Prima cooperare poi parlare
- Valentina Pisanty, 04.01.2015
Psicologia. Ipotesi sulle basi del pensiero: secondo Michael Tomasello l'uomo sarebbe innanzi tutto
un animale cooperante, il linguaggio verrebbe poi
L’evoluzione dell’intelligenza umana è come una storia di cui si conosca il finale – come siamo – e il
probabile inizio – come eravamo – senza sapere nulla delle scene intermedie. Siamo animali culturali,
linguistici e politici, capaci di viaggiare mentalmente nel tempo, di immaginare cose assenti, di
manipolare scenari controfattuali, di riflettere ricorsivamente sui nostri e sugli altrui pensieri, di
trasmettere i contenuti mentali ad altre persone per mezzo di quel potente strumento comunicativo
che è il linguaggio, di organizzarci in società complesse per deliberare su condotte collettive, e altro
ancora. Eravamo (presumibilmente) simili alle grandi scimmie antropomorfe con le quali abbiamo
condiviso gran parte del nostro percorso evolutivo finché, qualche milione di anni fa, è comparso
sulla terra il genere Homo. E sebbene gli odierni scimpanzé siano a loro volta il frutto di una lunga
storia naturale che si diparte da quella primigenia differenziazione, non è irragionevole cercare in
essi un’immagine approssimativa della nostra configurazione pre-umana.
Riconoscere lo scimpanzé che è in noi è più facile di quanto non ci si immagini. Nel suo ultimo
saggio sulla storia naturale del pensiero umano Unicamente umano (Il Mulino, traduzione di
Maurizio Riccucci, pp. 230, euro 16,00), Michael Tomasello identifica un nocciolo comune di
intelligenza individuale di cui sia gli umani, sia le grandi antropomorfe sono particolarmente dotati.
È la capacità di raggiungere uno scopo – per esempio afferrare una banana – non già agendo
direttamente sull’oggetto ma, qualora questo non sia immediatamente accessibile, elaborando
strategie più o meno sofisticate per ottenerlo. Gli esperimenti che Tomasello ha compiuto sulle
scimmie dimostrano che esse sono perfettamente in grado non solo di usare flessibilmente una
varietà di strumenti, ma anche di padroneggiare meccanismi logici complessi, inclusa la
formulazione di ipotesi, la simulazione mentale di scenari alternativi, e persino una sorta di
proto-negazione («Se A allora B; ma non-B; dunque non-A»), ossia l’operazione logica che secondo
alcuni filosofi del linguaggio (tra cui Paolo Virno) prelude alla dimensione culturale, e dunque
specificamente umana, dell’esistenza quando raggiunge la sua forma pienamente linguistica.
Ancora più sorprendentemente, gli scimpanzé di Tomasello sanno leggere la mente degli altri –
conspecifici o umani – per anticiparne le mosse, manipolarne i comportamenti, sfruttarne le azioni, e
all’occorrenza ingannarli. Se c’è una banana in giro, e se nella stanza è presente un potenziale rivale,
lo scimpanzé capisce se l’altro l’ha vista o è in grado di vederla, e magari decide di fare lo gnorri o di
distrarre l’avversario con segnali fuorvianti per batterlo sul tempo.
Sotto il profilo dell’intelligenza individuale, non c’è molta differenza tra uno scimpanzé e un bambino
di tre anni. Lo scarto sopraggiunge quando, con l’acquisizione del linguaggio, al bambino si
schiudono possibilità cognitive e comunicative che allo scimpanzé restano sbarrate: nuovi e più
complessi tipi di inferenze, espansione vertiginosa delle conoscenze cui attingere, assimilazione di
schemi sintattici e di connettivi logici che rendono sempre più articolato e più astratto il pensiero,
comparsa del dialogo interiore in quanto simulazione muta di quello esteriore, modulazione degli
atteggiamenti epistemici (sapere che, essere certi che, credere che, dubitare che, sperare che…) e
dell’espressione di stati emotivi sempre più finemente segmentati, consapevolezza di un distacco tra
ciò di cui si parla e come se ne parla, e via dicendo.
Nessuno dubita che il linguaggio giochi un ruolo cruciale nello sviluppo dell’intelligenza umana, ed è
molto verosimile che se una persona fosse allevata alla maniera di Tarzan non svilupperebbe gran
parte delle facoltà linguistico-cognitive che possiede solo in potenza.E tuttavia resta aperto l’enigma
di come la specie umana si sia munita della facoltà linguistica da cui tutta la sua storia successiva
sembra discendere. Il rischio è di restare intrappolati in un ragionamento circolare: affinché ci sia
pensiero umano (simbolico, ricorsivo e meta-rappresentativo) occorre avere acquisito le strutture del
linguaggio; ma affinché ci sia linguaggio, occorre un equipaggiamento cognitivo riconoscibilmente
umano. Come se ne esce? Se si esclude che la transizione dall’intelligenza individuale delle scimmie
a quella linguistico-sociale di Homo sapiens sia avvenuta in un solo grande balzo, l’unica via è
ipotizzare l’esistenza di una o più fasi intermedie (il famoso anello mancante) in cui il pensiero delle
grandi antropomorfe ha cominciato ad assumere tratti umani, seppure ancora pre-linguistici.
Che cosa contraddistingue il pensiero umano prima della sua specificità linguistica? Ovvero: di quale
caratteristica tipicamente umana la facoltà di linguaggio potrebbe essere l’esito adattivo, anziché (o
prima che) la causa? Semplice, risponde Tomasello: della naturale inclinazione a cooperare. Gli
umani sono fatti per coordinarsi con gli altri simili a sé in vista di scopi congiunti. Non solo: si
aspettano che anche gli altri coordinino le proprie azioni per realizzare gli obiettivi comuni.
Io so che tu sai che intendo cooperare con te. Tu sai che io so che intendi cooperare con me. Io e te
in questo momento vogliamo la stessa cosa, la vogliamo realizzare insieme, e ne siamo
reciprocamente consapevoli. In altre parole, gli umani sono animali che pensano «noi» prima ancora
di dirlo. L’intenzionalità congiunta si coglie bene nei giochi dei bambini, dove ciascun partecipante
indovina cosa serve all’altro per svolgere il suo ruolo nell’attività condivisa. Il confronto con gli
scimpanzé è illuminante. Date le stesse condizioni sperimentali, lo scimpanzé si coordina con i suoi
simili solo se riconosce il premio che potrebbe ricavare dallo sforzo congiunto; altrimenti abbandona
l’esercizio, senza che peraltro il partner piantato in asso manifesti alcun senso di impegno tradito.
Resta da capire come siamo diventati animali cooperativi, dagli scimmioni «machiavellici» che
eravamo. L’ipotesi di Tomasello è che a un certo punto dell’evoluzione (circa 400.000 anni fa) un
aumento della concorrenza alimentare abbia spinto i primi ominidi a cooperare in battute di caccia
alle grandi prede. A partire dai processi di intenzionalità individuale, fatti per la competizione, gli
ominidi avrebbero sviluppato processi più sofisticati di intenzionalità e di attenzione congiunta
(prestare attenzione all’attenzione del partner, nonché all’attenzione del partner per la propria
attenzione…), e avrebbero cominciato a selezionare gli altri come potenziali collaboratori in attività
complesse che richiedono un principio di suddivisione del lavoro. Di lì, una valanga di conseguenze
che più avanti (molto più avanti) si fisseranno nelle caratteristiche del linguaggio e delle convenzioni
sociali: la preoccupazione di presentarsi come compagni affidabili, e dunque di guardare se stessi
con gli occhi degli altri per anticiparne e condizionarne i giudizi; l’uso dei gesti a scopo informativo
(anziché meramente espressivo o direttivo), per esempio per segnalare un oggetto – un serpente, un
cervo, una buca nel terreno – pertinente all’ambiente cognitivo e alle azioni possibili dell’altro;
l’automonitoraggio degli atti comunicativi dal punto di vista variabile del ricevente, per assicurarsi
che vengano interpretati secondo le intenzioni di chi li emette; la necessità di affinare gli strumenti
comunicativi (inizialmente indici e vocalizzi mimetici, e poi pratiche comunicative sempre più
standardizzate) per evitare fraintendimenti potenzialmente catastrofici…
Senza queste condizioni preliminari, il linguaggio non avrebbe mai potuto svilupparsi. Ecco risolto –
o quantomeno spostato – il quesito dell’uovo e la gallina. «Dire che solo gli esseri umani posseggono
il linguaggio è un po’ come dire che solo gli esseri umani costruiscono grattacieli, quando la realtà è
che solo gli esseri umani, fra i primati, costruiscono rifugi permanenti di qualunque tipo. Il
linguaggio è il coronamento della cognizione e del pensiero unicamente umani, non il loro
fondamento» .
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