Logica e Linguaggio QUESTIONE I concetti universali sono reali? Anselmo e Tommaso, Ockham Partiamo dal DNA Nel 2001 il genetista statunitense Francis Collins (nato nel 1950), capo dello “Human Genome Project”, ha annunciato la decifrazione del genoma umano, cioè del DNA. Il DNA è una struttura molecolare che contiene le informazioni necessarie per lo sviluppo di un organismo. La sua decifrazione ha S aperto nuove frontiere per la ricerca biologica, ma ha costituito anche il motivo per riproporre un problema filosofico molto antico: che cosa possiamo considerare davvero reale? Questa struttura molecolare, infatti, appare come qualcosa di molto astratto e, nello stesso tempo, come ciò che tutti i può descrivere questo insieme di informazioni, o i suoi diversi corrispondenti chimici, come una specie di vita-archetipo. Tuttavia è il caso di riflettere sul fatto che, giunti a questo punto estremo, i confini fra materia animata e inanimata si confondono, e si potrebbe anche parlare a questo riguardo solo di una molecola molto complicata. […] E inoltre, alla base sta l’antica questione platonica di che cosa sia reale. Quell’insieme di informazioni è real- gli esseri viventi di una stessa specie hanno in comune: detto nei termini della filosofia antica, il DNA è l’“idea”, il modello o l’archetipo di una certa specie animale. Questo aspetto è stato sottolineato molto acutamente dal fisico tedesco Werner Heisenberg (1901-1976), che ha scritto: mente l’essere vivente, o è solo la sua forma, mentre sono esplicitamente le molecole chimiche a formare l’entità veramente vivente? L’insieme di informazioni è per così dire l’Idea platonica dell’essere vivente; e così siamo tornati al problema primitivo se l’idea sia più reale della sua realizzazione materiale. A questo punto emerge il dubbio che tutto consista solo nel trovare o nel definire ciò che si deve intendere con la parola “reale”. (W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, trad. it. di R. Pizzi, riv. da B. Vitale, Garzanti, Milano 1982, p. 147) La domanda posta da Heisenberg non è una domanda per “specialisti”; anzi, si tratta di una questione a cui siamo sollecitati anche dall’uso del linguaggio quotidiano. Nei nostri discorsi, infatti, è facile imbattersi in frasi del tipo “gli uomini sono © Pearson Italia S.p.A. Gaetano Chiurazzi, Filosoa, Paravia animali razionali” o “i fiori sono vegetali”. Sono affermazioni a prima vista banali, per certi versi scontate, ma che tuttavia nascondono alcune insidie concettuali. Con queste frasi noi diciamo che esistono delle cose chiamate “uomini”, o “fiori”, e che esse sono “animali razionali”, o “vegetali”. Ma che cosa significa che “esistono” degli uomini, o dei fiori? E che cosa ci autorizza a dire che un certo insieme di cose è denominabile come “uomini” e un altro come “fiori”? 1 I concetti universali sono reali? Nel pensiero antico, tuttavia, non mancano i pensatori che si discostano dalla posizione di Platone e Aristotele, ad esempio gli stoici, i quali negano che esistano “entità” capaci di accomunare e apparentare tra loro diverse cose singole: negano, cioè, che esista l’idea o la sostanza “uomo”, o “fiore”, sostenendo piuttosto che con queste parole noi non facciamo altro che riferirci in maniera generale a singoli uomini o singoli fiori. Ecco allora che le nostre domande appaiono nel loro significato filo- sofico più profondo, che potremmo formulare così: sono “reali” solo gli enti singoli, oppure lo sono anche certe entità universali che ne costituiscono la “natura sostanziale”? Questo è l’interrogativo-chiave della cosiddetta “disputa sugli universali”, che, originatasi nell’antichità, percorre tutto il Medioevo, imponendosi come una delle questioni logico-metafisiche principali dell’epoca. Prova anche tu a cimentarti con questo fondamentale problema filosofico. I concetti universali sono reali? Sulla base delle tue convinzioni personali, rispondi a questo interrogativo scegliendo tra le opzioni che seguono. 1a. Oltre ai singoli oggetti o alle singole persone di cui facciamo esperienza, esistono necessariamente anche delle idee o dei concetti generali che ne costituiscono i “modelli” eterni e immutabili e che si trovano al di là del tempo e dello spazio, in una dimensione diversa da quella sensibile, ma altrettanto reale. Se così non fosse, non potremmo conoscere nulla con certezza, perché avremmo a che fare solo con enti particolari, soggetti a mutamento continuo e non collegabili tra loro con alcun tipo di legame stabile (realismo di matrice platonica). © Pearson Italia S.p.A. Gaetano Chiurazzi, Filosoa, Paravia 1b. I concetti generali esistono, ma non sono separati dalle “cose”. Se infatti esistessero in una dimensione diversa da quella sensibile, noi non potremmo conoscerli direttamente. Tutto ciò di cui possiamo fare esperienza sono le cose sensibili, nella concretezza e singolarità con cui ci si presentano. Solo in un secondo tempo, grazie a un procedimento di riflessione e astrazione, giungiamo a conoscere le idee generali o le forme di cui le cose del mondo sono una sorta di variazione accidentale. Possiamo dunque affermare che, dal punto di vista limitato che contraddistingue l’uomo, i concetti generali sono reali, ma separabili (astraibili) dalle cose solo in quanto strumenti conoscitivi, e non in quanto entità sussistenti di per sé (realismo di matrice aristotelica). QUESTIONE A queste domande la filosofia antica ha risposto dicendo che, quando noi chiamiamo più cose nello stesso modo, ci riferiamo a quel che esse hanno in comune. Platone individua questo “qualcosa in comune” nell’idea, mentre Aristotele nella sostanza o forma. Così, come nota Heisenberg, un biologo contemporaneo potrebbe essere portato a dire che quel che accomuna tutti gli uomini è il loro DNA, che in qualche modo costituirebbe la loro “essenza” comune, la loro idea archetipica. VERSO LE COMPETENZE ◗ Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale 2. Nessuna “entità” universale è reale, né separata dalle cose, né “calata” in esse. Reali sono solo le cose singole, che l’uomo raggruppa a seconda della somiglianza e alle quali si riferisce con una serie di nomi collettivi. I concetti universali hanno quindi una realtà soltanto mentale, perché corrispondono a un atto conoscitivo dell’uomo, che con esso si riferisce in maniera generale a un gruppo di cose particolari (nominalismo). 2 I concetti universali sono reali? Approfondiamo la questione 1a. Fedele alla dottrina platonica delle idee, Anselmo d’Aosta afferma che gli universali (cioè quei concetti generali che possono essere riferiti a più enti singoli) esistono realmente e in senso pieno: essi hanno cioè una realtà propria, non corporea, e costituiscono le forme eterne di cui tutte le cose corporee sono solo variazioni accidentali. 1b. Tommaso d’Aquino non nega che gli universali siano entità reali, ma chiarisce che non sono ontologicamente separati dalle cose sensibili (come le idee platoniche che costellavano l’iperuranio), ma solo gnoseologicamente separabili da esse (come le forme aristoteliche) per mezzo di un procedimento di astrazione. 2. Secondo Guglielmo di Ockham, ipotizzare che tra le cose singole (che sono evidentemente reali) e i nomi collettivi con cui l’uomo si riferisce ad esse esistano delle “entità” universali intermedie significa «moltiplicare gli enti oltre il necessario», appesantendo inutilmente l’apparato concettuale della filosofia. QUESTIONE Dal senso comune alla filosofia 1a. | La realtà degli universali “oltre” le cose: Anselmo Sulla scia della dottrina delle idee di Platone, Anselmo afferma che gli universali (o le essenze, o le sostanze, oppure ancora, per usare il linguaggio dell’epoca, i «generi» e le «specie») sono reali, e che anzi soltanto gli universali sono pienamente reali, mentre le cose singole sono loro “accidenti”, o “variazioni”. Nel tempo e nello spazio in cui è situato il nostro mondo si trovano solo cose singole, dotate di caratteristiche peculiari che le rendono diverse l’una dall’altra. Ma a esistere in senso pieno e autentico sono le loro essenze, le loro forme comuni e costanti, che stanno fuori del tempo e dello spazio e che proprio per questo sono gli unici oggetti di cui l’uomo può avere una conoscenza certa, perché non mutano mai. Un “mondo” di sostanze Per Anselmo, quindi, quello che dobbiamo intendere con la parola “realtà” è questo mondo immutabile di essenze eterne, della cui esistenza possiamo essere certi in primo luogo considerando il dogma della Trinità. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono infatti tre «persone» accomunate da un’unica «natura» divina, così come i singoli uomini (cioè i singoli individui, con le loro caratteristiche irripetibili) sono accomunati dall’appartenere tutti alla «specie» (o natura) umana: Individui e nature comuni Chi non capisce come più uomini siano, considerati nella specie, un solo uomo, come potrà comprendere che nell’altissima e profonda natura divina le tre Persone, ciascuna delle quali è Dio, sono un solo Dio? E chi ha la mente così oscurata da non saper discernere tra il cavallo [sostanza] e il suo colore [accidente], come potrà discernere tra Dio e le molteplici relazioni che sono in Lui? E infine, chi non riesce a capire che l’uomo è altro, che non l’individuo uomo, intenderà sempre per uomo la persona umana; infatti ogni singolo individuo uomo è persona. E come allora costui comprenderà che il Verbo ha assunto non la persona umana, ma la natura umana? (Anselmo d’Aosta, Sulla Trinità e sull’incarnazione, II) L’esistenza degli universali è quindi per Anselmo un problema che ha una grande rilevanza teologica: se non esistessero sostanze comuni, non potremmo parlare di un Dio uno e trino, ovvero di un Dio la cui unità sostanziale è compatibile con una triplicità di persone. © Pearson Italia S.p.A. Gaetano Chiurazzi, Filosoa, Paravia 3 I concetti universali sono reali? 1b. | La realtà degli universali “nelle” cose: Tommaso La critica aristotelica a Platone Rifacendosi alla critica mossa da Aristotele a Platone, Tommaso d’Aquino elabora una forma di realismo diversa da quella di Anselmo, giungendo a una posizione più “moderata”. Egli afferma infatti che occorre distinguere due diversi piani di “realtà” degli universali, o delle essenze: 1) sul piano ontologico, gli universali non esistono separatamente e autonomamente rispetto alle cose sensibili: in questo senso l’universale è in re, “nella cosa”; 2) sul piano gnoseologico, essi sono invece separabili dalle cose, tant’è vero che giungiamo a conoscerli attraverso un processo di “astrazione”, che ci porta appunto a separare (ma solo dal punto di vista della conoscenza) ciò che è essenziale e comune da ciò che non lo è: in questo senso l’universale è post rem, “dopo la cosa”, cioè un concetto che noi formiamo a partire dall’ente individuale e, quindi, “dopo” di esso. Dalla prospettiva umana… Secondo Tommaso, la prospettiva gnoseologica per cui gli universali sono post rem corrisponde al punto di vista dell’uomo, il quale nel suo cammino conoscitivo non può che partire dal mondo sensibile, in cui è immerso e dal quale non può prescindere. Ma questa prospettiva si rovescia se si assume il punto di vista di Dio, per il quale, al contrario, i concetti generali o le essenze sono ante rem, perché esistono nella sua mente “prima” della creazione della realtà sensibile. … a quella divina QUESTIONE Il platonismo di Anselmo ha forse il difetto di non spiegare in che modo gli enti singoli si rapportino agli universali. Per descrivere il rapporto tra le cose e i loro modelli ideali, Platone aveva parlato di mímesis, cioè di “imitazione”, alludendo quindi a due realtà o dimensioni separate (un “originale” e una “copia”), ma già Aristotele aveva criticato questa concezione, affermando che le sostanze, o le forme, devono in qualche modo essere presenti negli enti individuali. Secondo Aristotele, postulando l’esistenza di un mondo ideale separato e in qualche modo più “autentico” rispetto a quello sensibile, Platone aveva eccessivamente svalutato la realtà concreta in cui viviamo. La sua netta distinzione tra realtà immutabile delle idee e realtà mutevole delle cose implicava l’idea che, per essere certa, la conoscenza non potesse rivolgersi al mondo sensibile, ma anzi dovesse allontanarsi sempre più da esso. Al contrario, l’intento di Aristotele era stato quello di rivalutare la conoscenza delle “cose” sensibili, perché solo in esse è possibile trovare le sostanze comuni (le forme). Si danno tre universali. Il primo è quello che sta entro la cosa, vale a dire la natura medesima [l’essenza comune] presente nei particolari concreti [negli enti individuali] […]. C’è poi un universale ricavato dalla cosa per astrazione, e questo si dà posteriormente alla cosa. […] Ma c’è un universale riguardante la cosa che è prima della cosa stessa: la forma della casa nella mente del costruttore. Ed è in quest’ultimo modo che le forme universali delle cose esistono nella mente angelica. (Tommaso d’Aquino, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, II, d. 3, q. 3, a. 2) Con Tommaso, dunque, il realismo degli universali (cioè l’idea secondo cui essi sono in re) si modula tenendo conto di due prospettive conoscitive antitetiche: quella di Dio (una condizione che l’uomo non potrà mai raggiungere), il quale conosce gli universali in se stessi, ante rem, e quella dell’uomo, che può conoscerli solo partendo dal mondo sensibile (post rem). © Pearson Italia S.p.A. Gaetano Chiurazzi, Filosoa, Paravia 4 I concetti universali sono reali? Sia la prospettiva platonica di Anselmo sia quella più aristotelica di Tommaso hanno quindi in comune l’idea che gli universali siano delle realtà, e non dei semplici concetti, cioè delle “creazioni” della nostra mente. A sostenere quest’ultima ipotesi è Guglielmo di Ockham. Ockham persegue esplicitamente lo scopo di alleggerire la filosofia di tutta una serie di entità metafisiche che egli considera inverificabili e sostanzialmente inutili per spiegare la realtà e la conoscenza umana. Suggestivamente chiamato “rasoio di Ockham”, questo “principio di economia”, secondo cui «gli enti non devono essere moltiplicati inutilmente» (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), porta il filosofo inglese ad affermare che è del tutto inutile concepire le cosiddette essenze o sostanze come delle “entità”, cioè come delle realtà veramente sussistenti. Le nostre parole, ad esempio “uomo” o “vegetale”, non si riferiscono a entità universali, ma “stanno per” entità singole (singoli uomini, singoli vegetali), che denominano “collettivamente” grazie a un’unica «intenzione», cioè grazie a un unico atto intellettuale che le comprende tutte insieme. Perché ipotizzare enti inutili? QUESTIONE 2. | L’irrealtà degli universali: Ockham Bisogna allora affermare che qualunque universale è una cosa singolare e che quindi non è universale se non per significazione, dal momento che è segno di più cose. […] [Ciò vuol dire] che l’universale è una intenzione singolare della stessa anima, destinata a essere predicata di più cose, così che, per il fatto che è destinata a essere predicata di più, non per sé ma per quella molteplicità di cose al posto delle quali sta, essa è detta universale. (Guglielmo di Ockham, Logica dei termini, II, 1) Questa prospettiva è nota come “nominalismo” e la sua idea fondamentale, di derivazione stoica, è che le parole (o, meglio, i nomi) “significano” o “suppongono” direttamente le cose singole, le sole veramente esistenti. In altri termini: noi conosciamo sempre e soltanto entità singole, che tuttavia possiamo raggruppare secondo criteri di somiglianza, riferendoci poi a tali “gruppi” con dei nomi collettivi. Ma non c’è alcuna necessità di immaginare che ai concetti generali che così ci formiamo corrisponda una qualche ulteriore realtà intermedia tra le parole e le cose singole. Reali in senso stretto, quindi, sono soltanto gli enti singolari, mentre gli universali sono “concetti”, cioè prodotti di atti intellettuali che, in quanto tali, hanno una realtà soltanto mentale. La teoria della suppositio E quindi bisogna semplicemente ammettere che nessun universale è una sostanza, in qualunque modo lo si consideri. Qualunque universale è piuttosto una intenzione dell’anima, che secondo un’opinione probabile non differisce dall’atto di intendere. Dicono anzi che l’intellezione con la quale io intendo “uomo” [l’atto intellettuale con cui io mi formo il concetto generale “uomo”] è un segno naturale che significa degli uomini nel modo in cui il pianto è un segno naturale della malattia, della tristezza o del dolore; e questo segno è tale che può stare per gli uomini in una proposizione mentale, come la parola può stare al posto delle cose nella proposizione orale. (Guglielmo di Ockham, Logica dei termini, II, 2) In questo passo Ockham chiarisce che l’universale è solo un nome che “sta per” un insieme di cose, di cui quindi è un “segno”, allo stesso modo in cui il pianto è segno del dolore. Pertanto, quando noi diciamo “l’uomo”, in senso generale, è come se nominassimo collettivamente “Pietro, Giovanni, Paolo ecc.”. Facendo dell’universale qualcosa di puramente “mentale”, ovvero un concetto, cioè il risultato di un atto intellettuale di astrazione, Ockham priva di qualsiasi significato metafisico la nozione stessa di “universale”. © Pearson Italia S.p.A. Gaetano Chiurazzi, Filosoa, Paravia 5 I concetti universali sono reali? Ora che hai ascoltato le ragioni dei filosofi, decidi se intendi rimanere fedele alla tua idea iniziale o se preferisci cambiarla, e indica in sintesi gli argomenti che ti hanno indotto a questa decisione. QUESTIONE Hai cambiato opinione? VERSO LE COMPETENZE ◗ Saper argomentare una tesi dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui Una questione aperta… In questa breve rassegna abbiamo potuto vedere come la disputa medievale sugli universali coincida in fondo con il dibattito suscitato da un solo interrogativo: che cosa intendiamo con la parola “realtà”? Si tratta di uno dei problemi filosofici più ardui e importanti, ulteriormente riassumibile nella domanda “che cosa esiste?” La parola “realtà” deriva dal latino realitas, che a sua volta deriva dal termine res, “cosa”: la realtà è quindi l’insieme delle “cose” che costituiscono il nostro mondo. Ma, limitandoci a richiamare le prospettive qui presentate, le “cose” possono essere intese in maniera molto diversa: esclusivamente come oggetti e persone concreti (enti singoli), oppure anche come concetti astratti (entità universali), i quali a loro volta possono essere considerati come separati o meno rispetto a oggetti e persone. Al di là di queste pur non trascurabili differenze, e delle sottili discussioni alle quali hanno dato luogo, in epoca medievale il termine realitas – introdotto nella terminologia filosofica da Duns Scoto – indica generalmente la quidditas, e cioè il “che cosa” (quid) che fa sì che un oggetto sia proprio quell’oggetto e non un altro. Questo significato permane pressoché invariato per tutto il Medioevo. Occorrerà arrivare all’epoca moderna perché il termine realitas acquisti l’accezione (a noi più familiare) di “esistenza effettiva” di una cosa. Questa nuova idea (che nella terminologia medievale corrisponde piuttosto all’actualitas, cioè all’“essere in atto” di un oggetto) si afferma soprattutto grazie all’avvento della scienza moderna, che alla nozione metafisica e statica di “realtà” sostituirà una nozione ben più concreta e dinamica, associandola non più al “che cosa” di un oggetto, ma al rapporto di causa-effetto in cui esso può essere iscritto: un’idea che del resto era già contenuta nel termine latino da cui deriva la parola “cosa”, ovvero causa. © Pearson Italia S.p.A. Gaetano Chiurazzi, Filosoa, Paravia 6