7 - La Rivista della Scuola

annuncio pubblicitario
7
LA RIVISTA DELLA SCUOLA
Anno XXX, 1/31 dicembre 2008, n.4
FORMAZIONE INTERCULTURALE
Educare alla conoscenza dell’Altro
L’apprendimento cooperativo
Stereotipi e pregiudizi
Le relazioni interculturali
a storia dell’uomo è sempre stata
caratterizzata fin dalle origini da una
conflittualità effettiva o latente tra
soggetti individuali o collettivi. Il tema
della lotta contro l’Altro, ha assunto nel tempo
nomi diversi: xenofobia, etnocentrismo, razzismo e forme differenti: esclusione, segregazione e discriminazione. Le relazione interetniche si sono così contraddistinte da atti
discriminatori limitati o consolidati fino a forme
istituzionalizzate oppure totalizzanti. Gli antichi greci chiamavano “barbari” coloro che non
parlavano la loro lingua, definendo così le
espressioni “balbettate” incomprensibili. In
seguito il termine ha acquisito un significato
più ampio, fino a definire la figura dello straniero. Lo straniero, è il “barbaro”, colui che
non parla la lingua, che non appartiene alla
comunità, che non ha un volto familiare. Nella
definizione moderna lo straniero è l’immigrato
che ci costringe a mette in discussione le
nostre cer tezze e quelle concezioni sul
mondo che abbiamo sempre dato per scontate. Non capiamo perché l’immigrato non
accolga pienamente il nostro modello di vita
come normale e appropriato, come la più vantaggiosa risoluzione a tutti i probabili dilemmi.
Veniamo investiti da emozioni contrastanti: di
fascino e avversione, d’interesse e spavento.
Una sfida alla nostra identità, all’auto-rappresentazione di sé come individui unici, con
peculiarità proprie, forti e differenti da quelle
altrui. Ciò avviene perché lo straniero è portatore di un diverso mondo culturale che provoca disorientamento e in un certo qual modo
sfida l’identità del gruppo, le sue certezze e
un determinato modo di “vedere le cose”. Pertanto l’immagine che abbiamo dell’Altro è
spesso dominata da stereotipi, ossia da “una
rappresentazione cognitiva o una impressione
di un gruppo sociale formata associando a
quel gruppo particolari caratteristiche ed emozioni. Le impressioni talvolta distorte e spesso
approssimative che ci formiamo dei gruppi
possono permeare il nostro pensiero e diventare la base del pregiudizio e della discriminazione” (E. R. Smith, D. M. Mackie, 1998).
Quindi, se lo stereotipo è un’immagine che
ci siamo costruiti della realtà, il pregiudizio è
“inteso come un atteggiamento etnico negativo, vale a dire una predisposizione a percepire, giudicare, agire in maniera sfavorevole nei
confronti di appartenenti a gruppi etnici diversi
dal proprio” (Mazzara B. M., 1996). Gli stereotipi e i pregiudizi sono così il risultato di una
complessa interazione fra processi cognitivi e
dinamiche sociale. Per questa ragione non si
può parlare di una causa del pregiudizio, ma
di una serie di probabili motivazioni:
- la personalità autoritaria , riguarda una
impostazione individualistica del pregiudizio,
caratterizzata da quegli individui animati da
ostilità e conflitti interiori che dirottano la propria animosità verso il gruppo-bersaglio di
riferimento;
- le influenze sociali, indirizzano gli atteggiamenti dei bambini quanto quelli degli adulti
ad assumere determinati compor tamenti
compresi quelli discriminatori;
- i processi cognitivi , agiscono al fine di
interpretare le informazioni confermando i
pregiudizi già formati;
- l’ identità sociale , definisce la nostra
appartenenza ad un gruppo percependo i
suoi componenti come nostri simili attribuendogli persino caratteristiche personali analoghe alle nostre, ma allo stesso tempo ciò
rende palesi le differenze con un gruppo
estraneo.
L’Altro viene, dunque, rappresentato come
qualcosa di diverso da sé, distinguendo il
gruppo di appartenenza, l’ingroup, dal gruppo
esterno, l’autgroup. In tal modo le distanze tra
“noi” e “loro” vengono amplificate e le differenze accresciute. É quindi intrinseco un “autofavoritismo” a discapito dell’Altro, in quanto si
tende a considerare la propria cultura come la
migliore possibile.
Nella maggioranza dei casi il pregiudizio
non si fonda su una conoscenza diretta dell’Altro, bensì su un preconcetto, su un sentito
dire, su un’accusa infondata. É sufficiente
sentir parlare male di un gruppo estraneo per
suscitare in noi sentimenti o emozioni negative come l’odio e la repulsione. Questo non
rende il pregiudizio certo meno radicato, anzi
mostra una tendenza irrazionale resistente al
L
di
GIOVANNI D’ANGIÒ, ARIANNA RECCO, PAOLA OTTOBRE
cambiamento. Questo accade perché gli stereotipi si formano basandosi su condizioni
che possono risultare distorte. Per qualche
ragione si presta maggiore attenzione agli
elementi estremi o magari non esatti. Si tende
di conseguenza ad effettuare delle semplificazioni, cogliendo gli elementi salienti, ovvero le
informazioni che sono più facilmente accessibili e agevolmente integrabili. Per cui gli stereotipi tendono ad autoperpetuarsi, eliminando le informazioni incongruenti che in qualche
modo minacciano lo stereotipo stesso. Lo stereotipo diventa, allora, un meccanismo per
semplificare la realtà, necessario per gestire
la complessità del reale. Tuttavia gli stereotipi
non sono frutto solo di giudizi sommari, ma
anche di giudizi ponderati, qualora si vada
alla ricerca di informazioni che confermino le
nostre aspettative e convinzioni. Ma avere un
pregiudizio non significa per forza tradurre
una valutazione negativa in un atto discriminatorio. In effetti fra pregiudizio e comportamento entrano in gioco fattori di ordine socioculturale, ma anche economico-politico. Un
esempio è la figura del lavoratore immigrato
che viene ad identificarsi come colui che ruba
il lavoro, o peggio dilagano facili affermazioni
come: “gli algerini sono ladri, i senegalesi
fanno i protettori, i tunisini gli spacciatori”. Ne
consegue che lo straniero diviene la causa e
il diretto responsabile di tutti i “mali” della
nostra società e nella sua eliminazione si
legge la soluzione a tutte queste problematiche. Se l’arrivo dell’emigrato manda in crisi le
nostre strategie del vivere sociale, pensiamo
al suo disorientamento di fronte a “noi”. Con il
proprio bagaglio di certezze che porta con sé
dal suo Paese, l’emigrato vive in bilico tra due
mondi senza appartenere interamente a nessuno dei due. Nel nuovo contesto socio-culturale l’emigrato manifesta la consapevolezza di
essere por tatore di una cultura che non
sarebbe giusto rinnegare, alla ricerca di uno
spazio di espressione dove non sono solo le
culture ad incontrasi, ma le persone con
sogni, dubbi e angosce per il domani. Vivere
con lo straniero mette “lui” e “noi” di fronte alla
reciproca capacità di mettersi nei panni dell’Altro, alla capacità di farsi altri diversi da sé.
Ecco dunque la difficoltà di riconoscere il
valore delle differenze.
Tuttavia il solo contatto diretto tra membri di
gruppi diversi a volte non è sufficiente per
superare i preconcetti e ridurre il pregiudizio.
La tendenza al conservatorismo neutralizza
l’acquisizione di nuove informazioni che
avrebbero potuto contribuire a diminuire la
distanza percepita. Il modo più efficace per
trasmettere la realtà culturale altra “è quello di
prendere in considerazione le concezioni dell’essere persona: le fondamenta delle possibilità umane, le azioni, le idee sul sé, l’espressione delle emozioni. Così si può riuscire a
penetrare dentro l’evidente omogeneizzazione delle forme istituzionali della vita sociale
contemporanea” (Marcus G. E., Fischer M. M.
J.,1998). Questo perché ad incontrarsi non
sono le culture, ma uomini e donne, ridotti in
categorie generiche, che rischiano la spersonalizzazione a limite della non-visibilità come
persone.
Il girotondo a Parigi, 2003,
Foto di Marc Paygnard
L’integrazione interculturale
nella scuola
La presenza di alunni stranieri nella scuola,
può rendere più evidenti alcuni dei meccanismi descritti. La scuola deve scontrarsi con
queste problematiche attraverso un approccio
all’educazione interculturale, con l’obiettivo di
favorire l’incontro tra persone di culture diverse. L’educazione interculturale come “educazione alla diversità” deve tendere verso la
“convergenza”, mirando in maggior misura
alla ricerca di ciò che unisce. Le strategie d’inclusione richiedono negli educatori, negli
insegnanti e nei genitori uno sforzo di acquisizione di competenze, di capacità di osservazione e di responsabilità che si concretizzino
in progetti. La tematica dell’interculturalità
deve essere introdotta secondo una prospettiva trasversale ed interdisciplinare in grado di
rispondere agli aspetti cognitivi e relazionali,
evitando il rischio di de-contestualizzazione e
di folklorizzazione delle diversità culturali. La
dimensione interculturale deve guidare il
sapere scolastico come obiettivo di uguaglianza e di coesione per la formazione alla diversità. Questa modalità consente ai ragazzi di
accostarsi non solo a diversi “contenuti”, ma
anche a strutture e modi di pensare differenti.
Rifiutare il razzismo significa, dunque, osteggiare l’edificazione dell’immagine dell’Altro
come antagonista ostile, con un’idea essenzializzata e stereotipata di esso. Occorre programmare delle didattiche inclusive dirette a
combattere in modo specifico l’amplificazione
delle differenze come l’antisemitismo, l’islamofobia e l’antiziganismo. Nello specifico il
racconto della Shoah dovrebbe analizzare la
relazione tra storia e memoria contro ogni
forma d’intolleranza e violenza, ed evitare la
negazione o la distorsione degli accadimenti.
L’islamofobia o l’ideologia anti-mussulmana è
frutto di un’immagine omogeneizzata dell’Islam collegata ad azioni terroristiche, violazione dei diritti umani, conflitti e crisi internazionali che suscitano sentimenti di angoscia e
paura. La conoscenza dell’Islam dovrebbe
essere diretta a temi legati all’arte, alla letteratura e alla vita quotidiana. L’antiziganismo si
presenta come una specifica forma di razzismo rivolta contro i Rom e i Sinti, che può
essere combattuta su due fronti: la conoscenza della loro storia e l’integrazione scolastica
come arma contro la dispersione e il disagio
giovanile.
L’apprendimento
cooperativo
L’apprendimento cooperativo o cooperative
learning sul piano strettamente didattico rappresenta una tecnica ottimale per favorire un
contatto positivo tra studenti di culture diverse. L’approccio cooperativo si fonda sul lavoro
di squadra secondo l’ottica collaborativa piuttosto che quella competitiva o individualistica.
Attraverso le cosiddette “classi puzzle” o
didattica del puzzle, gli studenti cooperano in
piccoli gruppi plurietnici (3-4 persone) e con
differenti livelli di profitto scolastico dividendo-
si il materiale da imparare. Il successo del
metodo si basa sull’insegnamento reciproco,
dove ogni studente ha la responsabilità di
imparare una parte della lezione e di insegnarla al resto del gruppo. Il materiale della
lezione suddiviso come dei pezzi di un puzzle
spinge i componenti del gruppo a cooperare
attivamente incoraggiando un’interazione
positiva in grado di indebolire i conflitti. La
valutazione del compito svolto viene riconosciuta sia a livello individuale che di gruppo.
Nel gruppo cooperativo ogni allievo ha una
funzione attiva, un compito di cui è responsabile per raggiungere l’obiettivo e un ruolo definito per il buon andamento del gruppo. Al contrario, nel gruppo tradizionale gli alunni più
bravi non vedono riconosciuti i propri meriti e
gli alunni che di norma si contraddistinguono
per un comportamento passivo persistono
indisturbati con il loro atteggiamento. Con
questa modalità, solo grazie al lavoro comune
è possibile ottenere il raggiungimento di un
risultato meritevole, spingendo i partecipanti
ad agire sia come individui, che come gruppo.
Affinché la cooperazione diminuisca l’ostilità
fra i ragazzi di etnie diverse occorre mirare ad
obiettivi superordinati, ovvero obiettivi condivisi e ambiti da tutti che possono essere realizzati solo lavorando insieme. In questo modo
la cooperazione fornisce rinnovate possibilità
di demolire gli stereotipi e i pregiudizi abbattendo le barriere dell’avversione che accrescono i conflitti fra gruppi. Ovviamente l’approccio cooperativo per funzionare in maniera
efficace e soprattutto duratura ha bisogno di
un appoggio esterno, con norme politicosociali in grado di sostenere e promuovere la
convivenza pacifica e rispettosa fra i membri
di comunità culturali diverse. Così la cooperazione efficace migliora i rapporti fra i gruppi,
favorisce la costruzione di una relazione di
fiducia e l’Altro diviene fonte di ricompensa
per il successo raggiunto. La diminuzione del
conflitto tende a ridurre di conseguenza il
binomio tra ingroup e autgroup e favorisce la
formazione del “noi” come nuovo gruppo integrato ed allargato. L’affiliazione non implica
l’appiattimento delle diversità culturali, che
diventano delle peculiarità fonte di arricchimento e apprendimento reciproco. Rispetto
ad altri metodi d’insegnamento questa tecnica
didattica aiuta gli studenti a migliorare i rapporti di socializzazione con gli altri, accrescendo una maggiore autostima e consapevolezza dei propri pensieri e delle proprie
emozioni nei confronti dei propri coetanei. Sia
gli alunni, che i docenti hanno bisogno di pratica e di tempo per acquisire questo metodo e
ottenere buoni risultati, perché in caso di fallimenti è probabile che l’ostilità verso gli altri
tenda ad aumentare aprendo nuovamente i
conflitti.
In modo particolare, gli studenti per lavorare con un approccio cooperativo devono comprendere le fasi del lavoro, le competenze e le
abilità sociali d’acquisire, come soggetti attivi
del processo di cambiamento che s’intende
avviare. L'insegnante deve concentrare la sua
attenzione non solo sugli obiettivi cognitivi,
ma sulle abilità sociali, sulla qualità dei rapporti e sull'interazione tra i membri del gruppo. L’apprendimento cooperativo, mira al raggiungimento di una maggiore motivazione ad
impegnarsi, a favorire l’interazione tra adulto e
gruppo e confronto fra pari, al benessere psicologico, all’aumento dell’autoefficacia, alle
relazioni positive, al sostegno reciproco e al
rispetto delle differenze. L’apprendimento cooperativo può essere definito una modalità di
gestione democratica della classe, capace di
gestire il conflitto ed intraprendere la strada
per la sua risoluzione.
Riferimenti bibliografici
- Clemente P.A.,Sombrero M.,“Persone dall’Africa”,
CISU, Roma, 1998.
- Colombo A., Genovese A., Canevaro A., (a cura di),
“Educazione all’interculturalità. Immigrazione e integrazione dentro e fuori la scuola”, Edizioni Erickson, Trento, 2005.
- Comoglio M.”Educare insegnando. Apprendere ed
applicare il cooperative learning”, Las, 2000.
- D’Angiò G., Recco A., Ottobre P., “Islam ed Occidente tra competizione e concorrenza”, in Quale Psicologia, n°30 Giugno 2007.
- Marcus G. E., Fischer M. M. J., “Antropologia come
critica culturale”, Meltemi, Roma, 1998.
- Mazzara B. M., “Appartenenza e pregiudizio”, La
Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996.
- Portera A.,“Globalizzazione e pedagogia interculturale. Interventi per la scuola”,Edizioni Erickson,Trento, 2006.
- Smith E. R., Mackie D. M., “Psicologia sociale”,
Bologna, Zanichelli, 1998.
- Wieviorka M., “La differenza culturale”, Edizioni La
Terza, Bari, 2002.
Scarica