta negativa o meglio una non risposta a questo fenomeno evolutivo costituisca una causa di svantaggio competitivo e, comunque, restringa gli orizzonti di sviluppo delle imprese. In altre parole, la mancata risposta al cambiamento dell’ambiente (globalizzazione) conduce nella maggior parte dei casi ad una penalizzazione in termini di futura sopravvivenza dell’organizzazione aziendale. Oggi, dunque, l’impresa reattiva deve attrezzarsi per cogliere l’esigenza di allargare i confini della propria operatività nel contesto transazionale e competitivo. Attrezzarsi significa non solo disporre di uomini e di strutture in grado di realizzare efficacemente gli scambi in ambito internazionale sotto il profilo contrattuale, ma anche sviluppare la capacità di entrare in sintonia con i valori e le credenze locali. Lo scambio commerciale è sempre l’epilogo di un incontro tra individui o gruppi che si conoscono e, sovente, si stimano per affidabilità e correttezza. Alla base di un contratto internazionale vi sono, dunque, le relazioni con gli interlocutori locali, che vanno comprese e coltivate mediante l’incontro tra modi di pensare e di agire. In senso generale, è nota l’incidenza della morale sulle prestazioni economiche ed è altrettanto conosciuto il peso dei valori individuali riconducibili all’etica nelle scelte aziendali. Da ciò nasce la necessità, per un’impresa che voglia operare con successo sul piano internazionale, di adottare un atteggiamento comprensivo della condotta dei Paesi con cui avviare più intensi contatti commerciali e, soprattutto, forme di presenza continuative e istituzionalizzate. Questo significa, il più delle volte, dovere mediare i valori tipici del proprio Paese con quelli di realtà altre, da comprendere, innanzi tutto, e da rispettare nella conduzione aziendale. 2. Cenni sui riflessi della globalizzazione sulla diffusione dell’etica aziendale I valori etici - è noto - tendono ad incontrare quelli economici nel medio lungo andare e presentano maggiori problemi di contestualizzazione a causa della globalizzazione e dei più forti divari culturali tra i popoli. La globalizzazione ha posto di fronte a più concezioni e consuetudini, a comportamenti culturalmente differenti, a modi di vedere le cose e riflettere diversamente sulle stesse, a confrontare valori e stili di vita lontani, a misurarsi con realtà sociali e morali molto dissimili. In un contesto del genere, si può comprendere come sia cresciuta l’esigenza di diffusione e di applicazione di norme di vera democrazia economica in luogo di superati principî derivanti da modelli di SERGIO SCIARELLI 143 aristocrazia economica. La prospettiva più valida non può che essere rappresentata dall’emergere di una struttura motivazionale più complessa, in cui si riescano a conciliare positivamente aspetti culturali, economici e morali1. In questo quadro, uno degli interrogativi di fondo è se la globalizzazione possa condurre ad un miglioramento degli standard internazionali di responsabilità sociale e di condotta etica o se finirà per avere un risultato diametralmente opposto per effetto dell’inasprimento delle condizioni competitive sul piano mondiale 2 . In proposito, v’è da considerare che - a fronte delle possibili conseguenze negative collegate al consolidarsi e al diffondersi di posizioni dominanti in un mercato mondiale - la velocità e la completezza con cui viaggiano in tutto il mondo le informazioni contribuiscono ad accrescere il ruolo dei movimenti di opinione e concorrono così all’emergere di valori moralmente più corretti sotto il duplice profilo ambientale e sociale. La reazione verso scandali, spesso mediaticamente sovra evidenziati, è più immediata e decisiva e la valutazione dei comportamenti aziendali tende ad essere sempre più frequentemente estesa al campo etico. È pertanto agevole constatare che la globalizzazione ha portato in primo piano l’etica delle relazioni internazionali con l’obiettivo condiviso, ma non semplice, di pervenire alla definizione di un’etica “minimale” da rispettare sul piano internazionale3 3. La responsabilità sociale dell’impresa multinazionale L’impresa multinazionale, per le competenze possedute e per la dovizia di mezzi finanziari di cui dispone, può contribuire decisamente allo sviluppo economico e sociale dell’area in cui va ad insediarsi4. Questa funzione ausiliaria nei confronti delle amministrazioni locali, che in passato è stata non di rado alla base di comportamenti politicamente scorretti, è tenuta in particolare attenzione per i riflessi 1 2 3 4 Sen sostiene che non si può concepire il capitalismo “come un sistema di pura e semplice massimizzazione del profitto basato sulla proprietà privata del capitale” (v. Sen, 2000, p. 97). Benedetto XVI precisa meglio questo concetto affermando che “il profitto deve essere concepito come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società” (v. Benedetto XVI, 2009, p. 77). “La globalizzazione, se non vuole avere effetti inumani, richiede anche una globalizzazione dell’etica. Di fronte ai problemi della politica, dell’economia e del sistema finanziario mondiale, è necessaria un’etica mondiale che possa essere condivisa dalle religioni del mondo, ma anche dai non credenti, dagli umanisti, dai laici” (v. Kung, 2010, p. 80). La difficoltà di configurare un’etica pubblica per la governance della globalizzazione è l’oggetto centrale del saggio di Sebastiano Maffettone contenuto in Maffettone e Pellegrino, 2004. Nel corso del lavoro intendiamo per “impresa multinazionale non solo quella che dispone di organizzazioni di produzione e di vendita in più Paesi; ma anche quella che assume le sue scelte in un contesto effettivamente internazionale”. (V. Sciarelli, 1973, p. 29). 144 L’ETICA NELLE SCELTE DI INVESTIMENTO DIRETTO ALL’ESTERO favorevoli che può proiettare sul piano dell’immagine aziendale. Sulle multinazionali pesano, oggi, responsabilità sempre più ampie che spesso tendono ad inquadrare come obbligatoria (e quindi non meramente opzionale) quella che è definita la “filantropia strategica”5. Com’è noto, con questa dizione s’intende una forma di intervento e di aiuto solitamente ai Paesi in via di sviluppo, che si traduce non solo nell’impiego di risorse finanziarie ma anche e soprattutto nella cessione di proprie competenze manageriali per la soluzione di problemi locali. Così facendo, l’impresa multinazionale - oltre a ridurre i gap esistenti tra valori etici universali e valori etici locali - s’impegna ad attuare comunque un’azione di supporto nei confronti di Paesi emergenti o in via di sviluppo. È comprensibile del resto come, specie in Paesi lontani da standard di vita accettabili, l’impresa multinazionale possa essere chiamata a combattere i guasti della corruzione e, simultaneamente, ad esercitare una funzione di supplenza sotto il profilo del welfare locale6. Nell’ipotesi di investimenti diretti all’estero un aspetto importante della responsabilità sociale è rappresentato proprio dalla problematicità di gestire localmente risorse umane di diversa estrazione etnica, con difformi orientamenti civili e religiosi e con differente sensibilità etica. Sotto questo profilo il quesito di fondo è fino a qual punto sia lecito e si possa tentare di “omogeneizzare” il mercato e la forza di lavoro internazionale? Può essere considerata, questa, un’operazione giustificabile e conveniente sotto il profilo etico? 4. Il problema etico nelle scelte delle imprese multinazionali Il problema che si pone all’impresa multinazionale, nel momento in cui programma d’investire in un altro Paese, è quello di valutare la possibilità di applicare i propri principî economici ed etici nell’attuazione del progetto. Questa possibilità si lega, oltre che alle condizioni economiche di realizzazione dell’investimento, al divario tra le norme etiche proprie e quelle comunemente diffuse nel Paese ospitante e, di conseguenza, alle effettive opportunità di ridurre al minimo tale divario. Tutto ciò, ovviamente, nell’ipotesi - non sempre riscontrabile in realtà - in cui sul terreno della morale la multinazionale abbia una posizione più avanzata rispetto a quella del Paese verso cui intende destinare l’investimento. In altre parole, si pone il problema di ponderare le scelte che consentono di superare il divario morale (moral divide), legato in massima parte al divario interculturale, con soluzioni rispettose di principî etici universali da cui in nessun caso appare giustificato derogare. Il ragionamento sviluppato di seguito parte dal comune riconoscimento nell’etica aziendale di caratteristiche di “relativismo” e di “pragmatismo”, che comportano l’esigenza di disegnare confini tra i valori etici universali e quelli adattabili a 5 6 Il concetto è illustrato in Mc Alister et al., 2005, p. 333. Un’acuta ed ampia analisi dei doveri delle imprese multinazionali quando operano in Paesi in via di sviluppo è sviluppata da Hsieh, 2004. SERGIO SCIARELLI 145 contesti diversi. Il problema dei “confini” è un problema classico dell’etica d’impresa, il cui obiettivo è di ricercare, nel rispetto di valori fondamentali e insopprimibili, le più valide opportunità di mediazione (equilibrio tra istanze economiche e sociali, scelte di breve e di lungo termine). La complessa soluzione di tale questione risiede nella difficoltà di pervenire all’individuazione di principî etici universali rispetto, invece, a principî adattabili a realtà culturali e morali differenti. È, questo, un tema di grande rilievo nello studio dei comportamenti etici sul piano internazionale e nel tentativo di disegnare una teoria applicabile soprattutto alle imprese multinazionali, ovvero a quelle imprese che non attivano solo scambi in più Paesi ma che creano strutture organizzative destinate ad operare, sistematicamente e senza soluzione di continuità, in ambienti sovente molto diversi.7 L’esperienza insegna, infatti, che è difficile stabilire delle regole comuni o dei codici universali di condotta per lo sviluppo internazionale, che comprendano anche le norme etiche da rispettare in ogni caso nell’ingresso in Paesi esteri. Il problema di fondo riguarda, quindi, la definizione dei limiti entro cui accogliere l’accettazione di pratiche e comportamenti in certi casi lontani o molto lontani dal terreno dei principî etici generalmente condivisi, per potere poi operare con sufficienti probabilità di successo in contesti valoriali difficilmente avvicinabili e adattabili a quelli propri. L’etica d’affari, quale etica applicata, consente tuttavia un’estensione dei margini di scelta, partendo dalle sue caratteristiche di relativismo e pragmatismo. Entrambe, difatti, in rapporto al sistema morale di riferimento 8 , portano di necessità all’ampliamento del giudizio soggettivo nella risoluzione di dilemmi etici9. E creano, ovviamente, maggiori problemi di valutazione a livello del governo aziendale. Prima di procedere oltre, è forse il caso di compiere una precisazione terminologica, osservando che col termine “relativismo” non s’intende affermare che non esistano valori assoluti e che qualsiasi valore sia valido e rispettabile nella stessa misura. Non si vuole cioè sostenere che non vi sia alcun criterio per il giudizio morale sulle condotte perseguite, quanto piuttosto porre in evidenza l’importanza di far riferimento alla pluralità delle visioni del mondo e alla necessità di “contestualizzare” talune pratiche, pur ispirate a valori non considerati “giusti”. Il relativismo comporta, in effetti, la legittimità di strategie di adattamento ai valori culturali del contesto; il pragmatismo, a sua volta, dà concretezza, come vedremo, all’opportunità della definizione del quadro etico. 7 8 9 L’argomento dell’etica delle imprese multinazionali è stato in tempi recenti arricchito di molti contributi dottrinali. Alcuni sono riportati nel volume di DesJardins e McCall, 2005, pp. 471 - 535. Benedetto XVI avverte chiaramente il pericolo dell’abuso dell’aggettivo etico che rischia “di far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo” (v. 2009, p. 76). L’etica applicata deve studiare l’attuazione di principî di etica normativa entro contesti particolari (v. La Torre, 2009, p. 41). 146 L’ETICA NELLE SCELTE DI INVESTIMENTO DIRETTO ALL’ESTERO In generale, il relativismo etico può riferirsi ad una pluralità di aspetti, a volte indipendenti e altre volte interdipendenti. In modo schematico e non esaustivo, si potrebbero ad esempio individuare: a) un relativismo economico, b) un relativismo culturale, c) un relativismo etnico. Il primo trova espressione nel classico dilemma tra finalità economiche e sociali dell’attività produttiva e si traduce nel trovare il giusto equilibrio tra l’obiettivo di sopravvivenza nel tempo lungo dell’impresa e quello di assicurare a tutti gli stakeholder (interni ed esterni) il legittimo rispetto dei loro interessi. Il relativismo culturale, che spesso si collega a valori religiosi, richiede la mediazione tra valori dissimili con differenti implicazioni sotto il profilo etico e si manifesta nel trovare l’appropriato equilibrio tra rispetto delle culture locali e osservanza di principî etici fondamentali. Infine, il relativismo etnico è quello forse più rilevante ai fini dell’osservanza di norme etiche perché legato a differenti modi di vita di etnie quasi sempre in aperta contrapposizione. Il rischio di un mancato equilibrio, anche se derivante da motivazioni di fondo eticamente corrette, è quello di produrre o comunque aggravare conflitti difficili da governare nell’interesse generale. I conflitti su questo terreno si possono cioè in realtà verificare non solo tra Paesi diversi, ma anche tra gruppi razziali differenti nell’ambito dello stesso Paese. Anzi, c’è da sottolineare che i conflitti interculturali interni, spesso legati a diversità etniche, di razza e di religione, si vanno sempre più diffondendo e sono i più difficili da risolvere e i più pericolosi nelle conseguenze prodotte sotto l’aspetto della pacifica convivenza e dello sviluppo sociale. Come si è anticipato, nell’etica degli affari occorre rispettare anche l’esigenza di pragmatismo, intesa nel senso di giungere a decisioni rivolte a consentire un’azione efficace sulla realtà conosciuta. Il pragmatismo è proprio di chi, nel decidere, privilegia la pratica e la concretezza rispetto alla teoria, puntando alla verifica sul piano concreto di principî ideali. Questa esigenza è peraltro intimamente connessa con la questione della necessaria esigenza di sostenibilità dell’etica quando applicata al mondo degli affari. È difatti scontato, per gli aziendalisti, che l’auspicabile rafforzamento di principî morali nella conduzione degli affari debba in ogni caso garantire la sopravvivenza dell’attività economica: da ciò l’istanza “pragmatica” e l’importanza attribuita alla composizione del cosiddetto “quadro etico” in contesti con valori moralmente non condivisibili o non del tutto condivisibili10. Definire il quadro etico significa in sostanza tenere conto del contesto locale, valutare le conseguenze dell’applicazione di una decisione, stabilire come ridurre gli effetti negativi immediati e concepire interventi estesi in ogni caso al medio e lungo periodo. 10 “Chi impone imperativi morali privi di razionalità economica, senza riguardo per le leggi dell’economia, non parla in nome della morale, ma del moralismo” (v. Kung, 2010, p. 330). SERGIO SCIARELLI 147 Questa esigenza di comporre il quadro etico diviene sempre più attuale in relazione a dilemmi etici importanti, come ad esempio: 1) la conciliazione tra lo sviluppo economico e la salvaguardia e il miglioramento ambientale; 2) la difesa dell’occupazione locale di fronte alla possibilità di assicurare occupazione in ambienti economicamente meno evoluti (è il caso ormai frequente della delocalizzazione delle attività produttive); 3) l’osservanza di principî morali e la conseguente insorgenza di delicati problemi sociali nel contesto (vedi il lavoro minorile abolito da Nike e Adidas nel Sud-est asiatico e il successivo spostamento dei lavoratori minorenni in attività a maggior rischio e fatica: industria del mattone, degli apparecchi chirurgici, ecc.). È chiaro che la necessità di tener conto del quadro etico implica ovviamente grande capacità di analisi e di previsione, rafforzate da un grado adeguato di equilibrio. In conclusione, è tuttavia bene ribadire che i concetti di relatività e di pragmatismo non vanno interpretati come possibilità di modificare o addirittura stravolgere i principî teorici, ma piuttosto come opportunità di reinterpretare e adattare la loro portata alle condizioni di contesto (V. Sciarelli, 2007, p. 88). 5. Il dilemma delle multinazionali: investire o non investire in Paesi moralmente distanti? Nel trattare affari a livello internazionale sorge, dunque, un fondamentale problema di scelta: condurre le operazioni secondo i valori della propria cultura e della propria morale, tenere conto e rispettare cultura e morale del Paese straniero oppure tentare un compromesso accettabile tra le due alternative? I conflitti tra valori possono derivare sia da una contrapposizione di valutazione (ciò che non è etico in un Paese può essere eticamente giustificabile in un altro) sia da un diverso peso attribuito a certi valori in culture differenti (ciò che è prioritario nel proprio Paese non lo è nell’altro Paese). Una scelta molto delicata è, perciò, rappresentata dall’opzione di rinunciare ad operare in Paesi che non rispettino valori etici fondamentali (ad es. diritti umani e libertà di circolazione delle informazioni) oppure di accettare di investire in questi contesti con l’obiettivo di tentare di migliorare la situazione locale. Non pochi Paesi in via di sviluppo appaiono difatti caratterizzati da un ridotto rispetto della responsabilità sociale dell’impresa e, in primis, da situazioni di pressoché totale insufficienza per la tutela dell’ambiente e dei diritti umani. Di fronte ad un divario così netto sul piano morale, quale potrebbe essere il comportamento migliore da parte di un’impresa investitrice? Rinunciare in via di principio a considerare le modalità e i tempi dell’investimento oppure valutare se, nonostante situazioni in partenza chiaramente intollerabili, si prospettino opportunità di miglioramento e, quindi, appaia consigliabile il tentativo di esportare al meglio le proprie “best practice”? 148 L’ETICA NELLE SCELTE DI INVESTIMENTO DIRETTO ALL’ESTERO In altri termini, la risposta al quesito, che ci si è posti, può forse risultare meno difficile di quanto appaia se si fa riferimento alle finalità imprenditoriali perseguite. Se l’impresa penetra in Paesi molto lontani per livello morale complessivo con l’intento di contribuire a modificare, attraverso l’esempio e i comportamenti concreti, in positivo la situazione in essere, la risposta sotto il profilo etico non può che essere favorevole, mentre se la logica è esclusivamente quella di ricavare dal divario morale opportunità di ampliamento del profitto il giudizio non può che diventare decisamente negativo. In rapporto a questo tema è possibile riportare, tra gli altri, due casi particolarmente significativi. Il primo è quello della Microsoft, azienda multinazionale da sempre fortemente proiettata sul mercato internazionale per diffondere le proprie tecnologie informatiche e trarre così vantaggio dal profilo spiccatamente innovativo della strategia di sviluppo perseguita sul piano mondiale. Qualche anno fa la grande azienda informatica si è misurata con il problema d’indirizzare propri investimenti diretti in Cina, mercato di eccezionale rilevanza attuale e soprattutto prospettica, ma regolato a livello socio-culturale da principî fortemente limitativi della libertà individuale. Le restrizioni poste, fra l’altro, all’uso di internet da parte degli utenti cinesi e una diffusa censura delle comunicazioni sono in netto contrasto con una delle libertà fondamentali dell’individuo, ossia il diritto all’informazione. L’azienda, non ritenendo maturi i tempi per l’avvio di una contrattazione politica con i poteri locali, si trovò a decidere se fare o non fare l’investimento. Dopo un periodo di travaglio e di spinte differenziate all’interno dello stesso corpo manageriale, alla fine la decisione fu favorevole all’ingresso diretto in Cina, nella convinzione di potere comunque apportare un contributo positivo nel processo di progressiva “alfabetizzazione informatica” della popolazione locale. La Microsoft ritenne, cioè, che una spinta dal basso di un numero sempre più ampio di utilizzatori si sarebbe potuta tradurre in un fattore decisivo nei confronti delle autorità governative per l’attenuazione del regime di censura imperante in quel Paese11. Il secondo caso è quello della Lufthansa, vettore aereo di livello internazionale e con prospettive di forte sviluppo verso il Sud-est asiatico. La compagnia tedesca, per migliorare il catering da allestire su rotte intercontinentali con almeno uno scalo obbligato tra i Paesi europei e quelli dell’Estremo Oriente, aveva necessità di rifornirsi da operatori locali, non sempre in grado di garantire quindi standard elevati di qualità dei cibi forniti. Da ciò l’ipotesi di avviare una propria impresa di catering in uno dei Paesi di transito, in modo da controllare direttamente e in linea con i gusti dei passeggeri europei la produzione del “menù” da servire a bordo dei propri aerei. 11 Questo atteggiamento della Microsoft verso la Cina è stato poi seguito anche da altri operatori del settore informatico, come Google e Yahoo, il cui obiettivo d’ingresso in quel Paese si è ispirato appunto al tentativo di contribuire a diffondere sempre più le informazioni tramite Internet. ( v. “Yahoo in Cina” in Shaw, 2008, pp. 187-189). SERGIO SCIARELLI 149 Questa ipotesi incontrava tuttavia dei limiti nelle norme più vincolanti esistenti in tutta quell’area sulla libertà d’impresa e, in particolare, sulle condizioni d’impiego dei lavoratori. Queste ultime riguardavano, tra l’altro, i livelli retributivi e la durata del lavoro settimanale. Per evitare sconvolgimenti nella normativa e nelle consuetudini locali, occorreva cioè cominciare ad accettare e applicare i più intensi ritmi di lavoro e i più ridotti saggi salariali correnti in uno dei Paesi che avrebbe potuto accogliere l’investimento diretto della Lufthansa. Anche quest’ultima, alla fine, si risolse a costituire un’impresa di catering scegliendo il Vietnam del Sud e contando di potere nel tempo riportare le condizioni di esercizio dell’attività produttiva e d’impiego del fattore lavoro su standard via via più prossimi a quelli occidentali. Si tratta dunque di due casi, peraltro non isolati, rispondenti, almeno sul piano delle dichiarazioni formali, all’etica delle intenzioni o al principio di un sano pragmatismo che appaiono trovare piena legittimazione nelle decisioni delle imprese. Situazione ovviamente del tutto differente è, invece, quella nella quale esistendo scarse possibilità di incidere sulla cultura e sulla morale locale - occorre valutare sotto il profilo etico se comunque investire contribuendo a creare sviluppo e produrre occupazione oppure se rinunciare a qualsiasi ipotesi d’investimento diretto. Questo è, ad esempio, il caso delle grandi catene internazionali di fast food che decidono di entrare in Paesi caratterizzati da discriminazioni razziali, di genere e di credo religioso molto difficili da modificare. In proposito, il quesito da porsi è se sia eticamente tollerabile che una società operante in questo settore apra in Arabia saudita esercizi con zone di ristorazione separate per uomini e donne oppure che la stessa impresa investa in Sudafrica discriminando bianchi e neri oppure in India separando cittadini di caste differenti? Ma se questa fosse una condizione obbligata per ottenere l’autorizzazione all’apertura, sarebbe il caso di rinunciare o converrebbe cominciare ad operare agendo in modo da attenuare il più possibile le situazioni di discriminazione e puntando, nel tempo, ad eliminarle? Quale dev’essere dunque la soglia accettabile delle scelte aziendali nei confronti del contesto culturale e delle usanze locali?12 In dottrina sono stati teorizzati quattro possibili comportamenti dell’impresa multinazionale nei confronti dei Paesi in via di sviluppo: 1. adattamento completo alle condizioni locali mediante un atteggiamento 12 In modo sintetico, De George espone cinque dilemmi etici per le imprese multinazionali: 1) è giustificato adottare lo stesso livello di valori e gli stessi standard di lavoro in qualsiasi Paese investano? 2) nonostante la diversità di cultura e di valori quali norme morali occorre rispettare? 3) quali relazioni è giusto stabilire con istituzioni politiche poco rispettose di fondamentali principî morali? 4) quali approfondimenti sulla situazione politico-legislativa e su quella economica esistente in altri Paesi sono necessari per adeguarsi alle norme morali da rispettare? 5) quali precauzioni occorre prendere nel trasferimento di produzioni a rischio e di tecnologie pericolose in assenza di accurati controlli del Paese ospitante? (v. De George, 1993). 150 L’ETICA NELLE SCELTE DI INVESTIMENTO DIRETTO ALL’ESTERO cooperativo senza alcun tentativo d’incidere sulla morale corrente; 2. applicazione rigida di propri standard morali con la conseguente uscita ( o non entrata) da situazioni non rispondenti a questi ultimi; 3. attuazione di un’opposizione diretta e ferma per tentare di migliorare le condizioni locali con una posizione di rottura nei confronti del contesto; 4. costruzione nel tempo di più ampie coalizioni di interessi rivolte a trasformare positivamente contesto e morale locale (V. Windsor, 2004, pp. 733). Ad oggi, sembra che agli atteggiamenti originari di piena accettazione delle condizioni locali secondo un criterio definibile come “neutralità etica”, si stia gradualmente sostituendo una forma d’impegno costruttivo verso l’elevazione degli standard morali dei Paesi in via di sviluppo. Quest’ultima sembra, senz’altro, l’ottica dei casi Microsoft e Lufthansa riportati in precedenza, che peraltro s’incrocia con i progressi che nei Paesi in via di sviluppo, anche se faticosamente, si stanno realizzando in tema di difesa dei diritti dei lavoratori, di libertà d’informazione, di tutela del consumatore. È del resto intuibile che, soprattutto all’avanzare del progresso economico, nascono spinte positive dei vari stakeholder nei confronti dei poteri locali e delle stesse imprese investitrici. Purtroppo, bisogna convenire che né le organizzazioni sovranazionali né quelle nazionali sono state finora in grado di definire anche standard di minimo, per cui l’unica via per operare correttamente sotto l’aspetto etico sembra essere affidata al senso di equilibrio e di pragmatismo delle grandi imprese investitrici, collegato agli obiettivi finali del progetto da promuovere. L’opportunità di trarre ulteriore profitto da situazioni locali (minori costi di lavoro, più ridotti investimenti ambientali, ecc.) rappresenta invece un forte incentivo di ordine economico e potrebbe indurre a tollerare anziché a modificare lo status quo. Appare cioè indiscutibile che in ogni caso il relativismo etico, condivisibile per le ragioni esaminate in precedenza, non può essere alla base di condotte meramente opportunistiche perché l’opportunismo definito da qualcuno come un comportamento etico con scaltrezza - non può certo richiamarsi in nessun caso a comportamenti di natura etica.13. 6. Considerazioni finali In relazione alle considerazioni fin qui svolte, c’è dunque da chiedersi come in pratica si possano affrontare i problemi legati al divario morale e culturale a livello internazionale? Quali siano le possibilità che si offrono alla grande impresa che programma l’investimento diretto all’estero? Come può, quindi, tentare di trovare la giusta mediazione tra un comportamento esclusivamente etnocentrico e un altro di 13 V. Williamson, 1985, p. 30, e Romar, 2007, pp. 665-667. Sembra utile precisare che la scaltrezza, a cui si è fatto riferimento, è un comportamento subdolo non necessariamente collegato a bugie, calunnie, prevaricazioni e che la sua principale manifestazione si ha nella trasmissione di informazioni incomplete o parzialmente distorte tali da indurre il decisore a scelte in linea con gli interessi di chi le invia. SERGIO SCIARELLI 151 supina accettazione di principî a volte molto lontani dai propri? In definitiva, su quali basi ed entro quali condizioni si può pervenire ad una “global corporate governance”? Occorre premettere, al riguardo, che i contributi dottrinali non offrono un grande aiuto, com’è abbastanza diffusamente riconosciuto nella letteratura sull’etica d’impresa. Nella soluzione di questo problema sovente viene difatti suggerita l’applicazione di un modello contrattualistico secondo cui l’impresa “contratta” con l’altra parte (che può essere rappresentata dalle Istituzioni locali, dalle associazioni di categoria, da rappresentanze sindacali) per definire un complesso di norme condivisibili. E in proposito, c’è da tenere conto che nel caso dell’impresa multinazionale entrano in gioco delle responsabilità aggiuntive sotto il profilo sociale, soprattutto allorché i progetti d’investimento s’indirizzano verso Paesi meno sviluppati. I più ampi margini economici, di cui solitamente una grande o grandissima impresa dispone, possono e debbono difatti essere sfruttati per contribuire all’affermazione di principî etici più avanzati nel Paese ospitante e per promuovere - oltre a sviluppo economico - anche crescita morale. L’aspetto più delicato è certamente rappresentato dal rapporto politico con i governi locali. Fino a quale limite le imprese possono forzare il volere di questi ultimi? È lecito battersi per elevare i valori sottostanti alla morale di un Paese, creando, nel contempo, difficoltà politiche ai governi locali? Quale dev’essere un corretto equilibrio tra azioni di forza per rimuovere situazioni condannabili sotto il profilo morale e rinuncia aprioristica ad ingaggiare ogni contesa? Soprattutto nel caso di Paesi in sviluppo con forti tassi di crescita (vedi ad es. la Cina) nella conduzione delle imprese è purtroppo frequente e troppo marcato lo squilibrio tra valori economici ed etici perché la produttività fa quasi sempre premio sulla socialità e le leggi della massimizzazione del risultato lasciano poco o nessuno spazio al soddisfacimento della responsabilità sociale delle imprese. Il punto maggiormente controverso riguarda il come l’impresa multinazionale, dopo avere definito delle linee etiche globali da rispettare nell’investimento diretto all’estero, deve fronteggiare le autorità politiche locali e, quindi, quali conseguenze si potranno avere nei confronti del contesto in cui andranno ad inserirsi (V. Kline, 2005, p. 44). Questo dipende, in misura certo non irrilevante, dalla minore o maggiore adattabilità ad una morale in parte diversa, ossia dalla capacità di risposta degli interlocutori locali agli stimoli derivanti dal confronto con principi e comportamenti lontani delle proprie abitudini e consuetudini. Come si accennava, dunque, il rapporto, sotto il profilo etico, può essere valutato in due differenti modi a seconda se la forza della multinazionale sia utilizzata a proprio vantaggio oppure per ottenere il maggiore rispetto dell’etica nell’avviamento di proprie iniziative all’estero. L’elemento più delicato sotto tale profilo è rappresentato dalla definizione di soglie di accettabilità del rispetto dei diritti umani con priorità per i diritti individuali verso quelli di gruppo: diritti che vengono comunemente articolati nel diritto all’integrità della persona (nessuna forma di violenza), alla libertà (di religione, associazione, d’informazione), allo sviluppo economico, al lavoro e all’assistenza. 152 L’ETICA NELLE SCELTE DI INVESTIMENTO DIRETTO ALL’ESTERO In teoria (V. Donaldson, 1989, p. 81) sono stati compiuti altri tentativi su questo terreno e si è pervenuti ad individuare dieci tipi di diritti universali ovvero diritti che dovrebbero essere rispettati in qualsiasi Paese del mondo e che, quindi, non dovrebbero far nascere dilemmi etici in quanto basati su standard morali universali. Rispetto però a questa posizione teorica, qualcuno ha osservato criticamente che l’individuazione di una parte di tali diritti fondamentali può essere condizionata da una matrice etnocentrica o configurarsi come tale nell’applicazione pratica (V. Hendry, 1999, p. 414). In altri termini, potrebbe rappresentare una forma di inaccettabile “imperialismo” culturale arrogarsi il diritto di stabilire quali siano i diritti irrinunciabili da rispettare e quelli da lasciare fuori da tale individuazione. Il rischio dell’etnocentrismo sarebbe in effetti accresciuto dalla difficoltà di riconoscimento di criteri obiettivi e generalmente applicabili. A questo riguardo, Hendry osserva che una risposta al tema dell’universabilità di certi comportamenti sul piano internazionale può essere trovata soltanto sul terreno della reciprocità. Secondo la sua impostazione, cioè, certi principî sono classificabili come universali allorché non siano soggetti a mutamenti, nel caso in cui le posizioni dovessero invertirsi (V. Hendry, 1999, pp. 415-416). Questo studioso, nel suo atteggiamento contrario al modello contrattualistico, sostiene poi che la presunta universalità sconta, in ogni caso, un’influenza etnocentrica, dovuta alla prevalenza, anche inconsapevolmente attribuita, ai valori del proprio contesto culturale rispetto all’altro da considerare (vedi, ad esempio, proprio il caso dell’impresa multinazionale operante in un Paese emergente). Egli, però, conclude la sua analisi in senso positivo, ribadendo che se si volesse pervenire a qualche soluzione di compromesso tra impostazioni assolutiste e relativiste, il criterio accettabile dovrebbe essere appunto quello della reciprocità ovvero della maggiore simmetria di posizioni nell’ambito dei contesti correlati. Anche questo criterio appare in sostanza di difficile applicazione nelle situazioni di maggiore divario tra Paese promotore dell’investimento e Paese destinatario dello stesso. È chiaro che, quando il moral divide è molto marcato, del tutto astratto appare il riferimento al concetto di reciprocità, che può essere inteso solo come mera intenzione da concretarsi in un futuro certo non vicino ovvero quale aspirazione ideale dell’investimento diretto a creare quella particolare condizione. Di fronte a critiche del genere, in teoria si suggerisce, quindi, di fare ricorso ad una più netta valutazione in termini positivi o negativi del comportamento aziendale. Viene cioè sostenuto che, per giudicare se un’impresa multinazionale si comporti in modo etico, ovvero rispetti i diritti e le obbligazioni morali ritenute fondamentali, si può procedere secondo due differenti criteri. Il primo è quello negativo in base al quale ogni valutazione dipende dal rispetto o mancato rispetto di principî etici ritenuti essenziali (ad es. tutela del lavoro minorile, tutela dell’ambiente, difesa dei diritti umani, ecc.), mentre il secondo è legato alla determinazione di livelli o classifiche costruite sulla base di molti criteri e parametri indicativi di comportamenti etici. La differenza tra i due procedimenti appare sostanziale perché nel primo caso il giudizio è assoluto e porta a riconoscere o a negare l’eticità dei SERGIO SCIARELLI 153 comportamenti aziendali, nel secondo si perviene invece ad uno scoring che consente di selezionare e graduare in ordine d’importanza le imprese sotto il profilo dell’eticità dei loro investimenti all’estero. La riflessione finale piuttosto che la conclusione, a cui sembra lecito pervenire, è che l’aspirazione verso un’etica universale incontra limiti spesso insuperabili nelle differenze culturali tra Paesi e che è, quindi, difficile individuare “modelli” di comportamento etico da parte delle imprese multinazionali. In realtà, piuttosto che criteri o metri di giudizio applicati a singole decisioni o a particolari comportamenti, valgono le intenzioni ultime dell’investimento compiuto ed è perciò intuibile che il riscontro di tipo etico, in assenza di standard morali formulati a livello internazionale, non può che avvenire nel lungo termine e non certo considerando solo i risultati immediati di certe scelte strategiche aziendali. Tutto ciò non fa che porre in risalto i limiti entro cui può muoversi l’aziendalista nell’affrontare questioni di natura etica. Questi limiti, che peraltro sono comuni a chiunque s’interessi del particolare campo di studio, portano lo studioso a porsi e a riflettere su punti di domanda piuttosto che a tentare di fornire delle risposte. Non è infatti compito facile offrire conclusioni di validità generale o comunque ad ampio respiro, là dove il giudizio sull’eticità di certi comportamenti dovrebbe essere fondato esclusivamente sulle intenzioni ad essi sottostanti e queste andrebbero poi verificate sui risultati effettivamente prodotti. Risultati che, in termini etici, si presterebbero ad essere misurati esclusivamente in rapporto all’attenuazione del preesistente “moral divide” e, in ultima analisi, all’affermarsi a livello mondiale di regole di gestione aziendale di maggiore equilibrio economico e sociale. Bibliografia BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, 2009. DE GEORGE R.T., Competing with integrity in International business, Oxford University Press, New York, 1993. 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