Lo spazio ambiguo della creatività

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Lo spazio ambiguo della creatività
ROSA M. CALCATERRA
[Testo in corso di pubblicazione nel vol. A M. Nieddu (a cura di), G. H. Mead, filosofo e psicologo,
Mimesis 2015]
1. Annotazioni preliminari: Mead e il pragmatismo
Non è scontato che George Herbert Mead si sia riconosciuto come un filosofo pragmatista, per così
dire, a pieno titolo. Peraltro, ciò deve essere sembrato ben poco rilevante alla maggior parte dei suoi
primi interpreti che, infatti, preferivano annoverare la sua opera sotto l’egida del comportamentismo
sociale o interazionismo simbolico. Tuttavia, l’adesione di Mead al progetto teorico-metodologico
del movimento pragmatista appare alquanto chiara se, innanzi tutto, si considera l’impiego senz’altro
ampio del concetto di esperienza che, in buona misura, egli declina analogamente a Peirce, James e
Dewey, vale a dire secondo una pluralità di valori semantici ed epistemologici.
Da un punto di vista complessivo, si può dire che, a differenza dell’empirismo moderno che fa
capo a Locke e Hume, la nozione pragmatista di esperienza coincide con l’elaborazione di una forma
di olismo epistemologico che esclude la priorità dei dati sensoriali rispetto alle idee ovvero il loro
ruolo fondazionale nella formazione dei beliefs e, dunque, anche la loro funzione di criterio ultimo o
autosufficiente per definirne la validità. In altre parole, per i pragmatisti classici come per Mead,
occorre adottare una visuale inter-relazionale e dinamica dei processi conoscitivi, per la quale si
riconosce in primis l’insostenibilità della teoria isolazionistica delle sensazioni di stampo humiano1
su cui poggia il fondazionalismo della tradizione empirista. I pragmatisti cercano, invece, di far valere
l'intreccio irriducibile dell’ambito sensibile con quello intellettuale e, più esattamente, la circolarità
virtuosa tra il campo concreto dell’azione, la sfera logico-semantica e la sfera cognitiva. Ne consegue
un'accezione pragmatica della nozione di ‘fondamento’, che tende a coniugare i criteri epistemici ed
etici di verità e oggettività con il piano dell'agire in quanto luogo socialmente tangibile della
polivalenza funzionale del concetto di esperienza: della sua natura di strumento per la formazione dei
beliefs nonché di fonte concreta della loro correzione o smentita.
Conviene sottolineare che la nozione pragmatica di ‘fondamento’ non corrisponde ad un puro e
semplice rovesciamento dei termini del rapporto razionalista/idealista tra piano concettuale e piano
empirico oppure, più in generale, tra teoria e pratica. Piuttosto si tratta di dare un senso ben più
Cfr. in particolare la critica di James all’empirismo classico e specificatamente alla concezione atomistica delle
sensazioni, tematizzata nei suoi Principles of Psychology (1890).
1
1
sostanziale alla consueta affermazione che le idee o le teorie hanno riflessi nella pratica, riconoscendo
in quest’ultima un fattore costitutivo non solo dell’edificazione dei saperi ma anche della
consapevolezza della loro fallibilità di principio. Tocchiamo qui un aspetto tipico del pensiero
pragmatista sia classico sia contemporaneo, pur dovendo tenere presente che alcuni rappresentanti di
spicco di quest’ultimo versante, quali Richard Rorty e Robert Brandom, tendono a sganciare il
fallibilismo dalla nozione di esperienza. Anzi, in virtù delle importanti contaminazioni tra
pragmatismo e filosofia analitica, vi è un invito a congedarsi dal termine esperienza perché
apparentemente troppo vago e comunque troppo compromesso dalla sua forte assonanza con la logica
‘internalista’ che sorregge le filosofie incentrate sull’idea di coscienza. In alternativa, si tratterebbe di
circoscrivere l’analisi filosofica al campo dei problemi che ruotano intorno alla funzione del
linguaggio, alle sue forme, ai suoi dispositivi più o meno strutturali, ai suoi limiti e alle sue
potenzialità, proprio perché tutto ciò offrirebbe maggiori garanzie o attendibilità epistemiche.
Sennonché, la contrapposizione tra ‘esperienza’ e ‘linguaggio’ si sta sempre più rivelando
inconsistente e pretestuosa nell’ambito dei recenti sviluppi della filosofia pragmatista, tanto più in
quanto è possibile individuare una serie di intuizioni di Peirce, James e Dewey che appaiono
particolarmente importanti ai fini di una visuale teoretica secondo cui vi è una effettiva
indistinguibilità tra i campi logico-semantici segnalati da quei due termini.2 Ebbene, l’opera di Mead
si presenta a tale riguardo emblematica. Un punto fermo del suo pensiero è rappresentato, infatti,
dall’asserzione della continuità tra sfera biologica, socialità e processi intellettuali, asserzione basata
su una teoria della percezione che prevede una sorta di intenzionalità già a livello corporeo la cui
struttura è però intessuta dallo spazio linguistico-simbolico istituito dalle esperienze interindividuali.
In altre parole, l’idea meadiana di partenza è che gli oggetti percepiti dall’individuo umano vengono
selezionati in base alle sue determinate esigenze biologiche e nondimeno inquadrati in un contesto di
significati che deriva dalle inter-azioni linguistiche cui i rapporti umani interindividuali devono la
loro specificità. 3 È un’idea che si salda al rifiuto del concetto sostanzialistico di coscienza cui Mead
vedeva sotterraneamente ancorata anche la ‘psicologia scientifica’ che al tempo si stava affermando
in Europa e in America. In particolare, nonostante i grandi sforzi innovativi promossi dalle
metodologie sperimentali, la nuova psicologia gli sembrava avere un’implicita dipendenza dalla
2
Per una dettagliata disamina della questione in oggetto, si vedano i saggi contenuti in D. Hildebrand (ed.), Language or
Experience: Charting Pragmatism’s Course for the 21 st Century, in «European Journal of Pragmatism and American
Philosophy», Vol. 6, N. 2, 2014, di cui segnalo in part. : G. Pappas, What Difference Can “Experience” Make to
Pragmatism?, pp. 200-227; C. Misak, Language and Experience for Pragmatism, pp. 27-39.
3
Una succinta presentazione di questi argomento si trova in G.H. Mead, A Behaviourist Account of the Significant Symbol,
in A.J. Reck (ed.), Selected Writings. George Herbert Mead, University of Chicago Press, 1964, pp. 240-247; tr. it. di G.
Maddalena Una spiegazione comportamentistica del significato di un simbolo, in R.M. Calcaterra (a cura di), Il
Pragmatismo, La Nuova Italia, Firenze 2000, pp. 69-75.
2
nozione cartesiana di coscienza quale sostanza autonoma rispetto al mondo fisico-naturale proprio
laddove questi psicologi tendevano a spiegare l’esperienza percettiva in termini di rapporto meccanico
tra “esterno” e “interno”, tra oggetti-stimolo e stati psichici.4 Così, nella parte iniziale della sua opera
più nota, Mente, sé e società, egli dichiara di volersi attenere ai criteri metodologici del
comportamentismo di John Watson, a sua volta ritagliato sulla psicologia sperimentale intrapresa
verso la metà dell'Ottocento da Wundt, James e Galton. Tuttavia, pur condividendo con Watson l'idea
che lo studio del mentale sia maggiormente garantito da un approccio 'esternalista,' cioè
dall’osservazione del comportamento, Mead contestò decisamente l'intenzione di eliminare il
concetto di coscienza, sostenendo piuttosto che esso deve costituire un momento centrale dello stesso
comportamentismo. A suo avviso, «l'atteggiamento di
Watson era simile a quello della regina di Alice nel paese delle meraviglie: “tagliate loro la testa!”»
(MSS, p. 34).
La direttiva di questa polemica è tipicamente pragmatista: per rinnovare la ricerca filosofica e
psicologica, occorre emanciparsi dal dualismo di stampo cartesiano che orienta le teorie tradizionali
della coscienza e del mentale, senza tuttavia ricadere nel riduzionismo fisicalista. Stando più
precisamente a Mead, si può ben negare l'esistenza della mente o della coscienza in quanto entità o
sostanza psichica, ontologicamente a se stante rispetto al campo dei fenomeni fisico-naturali – come
appunto intendevano fare anche i watsoniani – ma non si può negare che mente e coscienza siano
parte integrante dell'agire umano, ossia possano essere concepite come elementi funzionali del
comportamento che, proprio in quanto tali, si prestano ad una descrizione oggettiva. I conti con
Watson si chiudono, infatti, con una affermazione di principio:
Il comportamento mentale non è riducibile al comportamento non-mentale. Ma il comportamento
o i fenomeni mentali possono essere spiegati in termini di comportamento o di fenomeni nonmentali, in quanto essi sorgono da questi e sono il risultato delle loro complicazioni (MSS, p. 41).
La filosofia contemporanea ha avanzato tanto critiche quanto approvazioni di questo tipo di
ragionamento, che comunque si mostrano nel complesso tutt'altro che risolutive. D'altra parte, proprio
alla luce dell'attuale dibattito sul mentale, il naturalismo anti-riduzionista di Mead si presenta come
un sintomo esemplare della difficoltà di chiudere una serie di problemi filosofici 'classici' e, allo stesso
tempo, come un notevole passo nel processo di cambiamento dei paradigmi concettuali della nostra
tradizione.
4
G.H. Mead, Mind, Self, and Society, The University of Chicago Press, Chicago 1934, tr. it. Mente, sé e società,
GiuntiBarbera, Firenze 1966 (d’ora in poi: MSS).
3
In alternativa al comportamentismo watsoniano, la proposta meadiana sosteneva, sulla scorta delle
ricerche psicologiche di James e Dewey, una visuale “funzionalista” della sfera dei fatti psichici,5 per
la quale Mead si adoperò ad esibire giustificazioni concrete approfondendo il tema dell’azione6 in
concomitanza a un gruppo coeso di intuizioni filosofiche: il linguaggio umano come evoluzione della
“conversazione di gesti” che si svolge nel mondo animale, la genesi sociale del sé, il pensiero come
“internalizzazione” dei “gesti vocali significanti” che qualificano la vita umana e di cui l’azione è,
appunto, secondo Mead, matrice e parametro di validità oggettiva. D’altra parte, proprio come Dewey,
egli sostiene con chiarezza che il linguaggio è una forma di comportamento e, poiché il linguaggio è
un'attività eminentemente sociale, l'analisi del comportamento umano deve necessariamente passare
attraverso la verifica dei congegni strutturali della comunicazione verbale intersoggettiva.
In tutto questo è evidente la scelta di adottare senz’altro il precetto empiristico di attenersi
all'esperienza . «L'esperienza, scriveva Peirce, è la nostra sola maestra» (MS 308) e Mead al pari dei
rappresentanti classici del pragmatismo, intese rappresentarne la natura dinamica e processuale.
Mediante la sua teoria del linguaggio, dove l’esperienza si configura come un vero e proprio processo
interpretativo della realtà, essa viene assunta come una fonte pur sempre fallibile dei nostri criteri
conoscitivi nonché come il luogo in cui inevitabilmente il ‘soggettivo’ sfuma nell’intersoggettivo e
viceversa, proprio in quanto ciò che forma il campo della soggettività appare, all’analisi meadiana,
indisgiungibile dalla concretezza delle interazioni sociali da cui si staglia e nella quale rientra la
possibilità stessa di maneggiare i concetti di coscienza e autocoscienza, tradizionalmente costituitivi
del discorso filosofico sulla soggettività.
Sarà necessaria qualche breve annotazione in merito all’istanza anti-dualista che impronta la ben
nota teoria mediana della genesi sociale del sé tanto quanto la sua teoria del linguaggio e del pensiero.
Per il momento interessa sottolinearne la stretta assonanza con la critica ai dualismi filosofici
tradizionali, che caratterizza il movimento pragmatista, passando subito a considerare un altro aspetto
che sembra sia confermare l’appartenenza del pensiero meadiano al progetto filosofico del movimento
pragmatista sia contrassegnarne la specificità dei contributi che vi ha apportato: mi riferisco all’idea
di ‘processo’ quale criterio di centrale importanza per la ricerca filosofica.
Tra tutti gli autori classici del pragmatismo, forse Mead è colui che maggiormente esibisce la
connotazione darwiniana dell'idea di processo in quanto fattore decisivo del superamento della visuale
empirista tradizionale che, in estrema sintesi, tende a concepire l’esperienza come una sorta di
5
Per una dettagliata analisi delle origini, gli sviluppi e la rilevanza contemporanea del funzionalismo bio-sociale di Mead
e Dewey, si veda G. Baggio, La mente bio-sociale. Filosofia e psicologia in G. H. Mead, ETS, Pisa 2015, pp. 755.
6
G.H. Mead, The Philosophy of the Act, The University of Chicago Press, Chicago 1938.
4
collettore degli input originari dell’attività mentale. Infatti, l’“interazionismo simbolico” o
“comportamentismo sociale” meadiani poggiano apertamente sulla valorizzazione della componente
anti-determinista della biologia darwiniana, valorizzazione che Mead cerca di mettere a frutto
disegnando un’immagine dell'essere umano come entità socio-bio-logica. Ciò significa basilarmente
che il soggetto umano è a tutti gli effetti ‘dentro’ la natura eppure ne supera i meccanismi meramente
riproduttivi. In particolare, significa che egli non è 'spettatore' bensì 'attore' di conoscenza, per usare
le famose parole di James, dal quale Mead trasse la prima direttiva del proprio naturalismo.
7
Altrettanto basilarmente, l’immagine socio-bio-logica dell’essere umano tracciata da Mead implica
una rinnovata versione del cosiddetto “socialismo logico” di Peirce, 8 proprio in quanto insiste sulla
qualità sociale dei processi cognitivi e valoriali del soggetto umano nonché sulla sua peculiare abilità
di auto-identificarsi. Come cercherò di indicare, tutti questi aspetti vengono a convergere in una teoria
del linguaggio che favorisce la nozione di ‘creatività dell’io’ in modo tale da esibire, da un lato,
l’eccedenza del soggetto umano rispetto alla presunta rigidità meccanica dei fenomeni naturali e,
dall’altro lato, la radice pur sempre empirico-naturale delle sue prestazioni ‘creative.’ Si delinea così
un naturalismo post-darwiniano che, come già accennato, apporta decisivi elementi di novità alla
tradizione empirista della modernità.
A scopo di chiarezza, mi sembra utile rilevare alcuni nodi teoretici del naturalismo empirista di
Hume rispetto ai quali la prospettiva ‘socio-bio-logica’ di Mead si mostra continua in una certa misura
eppure sensibilmente differente. Per maggior precisione, vorrei proporre l’ipotesi che il naturalismo
di Mead costituisca un proseguimento ma, allo stesso tempo, una proficua innovazione dell’idea
humiana che vi sia una legalità intrinseca alla costituzione ‘naturale’ dei processi mentali nonché una
loro strutturale continuità con il mondo animale.
2. Un naturalismo rinnovato: da Hume alla teoria del linguaggio come gesto
Come è noto, secondo Hume l’essere umano è un’entità del mondo naturale, certo un’entità alquanto
peculiare eppure profondamente continua alle componenti vitali dell’animalità. Si parla pertanto del
cosiddetto ‘non-specismo’ di Hume, di cui tanto il Trattato sulla natura umana quanto la Ricerca
sull’intelletto umano presentano pagine molto eloquenti.
Per i rapporti con James, mi sia consentito rimandare al mio Pragmatismo: i valori dell’esperienza, Carocci, Roma 2003,
pp. 117-132.
8
Mi sia consentito rimandare al riguardo a R. M. Calcaterra: Logic, Semiotics, and Ontology. Peirce’s Amended
Kantianism, in R. Lanfredini, A. Peruzzi (eds.), A Plea for Balance in Philosophy. Essays in Honour of Paolo Parrini,
ETS, Pisa 2013, pp. 411- 422; A Healthy sense of Reality , in “Wittgenstein’s Studies”, n.2, 2015.
7
5
Per quanto riguarda l’idea humiana di una legalità ‘naturale’ dell’operare dell’intelletto umano,
basti qui ricordare l’argomento del filosofo scozzese che l’esercizio delle idee, così come quello della
memoria e dell’immaginazione, implicano principi universali, ovvero «leggi dell’associazione delle
idee» che operano «allo stesso modo in tutti gli esseri umani» e di cui si possono senz’altro indicare
i criteri di somiglianza, contiguità spazio-temporale, causa-effetto. 9 Con sorprendente anticipo
rispetto al noto invito di Wittgenstein a fare filosofia non per formulare definizioni bensì per mostrare
esempi, Hume sottolinea che la sua lista dei principi legali dell’associazione delle idee, vale a dire i
criteri normativi del funzionamento della mente umana, non ha pretese di completezza e, anzi, che è
molto difficile provare che non vi siano altri principi di associazione all’infuori di quelli da lui
enumerati. Insomma, «Tutto quello che possiamo fare in questi casi, è di scorrere esempi, di esaminare
accuratamente il principio che lega i differenti pensieri l’uno all’altro e di non fermarci finché non
abbiamo reso il principio più generale possibile» (ivi, p. 23). A prescindere dall’ambiguità semantica
dell’uso humiano dei concetti di “universalità” e di “generalità” da annettere ai principi logiconormativi, interessa qui ricordare la viva attenzione che Hume rivolge alla natura sociale dell’essere
umano, tematizzando il sentimento di simpatia come una sorta di fondamento universale, o potremmo
dire ‘trasversale’, delle istituzioni sociali e culturali che qualificano il mondo umano. Ne consegue
che ciò che determina le norme del conoscere e dell’agire umani non è solo la costituzione, per così
dire, fisico-naturale degli individui ma, anche, la loro natura sociale, ossia il loro ‘naturale’
inserimento in un contesto relazionale e culturale.10
Passando ora alla questione dell’anti-specismo di Hume, conviene segnalarne innanzitutto
l’assonanza eppure la divergenza con la visuale presentata in merito da Leibniz. Le due posizioni sono
infatti indicative delle diverse modalità filosofiche, ancor oggi paradigmatiche, con cui si può dare
rilievo alla costituzione ‘naturale’ dell’essere umano; modalità che, del resto, sembrano convivere
tacitamente nel naturalismo di Mead proprio laddove egli mette a fuoco la nozione di creatività dell’io.
Come si sa, per Leibniz gli animali posseggono organi strutturati in modo tale da ricevere impressioni
raffinate e distinte dal mondo esterno. Le percezioni corrispondenti a tali impressioni risultano
anch’esse «affinate e distinte», tanto che l’anima dell’animale giunge «fino al sentimento, cioè fino a
una percezione accompagnata da memoria, di cui permane a lungo una certa eco, in grado di farsi
sentire in date occasioni».11 L’animale ha quindi un pensiero attraverso immagini, collega il contenuto
Cfr. D. Hume, An Inquiry Concerning Human Understanding, tr. it. di M. Dal Pra, Ricerca sull’intelletto umano, in D.
Hume, Opere Filosofiche, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 22ss.
10
Il sentimento di “simpathy” è messo a fuoco in particolare in D. Hume, A Treatise of Human Nature e in An Enquiry
Concerning the Principles of Morals, in D. Hume, Opere Filosofiche, voll. I -II, Laterza, Roma-Bari 1992. 11 G.W.
Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2014, p. 41.
9
6
della sua memoria agli accadimenti esterni ogniqualvolta essi si presentano e agisce di conseguenza.
La chiarezza del sentimento dipende principalmente sia dalla reiterazione di una stessa percezione
che produce un’abitudine corrispettiva sia dall’intensità di una data percezione, anche se esperita una
singola volta. Tuttavia Leibniz nega decisamente che questa concatenazione mnemonica possa essere
intesa come processo conoscitivo razionale proprio perché essa è fondata solo sui fatti e non sulla
conoscenza delle loro cause.
Da parte sua, anche Hume ritiene che gli animali posseggano una capacità di ragionamento
empirico: essi sono portati ad attendersi, per analogia con le osservazioni passate, effetti simili da
cause simili e in tal modo acquisiscono conoscenza man mano più ampia nel corso della loro vita.
Ciò si evince dalla semplice osservazione - afferma Hume- che le azioni dei cuccioli sono meno
perfezionate di quelle degli animali adulti, ed è interessante che egli rilevi come i cuccioli possano
imparare norme di comportamento grazie alla disciplina e all’educazione, oltre che dall’esperienza
spontanea. Del resto, gli animali non possiedono solo cognizioni acquisite con l’esperienza ma si
giovano anche di un «potere originale della natura», al quale si devono effettivamente «molte parti»
delle conoscenze animali, che di per sé superano «la dotazione di capacità che essi possiedono nelle
occasioni solite», mostrandosi peraltro ben poco o nient’affatto suscettibili all’influenza della pratica
o dell’esperienza. Queste ‘parti’ della conoscenza animale – continua Hume – «noi le diciamo istinti»
e tendiamo ad ammirare «come qualcosa di straordinario che tutte le disquisizioni dell’intelletto
umano non possono spiegare» ma conclude che «la nostra meraviglia cesserà quando considereremo
che lo stesso ragionamento sperimentale, che abbiamo in comune con le bestie e dal quale dipende
l’intera condotta della vita, non è altro che una specie di istinto o di potere meccanico che agisce in
noi sconosciuto a noi stessi».11
Limitiamoci qui a sottolineare che, a differenza di Leibniz il quale, nonostante il riconoscimento
della continuità tra il ragionamento empirico degli animali e degli umani, sostiene la straordinarietà
della ragione umana in quanto capacità di condurre alla conoscenza delle cause e delle verità certe,
Hume punta piuttosto sulla relazione tra cognizioni empiriche e dotazione istintuale per sancirne la
forte incidenza «sull’intera condotta della vita» sia essa animale che umana, assegnando pertanto alle
operazioni dell’intelletto un ruolo bio-logico complementare, benché tutt’altro che superfluo. Come
dire che sul piano dell’intelletto o ragione si giocano partite ben più complicate e comunque gravide
di progressi scientifici, che non quelle dettate dalla concretezza delle esperienze e dei poteri istintuali,
ma anche partite che – stando all’empirismo humiano – devono inevitabilmente attingere alla
naturalità delle une e degli altri per poter infine aspirare alla qualifica della correttezza logica. Non è
11
D. Hume, op. cit., p. 114.
7
infatti il caso di dilungarsi sulla regola che Hume stabilisce in merito alla formulazione e verifica
della correttezza delle idee: rintracciarne l’origine nelle impressioni sensoriali e, laddove non le si
trovino, accantonarle senz’altro.
Rispetto alla posizione humiana, Mead introduce come elemento evidentemente del tutto nuovo la
sua teoria naturalistica del linguaggio che, a sua volta, è sostenuta da una descrizione della genesi
dell’autocoscienza in cui emerge la valenza normativa del linguaggio. In altre parole, egli opera uno
spostamento della tesi humiana della ‘legalità naturale’ dei processi mentali umani verso un punto di
vista che individua una normatività intrinseca all’emergenza e all’esercizio maturo del linguaggio
umano, contribuendo così, in modo alquanto significativo, agli sviluppi novecenteschi del naturalismo
filosofico.
Come già detto, la teoria meadiana del linguaggio esibisce un’immagine dell’essere umano quale
entità socio-bio-logica. Il punto di snodo di questa proposta è l’idea che l'essere umano regola la
propria condotta attraverso la capacità di usare simboli significanti, nei quali si riflette il carattere
costruttivo e intenzionale – nel senso biologico del termine12 – dei rapporti che egli intrattiene con la
realtà circostante, cioè con il mondo degli oggetti fisici e con i propri simili. Il fattore
linguisticosimbolico è, infatti, determinante per la specifica costituzione ‘naturale’ dell’essere umano,
il quale principalmente si configura come soggetto sociale proprio in virtù della sua capacità di
produrre e usare simboli linguistici. In altre parole, a differenza delle relazioni sociali riscontrabili nel
mondo animale, i rapporti tra gli individui umani, così come tra di essi e il mondo fisico circostante,
non sono semplicemente rapporti di inter-azione bensì di interazione linguistica, cioè includono la
trasposizione simbolica delle esperienze che intessono lo svolgimento della realtà sia personale sia
collettiva. Che queste realtà siano, per Mead, eminentemente ‘storiche’ è fuori discussione, tanto
perché la storicità è per tutti i pragmatisti il necessario correlato delle loro critiche all'essenzialismo e
alle pretese del dogmatismo filosofico o scientifico, quanto perché essa è un fattore implicito del
concetto di attività simbolica su cui insiste la nozione dell' io come istanza libera e ‘creativa,’ che
forma un aspetto importante della concezione meadiana dell'intelligenza umana.
Come già Chauncey Wright – il vivace difensore del darwinismo, che Peirce definì il «corifeo»
degli incontri del “Metaphysical Club” da cui prese forma il movimento pragmatista – Mead interpreta
la capacità di linguaggio come la «risultante di un lungo cammino evolutivo». Più precisamente, si
tratterebbe del passaggio dalla «conversazione di gesti vocali» osservabile nel mondo animale
all'esercizio di «gesti vocali simbolici o significanti», il cui funzionamento – secondo Mead – è
12
Cfr. S.B. Rosenthal, P.L. Bourgeois, Mead and Merleau-Ponty: Toward a Common Vision, State University Press,
Albany 1991.
8
descrivibile secondo il modello stimolo-risposta. Tuttavia, l'impiego meadiano del modello stimolorisposta ne esclude il classico carattere meccanicistico: i gesti vocali significanti fungono da
intermediari nel rapporto tra due o più individui e ciò che conta è l'aggiustamento reciproco della loro
condotta cui appunto la comunicazione linguistica dà luogo. In altre parole, lo scambio intersoggettivo
di espressioni linguistiche non consiste solo nel sapervi rispondere come risponderebbero gli altri,
bensì anche nell'abilità di indicare agli altri la risposta che si vuole suscitare ovvero nella capacità di
circoscrivere le componenti impulsive dell'atto linguistico e dunque di incidere in modo costruttivo
nella situazione sociale. La sospensione del meccanicismo implicito nel modello stimolo-risposta è
infatti costitutiva della definizione meadiana del concetto di significato:
Il significato è lo sviluppo di qualcosa che sussiste oggettivamente come relazione fra certe fasi
dell'atto sociale; non si tratta di un'aggiunta psichica a quell'atto e neppure di un’''idea'' nel senso
tradizionale del termine. Un gesto compiuto da un organismo, la risultante sociale di cui il gesto
è una fase iniziale, e la risposta di un altro organismo al gesto stesso sono gli aspetti di una triplice
relazione del gesto col primo organismo, col secondo organismo e con le fasi successive di un
determinato atto sociale, rispettivamente [...] Il gesto implica una certa risultante dell'atto sociale,
una risultante nei cui riguardi si manifesta una precisa risposta da parte degli individui coinvolti
in quel determinato atto sociale. In tal modo il significato è dato o viene definito in termini di
risposta (MSS, p. 98).
Insomma, come già per Peirce, il significato delle entità simbolico-linguistiche ha una struttura
triadica che – per definizione – eccede l'idea di una relazione immediata tra denotante e denotato. Ma
la concezione meadiana del linguaggio come gesto offre anche spunti importanti per una integrazione
pragmatica, appunto, delle teorie del significato sviluppate all’interno della filosofia analitica. 13
D'altra parte, l'aspetto cruciale della comunicazione linguistica sta – secondo Mead – nel riferimento
al proprio sé, cioè nell'autocoscienza, che appunto qualifica il livello dei «gesti vocali significanti» in
quanto appannaggio esclusivo del mondo umano (almeno stando alle attuali circostanze scientifiche).
L'autocoscienza coincide con ciò che egli individua come il dispositivo basilare del funzionamento
del linguaggio: la capacità di «assumere il ruolo dell'altro» nell'interazione comunicativa e, quindi,
anche di anticipare la reazione dell'interlocutore alle proprie espressioni. Non si tratta, però, di un
mero mimetismo poiché evidentemente lo spazio della comprensione reciproca sconfina in quello
dell'interpretazione degli atti linguistici e nell'attività costruttiva dell'intelligenza umana, che appunto
alimenta il piano della simbolicità. Il fenomeno del role-taking è, infatti, il nucleo portante dell'intera
attività del pensiero, dove esso acquista la figura di fondamento oggettivo della responsabilità etica
del singolo nei confronti della realtà sociale. Stiamo parlando della nozione di Generalized Other, che
Per un’analisi delle interazioni e differenze tra pragmatismo e filosofia analitica, si veda R.M. Calcaterra (ed.), New
Perspectives on Pragmatism and Analytic Philosophy, Rodopi, Amsterdam-New York 2011.
13
9
Mead introduce per indicare la capacità di interiorizzare l'insieme delle attitudini comportamentali del
gruppo sociale cui si appartiene. Per un verso, essa è il presupposto strutturale della possibilità degli
esseri umani di istituire con i propri simili una società, cioè una compagine di individui organizzata
secondo rapporti di cooperazione, come già diceva Aristotele per definire il concetto di Koinoia; per
l'altro verso, rappresenta la condizione primaria della possibilità di rapportarsi alla propria
individualità e, soprattutto, di concepirsi come soggetti consapevoli delle proprie azioni ed esigenze.
Sotto quest'ultimo profilo, la dimensione dell'Altro generalizzato si presenta come un'esperienza
basilare del soggetto razionale: l'analisi meadiana ne sottolinea la funzione normativa nello
svolgimento del pensiero, ponendola come la condizione dell'esistenza di quell'«universo di discorso»
che lo costituisce ossia di «quel sistema di significati comuni o sociali che il pensare presuppone nel
suo contesto». Al valore normativo dell'esperienza dell'Altro Generalizzato è perciò strettamente
legata la teoria meadiana della genesi sociale del Sé, dove tuttavia si impone anche l'esigenza di
controbilanciare la portata della dimensione sociale con la difesa dell'iniziativa individuale.
L'argomento di Mead è ben noto: quantunque l’esperienza dell’Altro generalizzato sia la condizione
primaria della possibilità di riconoscersi come soggetti, il singolo individuo può ottenere “la sua unità
in quanto Sé,” cioè può auto-identificarsi quale membro di un universo reale che lo comprende ma di
cui è egli stesso uno strumento effettuale, solo mediante la dialettica tra un «Me», che raccoglie gli
schemi cognitivi e valoriali socialmente precostituiti, e un «Io», che invece tende a dare risposte libere
e creative a tali schemi. In altre parole, 1'«Io» combacia con la capacità bio-logica dell'essere umano
di rapportarsi costruttivamente a una data situazione oggettiva, cioè di coglierne gli eventuali
problemi e approntare le possibilità per superarli. È appunto questa capacità a fare da perno alla
concezione mediana e deweyana dell’intelligenza degli esseri umani, vale a dire la sua identificazione
con un processo o attività di ‘problem solving.’
3. Creatività dell’io e creatività del linguaggio: caso o necessità?
Il ruolo innovativo assegnato all'Io nel processo di formazione del Sé è un leitmotiv della filosofia
sociale, della teoria dell'azione e dell’epistemologia di Mead. Diversamente dalle prospettive che
tendono a sottrarre la sfera dell'individualità dal piano dell'organizzazione etico-politica della vita
sociale – egli punta piuttosto sulla dialettica “naturale” tra «Me» ed «Io» non solo per rivendicare
l'indissolubilità di pubblico e privato ma anche per assegnare all' «Io» un valore epistemico ed etico
che appare più consistente di quello rivestito dal «Me», proprio perché ne rappresenta un tangibile
fattore di miglioramento.
10
È importante sottolineare che la funzione innovativa dell' «Io» è intesa nei termini dell'interazione
linguistica: le nuove esperienze e i nuovi criteri epistemici e valoriali di cui l’«Io» può essere portatore
contano proprio nella misura in cui, una volta immessi nel circuito della comunicazione sociale, si
prestano a un riconoscimento intersoggettivo. In breve, tutto ciò che attiene all'operatività dell' «Io»
o che, comunque, possiamo definire come una produzione della soggettività è strettamente connesso
all'effettualità dei «simboli significanti» nell'ambito delle relazioni intersoggettive e infra-soggettive:
al fatto che l'io è in grado di percepirsi come soggettività individuale, come istanza singolare e
irripetibile, solo in quanto è capace di far parte di quell' «universo di discorso» che, per Mead, è la
condizione basilare della realtà sociale così come delle espressioni più peculiari dell'intelligenza
umana.
D'altra parte, l'insistenza sul carattere creativo dell'«Io» e sul concetto di «affermazione di Sé»
tende a focalizzare il nesso tra autonomia individuale e norme sociali. Le innovazioni prodotte dall'io
sono sì una sorta di atto di ribellione contro qualche criterio del contesto normativo in atto, il quale –
secondo la teoria della genesi sociale del Sé – deve appunto essere già compreso e valutato dal
soggetto prima che egli possa contrastarlo; tuttavia, produrre un'innovazione non significa azzerare la
matrice cooperativa del proprio gruppo sociale a favore della propria individualità. Piuttosto, la
creatività dell'Io e l'auto-affermazione del Sé implicano una qualità etica per cui la validità delle sue
espressioni va giustificata alla luce del canone discorsivo, dunque intersoggettivo, del «Me». 14 Ciò
proprio in quanto la componente creativa della soggettività non si attiva, secondo Mead, in modo
automatico né in virtù di un principio metafisico, dipendendo piuttosto dalla dimensione linguistica
del «Me», che appunto media le produzioni dell' «io». Linguaggio, comportamento e “creatività”
dell'io formano, insomma, un insieme indissolubile per una visuale che insiste sul carattere non predeterminato delle nostre pratiche cognitive e valutative per consegnare, infine, un significato etico
alle potenzialità della mente umana di rispondere costruttivamente alle suggestioni dell'esperienza,
soprattutto alle situazioni problematiche che essa può presentare: a quei “dubbi reali e viventi” cui
Charles Sanders Peirce rimandava il positivo sviluppo delle nostre conoscenze.
4. Le basi bio-logiche della creatività in Peirce: l’istinto gnostico e il lume naturale
Dalla valorizzazione meadiana della “creatività dell'io” si è cercato di trarre un nuovo modello teorico
per l'analisi sociologica e per la teoria dell'azione, intrecciando le istanze di tipo psicologiconaturalista
Per un’analisi dettagliata della concezione dell’«Io» come istanza libera e creativa si veda A.M. Nieddu, Il Sé ‘creativo’
e i processi di universalizzazione, in R.M. Calcaterra (a cura di), Semiotica e fenomenologia del Sé, Nino Aragno Editore,
Torino 2005, pp. 123-146.
14
11
e quelle etico-politiche, che compongono il pensiero di Mead. Ma, anche in vista dell’irrisolto
dibattito su realismo e anti-realismo, può essere non meno interessante considerare l’impatto del suo
concetto di creatività sul piano epistemologico, avviando un confronto tra la visuale di Peirce e le
osservazioni meadiane in merito all’attività scientifica. In altra occasione, ho cercato di descrivere
quest’ultime come la proposta di un «realismo sociale», vale a dire come una prospettiva
epistemologica che, nonostante l’ammissione del carattere mai definitivo delle asserzioni scientifiche,
ne ammette la presa oggettiva sugli elementi della realtà che si prestano alle azioni umane e ai controlli
intersoggettivi dei loro risultati.15 Per il momento mi limiterò a mettere a fuoco brevemente alcuni
argomenti che riguardano il rapporto tra individualità e socialità, perché da questo punto di vista si
può proporre, a mio avviso, un primo raffronto tra Peirce a Mead in merito alla nozione di creatività.
Si può cominciare ricordando che Mead sottoscrive espressamente l’idea di James, Dewey, Russell
e Whitehead che le questioni epistemologiche vadano tradotte sul piano della logica della ricerca
scientifica accantonando, allo stesso tempo, la tradizionale opposizione tra «forme della realtà» e
«strutture della mente».16 Queste due mosse teoriche comportano, a suo avviso, un mutamento nel
modo di concepire la funzione epistemica dell’esperienza individuale: non si tratta più di cercare
soltanto di sistemare le osservazioni scientifiche individuali in un certo quadro logico, bensì di tentare
di individuare un criterio per ricostruire le condizioni entro cui esse sono state compiute, per
verificarne la validità e valutarne criticamente i rapporti con le teorie che esse vengono eventualmente
a scompaginare. Soprattutto, le esperienze individuali non sono più intese come «eventi eccezionali»
che non avrebbero alcun valore ai fini di una descrizione della realtà in termini di leggi a carattere
universale. Invece, le scienze moderne hanno sviluppato una serie di meccanismi di controllo
dell’esperienza individuale che consentono di inserire «le eccezioni» come parte integrante della
ricerca, ovvero come la base di nuovi problemi e dunque di nuove ipotesi scientifiche che, una volta
verificate intersoggettivamente, «diventano soluzioni universali». 17 Tutto questo, Mead afferma,
corrisponde allo svolgimento della coscienza soggettiva: la scienza non è «anomala» rispetto alla
«natura propria della coscienza» ma rappresenta piuttosto «i poli della sua stessa vita».
D’altra parte, il problema filosoficamente più rilevante è la chiarificazione del rapporto tra
individui e società, e qui la posizione meadiana è precisa: tanto la scienza quanto ogni realtà sociale
non sono altro che una «organizzazione delle prospettive degli individui reali», il che a sua volta
significa «ritrovamento di ciò che in esse vi è di universale». Come Mead sostiene in The
Cfr. R.M. Calcaterra, Individual and Sociality in Science: G.H. Mead’s “Social realism,” in «Cognitio» Vol. 9, n. 1,
2008, pp. 27-39.
16
G.H. Mead, Movements of Thought in the Nineteenth Century, University of Chicago, Chicago1936, pp. 264-91, 32659.
17
Ibid., p. 410.
15
12
Philosophy of the Present, l’oggettività delle prospettive deriva dalla dialettica tra individuale e
sociale, sicché può dire che «l’autentica caratteristica dell’individualità sta nello scoprire certe
eccezioni all’universale e nel procedere alla formazione di altri universali» e che in tutto questo
consiste, né più né meno, «la vera natura dell’esperienza riflessiva». 18 La scoperta di “eccezioni” agli
universali e la «formazione di nuovi universali» coincidono, nella sua analisi, con l’andamento
interpretativo, costruttivo e fallibilista del sapere scientifico e, sotto questo profilo, la vicinanza con
Peirce si fa stringente. L’epistemologia del fondatore del pragmatismo è, com’è noto, strettamente
legata alla sua semiotica cognitiva, che appunto sancisce la natura interpretativa dei nostri rapporti
con la realtà oggettiva eppure esclude il nominalismo e lo scetticismo teorizzando invece il continuum
logico-ontologico tra mente e mondo, tra la conoscenza e i suoi oggetti, nonché sul duplice
riconoscimento della fallibilità di principio delle nostre asserzioni conoscitive e della capacità di autocorrezione dell’intelligenza umana. Occorre necessariamente lasciare sullo sfondo le varie
sfaccettature della semiotica di Pierce, ma è importante sottolineare che la sua idea del continuum
configura il solido rapporto tra l’essere umano e il mondo oggettivo che si offre alla sua conoscenza:
un rapporto vitale ovvero, nel linguaggio peirceano, “pragmatico,” cioè fatto di interazione e
reciprocità. Che poi tutto questo implichi la comunità come il termine a quo e ad quem delle
definizioni del reale è quanto egli sostiene fin dai saggi giovanili in cui getta le basi della sua semiotica
cognitiva.
Il quadro continuista in cui si inscrive la filosofia di Peirce è analogo all’impianto del naturalismo
di Mead principalmente in quanto in entrambi i casi la continuità mente/mondo ovvero
conoscenza/realtà implica la centralità del campo dell’agire. D’altra parte, è pur vero che bisogna fare
i conti con la diversità dei linguaggi filosofici che essi adottano, fermo restando che è alquanto
improprio segnare una linea di netta demarcazione appellandosi alla qualità metafisica del discorso
peirciano e, viceversa, al naturalismo ‘antimetafisico’ di Mead. Occorrerebbe un lungo discorso al
riguardo ma per ora posso solo accennare ad alcuni passaggi peirciani che rimandano alla nozione di
creatività esibendone l’accezione naturalistica. Mi riferisco in particolare ad un’annotazione del 1896
destinata al progetto mai completato di una History of Sciences, dove Peirce parla lume naturale cui
si appellava Galileo e dei «giudizi istintivi» ai quali anche gli altri fisici che hanno dato impulso alla
scienza moderna (Keplero, Gilbert, Harvey e Copernico) «accordavano grande importanza». Il
legame tra lume naturale, «giudizi istintivi» e conoscenza oggettiva sembra essere, per Peirce, un
dato concreto, realmente operante nell'attività scientifica, proprio perché lo scienziato
18
Ibid., p. 456.
13
«è spesso portato a sperimentare le suggestioni dell’istinto», vale a dire a confrontarle con
l'esperienza, tenendosi pronto a rigettarle al primo avvertimento dell'esperienza stessa (CP 1.634). Di
per sé il lume naturale è «un'idea metafisica» che si può addurre a giustificazione del principio
regolativo che «vi sia infine una concordanza tra le nostre idee e la costituzione della natura», in ogni
caso il suo portato equivale ad una «congettura» (CP 1.180).
Inoltre, in un manoscritto databile al 1902, dedicato alla classificazione delle scienze (CP
1.186284), si parla della «curiosità» assimilandola ad un «istinto gnostico»: «Le scienze teoretiche
dipendono da questo istinto», benché la soddisfazione della curiosità vada considerata come il loro
movente e non il loro scopo. Resta comunque una tensione tra il suggerimento della radice
naturalistica della razionalità scientifica e, soprattutto, delle pratiche conoscitive, da un lato, e l’idea
che naturalità e scientificità siano termini correlati cui si interpongono momenti non certo demandabili
all'istinto o alla mera spontaneità del soggetto umano. La valenza del lume naturale si stempera,
infatti, nella definizione dell’ “istinto gnostico” come predisposizione alla possibilità di conoscere la
realtà, potremmo dire come condizione di possibilità puramente formale, che però, per attualizzarsi,
implica fattori che eccedono la matrice istintuale.
Peirce parla di «istinti umani» in diversi contesti, ad esempio quando illustra il «principio sociale
della logica» ricollegandolo appunto all’istinto sociale degli esseri umani, e anche su questo punto
sarebbe interessante un confronto con Mead. Ma restando al nostro tema, conviene osservare la
suggestione peirceana di connettere la funzione dell’istinto gnostico al piano del senso comune.
Analogamente ad Aristotele, Peirce distingue tra conoscenze pre-scientifiche e conoscenze
scientifiche, assegnando alle prime una valenza non dissimile da quella attribuita dallo Stagirita alla
doxa, vale a dire la sua corrispondenza con l’orexis primaria del sapere. Inoltre, se per Aristotele
«l’episteme vertente su certi principi e cause» (Metafisica 982, a 1-3) si radica nella physis dell'essere
umano, nel suo tendere naturaliter alla conoscenza e, dunque, la sofia è sia autorizzata a tenere in
conto le forme della doxa sia tenuta ad esaminarle con rigore scientifico, Peirce suggerisce che senso
comune e istinto gnostico si intersecano in modo tale da giustificare una concezione semiotica dei
processi conoscitivi che ne segnala, da un lato, la continuità con la sfera naturale e, dall’altro, la
differenza specie-specifica.
Non vi è dubbio che una delle principali preoccupazioni di Peirce fosse di comprendere la capacità
degli scienziati di introdurre nuove idee nella spiegazione della realtà. Le novità scientifiche sono
frutto della creatività umana, di un ‘istinto’ alla razionalità, di una capacità istintiva oppure del mero
caso? Probabilmente egli non poté dare una risposta univoca a queste domande, proprio perché
l’impianto semiotico del suo pensiero richiede uno sguardo olistico e non definitorio rispetto alle
14
questioni filosofiche. Certo non si può dire che considerasse le scoperte scientifiche come eventi
meramente casuali, proprio perché il suo continuismo sta a dire l’affinità tra mente e mondo, benché
non nel senso dell’assunzione metafisica della teoria ‘spettatoriale’ della conoscenza ma piuttosto
secondo il resoconto semiotico-pragmatico dei processi conoscitivi. Del resto, non a caso Peirce
traduce il problema della creatività nell’analisi del ragionamento abduttivo che, senza esitazione, egli
ritiene essere il perno vitale della ricerca scientifica così come delle nostre pratiche cognitive più
ordinarie. Si sono spese molte e illuminanti parole su questo tema, dunque mi limito a qualche rapida
osservazione che potrebbe concorrere ad un confronto critico con Mead.
Un primo passo in questa direzione sta nel considerare che Peirce, proprio come Mead, non può
tematizzare la funzione creativa in termini di “libertà della ragione” in senso kantiano, oppure
appellandosi alla capacità di intuizione immediata proposta dalla tradizione platonico-cartesiana. In
breve: la creatività non può concernere il registro delle strutture a priori della coscienza o della
razionalità, proprio perché egli considera entrambe come il fluire della mental action in cui soltanto
il dinamismo può essere inteso come una costante, cioè come relazione potenzialmente sempre nuova
ad un “concreto” – intendendo con ciò sia la concretezza delle esperienze fattuali che di volta in volta
si impongono, sia le suggestioni che concretamente il pensiero man mano incontra nel corso della sua
attività sia, infine, gli habits logici e comportamentali che la sostengono. In quest'ottica, pur nel suo
essenziale carattere dinamico, il pensiero è sempre relativo ad una qualche necessità ‘oggettiva’ con
cui deve fare i conti, anche nelle sue forme più sofisticate, come la conoscenza scientifica. Pertanto,
in sede logico-metodologica il concetto di libertà prende la forma di una decisione programmata ad
organizzare in un certo modo l’osservazione dei 'fatti', rappresentando altresì la capacità di autocontrollo della mente umana, vale a dire della sua specifica possibilità di stabilire regole
autonomamente e quindi di correggere eventuali errori procedurali o di impostazione teoretica. È
quest’ultimo un concetto centrale della filosofia peirceana: l’autocontrollo è il principio cui è
largamente soggetta quella particolare «specie di condotta» che è il pensare, anzi
«l’autocontrollo logico è uno specchio perfetto dell’autocontrollo etico, a meno che non sia piuttosto
un aspetto dell’autocontrollo etico» (CP 5.419). Identificandolo con «la capacità del soggetto pratico
di innalzarsi ad una prospettiva allargata, piuttosto che vedere solo le necessità temporanee», Pierce
può infine asserire che l’autocontrollo è «la sola libertà di cui l'uomo può andare orgoglioso» (CP
5.529, n.1) e viene qui da chiedersi in quale misura ciò possa collimare con le suggestioni di Mead in
merito alla potenzialità dell’«Io» di incidere ‘creativamente’ sulla costruzione di un «Me» sempre più
ampio, ossia inclusivo di prospettive sia etiche sia epistemiche che proiettano la mera contingenza
verso lo spazio del criterio di universalità. Certo, benché per ragioni diverse, né Pierce né Mead si
15
sono dedicati ad analisi dettagliate del rapporto tra libertà e creatività sul quale, infatti, si giocano
gran parte dei problemi del naturalismo. Tuttavia vi sono forse buoni motivi almeno per dire che le
loro indicazioni al riguardo mostrano un forte impegno a procurare un concetto filosofico di ‘natura
umana’ che, proprio in quanto cerca di riprodurne la dinamicità concreta, supera le aporetiche
astrazioni della metafisica tradizionale. Resta il fatto che tanto Peirce quanto Mead non hanno potuto
fare a meno di costeggiare il discorso metafisico, anche se sotto nuovi segni. Ciò forse semplicemente
perché ‘libertà’ e ‘creatività’ sono parole che appartengono al vocabolario della filosofia e, come
Peirce stesso afferma, non basta negare l’importanza della metafisica per evitare i suoi errori, ma
occorre piuttosto organizzarla secondo una filosofia accuratamente costruita (CP 7.579).
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