1= 3 2+ (1 2 3) 3 2+ 3 3 2+ 2+ 2+ 3 3 2+... Appunti delle lezioni del precorso Equazioni algebriche: sulla risoluzione dell’equazione ax2 + bx + c = 0 La formula risolutiva per radicali Credo sia noto a tutti che la soluzione dell’equazione si ottiene dalla formula √ −b ± b2 − 4ac x= 2a (1) (2) e che la formula (2) si può applicare se la quantità sotto radice è positiva. 1 Ma torniamo un passo indietro e chiediamoci cos’è una soluzione? È una domanda fintamente “ingenua” prima di rispondere bisogna anche ragionare un po’ su come “leggiamo” l’equazione (1). La prima lettura è forse quella che darebbe un “tecnico” che trova la (1) e la (2) in un qualche manuale di matematica a uso di chi debba fare di conto. Per lui la (1) sta a rappresentare una delle infinite equazioni che si possono ottere sostituendo ai coefficienti dei numeri (p.e. a = 1, b = 1, c = −2). Per costui quindi la soluzione della (1) è un numero che sostituito alla variabile x trasforma la (1) (nel caso “concreto” che ci interessa) in un’uguaglianza tra numeri. Prendiamo ancora l’esempio x2 + x − 2 = 0. Questa equazione ha per soluzione x = 1; infatti 1 al quadrato fa 1, più 1 fa 2 e quindi se sottraiamo 2 otteniamo zero. Che legame c’è quindi tra una soluzione e la formula (2)? La (2) è una formula risolutiva, ovvero una “funzione” dei coefficienti dell’equazione che fornisce la soluzione una volta vengano sostituiti i valori numerici dei coefficienti. D’altra parte possiamo pensare a un’algebra puramente “letterale” secondo le regole che probabilmente avete imparato a scuola, e allora la (2) definisce proprio le soluzioni, nel senso che una volta preso una qualsiasi delle due possibili determinazioni di x date da (2), sostituita alla x in (1) e svolti i calcoli sempre secondo le prescrizioni del calcolo letterale otteniamo dalla (1) l’identità 0 = 0 La stessa molteplicità di interpretazione si ha per gli stessi polinomi: da un lato posso pensare a x2 + x − 2 come a una “funzione” che a ogni possibile valore della “variabile” x (quindi un numero) associa il numero ottenuto svolgendo i calcoli. Però posso pensare anche a x2 + x − 2 come un singolo elemento di un insieme (quello dei polinomi a coefficienti interi, p.e.) sui cui elementi posso definire certe operazioni algebriche (somma e prodotti tra polinomi, fattorizzazione). Da dove viene fuori la formula (2)? Iniziamo con un caso “speciale” che (apparentemente) non è legato con la formula. Supponiamo che l’equazione (di secondo grado) si presenti nella forma: (x − r1 )(x − r2 ) = 0 . (3) Questo caso dovrebbe essere ”ovvio”: prendendo x = r1 oppure x = r2 , uno dei due fattori del prodotto si annulla e la (3) è ”soddisfatta”. La forma (3) è veramente ”speciale” come vedremo poi. Forse ricorderete che alla forma (3) si può facilmente ricondurre il caso del binomio (uguagliato a zero) x2 − a2 = 0 (come?). 1 La formula (2) ha senso anche se la quantità sotto radice è negativa, a patto di “estendere” il concetto di “numero” e definire i numeri complessi. 1 Quest’ultimo è un caso speciale di equazione della forma: x2 + c = 0 che riscriviamo, ponendo c = −q x2 = q (4) Dobbiamo richiedere che q ≥ 0 (il primo membro di (4) è positivo qualsiasi sia x), dopo di che le soluzioni √ √ della (4) sono immediate 2 : x = q e x = − q √ (ovviamente da qui si può tornare indietro e scrivere la (4) come x2 − ( q)2 = 0.) Ancora un passo avanti! cosa fare se abbiamo (x − p)2 = q ? (5) Semplice: le soluzioni ora possono ricavarsi pensando che l’incognita sia (x − p) piuttosto che x e quindi √ √ come per la (4) otteniamo x − p = q e x − p = − q, ovvero x=p± √ q (6) dimostrazione della formula risolutiva Ci siamo quasi! Sviluppiamo prima il quadrato nella (5) (e sommiamo −q a entrambi i membri) x2 − 2px + p2 − q = 0 (7) e chiediamoci ora se è possibile trasformare il primo membro della (1) nella forma del primo membro della (7). La risposta è sı̀: iniziamo dividendo per a (possiamo immaginare a 6= 0 altrimenti non avremmo un’equazione di secondo grado) e interpretiamo il termine b/a come il doppio prodotto di uno sviluppo del quadrato di un binomio (x − p)2 . Dovremo avere quindi p = −b/(2a). Infine aggiungiamo e togliamo il quadrato di p, ovvero b2 /(4a2 ) e otteniamo b2 b b2 x2 + 2 x + 2 = 2 − c 2a 4a 4a da cui segue immediatamente la formula (2). Significato dei coefficienti e “regola di Cartesio” Tornando alla forma (3) ed eseguendo la moltiplicazione abbiamo (x − x1 )(x − x2 ) = x2 − (x1 + x2 ) x + x1 x2 Quindi il coefficiente del termine di primo grado è la somma, cambiata di segno, delle radici, mentre il termine noto è il prodotto delle radici (il coefficiente del termine di secondo grado deve essere a = 1, altrimenti prima di deve dividere per a). Da qui si ricava facilmente la “regola dei segni” di Cartesio: 1) se ci sono due “variazioni” ovvero due cambiamenti di segno tra i coefficienti, ordinati per potenze decrescenti della x, allora le radici (se ci sono) sono entrambe positive (prodotto e somma della radici sono entrambi positivi); 2) se ci sono due “permanenze” ovvero i segni dei coefficienti sono tutti uguali, allora le radici (se ci sono) sono entrambe negative (prodotto positivo ma somma della radici negativa); 3) se c’è una variazione e una permanenza (un cambiamento di segno tra il coefficiente dei secondo grado e quello di primo, mentre il termine noto ha il segno del coefficiente del termine di primo grado grado) allora 2 Questa è la definizione di radice quadrata 2 le radici ci sono e sono una positiva e una negativa e quella positiva è più grande, in valore assoluto, di quella negativa (il prodotto è negativo quindi le radici sono discordi, mentre la somma è positiva); 4) infine se abbiamo una permanenza e una variazione le radici sono ancora una positiva e una negativa, ma la negativa è più grande in modulo di quella positiva. Domanda: perché nei primi due casi c’è bisogno di chiedere esplicitamente che le soluzioni ci siano, mentre negli altri due casi no? Legami tra la fattorizzazione e le radici. Se r è una soluzione, allora (x − r) divide esattamente il polinomio. Quindi se la (1) si può scrivere come a(x − r1 )(x − r2 ) = 0, dove r1 e r2 sono le due radici. Per dimostrare questa affermazione si ricorre al procedimento di divisione tra polinomi che assai simile alla divisione tra numeri (le potenze di x hanno lo stesso ruolo delle potenze di 10 nell’algoritmo della divisione). Per dividere x2 + bx + c (il dividendo) per x − r (il divisore), moltiplichiamo il divisore per x e sottraiamo. Otteniamo un “resto” uguale a (b + r)x + c. Moltiplichiamo ora x − r per (b + r) e sottraiamo ancora. il resto ora non contiene più la x ed è dato da r2 + b r + c. Se vogliamo che il divisore divida esattamente il dividendo, il resto deve essere zero, ovvero r2 + b r + c = 0. Ma questa è ancora l’equazione di partenza: quindi il binomio x − r divide il trinomio x2 + b x + c se e solo se r è una radice di questo trinomio. Formula risolutiva per l’equazione di terzo grado La formula (2) dà la soluzione dell’equazione di secondo grado “per radicali” ovvero tramite una successione finita di operazioni di somma, prodotto (o divisione) e di estrazione di radici (quadrate). Questo è il senso che si dà comunemente alla parola “risolvere” quando si parla di equazioni algebriche2 . È forse noto che anche le equazioni di terzo e quarto grado possono essere risolte per radicali, cioè anche per esse si può scrivere una formula risolutiva che contiene un numero finito di operazioni algebriche elementari ed estrazioni di radici. Queste formule sono la gloria della scuola matematica italiana del Rinascimento e costituiscono la prima rilevante scoperta della matematica che va oltre le conoscenze stabilite dai matematici greci. Per prima cosa osserviamo che ogni equazione di terzo grado ammette almeno una radice (reale). Questo fatto può essere “dimostrato” con un argomento di “continuità”: per valori “molto” negativi il polinomio assume valori negativi (supponendo di aver positivo, o meglio uguale a 1, il coefficiente di x3 ) mentre per valori “molto” positivi diventa positivo e quindi deve annullarsi per qualche valore intermedio (rendere rigorosa questa argomentazione richiede lo sviluppo dell’analisi matematica). Inoltre osserviamo che è sufficiente determinare una radice dell’equazione; una volta determinata, possiamo scomporre il polinomio con l’algoritmo di divisione e trovare le altre due (se ci sono) risolvendo l’equazione di secondo grado che risulta dalla fattorizzazione. Infine, e questa è la prima osservazione specifica fatta dagli algebristi italiani del ’500, per risolvere il problema generale basta saper risolvere l’equazione x3 − px = q, (3.1) Infatti se si ha un equazione della forma x3 + a1 x2 + a2 x + a3 = 0 la si riporta alla forma (3.1) (per la variabile y) ponendo x = y − a31 . 2 Meglio sarebbe parlare al passato: dalla fine del XVIII secolo (d’Alembert) è noto il Teorema fondamentale dell’Algebra che dice che ogni equazione algebrica (a coefficienti complessi) ha almeno una radice (complessa). Applicando poi la formula di riduzione ne segue che ogni equazione algebrica di grado n ha esattamente n soluzioni (non necessariamente distinte, vanno quindi “contate” più volte quelle che più volte compaiono durante il processo di riduzione). Sapere che una soluzione esiste non significa però averla determinata ne tantomeno avere una formula generale per determinarla qualunque siano i coefficienti, in particolare per determinarla con un numero finito di operazioni di un tipo assegnato. 3 Vediamo come si risolve la (3.1) (questo metodo si fa risalire a Scipione dal Ferro, e venne pubblicato per la prima volta da Cardano, 1545, Ars Magna). Cerchiamo una soluzione della forma x = u + v. Sostituendo a primo membro si ha x3 − px = u3 + v 3 + (3uv − p)(u + v) (3.2) Se scegliamo u e v tali che uv = p3 il secondo addendo dello sviluppo della (3.2) si annulla e quindi il numero x = u + v sarà soluzione se abbiamo contemporaneamente uv = p e u3 + v 3 = q 3 (3.3) 3 Ma uv = p3 è equivalente a u3 v 3 = p27 . Quindi ci siamo ridotti a cercare due numeri u, v i cui cubi u3 , v 3 hanno somma e prodotto assegnato. Ma la risoluzione di quest’ultimo problema è ben nota dalla teoria delle equazioni algebriche di secondo grado: u3 , v 3 sono le due radici dell’equazione X 2 − qX + p3 =0 27 (ricorda che il prodotto delle radici è il termine noto dell’equazione x2 + bx + c, mentre la somma delle radici è il coefficiente del termine di primo grado cambiato di segno) Abbiamo quindi r r q q2 p3 3 q q2 p3 3 u = + − , v = − − , 2 4 27 2 4 27 da cui la formula di Cardano s x= 3 q + 2 r q2 4 − p3 27 2 s 3 + q − 2 r 3 p3 q2 − 4 27 (3.4) La formula (3.4) sembra aver senso solo se si ha q4 − p27 > 0. Come vedrete facilmente una volta che vi sarete impadroniti dei metodi del calcolo differenziale, se p e q sono entrambi positivi, questo è il caso in cui 3 2 la (3.1) ha una sola radice reale. Nel caso q4 − p27 < 0, sempre con p e q positivi, le radici reali sono tre (ma una sola positiva) e apparentemente nessuna dovrebbe corrispondere alla formula (3.4). Ma gli algebristi italiani del ’500 ebbero il “coraggio” di ignorare il problema e svolgere i calcoli con radici di numeri negativi come se queste “esistessero”. Il seguente esempio si trova negli scritti di Rafael Bombelli: prendiamo l’equazione x3 − 15x = 4; è facile 2 3 verificare che x = 4 è una radice di questa equazione. Ma siamo nel caso q4 − p27 < 0 e la formula di Cardano p p √ √ √ ci dà x = 3 2 + −121 + 3 2 − −121. Introduciamo il “numero” −1 e supponiamo di poter fare con √ 2 esso tutti i calcoli dell’aritmetica con la regola aggiuntiva che −1 = −1 (questi “numeri” furono detti impossibili o immaginari e quest’ultimo nome è tuttora usato per indicare la parte “non reale” di un numero complesso). √ Quello di cui si accorse Bombelli è che se si sviluppa (2 + −1)3 , usando le regole del cubo del binomio, si ottiene √ √ √ √ (2 + −1)3 = 23 + 3 · 22 −1 + 32 · 2( −1)2 + ( −1)3 √ √ √ √ √ Ma abbiamo stabilito che ( −1)2 = −1 e ( −1)3 = −1 · −1 = − −1, e quindi otteniamo (nota che −1 non si√ “somma” ai numeri usuali, e che un “numero” in questa nuova algebra ha di conseguenza la forma a + b −1 dove a e b sono numeri del vecchio tipo). √ √ 2 + 11 −1 = 2 + −121 Analogamente (2 − √ −1)3 = 2 − 4 √ −121 da cui si ottiene la soluzione cercata x=2+ √ −1 + 2 − √ −1 = 4 Nota: il successo di questa “strategia” di risoluzione è dovuto alla possibilità di ricondurre la soluzione di una generica equazione di terzo grado alla risoluzione di un’equazione di secondo grado. Analogamente L. Ferrari costruı̀ una formula risolutiva per le equazioni di quarto grado riducendole a equazioni del terzo grado. Nei secoli successivi si tentò invano di fare lo stesso per equazioni di grado superiore. La parola fine a questa ricerca venne posta dal lavoro di P.Ruffini, un allievo di Lagrange, che dimostrò che per una generica equazione di quinto grado non è possibile costruire un polinomio di terzo o quarto grado che fornisca le radici dell’equazione di partenza. Su queste basi N. Abel potè dimostrare, nel 1824, che una generica equazione di quinto grado non è risolubile per radicali. In seguito E. Galois stabilı̀ i criteri generali per la risolubilità di un’equazione di grado qualsiasi. Diseguaglianze Un altro cavallo di battaglia: la disequazione ax2 + bx + c > 0 (8) Anche qui si deve rispondere alla domanda, un po’ meno ingenua, di cosa si intende per soluzione della (8). Questa volta la soluzione è un “insieme” di numeri, tutti quelli che, sostituiti alla x trasformano la (8) in una disuguaglianza tra numeri vera. Prendiamo l’esempio x2 +x−2 > 0. Ora x = 2 è una soluzione poiché sostituendo otteniamo 4+2−2 = 4 > 0. Ma ovviamente non è la sola soluzione. Allora il problema diventa quello di classificare tutte le soluzioni. La risposta è data in termini di altre disequazioni, questa volta di primo grado “risolte”, cioè di espressioni della forma, p.e. x > 1. (9) (una generica disequazione di secondo grado si presenterà nella forma ax + b > 0) I numeri che soddisfano la (9) sono tutti i numeri maggiori di uno (ho semplicemente “letto” la (9)). Questi numeri sono tutti soluzioni di x2 + x − 2 > 0, ma non sono tutte. Ci sono anche i numeri minori di meno 2 (x < −2), e l’insieme di tutte le soluzioni è dato dall’unione di questi due insiemi, ovvero da tutti i numeri che sono o minori di meno 2 o maggiori di 1. Un modo che si usa spesso per designare questo insieme è: l’insiemi dei valori esterni all’intervallo [−2, 1]. Gli estremi di questo intervallo sono proprio le radici della l’equazione x2 + x − 2 = 0, la cosa non sorprende per un “intuitivo” argomento di “continuità”: prima positivo poi negativo e quindi zero quando si cambia di segno! La giustificazione viene spesso data tirando in ballo il grafico di una parabola .... Ma è molto più semplice tornare alla fattorizzazione a(x − r1 )(x − r2 ) del binomio. Nel nostra caso abbiamo (x + 2)(x − 1). In questo caso quindi abbiamo il prodotto di due numeri: il primo è negativo se x < −2 e positivo se x > −2, il secondo è negativo se x < 1 e positivo se x > 1. Il prodotto di due numeri è positivo se sono entrambi positivi o entrambi negativi (concordi) e quindi .... Ovviamente se il coefficiente a del temine di secondo grado è negativo, il segno del prodotto è a sua volta modificato dalla moltiplicazione per a e “scambia” le zone di positività e di negatività tra loro. Cosa succede se le radici reali non ci sono? Riscriviamo il trinomio in (8) isolando il “quadrato” b b2 4ac − b2 a(x2 + x + 2 ) + a 4a 4a Non essendoci radici reali, la quantità 4ac − b2 è positiva, quindi il nostro trinomio risulta, per ogni x, la somma di due quantità, entrambe positive, una moltiplicata e una divisa per a. Ne segue che il segno del trinomio è sempre quello del coefficiente a del termine di secondo grado. 5 La radice di 2 Un’altra cosa che probabilmente sapete: la radice di 2 è un numero irrazionale. Ma cosa significa irrazionale? Prima risposta: non è un numero razionale, ovvero non esiste alcuna coppia (p, q) di numeri interi tale √ 2 = p/q. La cosa è “nota” fin dall’antichità, e la scoperta di questo fatto si fa risalire alla scuola Pitagorica (in effetti per i Pitagorici la faccenda si poneva in termini geometrici come incommensurabilità tra il lato del quadrato e la sua diagonale: non è possibile trovare due numeri p e q tali che il segmento costruito prendendo p volte il lato sia uguale al segmento ottenuto prendendo q volte la diagonale; per Pitagora numero significa 1,2,3,4,5,.....). La dimostrazione di questo fatto è il primo, splendido, esempio di dimostrazione per assurdo. Supponiamo, per assurdo, che la radice di due sia razionale, ovvero che esistano deu numeri interi p e q √ tali che 2 = p/q. Possiamo assumere che questi due numeri siano primo tra loro (ovvero privi di divisori comuni, √ se cosı̀ non fosse basta dividere numeratore e denominatore per i fattori comuni). Da 2 = p/q otteniamo 2 = (p/q)2 , e quindi 2q 2 = p2 . Abbiamo quindi che p2 è un numero pari. Ma questo è possibile solo se p è pari (il quadrato di un numero dispari non è divisibile per due). Quindi esiste un intero r tale che p = 2r. Da questo otteniamo 2q 2 = (2r)2 , e quindi q 2 = 2r2 . Ma questo, per la stesso motivo invocato prima, implica che q deve essere un numero pari. E questo è in contraddizione con l’assunzione che p e q siano primi tra loro. √ Una volta dimostrato che 2 non è un numero razionale, bisogna però chiedersi cos’è∗ La risposta si trova nella teoria delle proporzioni di Euclide (fine del IV secolo a.C.) ma rimase fondamentalmente incompresa fino seconda metà del XIX secolo, quando Weierstrass e Dedekind dettero la definizione di “numero reale”, che nella sostanza riprendeva la definizione euclidea. √ √ Vediamo cosa succede se partiamo da un’equazione particolare che ha 2 come radice (o meglio 2 − 1), e tentiamo di “calcolare” quanto vale questa soluzione. Prendiamo come equazione x2 + 2x − 1 = 0 (1) √ che “sappiamo” che ammette come unica radice positiva r = 2 − 1. Riscriviamo la (1), portando 1 a destra del segno di uguale e dividendo per 2 + x otteniamo x= 1 . 2+x (2) Quindi la nostra radice r è caratterizzata da fatto di risolvere l’equazione (2) ovvero di soddisfare all’uguaglianza 1 r= . (3) 2+r Poiché r è un numero positivo, dalla (3) segue r< 1 2 (4) r> 2 5 (5) (perché?) e, di conseguenza, (ancora una volta, perché?). Le disuguaglianze qui sopra sono state ottenute dalla (3) sostituendo alternativamente una “minorazione” e una “maggiorazione” di r: ogni volta che nel membro di destra della (3) sostituisco r con qualcosa di minore ∗ In verità si potrebbe “tornare indietro” e chiedersi cosa sia un numero razionale, e poi accorgersi che dobbiamo chiederci cosa sia un numero intero e infine cos’è un numero naturale. E questa è una domanda veramente difficile! 6 di r ottengo un numero maggiore di r e viceversa se lo sostituisco con qualcosa di maggiore. Posso cosı̀ generare due “successioni” di numeri razionali con le regole r0 = 0 , R0 = 1 , 2 rn = 1 , 2 + Rn−1 Rn = 1 . 2 + rn (6) Possiamo dimostrare che la successione dei minoranti, {rn }, è crescente, mentre quella dei maggioranti, {Rn }, è decrescente, ovvero, per ogni n, si ha rn < rn+1 e Rn > Rn+1 . La dimostrazione utilizza il Principio di Induzione∗∗ , ovvero procede facendo vedere che r0 < r1 , e R0 > R1 , rn < rn+1 , e Rn > Rn+1 , rn+1 < rn+2 , e Rn+1 > Rn+2 . e poi che dalla assunzione che sia vero segue (ovvero si dimostra) che Infatti abbiamo 0 = r0 < r1 = 2 5 e 1 2 = R0 < 5 12 e 1 1 1 − = (Rn−1 − Rn ) 2 + Rn 2 + Rn−1 (2 + Rn )(2 + Rn−1 ) 1 1 1 1 1 − (rn − rn−1 ) , = = (2 + Rn )(2 + Rn−1 ) 2 + rn−1 2 + rn (2 + Rn )(2 + Rn−1 ) (2 + rn−1 )(2 + rn ) rn+1 − rn = ovvero le differenze rn+1 − rn e rn − rn−1 hanno lo stesso segno. Analogamente si procede per {Rn }. Possiamo infine mostrare che i termini {rn } e {Rn } di queste successioni si “avvicinano” al crescere di n. Infatti, confrondando i termini delle due successioni corrispondenti allo stesso indice n, abbiamo 0 < Rn+1 − rn+1 = 1 1 Rn − rn+1 R n − rn − < < 2 + rn+1 2 + Rn 4 4 (7) quindi a ogni nuovo “passo” la differenza tra la magiorazione e la minorazione si riduce a meno di un quarto della differenza precedente (in effetti il rapporto è ancora minore). Poiché abbiamo R0 −r0 = 1/2, applicando ripetutamente la (7) otteniamo 1 0 < Rn − rn < 2n+1 2 e quindi la differenza tra la maggiorazione e la minorazione diventa minore di qualsiasi numero razionale positivo quando n cresce. Per capire meglio cosa abbiamo fatto proviamo a fare la stessa “costruzione” della soluzione dell’equazione x2 + 2x = 3 di cui x = 1 è l’unica soluzione positiva. Possiamo ora cercare di dare una risposta alla domanda: “cos’è” la radice di 2? Nota che la domanda chiave non è quanto vale la radice di due, ma di che razza di numero (o meglio oggetto) si tratta. Il calcolo precedente è un esempio della risposta generale data da Cantor che per la domanda “che cosa sono i numeri irrazionali?” propose come risposta che essi siano successioni “convergenti” di numeri razionali. Una altra definizione di numero reale (equivalente a quella di Cantor e apparsa lo stesso anno) è quella di R. Dedekind (1872): un numero reale è una sezione (A, B) dei numeri razionali definita dalle seguenti regole ∗∗ Vedi p.e. http://it.wikipedia.org/wiki/Principio di induzione 7 i) ogni numero razionale appartiene a uno e uno solo dei sottoinsiemi A o B dell’insieme dei numeri razionali; ii) ogni numero dell’insieme A è minore di ogni numero dell’insieme B. Da queste due proprietà segue che le classi sono “contigue”, ovvero che dato un qualsiasi numero razionale ε > 0 esistono due numeri razionali aε ∈ A e bε ∈ B tali che bε − aε < ε. Se cosı̀ non fosse, esisterebbe ε0 > 0 tale che, per ogni coppia di numeri a ∈ A e b ∈ B, si avrebbe b − a > ε0 . In questo caso diremo che le classi sono separate, proviamo che in questo caso devono esistere dei numeri razionali che non appartengono ad alcuna delle due classi. Procediamo per assurdo assumendo che le due classi siano separate e che la loro unione coincida con l’insieme di tutti i razionali. Prendiamo due qualsiasi numeri razionali a0 ∈ A e b0 ∈ B e sia c0 = (a0 + b0 )/2 la loro media. Poiché c0 è un numero razionale, esso deve appartenere a una delle due classi: per fissare le idee supponiamo c0 ∈ A. Poniamo ora a1 = c0 , b1 = b0 e definiamo c1 = (a1 + b1 )/2 e procediamo come prima (ovviamente se c0 fosse stato un elemento di B avremmo preso a1 = a0 , b1 = c0 ). In questo modo generiamo una successione di numeri razionali tale che an ∈ A, bn ∈ B e bn − an = a0 + b0 . 2n Per n sufficientemente grande si ha a0 + b0 < ε0 2n e quindi abbiamo un assurdo con l’ipotesi che le classi siano separate. Si tratta ora di far vedere un certo numero di proprietà di questa definizione. La prima è che i numeri reali contengono al loro interno i numeri razionali; ovvero che ogni numero razionale q è definibile come una sezione dei numeri razionali (in effetti ci sono due possibili sezioni , una in cui q ∈ A e per ogni razionale r > q si ha r ∈ B, la seconda in cui q ∈ B e per ogni razionale p < q si ha p ∈ A; per evitare ambiguità scegliemo di “eliminare” le sezioni del primo tipo, ovvero quello dove A = {p ≤ q} e B = {r > q}, prendendo solo sezioni del secondo tipo). Dedekind mostrò che è possibile estendere tutte le proprietà dei numeri razionali e delle operazioni tra numeri razionali a questi nuovi oggetti. Sistemi Un altro argomento che molti hanno affrontato è lo studio dei sistemi di due equazioni (lineari) in due incognite, ovvero ax + by = e (10) cx + dy = f dove a, b, c, d, e, f sono “pensati” come numeri noti e x, y rappresentano le incognite da determinare. Soluzione ora significa una coppia di numeri (x, y) che sostituiti al posto di x e di y nella (10) (attenzione all’ordine) trasformano le due equazioni in due uguaglianze tra numeri. Come si risolve il sistema (10)? Ci sono molte “strategie” di risoluzione. Quelle che forse è nota a tutti va sotto il nome di sostituzione: si sceglie una delle due equazioni, e la si pensa come un’equazione in una sola incognita, “facendo finta” che l’altra incognita sia nota (ovvero trattandola al pari di un coefficiente). Risolvendo si ottiene il “valore” dell’incognita scelta “in funzione dell’altra”; a questo punto si sostituisce questo valore nella seconda equazione che diventa cosı̀ un’equazione nella sola seconda incognita. Esempio: i) risolvo la prima equazione rispetto a x e ottengo x= e − by a ii) sostituisco nella seconda equazione c e−by a + dy = f ovvero (d − ce bc )y = f − a a 8 da cui otteniamo y= af − ce ad − bc iii) torno nell’espressione di x e sostituisco il valore di y e ho x= ed − bf ad − bc Inutile dire che se partiamo, p.e., dalla seconda equazione e la risolviamo, p.e., rispetto a y, alla fine si ottengono le stesse formule risolutive, purché queste abbiano senso. Ma questo richiede che la quantità ad − bc non sia nulla. Cosa accade se ad − bc = 0? Possiamo riscrivere questa uguaglianza come a b = c d Chiamiamo g questo rapporto. Dunque abbiamo che, qualunque siano x e y ax + by = g(cx + dy) Ora se il sistema ha soluzione, il primo membro deve essere uguale a e mentre il secondo deve essere uguale a g volte f . Quindi abbiamo un alternativa: 1) e = gf ovvero ec − af = ed − bf = 0; in questo caso abbiamo ax + by − e = g(cx + dy − f ) quindi ax + by = e se e solo se cx + dy = f . In altre parole abbiamo scritto due volte la stessa equazione, ovvero abbiamo una sola equazione per due incognite e di conseguenza infinte soluzioni. 2) e 6= gf ; in questo caso abbiamo e = ax + by = g(cx + dy) 6= gf ; quindi le due equazioni sono incompatibili e non esiste soluzione al sistema di equazioni. 9