19. dianoia - Le riviste CLUEB

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19. dianoia
Rivista di filosofia
del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione
dell’Università di Bologna
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19. dianoia
Sommario
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Profili dell’ombra
a cura di Annarita Angelini
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Annarita Angelini, Presentazione
Baldine Saint Girons, Lo stadio dell’ombra
Annarita Angelini, Ombre dei sensi e ombre del pensiero. Dal raggio ombroso alle
lezioni di tenebre
Raffaele Danna, L’«ombra del beato regno». Presenze umbratili nel Purgatorio di Dante
Marco Matteoli, Giordano Bruno e l’ombra della conoscenza
Florence Malhomme, Ombra e musica. La musica che siamo
Giuseppe Longo, L’infinito matematico “in prospettiva” e l’ombra dei possibili
Apparato iconografico
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Saggi
Diego Donna, Norma, segno, autorità. Spinoza interprete dei profeti
Beatrice Collina, Il rapporto tra economia ed etica nel dibattito austro-tedesco del
XIX secolo
Davide Spagnoli, Introduzione a Matematica ed ideologia: la politica degli infinitesimali
Joseph W. Dauben, Matematica ed ideologia: la politica degli infinitesimali
Diego Melegari, La verità di questo mondo. Rileggendo Tran-Duc-Thao
Riccardo Fedriga, Possibilità, scelta critica e impegno: Mario Dal Pra storico della filosofia
Daniela Marchitto, Sensazione di libertà e libertà senza azione: aspetti del dibattito contemporaneo
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Note e discussioni
Jonathan Molinari, “Collaborative paradigm” e pratica della complessità: sulla
nuova edizione inglese dell’Oratio pichiana
Gennaro Imbriano, Tra teoria della storia, iconologia e “ippologia politica”. Sulle
tracce del Nachlass di Reinhart Koselleck
Luca Scuccimarra, Nelle tenebre del Novecento. Una ricerca collettiva sulla violenza di massa
Valerio Portacci, Bioetica e diritto penale. Prospettive dell’autonomia
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Recensioni
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Norma, segno, autorità. Spinoza interprete dei profeti
Diego Donna
The distinction established by Spinoza between philosophy and prophecy
poses the question of the authority of the Scriptures. The notion of authority
can be interpreted in two ways: either as an instrument used to encourage
obedience, as is the case with the Old Testament, in which prophecy reveals
the law (Moses), or as belief in the truth of the Scriptures. In both cases,
Spinoza’s aim in the Tractatus theologico-politicus is to separate the norm
of truth (the true idea) from authority. The first pertains to philosophy, the
second to theology and morals. There is also a third candidate between true
knowledge and religion: the teaching of the apostles, not mediated by any exterior law but by the pure Spirit of Christ, which promotes a universal ethics
that is compatible with reason. However, the rift created by Christianity between authority and truth will lead to doctrinal controversies, schisms and,
ultimately, the rise of theology, with which the original distinction between
prophecy and Christ’s message becomes vain.
Keywords: Spinoza, sign, prophecy, apostolic teaching, Scripture.
Introduzione
La conoscenza naturale, discendendo direttamente da Dio, non è in alcun
modo inferiore alla conoscenza profetica. Quanto alla «mente dei profeti», essa non è la «mente di Dio»1. Questi sono i due assunti programmatici della critica spinoziana alla profezia su cui generalmente si è concen1 Tractatus theologico-politicus [TTP], in Opera, hrsg. C. Gebhardt [G.], Heidelberg,
C. Winter, 4 voll., 1925, III, p. 16. La traduzione italiana è tratta dall’edizione a cura di F.
Mignini, O. Proietti [M.], Spinoza, Opere, Milano, Mondadori, 2007, p. 439.
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trata l’attenzione degli studiosi. Nell’Ethica è la filosofia con i suoi strumenti (idee adeguate e nozioni comuni) a determinare la vera natura di Dio,
nel Tractatus theologico-politicus l’immagine di Dio venerata dal «volgo»
è ricondotta all’interpretazione storica del suo senso.
Se letta in questa prospettiva risulta piuttosto disorientante l’affermazione con cui si apre il Tractatus: «la profezia o rivelazione è la conoscenza certa di una cosa rivelata agli uomini da Dio»2. Ammesso che lo scopo
principale della critica biblica spinoziana sia la delimitazione del campo entro cui l’idea vera, o adeguata, può operare con le sue sole forze rispetto alla conoscenza immaginativa, non si vede come la profezia, che dell’immaginazione costituisce il frutto per eccellenza, possa essere accostata alla «conoscenza certa». L’appello alla giustizia e alla carità quali condizioni «sufficienti» alla salvezza sembra non meno in contraddizione con il
classico principio spinoziano della separazione tra filosofia e fede, tra la
salvezza destinata al filosofo e quella che spetta all’«ignorante»3. I commentatori hanno spesso ricondotto tali ambiguità a motivi di carattere dialettico e retorico4 riconoscendo le linee guida della critica spinoziana alla
religione (distinzione fra intelletto e immaginazione, difesa della libertà di
filosofare dalle ingerenze dell’autorità ecclesiastica), salvo ammettere, come fa Strauss, l’esistenza di un doppio registro comunicativo, «eterodosso» o «ortodosso», a seconda dei destinatari a cui è indirizzato il discorso.
Secondo Strauss, nello scrivere il trattato Spinoza sarebbe animato da due
priorità: evitare che la persecuzione nei suoi confronti si estenda dall’ambito ebraico a quello cristiano, cercare un accordo con quei «potenziali filosofi», o cristiani liberali, esasperati sia dalle guerre di religione, sia dal
2
TTP, 1, G. III, p. 15; M. p. 438.
Il rimando è ovviamente al celebre studio di A. Matheron, Le Christ et le Salut des
Ignorants chez Spinoza, Paris, Aubier Montaigne, 1971.
4 Cfr. Th. Verbeek (Spinoza’s Theologico-Political Treatise. Exploring the ‘Will of God’,
Ashgate, Aldershot, 2003, pp. 2-3), per il quale la presunta identità fra profezia e conoscenza certa si gioca su due malintesi, volutamente congegnati da Spinoza. Il primo riguarda l’uso del termine «divino»: sia la profezia che la conoscenza razionale sono «divine», ma in senso diverso, la prima essendo ritenuta dal volgo estranea al lume naturale, la
seconda, al contrario, in quanto si basa per il filosofo sul concetto adeguato di Dio che, essendo a sua volta razionale, è accessibile a tutti. La «conoscenza certa» può essere poi intesa come credenza, o consapevolezza soggettiva (belief), oppure nel senso più specifico di
scienza. «As a result, the point of Spinoza’s definition of ‘profecy’ is not to explain the
meaning of the word ‘profecy’ but to lay down a dialectical principle such that he can establish an identity of some sort between his own philosophy and traditional religion».
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profondo indebolimento che attraversa le istituzioni ecclesiastiche nel diciassettesimo secolo. Cacciato dalla comunità ebraica, «“cristiano coi cristiani” esattamente come, dal suo punto di vista – continua Strauss – Paolo era “un greco con i greci e un ebreo con gli ebrei”»5, Spinoza sa che «il
popolo lo sta ascoltando». Per questo «si esprime contraddittoriamente:
coloro che si scandalizzano delle sue affermazioni eterodosse verranno poi
tranquillizzati dalle sue formule più o meno ortodosse»6. Di fatto, agli occhi del filosofo, la Bibbia è un testo profondamente oscuro e confuso. Il rischio, conclude Strauss, è che tale posizione, espressa «cautamente», cioè
attraverso un uso consapevolmente ambiguo ed ellittico dei termini, venga
adombrata anziché essere chiarita da un libro «a sua volta pieno di contraddizioni»7.
Il rapporto fra verità e autorità, tra filosofia e fede riflette l’intero plesso di difficoltà. Distinte con fermezza allorché si tratta di difendere la libertà di filosofare dalle ingerenze della teologia, verità e autorità appaiono invece legate nel caso di quelle «leggi umane» che si pensa siano state
sancite dalla rivelazione8. Spetta al filosofo svelare il funzionamento della
macchina teologico-politica distinguendo la norma della verità (le idee dell’intelletto) dai segni dell’immaginazione. La questione si complica nel caso dell’insegnamento di Cristo, apparentemente estraneo alle altre forme di
superstizione religiosa: anzitutto perché egli comunicò con Dio non sotto
forma di immagini, bensì ad mentem; in secondo luogo, perché il suo insegnamento di «giustizia e carità» fu destinato non ad una sola nazione,
bensì all’umanità intera: «prima della venuta di Cristo, i profeti solevano
predicare la religione come legge della patria in forza del patto stabilito al
tempo di Mosè; dopo la venuta di Cristo, invece, gli apostoli la predicarono a tutti come legge universale»9. Una legge, continua Spinoza, nient’af5 Cfr. L. Strauss, Come studiare il Trattato teologico-politico di Spinoza, in Scrittura e
persecuzione (1952), trad. it. di G. Ferrara, F. Profili, Venezia, Marsilio, 1990, p. 187. Per
A. Tosel (Spinoza ou le crepuscule de la servitude. Essai sur le Traité Théologico-Politique,
Paris, Aubier, 1984, p. 167), il Tractatus costituisce una sorta di «introduction à la philosophie. […] La forme polemique, le langage volontairement traditionnel, la dispersion assumée des énoncés pour éprouver la sagacité des lecteurs et former l’intellectus à son labeur de concatenatio ne doivent pas manquer qu’il s’agit là d’autant de moyens pour mettre en place ce que l’on a nommé l’Ethique souterraine du TTP».
6 Ivi, p. 180.
7 Ivi, p. 172.
8
TTP, 4, G. III, p. 61; M. pp. 497-498.
9 TTP, 12, G. III, p. 163; M. p. 628.
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fatto nuova, essendo «del tutto naturale»; laddove però il profeta non la discute, imponendola secondo il comandamento ricevuto da Dio, «gli apostoli sono ovunque raziocinanti, a tal punto che sembrano sempre disputare e non profetizzare»10. Di qui la loro qualifica di «dottori», o «maestri»,
la quale mostra tuttavia una profonda ambivalenza nel momento in cui anche l’ufficio dell’apostolato si doterà della «presenza» e dei «segni» come
requisiti necessari «per convertire le genti»11. La religione naturale di carità e giustizia, ricorda Spinoza parafrasando Giovanni 1, 10, «era nel mondo, e il mondo non la conobbe»12; al contrario, ne disperse i frutti, riassorbendola in teologia, il nuovo apparato di sapere e potere in cui il messaggio universale di carità promosso da Cristo si rovescia negli scismi e nei
conflitti fra le diverse chiese. Unico scopo, determinare la vera interpretazione della parola di Dio. La pluralità dei «fondamenti» produce altrettanti rigorismi, «e lo sarà certo in eterno – conclude il filosofo – se la religione non verrà finalmente separata dalle speculazioni filosofiche»13. La distanza fra interpretazione e conoscenza, fra autorità e verità, fra la norma
autonoma delle idee e la fiducia nei segni (fides ex auditu et ex signis) è irriducibile. Forse per questo l’esercizio della filosofia rimane tanto arduo
quanto inviso alla maggioranza degli uomini: il suo fine è la conquista di
una perfetta autonomia da parte della mente.
1. Norma e segno
Gli sforzi maggiori del Tractatus sono volti a distinguere fra conoscenza
certa e conoscenza profetica, cosa possibile solo se si è risaliti alla differenza più radicale fra idee e immagini. Separare l’intelletto dall’immaginazione è di vitale importanza ai fini del conseguimento di ciò che sia il
Tractatus de intellectus emendatione, sia il Tractatus theologico-politicus,
chiamano «sommo bene», vale a dire l’unità fra la nostra mente e l’ordine
della natura14. La conoscenza della natura, così come quella dell’intelletto
e delle sue capacità (le idee vere), dipendono dall’idea dell’«ente perfetto»
10
TTP, 11, G. III, p. 152; M. p. 614.
TTP, 11, G. III, p. 153; M. p. 616.
12
TTP, 12, G. III, p. 163; M. p. 628.
13 TTP, 11, G. III, pp. 157-158; M. p. 621.
14 Cfr. Tractatus de intellectus emendatione [TIE], G. II, p. 8.
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o idea di Dio; il sommo bene equivarrà dunque al possesso di tale idea –
«vera cognizione» e «amore di Dio», secondo l’argomentazione del Tractatus theologico-politicus15:
Poiché nulla può essere, né essere concepito senza Dio, è certo che tutte le
cose che sono in natura implicano ed esprimono il concetto di Dio in proporzione della loro essenza e perfezione. Pertanto quanto più conosciamo
le cose naturali, tanto maggiormente e con più perfezione conosciamo Dio.
[…] E perciò tutta la nostra conoscenza, ossia il nostro sommo bene, non
soltanto dipende dalla conoscenza di Dio, ma consiste totalmente in essa16.
D’altra parte, continua Spinoza, profezia e filosofia sono entrambe frutto
della mente umana in quanto modificazione dell’unica sostanza infinita
nell’attributo del pensiero. Nel lessico ambivalente del primo capitolo: «la
natura della mente è la causa prima della rivelazione divina»17, conoscenza naturale e conoscenza profetica sono dettate «in noi dalla natura e dai decreti di Dio in quanto ne siamo partecipi»18.
L’ordo philosophandi e la conoscenza profetica procedono così direttamente da Dio nella misura in cui la mente umana partecipa dell’intelletto infinito. Con una differenza, però: i segni della rivelazione furono elaborati dai profeti in immagini e comunicati per verba, non ad mentem, ovvero secondo la potenza dell’intelletto19. In altre parole, tutta la conoscenza deriva da Dio, ma non tutte le idee possiedono il medesimo statuto: la
conoscenza profetica apprende la realtà non in se stessa (secondo l’ordine
delle cause), bensì sotto forma di immagini convalidate da segni e parole.
Come se Spinoza stesse suggerendo da un lato un’alleanza possibile tra filosofia e profezia rivendicando dall’altro la netta divergenza fra intelletto
e immaginazione. Ad una lettura più approfondita si chiarisce tuttavia l’opzione spinoziana. Ex auditu, ex aliquo signo: queste le modalità conoscitive della profezia, già esplorate nel De emendatione a proposito della conoscenza immaginativa20. Le idee si distinguono dalle immagini non solo
per il contenuto che esse esprimono (l’immagine di Dio come supremo le-
15
TTP, 4, G. III, p. 60; M. p. 496.
Ibid.
17 TTP, 1, G. III, p. 16; M. p. 439.
18
Ibid.
19 TTP, 1, G. III, p. 16; M. p. 440.
20 Cfr. TIE, G. II, pp. 10-11.
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gislatore è radicalmente incompatibile con il concetto vero di Dio, causa
sui e causa immanens di tutte le cose), ma anche per la forma in cui si manifestano. La verità espressa dalle idee dell’intelletto non poggia su alcuna autorità o criterio esterno di verifica: «per la certezza della verità non è
necessario alcun altro segno che il possesso di un’idea vera […] nessuno
può sapere che cosa sia la suprema certezza, all’infuori di chi possiede
un’idea adeguata o l’essenza oggettiva di qualcosa: identiche sono la certezza e l’essenza oggettiva»21. La certezza delle idee dell’intelletto è indice di se stessa (veritas index sui, nelle parole dell’Ethica22, norma, nei termini del Tractatus de intellectus emendatione), non riferendosi ad alcun
principio ad essa superiore: «la verità non richiede alcun segno»23. Il problema, prosegue il Tractatus theologico-politicus con un lessico ambiguamente teso fra teologia e filosofia, è che l’«uomo carnale», «digiuno di
Dio», non comprende questa forma più alta di legge che vige senza comandare essendo «Dio stesso in quanto la sua idea è in noi»24. Per l’uomo
comune la legge è controparte dell’obbedienza, cui sia il popolo sia il sovrano sono tenuti a sottostare.
Le verità della Scrittura sono inoltre ricevute dal profeta secondo una catena di mediazioni: come sensazioni, che egli recepisce passivamente, traducendole in immagini e in parole, come comandamenti della cui autorità
è investita la moralità collettiva. L’esperienza profetica è in ogni caso estranea al fondamento universale degli assiomi e delle nozioni comuni attinti
dalla «pura mente». Per questo essa è «sovrana» nel proprio ambito, ossia
rimanda alla specificità unica ed irripetibile delle condizioni psicologiche,
fisiologiche e caratteriali di chi l’ha ricevuta. Il profeta ritiene che il segno
discenda dalla «volontà» di Dio, la cui autorità è per definizione incondizionata. Non potrebbe essere altrimenti: l’autorità di un sovrano cessa di esser tale se le ragioni che la legittimano dipendono dal giudizio di chi è ad
essa subordinato. Spinoza risponde che se siamo in possesso di un’idea vera, siamo anche certi della falsità di ciò che le si oppone: «chi ha un’idea
vera sa, al tempo stesso, di averla e non può dubitare della verità della cosa»25. La conoscenza certa ed evidente che in Dio volontà e intelletto coin-
21
TIE, G. II, p. 15; M. p. 37.
Ethica [E], II, prop. 43, schol., G. II, p. 124.
23
TIE, G. II, p. 15; M. p. 37.
24 Cfr. TTP, 4, G. III, pp. 60, 61; M. pp. 496, 497.
25 E, II, prop. 43, G. II, p. 123; M. p. 878.
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cidono implicherà dunque in modo altrettanto certo ed evidente la falsità
dell’idea secondo cui Dio è un legislatore sovrano. In breve, la conoscenza profetica, pur derivando come quella del filosofo direttamente dalla potenza infinita di Dio, non sa cogliere tale rapporto di adeguazione, distorcendo così la visione corretta del rapporto fra intelletto umano e intelletto
divino.
I segni «erano dati in relazione alle opinioni e alla capacità di comprensione del profeta, tanto che un segno, che rendeva certo il profeta della sua profezia, non avrebbe potuto minimamente convincere un altro profeta»26. I segni servono a «convincere» il profeta, ma la «certezza morale»
che da essi deriva è del tutto estranea alla «certezza matematica»27. La certezza morale si applica a fatti storici e contingenti, nonché alle «ipotesi» di
cui fa abitualmente uso la scienza fisica, purché siano giustificate dalle
«leggi di natura» su cui si fonda l’universo materiale28. Ovviamente, nella
prospettiva spinoziana, la conoscenza vera di Dio non può risultare da alcuna certezza morale: essa non deriva né da ipotesi, né dalla narrazione di
fatti storici, ma è stabilita a priori dalla mente secondo il plesso di assiomi, definizioni, proposizioni, dimostrazioni, scoli e corollari di cui si compone la struttura argomentativa dell’Ethica. E tali strumenti sono tutto ciò
di cui abbiamo bisogno per costruire una scienza assiomatica, certa ed evidente dell’ordine concreto della natura:
chi non vede che la conoscenza di Dio non fu uguale in tutti gli uomini di
fede? […] Uomini, donne, bambini, tutti possono parimenti ubbidire a un
comando, ma non per questo divenire sapienti. […] Le cose invisibili – invece – che sono oggetto della sola mente, non si possono vedere con altri
occhi che non siano le dimostrazioni29.
26
TTP, 2, G. III, p. 32; M. p. 461.
Ibid.
28 Sull’uso dell’ipotesi in scienza cfr. Descartes, Discours de la methode, in Œuvres, C.
Adam, P. Tannery (a cura di) [AT], L. Cerf, Paris, 11 voll., 1897-1913, VI, pp. 64-65. I Principia (IV, 204-205, AT, IX, p. 322) assegnano il carattere di «certezza morale» a quelle ipotesi che spiegano i fenomeni più particolari (magnetismo, fuoco, calore, ecc). Cfr. fra gli altri, D.M. Clarke, The Concept of experience in Descartes’ theory of knowldege, «Studia
leibnitiana», VIII (1976), pp. 18-39. Per il confronto di Spinoza con i modelli della scienza si vedano gli studi raccolti in M. Grene (a cura di), Spinoza and the sciences, Dordrecht
e Boston, Reidel, 1986.
29 TTP, 13, G. III, p. 170; M. p. 636.
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I segni offrono una conoscenza credibile (fede) ma indimostrabile: il criterio della loro verità poggia sul presunto volere di Dio, tanto più vivo nella mente del profeta quanto più vivida è la sensazione attraverso cui viene
recepito. Mosè introdusse la religione nello stato «per virtù e per comando divino […] il popolo non poteva far nulla senza ricordarsi della Legge
ed eseguire quei mandati che dipendevano dal solo arbitrio del comandante»30. L’intelligibilità del segno non è data dalla norma autoevidente della
verità, bensì dalla fiducia nel comandamento:
interprete è colui che interpreta i decreti di Dio per coloro ai quali non sono stati rivelati. E nell’accoglierli, costoro poggiano sulla sola autorità del
profeta. […] Analogamente, i poteri sovrani sono gli interpreti del diritto
dello Stato, poiché le leggi che essi promulgano sono difese dalla loro sola autorità e poggiano sulla loro testimonianza31.
Spinoza procede quindi nell’invalidazione del miracolo, tradizionalmente assunto come segno della verità della profezia. L’argomentazione si
articola, com’è noto, su due livelli. Anzitutto, il miracolo è al servizio dell’autenticità della dottrina, «il che è insegnato espressamente anche da Mosè – quando – in Deuteronomio 18 ordina al popolo di obbedire al profeta
che ha dato il vero segno in nome di Dio, ma di condannarlo a morte se avrà
predetto qualcosa di falso, anche se in nome di Dio. […] Ne consegue che
il vero profeta si riconosce dal falso sia per la dottrina che per il miracolo»32. È dunque il miracolo ad essere subordinato alla dottrina, non viceversa. Più radicalmente, nell’ottica spinoziana, l’ordine necessario delle
leggi naturali esclude la presenza di qualsiasi evento sovrannaturale33. Di
nuovo, i segni dell’immaginazione andranno separati dalla norma della verità: autorità e verità, annodate nel medesimo ingranaggio teologico-politico, devono essere sciolte l’una dall’altra.
Eppure, le conclusioni del filosofo prendono una direzione inaspettata
rispetto a quanto prevede la classica immagine del costruttore di un’etica
e di una scienza politica rigorosamente razionaliste. Le idee dell’intelletto, troviamo scritto nel Tractatus, hanno solitamente ben poca influenza in
ambito pratico:
30
TTP, 5, G. III, p. 75; M. p. 516.
TTP, adn, G. III, p. 251; M. p. 739.
32 TTP, G. III, 15, p. 186; M. p. 656.
33 Cfr. TTP, G. III, 1, p. 23.
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È segno di insipienza, infatti, non voler accogliere ciò che è confermato
dalle testimonianze di tanti profeti, ciò che è fonte di grande conforto per
quanti non hanno la forza della ragione. […] E questo solo per la ragione
che non si può dimostrare matematicamente. Quasi che per regolare saggiamente la vita non si debba ammettere nulla come vero, che non sia posto assolutamente al di fuori di ogni dubbio, o come se quasi tutte le nostre
azioni non siano assai incerte e piene di rischio34.
Sono le credenze immaginative a tenere uniti gli uomini orientandoli al rispetto della legge positiva. La credenza nell’autorità divina (il volere di
Dio) è così fonte di «notevole utilità per lo Stato»35, i segni della profezia
forniscono la giustificazione teologica del legame politico a cui i desideri e le passioni (hominum libidinem) andranno sottoposti36. La profezia, ritenuta dal credente interprete della parola di Dio, non estende la propria
autorità oltre il dominio della pura morale (quae usum vitae et veram virtutem spectant)37, ma è di massima utilità in quest’ambito; viceversa, la filosofia non ha nulla a che vedere con la pratica dell’obbedienza: «la religione, sia essa rivelata per lume naturale o per lume profetico, riceve la
forza del mandato dalla sola decisione di quanti hanno il diritto di comandare»38.
La distinzione fra discorso teologico (politico) e discorso filosofico è
dunque ribadita con forza. Soprattutto, continua Spinoza, se i filosofi fossero i detentori delle verità della Scrittura, essi si trasformerebbero in una
nuova casta di «sacerdoti o pontefici» che presto o tardi il popolo «disprezzerebbe»39. La fiducia nella volontà di un Dio supremo legislatore è
sufficiente a garantire la verità del messaggio rivelato; del resto, il nesso fra
verità (conoscenza) e autorità (fede) non è affatto evidente, continua il filosofo: l’autorità è controparte dell’obbedienza, la verità della conoscenza.
In definitiva, la difesa spinoziana della libertà di filosofare rispetto alle ingerenze e ai vincoli della teologia non culmina nella pretesa di sottomettere l’autorità politico-religiosa a quella filosofica. Al contrario, non vi è alternativa possibile alla separazione fra le due sfere, come ribadisce il capi-
34
TTP, 15, G. III, p. 187; M. pp. 657-658.
TTP, 15, G. III, p. 187; M. p. 657.
36 TTP, 5, G. III, pp. 73-74.
37
Cfr. TTP, 1, G. III, p. 9.
38 TTP, 19, G. III, p. 231; M. p. 715.
39 TTP, 7, G. III, p. 114; M. p. 565.
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tolo quindicesimo del Tractatus, là dove viene approfondito il problema
del rapporto fra autorità e Scrittura.
Avendo sottoposto a verifica nel capitolo settimo la posizione razionalistica di Maimonide, Spinoza prende in esame la tesi opposta di Alfakhar40:
la Scrittura è l’unica depositaria della norma della verità, il suo carattere divino essendo per definizione estraneo a qualsiasi contraddizione. Laddove
il razionalismo maimonideo aveva avanzato la proposta di una lettura allegorica di quei passi scritturali che appaiono in contrasto con la ragione, la
posizione fideistica di coloro che invocano il ritorno alla sola Scriptura,
rappresentati nel Tractatus dalla figura di Alfakhar, giunge al contrario ad
interdire l’utilizzo stesso della ragione in materia teologica:
[Alfakhar] desiderando evitare l’errore di Maimonide è caduto nell’errore
contrario. Stabilì infatti che la ragion debba esser l’ancella della Scrittura
ed ad essa completamente sottoposta. […] A partire di qui, forma questa regola universale: tutto ciò che la Scrittura afferma dogmaticamente con chiare parole, si deve ammettere senz’altro come vero per la sua sola autorità41.
Spinoza dichiara di «apprezzare» il principio della lettura della Scrittura sola Scriptura, perno dall’ermeneutica luterana e calvinista: «il nostro metodo, che si fonda sulla conoscenza della Scrittura attraverso la Scrittura, è
l’unico e il vero»42, sentenzia nel Tractatus. Ma se per il teologo il senso
letterale è l’unico senso possibile essendo la dottrina espressione diretta,
inalterabile e incorruttibile dello Spirito Santo, la considerazione letterale
dei passi biblici rivela al contrario, nelle mani del filosofo, le profonde problematicità connesse all’esercizio ermeneutico: «talmente grandi – continua Spinoza – che non esiterei ad affermare che noi, in numerosi luoghi,
ignoriamo o possiamo solo indovinare senza certezza il vero senso della
Scrittura»43.
La difesa dell’autorità assoluta della Scrittura è inammissibile per almeno due motivi. Il primo era già stato discusso nel capitolo settimo a proposito del problema dell’interpretazione: la Scrittura non è affatto un testo
40 Leader ebraico della comunità di Toledo, Alfakhar contesta nell’Epistola contra Maimonidem (Costantinopoli, 1521/1522) il diritto della ragione ad intervenire nell’interpretazione della Scrittura. Cfr. la traduzione in inglese e il commento di J. Adler, Letters of Judah Alfakhar and David Kimchi, «Studia Spinozana», 12 (1996), pp. 147-167.
41 TTP, 15, G. III, p. 181; M. p. 650.
42 TTP, 7, G. III, p. 105; M. p. 553.
43
TTP, 7, G. III, p. 111; M. p. 561.
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unitario e coerente, la presunta univocità della parola divina si scontra con
le innumerevoli interpretazioni umane che nel corso dei secoli hanno preteso di raccoglierne il messaggio. Rimettendosi all’interpretazione del segno, la rivelazione è destinata all’equivocità delle varie spiegazioni in lotta per il monopolio profetico. In secondo luogo, la teologia, ovvero lo studio e l’interpretazione delle vestigia o signa Dei, non fa che duplicare la logica allucinatoria del profeta per la quale esisterebbe un ordine sovrannaturale che fa segno all’ordine umano e naturale, a conferma della volontà
trascendente e imperscrutabile di Dio. Dio parla agli uomini e alla storia annunciandoci e convalidando il suo messaggio attraverso segni:
[i teologi] sognano misteri profondissimi celati nella Scrittura e, abbandonando ogni altra cosa utile, si affaticano a trovare in essa simili cose, cioè
degli assurdi. Ciò che così fingono delirando, attribuiscono interamente allo Spirito Santo e si affannano a difendere i loro deliri con tutta la forza e
l’impeto degli affetti44.
La strategia argomentativa spinoziana nei confronti del «delirio» e delle
«invenzioni» che ostacolano la conoscenza di «quanto la Scrittura o lo Spirito Santo vuole insegnare»45 parte quindi dalla considerazione del contenuto stesso della rivelazione. Dal punto di vista speculativo la Scrittura tratta cose che «di fatto superano la comprensione umana», non apportando alcun aumento di conoscenza46. I profeti dissentivano profondamente «sulle
cose speculative», le loro opinioni essendo conformi ai «pregiudizi della loro epoca». Per di più, il volgo conserva la lingua dei dotti, ma «solo i dotti conservano i libri e il senso dei discorsi», mutando o corrompendo il senso dei libri «che ebbero in loro potere»47. Le conclusioni sono evidenti: «il
nostro metodo insegna solo a scoprire che cosa in realtà videro o udirono
i profeti, non che cosa vollero significare con quei loro geroglifici»48. Parlando della costituzione e della natura della lingua in cui la Bibbia è stata
scritta Spinoza arriverà ad affermare «che è impossibile scoprire un metodo che insegni a trovare con certezza il vero senso di tutte le frasi della
Scrittura»49. In breve, l’esercizio ermeneutico dimostra l’infondatezza del44
TTP, 7, G. III, p. 98; M. p. 545.
Ibid.
46 TTP, 7, G. III, p. 99; M. p. 546.
47 TTP, 7, G. III, pp. 104-106; M. pp. 553-555.
48 TTP, 7, G. III, p. 105; M. p. 553.
49
TTP, 7, G. III, p. 107; M. p. 556.
45
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lo stesso metodo interpretativo: sia perché «possiamo solo indovinare [il
senso dei testi] ma non dedurlo dai fondamenti della Scrittura»50, sia perché solo le dottrine morali, che della Scrittura rappresentano il vero insegnamento, sono «incorrotte». Esse conseguono «con la massima evidenza
da questo fondamento universale: propugnare la giustizia, essere d’aiuto a
chi ha bisogno, non uccidere, non desiderare alcuna cosa d’altri ecc.». E la
«malizia degli uomini o il tempo vorace non poterono corrompere o cancellare nessuna di queste cose»51. L’insegnamento morale è perfettamente
comprendibile senza il ricorso ad alcuna interpretazione, letterale, teologica, o filosofica che sia. A cosa si riduce allora il compito dell’ermeneutica? Svelare la natura della Bibbia in quanto libro popolare per eccellenza,
comprensibile da tutti rispetto al suo contenuto morale, del tutto oscuro per
quanto concerne la dottrina speculativa. «Le dottrine sulla vera pietà sono
espresse nei termini più correnti, giacché sono dottrine assai comuni, né
meno semplici e facili da comprendere»52. Del tutto chiare ed evidenti agli
occhi del popolo, esse potranno essere colte senza il ricorso ad alcuna interpretazione. Ed una volta sottratte al giogo delle forme passionali ed immaginative della religione, coincideranno con l’uso naturale delle «nozioni comuni»53.
Il ritorno alla Scrittura dimostra insomma l’arbitrarietà e la contingenza di tutte le interpretazioni su cui per secoli si è affaticata la teologia. La
ricerca dei «misteri profondissimi» da parte di coloro che antepongono il
senso speculativo a quello morale impedisce anzi un autentico accesso al
testo, laddove la lente dell’indagine razionale ne evidenzia la sua funzione
di bacino immaginativo dell’autorità politica. La ragione è del resto l’unico ausilio a nostra disposizione per l’accertamento della verità in qualsiasi materia: «sono stupito – conclude Spinoza – che un uomo dotato di ragione [Alfakhar] si sforzi di distruggere la ragione»54. Inevitabile conseguenza, se si accetta incondizionatamente l’autorità della Scrittura:
Se infatti la ragione, benché si opponga ad essa, si deve completamente
sottomettere alla Scrittura, dobbiamo fare questo, io domando, con la ragione oppure senza la ragione, come dei ciechi? Se senza la ragione, agi-
50
Ibid.
TTP, 12, G. III, p. 165; M. p. 631.
52 TTP, 7, G. III, p. 111; M. p. 562.
53 TTP, 7, G. III, p. 99; M. p. 546.
54 TTP, 15, G. III, p. 182; M. p. 651.
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remo certo da uomini stolti e privi di giudizio; se con la ragione, accoglieremo dunque la Scrittura per il solo comando della ragione, e quindi non
l’accoglieremmo se ripugnasse alla ragione. E chi, io domando, può accogliere qualcosa con la mente se la ragione vi si oppone? Che significa, infatti, negare qualcosa con la mente, se non opporre la ragione. Non cesserò mai di stupirmi che vogliano sottomettere la ragione, il dono supremo e
la luce divina, alle morte lettere55.
In questo senso, l’attacco di Albert Burgh, uno dei corrispondenti di
Spinoza convertitosi al cattolicesimo, coglie solo il punto d’avvio della
strategia decostruttiva spinoziana. Il filosofo è accusato di «fabbricare» i
propri «dogmi» avvalendosi dello stesso metodo della teologia riformata,
«cioè della sola Scrittura». «E non ti lusinghi – continua Burgh – che non
possono confutare la tua dottrina i Calvinisti, o i cosiddetti Riformati, né i
Luterani, i Mennoniti, i Sociniani. Tutti costoro sono miseri al pari di te, e
come te siedono all’ombra della morte»56. Ben diversa è in realtà la posizione del filosofo nei confronti dei teologi: il metodo del commento letterale ai testi è rivolto contro se stesso: impossibile determinare in modo univoco qualsiasi contenuto speculativo o teologico partendo dai testi. Ciò non
significa che la filosofia abbia il compito di proiettare la propria luce nel dato rivelato «torturando» le parole della Scrittura: le verità scritturali non
sono compatibili con le verità di ragione, né sotto la forma debole dell’allegoria né invocando il soccorso della teoresi filosofica. La critica al fideismo è in questo senso complementare a quella nei confronti di chi pretende di estrarre un contenuto razionale dalla superficie delle parole del testo
sacro. La norma dell’idea vera esclude tutto ciò che è ad essa contrario: i
profeti, continua Spinoza, a differenza di quanto credono al-Farabi, Avicenna, Averroè o Maimonide, non furono filosofi. L’interpretazione della
Scrittura non rientra nei compiti della ragione, la quale è sì legittimata ad
intraprenderne dall’esterno la propria lettura critica, ferma restando però la
separazione tra filosofo e fedele: «la conoscenza rivelata è totalmente distinta dalla conoscenza naturale e non ha nulla in comune con essa. Sia
l’una che l’altra possono quindi godere del proprio regno»57. La logica del
commentario è inadeguata alle verità della filosofia, l’interpretazione letterale dei passi biblici si risolve in un non luogo a procedere, consideran-
55
Ibid.
Burgh a Spinoza, Epistolæ [Ep.], 67, G. IV, p. 282; M. p. 1507.
57 TTP, praef., G. III, p. 10; M. p. 435.
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do la totale assenza d’unità o coerenza fra i testi, negata del resto anche sul
piano teologico grazie all’analisi dei meccanismi della superstizione e dell’immaginazione profetica. Lo ribadirà l’appendice alla prima parte dell’Ethica, vero e proprio atto d’accusa nei confronti di ogni sapere teologico eretto a norma autonoma della verità:
chi ricerca le vere cause dei miracoli e chi si adopera ad intendere le cose
naturali come uno che sa e non ad ammirarle come uno stolto, per lo più è
considerato e proclamato eretico ed empio da coloro che il volgo adora
quali interpreti della natura. Sanno infatti, che tolta l’ignoranza, viene tolto anche lo stupore, l’unico mezzo che hanno per argomentare e difendere
la propria autorità58.
2. Apostoli e profeti
Il profeta ritiene di aver ricevuto il segno direttamente dal volere di Dio e
lo confonde con la legge senza alcuna possibilità di discuterne le ragioni.
Mosè apprese come guidare il proprio popolo senza doversi domandare se
«quel modo era appunto ottimo. […] Pertanto, prescrisse tutte queste cose
non come verità eterne, ma come mandati e istituti, e come leggi di Dio»59.
La salvezza del filosofo discende dall’idea vera di Dio; le leggi di giustizia e di pietà, riconosciute ed obbedite dalla moltitudine per mezzo dell’immaginario simbolico e religioso, gettano le fondamenta dell’ordine sociale. Come in Mosè, Isaia, Geremia, Ezechiele: leggi etnicizzate e territorializzate, ma che giustificano anche una condotta di vita onesta e generosa, compatibile con l’ordinamento politico esteriore. In altre parole, non
occorre possedere la vera scienza della natura di Dio per condurre una vita moralmente adeguata. Al contrario, i messaggi veicolati dalla conoscenza
profetica, benché estranei alla comprensione della vera essenza divina, si
prestano più facilmente della conoscenza intellettuale a fondare il legame
politico. Più forte, infatti, è la potenza di socializzazione impressa nel loro carattere immaginativo.
Vi è un caso, tuttavia, in cui il vincolo esteriore della religione incontra
una legge universale che non costringe all’obbedienza, essendo stata
espressa da una mente conforme «non alle sole opinioni dei Giudei, ma ad
58
59
E, I, app. G. II, p. 81; M. pp. 830-831.
TTP, 4, G. III, p. 64; M. p. 501.
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opinioni e dottrine comuni al genere umano, ossia a nozioni universali e vere»60. Tale legge, compatibile alle nozioni comuni della ragione, è quella
percepita intellettualmente da Cristo (ad mentem) e trasmessa dagli apostoli. Nell’Antico Testamento (i libri profetici) il volere di Dio coincide
con la legge di Israele, l’insegnamento degli apostoli appare invece slegato da qualsiasi autorità politica esteriore:
[I profeti] non furono chiamati a predicare e a profetizzare per tutte le nazioni, ma solo per alcun in particolare; avevano perciò bisogno di un mandato espresso e particolare per ciascuna. Gli apostoli, invece, furono chiamati a predicare a tutti, senza eccezione, e a convertire tutti alla religione.
Pertanto, ovunque andassero, eseguivano il mandato di Cristo, né c’era bisogno che prima di partire fossero loro rivelate le cose da predicare. Erano
infatti discepoli di Cristo, ai quali Cristo aveva detto: “quando vi consegneranno nelle loro mani, non vi date pensiero del come e di che cosa dovrete dire ecc”. (Matteo, 10, 19-20)61.
L’apostolo trasmette una legge di giustizia e carità mediata interiormente dallo spirito di Cristo e disinvestita dalle leggi positive, la cui realizzazione spetta al sovrano terreno. L’insegnamento apostolico presenta così i contorni
d’una religione basata su pochi insegnamenti, estranei al comando della profezia e al destino politico di un popolo solo. I precetti minimi della religione universale (religio catholica) derivano dalla comunicazione diretta di Cristo con Dio: «gli apostoli scrissero ma predicarono pure in qualità di maestri,
e non in qualità di profeti», se non persino come «filosofi», basandosi sul lume naturale della ragione. Sembrerebbero delinearsi le condizioni di un’«etica universale», fondamento «dell’ottima vita civile», ma anche di una vita filosofica altissima, «totalmente» riassorbita nella conoscenza di Dio62.
Anche in questo caso, tuttavia, l’argomentazione spinoziana è tutt’altro
che univoca. Problematico appare anzitutto il passaggio dalle modalità di
percezione che ebbe Cristo delle «cose nella verità» al loro insegnamento
esteriore, dal contenuto intellettuale della conoscenza all’aspetto immaginativo della predicazione. Sul versante etico l’insegnamento di Cristo traghetta l’esperienza interiore del fedele in un’universalità morale fondata
sulla carità, «raccomandata in entrambi i Testamenti»63, precisa comunque
60
TTP, 4, G. III, pp. 64-65; M. p. 502.
TTP, 11, G. III, pp. 154-155; M. p. 617.
62 TTP, 4, G. III, p. 60; M. p. 497.
63 TTP, 12, G. III, p. 165; M. p. 631.
61
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Spinoza. Soprattutto, sul piano conoscitivo, Cristo percepì intellettualmente
l’«essenza» di Dio «senza predisporre alcun mezzo corporeo»64. Riferendosi a tale forma intuitiva di conoscenza Spinoza non ne esplicita tuttavia
il contenuto. Qual è l’essenza di Dio conosciuta da Cristo? Quella del Dio
sostanza spinoziano (sembrerebbe non poter essere altrimenti se si identifica la figura di Cristo a quella del filosofo), o la natura del Dio persona della tradizione? Sappiamo con certezza dalle lettere che il Cristo di Spinoza
è svuotato di qualsiasi natura divina: la sua resurrezione fu tutta spirituale,
dirà Spinoza ad Oldenburg, e «per la salvezza non è affatto necessario conoscere Cristo secondo la carne»65. Cristo non è dunque il figlio di Dio.
Per di più, sembra valere per lui la stessa regola riferita agli altri profeti, radicalmente estranei alla filosofia:
se qualcuno vuole insegnare qualche dottrina a un’intera nazione, per non
dire all’intero genere umano […] dovrà sforzarsi di adattare al meglio tanto i suoi argomenti quanto le definizioni delle cose da insegnare alle capacità di comprensione della plebe, che costituisce la maggioranza del genere umano66.
Cristo comunicò alle genti non per via razionale, bensì per mezzo di parabole e segni esteriori, come richiesto dalle capacità di comprensione del
popolo. È dunque un profeta o un filosofo? Spinoza non si deciderà né per
l’una né per l’altra via, probabilmente in ragione dei motivi retorici e di
prudenza cui si è fatto riferimento. Rimane il paradosso di un uomo che conosce uno intuitu ed adæquate i disegni e la natura divini, ma che non lascia traccia scritta del proprio pensiero: os Dei, come lo definisce Spinoza, promotore di una religione orientata ai semplici criteri di giustizia e carità. Come se in lui filosofia e teologia potessero momentaneamente riconciliarsi. In realtà, la figura di Cristo è il simbolo della lacerazione fra i
due lati del potenziale uditorio a cui Spinoza rivolge il proprio appello per
una vita secondo ragione: i cristiani da un lato, incapaci di diventare pienamente filosofi, i filosofi, dall’altro, costretti a pensare e a vivere in ossequio alla dottrina e all’autorità politica cristiana. La tensione tra fede e ragione, fra l’autorità della legge e la norma della verità, fra «carne» e «spirito», rimane irrisolta, indicando il paradosso della stessa vita filosofica
64
TTP, 1, G. III, p. 21; M. p. 445.
Spinoza a Oldenburg, Ep. 73, G. IV, p. 308; M. p. 1302.
66 TTP, 5, G. III, p. 77; M. p. 518.
65
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che Spinoza proietta in quella di Cristo67. Riflesso teologico-politico della
figura del filosofo, Cristo è un filosofo paradossale, che riserva a se stesso
le verità della filosofia di fronte all’invincibile ignoranza delle masse; un
uomo che pensa filosoficamente, benché costretto a ripiegare negli esempi morali di carità e d’amore accessibili al volgo.
Sul versante politico, l’evoluzione storica della tradizione apostolica
presenta del resto aspetti non meno problematici di quelli espressi dalla religione ebraica. Anzitutto perché man mano che le tendenze culturali e geografiche del cristianesimo sviluppano ciascuna la propria tradizione, lo
scontro fra ortodossie contrapposte diventa inevitabile. In secondo luogo,
l’assenza di una specifica autorità produce fin dagli inizi importanti divisioni circa il problema dei «fondamenti» della dottrina – si pensi al confronto fra Giacomo e Paolo sul rapporto tra fede e opere:
Gli apostoli sono in accordo sulla religione, ma discordano grandemente sui
fondamenti. Paolo, infatti, per confermare gli uomini nella religione e mostra loro che la salvezza dipende dalla sola grazia di Dio, insegno che non
ci si può affatto gloriare per le azioni, ma per la sola fede, e che nessuno è
giustificato dalle opere (vedi Romani 3, 27-28): di qui tutta la dottrina della predestinazione. Giacomo, invece, nella sua Lettera (vedi 2, 24), sostiene che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla sola fede. […] Infine,
proprio perché gli apostoli edificarono la religione sopra fondamenti diversi, sono sorte molte controversie e molti scismi, mali da cui la Chiesa fu
incessantemente tormentata sin dal tempo degli apostoli68.
Nelle parole di Tosel, prende forma un potere politico, celato sotto la veste impolitica di una morale privata69; l’apostolo muta in teologo, espressione di una Chiesa in lotta per la propria egemonia politica e culturale. I
dogmi della religio catholica sono oggetto di un nuovo scontro per il monopolio dell’interpretazione; difficile distinguere fra «dottori» e teologi:
«accrebbero a tal punto i dogmi della religione, e li confusero a tal punto
con la filosofia, che il sommo interprete della religione doveva essere, ad
un tempo, sommo teologo e sommo filosofo»70. La comunità cristiana, ori-
67
Cfr. A. Tosel, Spinoza ou le crepuscule de la servitude, cit., p. 263.
TTP, 11, G. III, p. 157; M. p. 621.
69 Cfr. A. Tosel, La figure du Christ et la vérité de la religion, in A. Bento, J.M. Silva
Rosa (a cura di), Revisiting Spinoza’s Theological-Political Treatise, Hildesheim, Zürich,
New York, Verlag, 2013, pp. 172-173.
70 TTP, 19, G. III, p. 237; M. p. 722.
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ginariamente alternativa al potere mondano, si è trasformata nell’ennesimo
apparato ecclesiastico d’assoggettamento:
quando più tardi, trascorsi molti anni, la religione cominciò ad essere introdotta nello Stato, gli ecclesiastici dovettero insegnarla agli stessi imperatori, così come l’avevano determinata. Poterono così ottenere facilmente
di essere riconosciuti come i suoi maestri o interpreti, e quindi come i pastori della Chiesa e quasi vicari di Dio71.
Qualunque esperienza religiosa, sia quella dell’Antico Testamento, la
quale prescrive un’obbedienza diretta al volere di Dio non mediata da alcuna riflessione, sia quella mediata dall’insegnamento apostolico e conosciuta interiormente senza il ricorso ad alcun segno o autorità esterna, si risolvono in definitiva nel linguaggio contraddittorio e conflittuale dell’autorità. La religione del popolo ebraico elabora il proprio senso attorno alla profezia e al miracolo, traducendosi nell’elezione politica di una sola etnia; lo spirito di Cristo dovrebbe parlare alla coscienza di ciascuno. Entrambi si dimostrano tuttavia inscindibili dall’economia immaginaria del
governo: quello direttamente teologico e politico della teocrazia ebraica,
quello apparentemente impolitico del cristianesimo delle origini, corrotto
però dall’evoluzione storica della Chiesa e dai suoi conflitti. La legge divina prescrive di amare Dio nella forma dell’obbedienza, la forma rinnovata del messaggio morale (filosofico?) ed apparentemente apolitico di Cristo non è a sua volta in grado di restituire l’idea adeguata di causa sui, o
sostanza infinita, unica fonte da cui dedurre le leggi della potenza individuale e collettiva. In realtà, esperienza profetica e predicazione apostolica,
il cui spartiacque sarebbe costituito dalla figura di Cristo, tendono a confondersi l’una nell’altra.
Conclusioni
Lo statuto dell’immaginazione rispetto all’intelletto, nonché la distinzione
fra esperienza profetica e predicazione apostolica nel Tractatus theologicopoliticus sono oltremodo complessi e ambivalenti. Respinta sul piano intellettuale come possibile via nella scoperta della verità, l’immaginazione
regola ed orienta gli uomini nel perseguimento dell’utile, il più delle volte
mosso dal solo desiderio (ex sola libidine). In questo quadro, la religione
71
Ibid.
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ebraica è inequivocabilmente subordinata all’autorità politica. Più ambigua e sfumata è la posizione di Spinoza nei confronti del cristianesimo.
Cristo non conobbe attraverso segni immaginativi o sensibili, e i suoi esempi non furono prescritti «come leggi»72. La conoscenza intuitiva di Cristo
si distingue così sia dall’autorità del legislatore mosaico, sia dalle speculazioni indebite dei teologi cristiani. Il suo insegnamento resta nondimeno
intrappolato nell’insieme dei precetti e delle figure che dominano la forma
di vita immaginativa. Filosofo irriconoscibile per le masse, Cristo è costretto ad adattare «le sue parole al carattere della plebe […] ossia al carattere degli uomini carnali»73. Impossibile spezzare il legame fra segno, interpretazione e autorità. D’altronde, sul fronte filosofico le idee vere, che
dipendono dall’idea adeguata di Dio, «sono comandi di Dio», poiché sono
prescritte da Dio stesso «in quanto esiste nella nostra mente»74. Il che porterebbe a concludere che «norma» e «legge» diventano indistinguibili se
tradotte sul piano della «pura mente». Ma Spinoza non conduce il suo ragionamento fino a questo punto, rivendicando al contrario la reciproca
estraneità fra i due termini, salvo concedere talvolta spazio a posizioni più
conciliatorie. Un dato sembra chiaro: il «sommo bene» (la conoscenza della potenza dell’intelletto e dell’ordine della natura in cui è inserito) non è
deducibile se non dall’idea adeguata della causa prima dell’essenza e dell’esistenza di tutte le cose. Nell’idea adeguata di Dio – sostanza infinita e
causa di sé in tutti i suoi modi – la norma della verità è sciolta dalla «servitù della Legge»75, poiché coincide con una pura forma di legge: «rispetta la legge divina soltanto chi si preoccupa di amare Dio non per il timore
del supplizio, né per amore di altra cosa [ricchezze, fama, ecc.], ma per il
solo fatto di sapere che il sommo bene è la conoscenza e l’amore di Dio»76.
Un amore esemplificato in maniera perfetta dalla comunicazione della
mente di Cristo con Dio, benché intraducibile, a quanto sembra, nelle forme esteriori dell’ordinamento politico e della vita passionale dell’uomo.
72
TTP, 4, G. III, p. 65; M. p. 502.
Ibid.
74
TTP, 4, G. III, p. 60; M. pp. 496-497.
75 TTP, 4, G. III, p. 65; M. p. 502.
76 TTP, 4, G. III, p. 60; M. p. 497.
73
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