Anno VI
Numero 53
maggio 2009
NOI SIAMO I DURI
NOI SIAMO I DURI
Il 26 gennaio 1967 Luigi Tenco viene trovato
morto nella sua stanza d’albergo. E forse, mai
come prima, il giallo entra nelle case italiane,
direttamente dalla televisione e da quello che
al tempo era il simbolo dell’italianità: il festival
di Sanremo. Un disturbo, una frattura, per un
attimo tutto si fermò e per certi versi non fu più
lo stesso. Uno di quei gialli italiani che poi sarebbero diventati misteri e attrazione da prima
serata. Il caso Tenco è uno di quelli che fa riflettere, un perfetto esempio di musica che si tinge
di giallo ma anche di più. È una storia degna di
un romanzo come la vita rocambolesca e passionale di Luigi. Potrebbe essere un film con il bel
tenebroso (Tenco), la bella (Dalida con cui l’artista viveva una storia tormentata), l’intrigo internazionale (il suo viaggio in Sud America appena
prima della morte lascia aperte molte strade alternative a una morte che venne archiviata come
suicidio). Una vita che ha in sé tutto il senso di
questo numero.
Di questo parla il nostro nuovo numero di Coolclub.it: del giallo, il noir, delle sue tante sfumature e dei mondi che coinvolge (musica, letteratura, cinema, fumetti).
Forse perché questo “genere” (parola riduttiva
per definire una forma, un tema o una relazione tra ricorrenze, in alcuni casi una fissazione)
appartiene alla vita, alle sue passioni, alla sua
storia, alla realtà e alla sua irrazionalità. È figlio
del crimine e per questo affascinante nel suo essere il lato oscuro.
Un argomento, come molti di quelli trattati nei
nostri numeri, sconfinato…
Abbiamo scelto di far parlare chi, più di noi, è
inzuppato di queste “tinte”. Parola agli scrittori
(i nostri amici Nino D’Attis e Omar Dimonopoli)
che hanno intervistato altri scrittori, tutti legati
da questo “filo rosso”.
Abbiamo cercato di legare il “genere” ai generi
con un piccolo necrologio rock, un panoramica
sul cinema e il fumetto in giallo.
Ci siamo domandati poi se ci fosse un suono che
potesse in qualche modo avvicinarsi al mood del
noir. Messe da parte le colonne sonore tipiche
dei film polizziotteschi (Moroder, Piccioni,…) ci
sembrava che il clima di alcuna new wave, di un
certo post rock e forse anche del punk potessero
in qualche essere assonanti… probabilmente ci
sbagliavamo. Abbiamo intervistato per questo
numero il grande Federico Fiumani, gli italo
francesi Ulan Bator ospiti il 30 maggio del nostro
festival KeepCool e l’inossidabile Giorgio Canali.
Puntuali come ogni mese le nostre rubriche (salto nell’indie, on the rock). Spazio ai libri e non
solo noir con un’intervista a Marco Rovelli autore di Lavorare Uccide e alla casa editrice Todaro.
Per la sezione cinema un ricordo a un maestro,
anche del giallo, Stanley Kubrick scomparso da
dieci anni e ancora recensioni dei film in sala, il
teatro con il ritorno di César Brie a Lecce e tutti
gli appuntamenti del mese.
Buona lettura.
Osvaldo Piliego
Editoriale 3
CoolClub.it
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Anno 6 Numero 53
maggio 2009
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
C. Michele Pierri, Cesare
Liaci, Antonietta Rosato, Dario
Goffredo
Hanno collaborato a questo
numero: Omar Dimonopoli,
Marco Montanaro, Dino
Amenduni, Ennio Ciotta,
Marco Chiffi, Vittorio Amodio,
Tobia D’Onofrio, Alfonso
Fanizza, Rino De Cesare,
Federico Baglivi, Camillo
Fasulo, Oscar Cacciatore,
Roberto Cesano, Nino G.
D’Attis, Stefania Ricchiuto,
Giorgia Salicandro, Michela
Contini, Lucio Lussi, Giusi
Ricciato, Eleonora Leila
Moscara, Dario Quarta,
Francesco Spadafora,
Ringraziamo Manifatture
Knos, Cooperativa Paz
di Lecce e le redazioni di
Blackmailmag.com, Radio
Popolare Salento di Taranto
e Lecce, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le),
Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
quiSalento, Lecceprima,
Salento WebTv, Musicaround.
net.
Progetto grafico
erik chilly
Impaginazione
dario
NOI SIAMO I DURI
Tommaso Pincio 6
Eraldo Baldini 10
John Lennon shot dead 14
Il crimine paga 18
musica
Diaframma 20
Ulan Bator 22
Recensioni 27
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione giovedì,
giusto in tempo per vedere
C.S.I.
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abbonamenti:
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Libri
Lello Gurrado 42
Marco Rovelli 44
Recensioni 47
Cinema Teatro Arte
Stanley Kubrick 52
Recensioni 55
César Brie 56
Eventi
Calendario 59
sommario 5
FA PAURA
SE CI CREDI
Nino G. D’Attis intervista Tommaso Pincio
Cinque romanzi, un saggio (sugli alieni!), la sua
firma su numerosi articoli di critica letteraria,
musica e cinema. Nel 2008 Tommaso Pincio ha
pubblicato Cinacittà (Einaudi), noir atipico e bellissimo, ambientato in una Roma a venire di delitti, strip-bar e cinesi. Recentemente è tornato a
dipingere, in attesa del prossimo fiume di parole,
del prossimo congegno narrativo ad orologeria.
Cool Club fa un numero sul giallo, sul noir.
Vorrei chiederti quale è a questo proposito
il tuo primo ricordo: un film, un libro, un
fumetto...
Forse non è noir in senso stretto, ma il primo
pensiero è Alfred Hitchcock. Mia madre era una
sua grande fan e ne parlava in continuazione. Ho
visto i suoi film da giovanissimo, praticamente
da bambino. Andavo pazzo per la sua serie televisiva in bianco e nero. Alcuni suoi film, come
Vertigo o Gli Uccelli, li ho visti decine volte.
Continuo a vederli anche adesso. Sarà che è una
passione di famiglia, ma per me Hitchcock è un
genio assoluto. Si parla tanto di Kubrick, ma il
vero numero uno è lui. Sta al cinema come Simenon sta alla letteratura, e forse anche di più.
A proposito di ricordi: Cinacittà è un libro
molto legato al luogo in cui si svolge la storia ed è attraversato da un’idea anche feticistica di una Roma che non c’è più dopo
il grande esodo, dopo che tutto è andato
in rovina. Il tempo che sottrae inevitabilmente una certa percezione dei luoghi, delle cose, mi pare ancora al centro della tua
poetica.
Temo sia una condizione umana. O meglio:
una condanna. I luoghi sono destinati a mutare, mentre noi restiamo fatalmente legati al
momento in cui li abbiamo conosciuti. Va detto
però che Roma è talmente grande nella sua decadenza infinita che alcuni suoi aspetti risultano
assolutamente impermeabili al cambiamento.
Quel che mi interessava raccontare in Cinacittà
era per l’appunto il senso della caduta, che è poi
il mistero più irrisolto di Roma: il crollo del suo
impero per mano dei barbari. La caduta di Roma
in quanto metafora del tramonto dell’Occidente.
Hai paragonato il protagonista al Raskol’nikov di Dostoevskij. E, come in Delitto e Castigo, anche nel tuo libro, ciò che investe
davvero il lettore è l’estrema solitudine di
questo personaggio. Il fatto di non conoscere il suo nome è a mio avviso significativo:
lui è tutti noi e noi tutti siamo accidiosi e
soli, proprio come i personaggi di un noir
in cui tutto casca addosso al personaggio
precipitandolo verso un tragico destino.
Nella stesura iniziale il romanzo era scritto in
terza persona e il nome di Tommaso Pincio come
protagonista veniva fatto esplicitamente fin dalla prima riga. L’effetto era a tal punto gelido ed
estraniante che ho temuto di rimetterci la sanità
mentale. Così ho rivisto il tutto in chiave più personale, più intima. Alla fine il romanzo è diventato una lunga confessione, il che mi ha permesso di confrontarmi con la morale tutta italiana e
cattolica per cui basta raccontare e pentirsi delle
proprie colpe per espiarle. Volendo metterla in
termini dostoevskijani, Cinacittà è una sorta di
Delitto e Assoluzione.
Una volta mi hai detto di esserti avvicinato
alla scrittura leggendo Cuore di Tenebra di
Conrad. Vorrei chiederti se ti capita mai,
mentre stai scrivendo, di domandarti come
uno scrittore che in qualche modo ti ha
influenzato avrebbe potuto descrivere la
stessa scena, gli stessi personaggi.
A voler essere franchi, no. Mi tengo stilisticamente lontano dagli scrittori che hanno significato molto per la formazione del mio immaginario. I mondi che descrivo, le storie che racconto,
discendono ovviamente da gente come Dick o
Burroughs, ma non scrivo affatto come loro. Non
cerco di imitarli, non mi domando come avrebbero risolto certi passaggi. Credo non sia proficuo
cercare di imitare gli scrittori che si sono amati
alla follia. Di solito è altrove che guardo per migliorare la mia pagina, leggo un po’ di Graham
Greene o Simenon, e mi metto al lavoro. Lo so
che può sembrare poco credibile, ma è la verità.
E se vai al fondo di come scrivo, depurandolo dal
“cosa”, ti risulterà evidente.
Sei soddisfatto del modo in cui è stato accolto da pubblico e critica il tuo ultimo romanzo?
Sono sempre grato a chi si interessa al mio lavoro, qualunque cosa ne pensi. Di Cinacittà si è
parlato abbastanza, tanto tra gli addetti ai lavori che nel più vasto popolo dei lettori. Il consenso non è stato unanime, ma essendo più che
consapevole di non avere scritto un romanzo per
così dire nazionalpopolare me l’aspettavo. Certe
reazioni stizzite, meravigliate o indignate erano
messe nel preventivo. Tuttavia sono rimasto sorpreso dal consistente numero di persone, anche
accorte, che lo hanno preso alla lettera e bollato
come razzista, confondendo le motivazioni del
protagonista con gli intenti dell’autore. È stata
tuttavia una reazione interessante, poiché diNOI SIAMO I DURI 7
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mostra quanto non sia per nulla scontata la distinzione tra la finzione narrativa e la presunta
realtà. Poi ci sono stati quelli che lo hanno apprezzato e che fortunatamente sono stati la maggioranza. Almeno così mi è parso.
Qualche anno fa, Nick Tosches ha detto che
siamo entrati in un’era post-letteraria. Ho
ripensato a questa dichiarazione il giorno
in cui è morto James Ballard e da noi tutti
i notiziari televisivi parlavano solo di Hannah Montana. Tu cosa pensi?
Non esiste alcuna era post-letteraria. La letteratura finirà soltanto con l’estinzione del genere
umano. Mi sorprende che scrittori intelligenti si
lascino trarre in inganno da turbolenze di superficie. Hannah Montana è uno spruzzo di schiuma
sulle onde, James Ballard è il fondo dell’oceano.
Ovviamente bisogna intendersi su cos’è la letteratura. Se pensiamo all’oggetto libro, alla narrazione romanzesca stampata su carta, sono disposto a concedere che qualcosa è cambiato. Ma il
cuore della letteratura non consiste in un mattone di carta. La letteratura è l’attrazione umana
e irrefrenabile verso il racconto. La letteratura è
sempre stata minoritaria ed elitaria. Pensi davvero che Dante, ai suoi tempi, fosse più popolare
degli scrittori di oggi? La stragrande maggioranza della gente non sapeva manco leggere all’epoca, figurarsi se aveva la più vaga idea di chi era
Dante. La verità è che la nostra è una civiltà di
massa. È soltanto per questo che la marginalità
della letteratura ci sembra più tragica ed enorme che in passato: perché c’è una massa che può
esprimere a gran voce la propria cultura (o sottocultura) grazie a mezzi come la televisione. Non
mi meraviglio né mi dolgo che i notiziari parlino
di Hannah Montana. È nella natura delle cose.
Piuttosto mi preoccuperei del contrario: se milioni di persone cominciassero a preoccuparsi della
morte di uno scrittore “bizzarro” come Ballard.
Hai mai l’impressione che il pubblico italiano sia di gomma? Puoi raccontargli storie
torbide, piene di personaggi perfidi, inzuppate di umorismo nero, di grottesco, eppure tutto questo rimbalza indietro. Puoi tirargli addosso di tutto, e niente lo scalfisce.
C’è a mio avviso soprattutto un rifiuto della
satira sociale in forma letteraria.
Breton, il padre del surrealismo, detestava noi
italiani perché ci considerava il popolo più scettico del pianeta. Condivido parzialmente il suo
punto di vista. Il problema non risiede nella nostra insensibilità alle storie truculente, ma piuttosto l’indifferenza alla dimensione della fiction.
L’italiano è come San Tommaso: vuol mettere il
dito nella piaga e bisogna che la piaga sia vera.
Non è un caso se da noi i reality show hanno
un’enorme presa sul pubblico. Il guaio è che col
passare del tempo si diventa indifferenti anche
alla realtà nuda e cruda.
Ti interessi di cinema, hai studiato arte e
sei un pittore. Credi che la letteratura abbia ancora qualche possibilità di dimostrare la sua sopravvivenza in un’epoca fortemente dominata dalle immagini?
Sarà che sono abituato a occuparmi di entrambe,
ma trovo che le due cose non siano antitetiche
né inconciliabili. La letteratura non è affatto
minacciata dalla contemporanea proliferazione
d’immagini, anzi. Ammesso e non concesso che
questa sia davvero l’epoca delle immagini, come
sostengono alcuni sapientoni. Personalmente ho
parecchi dubbi in proposito. L’immagine è da
sempre un tratto distintivo della cultura occidentale. Vogliamo forse paragonare l’incidenza
che ha avuto la pittura italiana del XV e XVI
secolo con quella della letteratura prodotta nello
stesso periodo? Se guardiamo al mondo orientale, il discorso è diverso. Nelle culture asiatiche,
l’immagine non ha mai avuto la stessa pervasiva
invadenza ed è stata più spesso inglobata all’interno della parola scritta. Lì sì che la massiccia
diffusione di immagini può avere impatti rilevanti.
Tra La Ragazza che non era lei e Cinacittà hai pubblicato un saggio sugli alieni. E
adesso?
Sto lavorando a un libro sulla letteratura americana e al contempo ho ripreso a dipingere con
una certa continuità, spero di poter fare una
mostra a breve. Infine sto meditando di scrivere
un romanzo storico ambientato nel Seicento. Lo
scenario è più o meno questo al momento.
Nino G. D’Attis
NOI SIAMO I DURI 9
IL KING PADANO
Omar Dimonopoli intervista Eraldo Baldini
Eraldo Baldini è nato a Russi in provincia di
Ravenna. Dopo essersi specializzato in Antropologia Culturale ed Etnografia, ed avere scritto
diversi saggi in quei campi, agli inizi degli anni
Novanta si dedica alla narrativa. Nel 1991 vince
il Mystfest di Cattolica col racconto Re di Carnevale: è di lì che inizia la sua carriera di scrittore.
Oggi è non solo romanziere affermato in Italia
e all’estero, ma anche sceneggiatore, autore teatrale e organizzatore di eventi culturali.
Lo ha intervistato per coolclub.it lo scrittore
Omar Dimonopoli.
Partiamo da Mal’aria. Da poco Rai Uno ha
mandato in onda lo sceneggiato tratto da
quel libro del 1998 vincitore del Premio
Fregene: dando per scontato che sia un
romanzo a cui tieni molto – essendo quello
che in qualche maniera ti ha portato alla
ribalta come autore – sei soddisfatto della
trasposizione televisiva? E inoltre, poiché
nel passaggio da un media all’altro un certo
grado di “tradimento” è inevitabile, ti sembra che il lavoro svolto dalla regia abbia
contenuto entro un limite accettabile questo lavoro?
La fiction è abbastanza diversa dal romanzo, ma
questo era scontato: si tratta di un libro estremamente duro e drammatico che, così com’è, difficilmente avrebbe potuto essere trasposto in tivù su
Rai Uno e in prima serata. Al di là di ciò, io trovo
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che il film non sia male, soprattutto se confrontato con ciò che normalmente passa a quell’ora
il piccolo schermo; sceneggiatori, regista e attori
hanno svolto un lavoro più che dignitoso. Bisogna mettersi nell’ordine di idee che si tratta di
un’altra cosa rispetto al romanzo: raccontata in
modo diverso, per un mezzo diverso e forse anche per un pubblico diverso. Un pubblico enorme
rispetto a quello dei lettori: Mal’aria in tivù ha
avuto 6 milioni e mezzo di spettatori, una cifra
davvero straordinaria, che ha portato il mio lavoro, per quanto rivisitato, a una visibilità che le
vendite in libreria non mi avrebbero potuto dare
in tutta una vita.
Televisione, appunto. Avendoci avuto a che
fare, hai un’opinione sulla discussa piattezza delle nostre produzioni rispetto, ad
esempio, a quelle sperimentali e innovative
provenienti dall’America? Che serial come
Lost, 24, E.R. et similia da un decennio a
questa parte abbiano rivoltato come un
guanto il modo di approcciare al racconto
sul piccolo schermo è un dato di fatto: perché noi non riusciamo ad essere altrettanto
innovativi? Possibile che sia solo una questione di budget?
Bé, il budget non è un problema secondario, ma
forse non è neppure il principale. Gli americani
fanno tivù da molto più tempo di noi e hanno una
tradizione diversa e migliore non solo di quella
italiana, ma in genere di tutta quella europea.
Nel nostro Paese, poi, si evidenziano problemi
maggiori e diversi: una tivù pubblica poco incline alla meritocrazia e condizionata da beghe
politiche, poco coraggiosa e povera di idee e di
stimoli; una tivù privata che mira principalmente al profitto e che non fa certo della qualità un
proprio obiettivo; un confronto fra i due grandi
poli televisivi che si svolge “al ribasso”, in una
forsennata rincorsa ad accaparrarsi il pubblico
meno esigente. Insomma, non è una situazione
rosea, ma speriamo che qualcosa si muova.
La letteratura “di genere” è oggi in Italia,
con gran ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, definitivamente sdoganata. Tu hai
sempre sostenuto di non porre limiti al tuo
lavoro e che le etichette finiscono per metterle gli altri, eppure, obiettivamente, dai
tempi di Gotico rurale in poi non si può negare che la tua produzione (un mix di horror
e noir, con numerose articolazioni non necessariamente definibili) s’incastoni in un
filone, in una tendenza che probabilmente
tu stesso hai aiutato a codificare nel nostro
Paese. Cosa pensa oggi un pioniere del “genere” della diffusa moda del noir?
Il giallo e il noir in Italia negli ultimi 20 anni
hanno rivitalizzato la nostra editoria, assicurato
un buon numero di lettori e di acquirenti di libri
e portato linfa anche a cinema e tivù. Dunque
un movimento molto positivo, in grado anche di
ovviare a certe assenze, come quella del romanzo
d’avventura, di certo romanzo sociale, eccetera.
Al di là di questi meriti, però, va segnalato un
rischio: oggi ci sono troppi gialli e noir, e pare che
le nuove leve di scrittori non possano esimersi
dal percorrere i sentieri del “genere”. Insomma,
una specie di “crisi di crescita” che prima o poi
presenterà il conto, temo. Credo comunque che
una generazione di scrittori che si è formata e
affinata nella “palestra” del noir sia oggi pronta
a dare anche altro e di più, e i segni di questo
passo in avanti forse si stanno già manifestando.
Sin dai tuoi esordi apparve chiaro quanto
il territorio in cui hai sempre vissuto (il Ravennate) e i legami arcaici con il mondo rurale di quelle zone fossero una componente importante della tua vena creativa, al
punto che in molti si misero a parlare di te
come di uno “Stephen King padano”. Credi ancora che quel legame nutra parecchia
della linfa vitale dei tuoi scritti, o col tempo
hai imparato a guardare con maggiore distacco alle tue radici?
Le mie radici sono molteplici: quella territoriale è una delle più importanti ma non l’unica,
perché accanto ad essa ne va messa una di tipo
culturale che non ha confini. Per capirci: il mio
immaginario, come quello di Stephen King o di
chiunque altro nel mondo occidentale sia nato
una cinquantina d’anni fa, si è formato sì con le
suggestioni locali, ma anche con quelle insite nei
film, nei libri, nei telefilm, nei fumetti, nella musica e nell’arte di quell’arco temporale. Detto ciò,
il mio mondo “padano” non ha cessato e non cesserà mai, credo, di darmi emozioni ed idee, oltre
che un carattere, e la stessa cosa in un modo o
nell’altro può essere estesa alla gran parte degli
scrittori. Pensa solo a come il giallo italiano sia
fortemente legato ai vari territori di nascita degli autori, e di come ciò non sia un limite, ma un
modo di raccontare tutto il nostro Paese e le sue
multiformi caratteristiche.
Assieme a Marzaduri, Fois, Rigosi, Lucarelli e pochi altri hai fuori di dubbio contribuito parecchio alla causa del “genere” italiano. Oggi ti capita di sfogliare opere delle
nuove leve? Detto in soldoni: il panorama
italiano ti sembra degno d’interesse? E se
sì, hai qualche nome in particolare, qualche romanzo (anche non necessariamente
appartenente a un filone predefinito) che
ultimamente abbia suscitato il tuo plauso?
Ho qualche difficoltà a rispondere per due motivi. Il primo è che una buona parte degli autori italiani li conosco personalmente, e alcuni
sono miei cari amici, per cui non sono in grado
di esprimere un giudizio distaccato. Il secondo
è che negli ultimi anni leggo molta saggistica e
poca narrativa. Insomma, mi trovi un po’ impreparato sull’argomento...
A che stai lavorando adesso?
Sto mettendo mano al nuovo romanzo. Il genere
e la cifra narrativa saranno più o meno i soliti,
ma l’ambientazione stavolta non sarà per niente
padana: la vicenda si svolgerà nelle selve germaniche di duemila anni fa. Di più non dico, per
scaramanzia.
Ultima domanda che è una consuetudine
per tutti gli intervistati di Coolclub.it: che
musica ascolti quando scrivi? (e se non ne
ascolti, quale musica nutre il tuo immaginario?)
Scrivo in perfetto silenzio. Quando ascolto musica, si tratta di solito di buon vecchio blues.
Omar Dimonopoli
NOI SIAMO I DURI 11
LO SCHERMO
È NERO
La prima immagine che mi viene in mente è
quella della panza di Orson Welles ne L’Infernale Quinlan (1958). C’è Charlton Heston che fa
Ramon Miguel Vargas, poliziotto messicano della narcotici che mentre è in luna di miele con la
moglie Susie (Janet Leigh, di lì a poco vittima di
Anthony Perkins in Psycho di Hitchcock) assiste
all’omicidio di un uomo e finisce nei casini.
Siamo a Tijuana, posto sconsigliabile al confine
tra Stati Uniti e Messico. Caldo, piombo, droga,
corruzione e tacos. E se Marlene Dietrich interpreta una sfatta chiromante, Welles ritaglia per
se stesso il ruolo più ambiguo: tutore della legge,
figlio di puttana, visceralmente razzista, tragico
antieroe shakespeariano. A dieci anni, son cose
che ti segnano: giravo per casa con un cuscino
infilato sotto la maglietta, una .38 Special giocattolo in pugno e il Fedora Borsalino di nonno An-
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tonio in testa. Mio nonno si svegliava dalla pennichella pomeridiana guardandosi intorno con
fare sospetto. Imprecava a capo scoperto, quindi
metteva sistematicamente a soqquadro tutta la
casa alla ricerca del suo prezioso cappello. Minacciava rappresaglie. Ostentava determinazione. Bestemmiava tutto il calendario dei tycoons
di Hollywood ma io sapevo di essere un tipo pericoloso. Ero Hank Quinlan, lo stesso ghigno diabolico stampato sulla faccia. Prima, me lo ricordo
bene, ero stato l’occhio privato Jake Gittes, detto
J.J., in Chinatown (1974) di Roman Polanski.
Ingaggiato per indagare sulle probabili infedeltà
coniugali di Hollis Mulwray, ingegnere capo del
dipartimento idrico della città di Los Angeles nel
1937. Sguardo da duro e cerotto sul naso: mettetemi davanti una Circe, una Salomé, una Poison
Ivy, insomma, una femme fatale avvezza all’arte
del Search & Destroy (ma con classe e carnalità,
perbacco!) e vi risolverò il fottuto caso! Torbido
charme. La forza ammaliatrice in grado di far
precipitare qualsiasi re dal suo trono.
Faye Dunaway. Tutta colpa di Faye Dunaway,
me ne rendo conto solo adesso. Adoravo quella
donna, e la adoro ancora, Dio la benedica. Sempre avuto un debole per le donne dell’intrigo:
Barbara Stanwyck ne La Fiamma del peccato
di Billy Wilder (1944). Rita Hayworth ne La
Signora di Shanghai (ancora Welles, l’anno è il
1946). Lauren Bacall in The Big sleep di Howard
Hawks (1946). Sharon Stone in Basic instinct
di Paul Verhoeven (1992). Patricia Arquette in
Strade perdute di Lynch (1997). Rebecca Romijn
(nella foto) in Femme fatale di De Palma (2002).
Fu davvero un brutto colpo quando seppi che De
Palma aveva scritturato Scarlett Johansson per
il ruolo di Kay Lake nella riduzione cinematografica del romanzo Dalia Nera. Accoppiata a
Josh Hartnett, poi: mozzarella di bufala e carciofo, niente a che vedere con i personaggi della
Los Angeles Nera di James Ellroy.
Ma sto divagando. Quando mi hanno chiamato
per scrivere il pezzo che state leggendo, avevo
appena finito di spolverare lo scaffale dei miei
Dvd. Non ne ho molti, a dire la verità, ma nella collezione non manca Il Terzo uomo (1949)
di Carol Reed, con Joseph Cotten, Alida Valli e
(rieccolo) Orson Welles. Sceneggiatura ad orologeria di Graham Greene. Il protagonista è Holly Martins, scrittore americano indigente che,
nella Vienna post-bellica indaga sulla morte di
un vecchio amico, Harry Lime. Buio, atmosfere
decadenti, tensione al massimo. Categoria pellicole che invecchiano bene.
Lo spazio è tiranno e avrei dovuto parlarvi di altri film che rivedo con piacere infinite volte: Il
Cattivo Tenente di Abel Ferrara, oppure Il Grido
(1957) di Michelangelo Antonioni, a sua volta
ispirato ad Ossessione, l’esordio nel lungometraggio di Luchino Visconti (l’anno è il 1943, la
fonte è il romanzo Il Postino suona sempre due
volte di James M. Cain). E di Rapina a mano
armata di Kubrick (1956), certo. Ma se siete arrivati fin qui, probabilmente conoscete già tutti
i titoli che ho citato. Probabilmente, amici miei,
neanche voi siete tipi da Harry Potter e Hannah
Montana.
Nino G. D’Attis
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JOHN
LENNON
SHOT
DEAD
Mark David Chapman voleva essere famoso
come John Lennon. Per questo motivo, a quanto lui stesso ha dichiarato, ha sparato all’ex dei
Beatles la sera dell’8 dicembre 1980. Dei quattro
colpi di pistola che Chapman ha scaricato addosso a Lennon, uno ha perforato l’aorta. Il cantante
è stato dichiarato morto circa venti minuti dopo
gli spari. Dopo aver sparato l’assassino è rimasto immobile con la pistola in mano, di fronte a
Yoko Ono che aveva assistito a tutta la scena e
si è lasciato semplicemente arrestare, confessando tutto. Mark Chapman è ancora in carcere ad
Attica e la sua ultima richiesta di scarcerazione
è stata respinta dalla corte nell’ottobre del 2004.
E questa è la notizia.
Al momento dell’omicidio Mark aveva in mano
una copia del Giovane Holden di J. D. Salinger.
E qui entriamo in quella materia incerta, nebulosa, confusa che è la narrazione.
Se fosse stato un romanzo giallo, Chapman
avrebbe sparato con il volto coperto e sarebbe
14 NOI SIAMO I DURI
scappato dopo aver colpito Lennon, magari lasciando cadere a terra il suo libro. E il detective
di turno, un uomo intelligente, colto, avrebbe
raccolto il romanzo di Salinger, l’avrebbe letto
da cima a fondo, sarebbe entrato nella mente
dell’assassino (titolo di un film di Steve Jodrell),
ne avrebbe ricostruito i pensieri, i desideri, fino
ad arrivare ad avere un’idea precisa sul movente che l’aveva spinto all’insano gesto. Avrebbe
chiesto a Yoko Ono di raccontargli la sua ultima
giornata con John Lennon, chi avevano visto, chi
avevano incontrato, se il cantante aveva ricevuto
minacce di morte o se c’era qualcuno che poteva odiarlo. Avrebbe scoperto il nostro detective
che nel pomeriggio un fan gli aveva fermati e si
era fatto firmare da John una copia del vinile di
Double Fantasy, l’ultimo disco di Lennon. Sarebbe poi riuscito grazie alla descrizione fornita da
Yoko Ono e alla collaborazione dei librai della
zona a risalire a Mark Chapman.
Se fosse stato un romanzo hard boiled, il detec-
tive non sarebbe stato un tipo tanto per bene.
Avrebbe indossato uno schifoso impermeabile e
avrebbe fumato fastidiosamente in faccia a Yoko
Ono, mentre con modi poco gentili le chiedeva:
“E chi sarebbe ‘sto giovane Holden, un vostro
amico? È stato lui a sparare?”. E nella sua rozzezza il detective avrebbe intanto toccato un
punto cruciale del futuro dibattito sulla faccenda. “Chapman aveva sparato a Lennon perché
leggeva un nichilista come Salinger”. Ma questa
è un’altra storia. Torniamo al nostro detective.
Sarebbe andato a bere uno scotch in un bar della
zona, avrebbe cercato di incontrare dei fans del
cantante, si sarebbe scopato una bella hippie inconsolabile, avrebbe torchiato a suon di pugni un
paio di piccoli spacciatori del Central Park e alla
fine avrebbe messo le mani addosso a Chapman,
che probabilmente non ne sarebbe uscito vivo,
poiché il detective avrebbe fatto da giuria nel
processo e la sentenza sarebbe stata, ovviamente, scontata (I, the jury, Mickey Spillane).
Se fosse stata una puntata di C.S.I. l’assassino
sarebbe stato identificato grazie all’inclinazione
degli spari, o grazie a una impronta di scarpa
lasciata sul luogo del delitto o a qualche altra
diavoleria che noi comuni mortali non potremmo
immaginare.
In un romanzo di James Ellroy la trama sarebbe
stata un po’ più complessa. Intanto i fatti si sarebbero svolti esattamente come si sono svolti,
l’assassino si sarebbe fatto arrestare e avrebbe
confessato dicendo di avere ucciso John Lennon
per rubargli la fama. Ma. Ma scavando ci si sarebbe accorti che tempo prima il noto vantante
aveva dichiarato di essere più famoso di Gesù
Cristo e questo aveva dato decisamente fastidio
alle alte gerarchie dello Stato con il servizio segreto più grande e potente al mondo: il Vaticano.
Ma questo da solo non basta a giustificare un
omicidio. Negli ultimi tempi le vendite dei dischi
di Lennon stavano calando, e l’industria discografica, notoriamente gestita da tizi ampiamente
collusi con la mafia, aveva bisogno di rimpolpare i
dati di vendita. Altri cantanti erano entrati nella
leggenda dopo le loro morti misteriose: Elvis Presley, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison.
Anche la CIA ovviamente aveva i suoi interessi
a togliere di mezzo quel pericoloso terrorista di
John Lennon che con le sue idee sul pacifismo
stava rendendo difficile il lavoro degli Stati Uniti
di portare la libertà nel mondo. E poi erano arrivati gli anni ottanta, era tempo di stabilire un
nuovo ordine mondiale, gli hippies erano passati
di moda, nessuno più voleva sentire le cazzate su
“tutta la gente che vive in pace e amore”. Woodstock era servito nel ’69, per destabilizzare, ora
la nuova parola d’ordine era godere il lusso e non
fare tante storie. E così tra intrighi, complotti,
mafia, politica, religione e industria discografica
era stata individuata una pedina ideale, Mark
David Chapman, uno scheggiato e sfegatato fan
di John Lennon, che era arrivato a sposare una
donna di origini giapponesi per emulare il suo
idolo. Chapman era perfetto, era instabile, ex
tossicodipendente, era stato in manicomio e, ciliegina sulla torta, leggeva Salinger, un ottimo
modo per depistare l’opinione pubblica...
Potrei andare avanti con questo gioco quasi
all’infinito, e ovviamente ho banalizzato fin troppo, ma il mio scopo era solo quello di parlare delle infinite differenze e diramazioni che quella che
in Italia viene chiamata letteratura gialla (dal
colore della copertina della più famosa collana di
genere, I Gialli Mondadori) può avere: dal giallo
classico, quello di Sherlock Holmes e Poirot, dove
è l’intelligenza del detective, solitamente un gentiluomo colto e raffinato, a risolvere il mistero.
L’hard boiled, genere nato in America negli anni
’20, dove il detective diventa un duro dalla maniere forti e dai metodi non troppo dissimili dai
suoi avversari e che ha avuto i suoi migliori autori in Dashiell Hammett, creatore di Sam Spade,
interpretato sul grande schermo da Humphrey
Bogart, Mickey Spillane, un tipaccio anticomunista che diceva di non avere lettori ma solo clienti, che ha inventato il durissimo Mike Hammer,
James M. Cain, e naturalmente il grandissimo
Raymond Chandler, papà del mitico Philip Marlowe, immortalato tra gli altri da Robert Altman
in una pellicola del 1972, Il lungo addio. Il noir,
dove non è tanto la soluzione del mistero che conta quanto le atmosfere e i risvolti sociali della
storia. In alcuni casi il mistero può anche non
esserci come nel bellissimo L’oscura immensità
della morte di Massimo Carlotto. E poi mille altri
sottogeneri, dal legal al medical, al forensic, al
police procedural, al giallo mediterraneo, al polar francese, al giallo storico, per indicarne solo
alcuni.
Quello che conta al di là delle distinzioni, che
spesso lasciano il tempo che trovano, è che forse,
ultimamente, le letterature poliziesche o crime
stories, che dir si voglia, hanno superato i confini della nicchia e dell’intrattenimento per assurgere a nuova dignità. Complici di questo anche alcuni autori di altissimo livello che hanno
raggiunto un grande successo di pubblico, come
Andrea Camilleri qui in Italia, o Fred Vargas in
Francia. E noi non possiamo che essere contenti
di poter avere ancora un po’ di sana paura, un
sentimento che troppo spesso viene sottovalutato.
Dario Goffredo
NOI SIAMO I DURI 15
È DURA LA VITA
Piccolo necrologio rock
Il 16 agosto del 1977 il Re del Rock and Roll,
tale Elvis Presley, viene ritrovato privo di conoscenza nel bagno della sua umile dimora, tale
Graceland, e viene successivamente dichiarato
morto alle 3.30 del pomeriggio dello stesso giorno. Accanto al corpo vengono ritrovati 14 tipi di
medicinali diversi che il Re di cui sopra abitualmente usava. Arresto cardiaco secondo il medico
legale. Un arresto cardiaco che si è portato via il
Re. E senza Re, si sa, il popolo è inquieto. Perciò
facciamo che Elvis in realtà non è morto. Facciamo che è un brutto sogno. Facciamo che è ancora
vivo, che ha simulato la sua morte e adesso vive
a Buenos Aires sotto falso nome. Anzi no, facciamo che è stato rapito dagli alieni. Facciamo
che era un alieno. Si, il Re era un alieno ed ora
è tornato sul suo pianeta. Perché il Re non può
morire. Mai. Il mondo della musica e il ‘trapasso’
sono indiscutibilmente legati. Sarà che i musicisti sono uomini e donne mortali come chiunque
altro, anche se qualcuno potrebbe non condividere (si, certo, possono vivere per sempre nei nostri
cuori e nella loro musica, ma…). Ma vuoi per
il fatto che una rockstar fa una vita abbastanza sudigiri, vuoi che la morte è dietro l’angolo
(toccatina agli attributi...), finisce che non tutti
i nostri amati artisti si chiamano Chuck Berry
che salta e canta e suona alla veneranda età di
82 anni suonati, manco avesse fatto un patto
col diavolo (altro che Led Zeppelin). Qualcuno
purtroppo se ne va anche prima. E di certo non
manca la fantasia. Ad esempio Johnny Ace
16 NOI SIAMO I DURI
morì il 24 dicembre del 1954 durante una pausa
di un suo concerto giocando alla roulette russa;
Donald Myrick degli Earth, Wind & Fire venne
ammazzato da un poliziotto che aveva scambiato
l’accendino con cui Myrick si stava accendendo
una sigaretta per una pistola; Keith Relf degli
Yardbirds secondo la leggenda stava suonando
la chitarra elettrica mentre era nella vasca da
bagno. Un trapasso fulminante davvero. Ma di
certo ci sono casi ben più misteriosi. Kurt Cobain dei Nirvana lasciò una lettera d’addio e si
sparò un colpo di fucile in testa. Ma in molti non
ci credono a ‘sta storia. E vai di complotto; Jeff
Buckley si tuffò nel Mississippi e annegò con
tutta la sua malinconia, lo videro allontanarsi
lentamente dalla riva, vestito, passo dopo passo
verso il cuore del fiume di notte che se lo portò
via; Elliott Smith venne ritrovato nel suo letto
con due pugnalate nel petto (la rima non è voluta), aveva 34 anni. Parlarono di suicidio. Quindi
di musica si può morire. Si muore di stati di depressione legati, per forza di cose, alla carriera,
all’insoddisfazione, all’ispirazione che non arriva, ai riconoscimenti che non arrivano. L’unica
cosa che arriva in queste situazioni sono rifugi
fatti di alcol e droghe, per tenersi su quando va
tutto male. Forse. O forse anche per gioco, per
puro godimento. Perché fare la rockstar stanca
e bisogna vivere sempre a mille. A causa delle
droghe se ne sono andati molti. Spesso però sul
certificato di morte c’era scritto “attacco cardiaco” (??). Hillel Slovak dei Red Hot Chili Pep-
pers, Layne Staley degli Alice in Chains, Dee
Dee Ramone, Janis Joplin, Sid Vicious, Keith
Moon e John Entwistle degli Who, Bill Haley.
È lunga la lista, dannazione.
Gente che se n’è andata troppo presto. O perché troppo giovane o perché maledettamente
geniale, o per entrambe. Jimi Hendrix, John
Bonham dei Led Zeppelin, Freddie Mercury,
Jim Morrison, Ian Curtis dei Joy Division,
Syd Barrett. Aids, droghe, depressione, non fa
molta differenza in fondo.
Ma ci sono storie anche più cruente. Da musicisti che diventano carnefici a musicisti che
diventano vittime di fatti di cronaca, di fatti
di sangue. Phil Spector è stato processato e
condannato per omicidio di secondo grado; Sid
Vicious venne arrestato con l’accusa di aver
ammazzato la sua ragazza Nancy Spungen;
Tupac Shakur e Notorious B.I.G. uccisi entrambi nel giro di un anno all’interno della faida tra Est Coast e West Coast durante gli anni
del gangsta rap, quello vero; Bertrand Cantat dei Noir Désir ha ammazzato durante un
litigio la sua compagna Marie Trintignant, attrice francese; John Lennon ucciso da un suo
fan; Marvin Gaye assassinato da suo padre.
Lunga la lista, troppo lunga. E anche nella nostra penisola c’è stato qualche caso eccellente.
Luigi Tenco, trovato morto nella sua camera
d’albergo durante il Festival di Sanremo del
’67 e nonostante un biglietto d’addio scritto di
suo pugno ci sono molti lati oscuri; Mia Martini che se ne va a 47 anni anche lei in circostanze non chiarissime e comunque legate a
sostanze stupefacenti. Mi sembra inutile star
qui a far nomi e scrivere di cosa è morto tizio.
Fare un elenco completo di decessi illustri del
mondo della musica, una sorta di enciclopedia
di rockstar scomparse, non porterebbe a nulla
se non a nutrire la curiosità morbosa di qualcuno. Quelli riportati sopra sono solo alcuni
esempi. Restano fuori molte altre storie. Storie di comuni mortali con un dono immortale.
Storie a volte perfettamente chiare, altre volte
oscure e misteriose. Ed è proprio sul Mistero
che bisognerebbe soffermarsi. Perché il Re è
del popolo e quando il Re muore il popolo non
si arrende alla prima versione dei fatti: suicidio magari, o morte accidentale. Ne inventa
altri, li sovrappone, li modifica. Così vengono
fuori altre versioni, completamente nuove,
completamente originali. E se possono dare al
Re un’aureola splendente e l’immortalità, allora forse crederemo a queste. Nonostante poi si
parli sempre di comuni mortali. O no?
Marco Chiffi
IL ROCK
SI TINGE
DI GIALLO
Il leggendario produttore statunitense di rock,
Phil Spector, accusato di aver ucciso nel 2003
una ex attrice di serie b nel suo maniero dell’est
di Los Angeles, è stato riconosciuto colpevole di
omicidio di secondo grado e rischia fino a 18 anni
di carcere. Phil Spector, 69 anni, considerato
come uno dei geni del rock grazie alla tecnica di
registrazione detta del “muro del suono”, messa
a disposizione negli anni sessanta ad artisti quali John Lennon, George Harrison, ha accolto il
verdetto con un’aria scura. Tuttora è libero, sei
anni dopo i presunti fatti, grazie al versamento di una cauzione di un milione di dollari. Per
la difesa, l’ex attrice di 40 anni, depressa per il
fallimento della sua carriera artistica, si è suicidata a casa di Phil Spector. Il produttore discografico, compositore e musicista statunitense
nasce nel Bronx il 26 dicembre 1939. Dopo il suicidio del padre si trasferisce a Los Angeles con
il resto della famiglia, iniziando ad interessarsi
al mondo musicale. La sua carriera inizia come
chitarrista del gruppo “Teddy Bears”, che dopo
vari tentativi si sciolse nel 1959. Dopo la separazione la carriera di Spector si spostò velocemente dal comporre al produrre, imparò velocemente
ad utilizzare lo studio di registrazione e lavorò
anche come turnista, suonando soprattutto la
chitarra. Sua in questo periodo la versione originale del celebre Twist and Shout. Nell’autunno
del 1961 fondò una nuova compagnia di registrazione con Lester Sill: la “Philles” records univa
i nomi dei due fondatori. Fra i tanti gruppi che
lavorarono con l’etichetta ricordiamo le Crystals.
Inizia parallelamente il suo impegno come talent
scout per la Liberty Records. Il marchio di fabbrica di Spector in quel periodo era il cosiddetto
Wall of Sound (letteralmente muro di suono),
una tecnica di registrazione che consisteva in un
effetto denso e con forte riverbero, ottimo per la
continua a pag 19
NOI SIAMO I DURI 17
IL CRIMINE PAGA
(Nei comics)
Tempo fa scrissi per coolclub una recensione,
“nuvole in giallo” su due signore del poliziesco
fumettistico: la longilinea Julia/Audry Hepburn,
nata dalla penna di Giancarlo Berardi per la Bonelli Editore e l’alessandrina Jalisco di Carlos
Trillo ed Eduard Risso, sgangherata detective
privata messicana trapiantata nei ghetti di New
York. Julia e la Jialisco sono soltanto la punta
dell’iceberg del radicato sodalizio tra i comics ed
il giallo, genere narrativo che ha contaminato
tutte le espressioni del variegato cosmo cartaceo. Agli albori del fumetto americano, Alex Rajmond (padre del famoso Flash Gordon) creò tra
gli anni trenta e quaranta l’agente segreto X9,
affascinante spia, e Rip Kirby, eroe del II conflitto mondiale che si cimenta da dilettante nelle
indagini, accompagnato dal brillante maggiordomo Desmond e la deliziosa fidanzata Honey
(miele, appunto!). Da contraltare vi sono le strip
del poliziotto Dick Tracy, che in un periodo turbolento quale fu la Grande Depressione narravano le gesta di un onesto ed intransigente uomo
di legge votato alla lotta contro il feroce crimine
18 NOI SIAMO I DURI
organizzato. Tuttavia a permeare potentemente
l’immaginario fumettistico statunitense è la figura dell’investigatore privato (“Private Eye”):
i popolari Batman e Topolino sono due detective
capacissimi; Batman al di là della maschera e
dei gadgets fantascientifici è un investigatore
fuorilegge che ha capito quanto un costume possa incutere un innato terrore nei criminali (non
a caso una delle serie di cui è protagonista è
intitolata Detective comics). Topolino collabora
spesso, nelle sue storie, con la polizia di topolinia
per risolvere complicati crimini orditi dal misterioso Macchia nera o dal più prevedibile Gambadilegno.
Anche i personaggi della Marvel Comics compiono incursioni nel noir, soprattutto personaggi
dalla natura metropolitana quali l’Uomo Ragno
e Devil. Quest’ultimo ha vissuto, agli inizi degli
anni ottanta, una lunga ed apprezzatissima fase
hard-boiled, scritta ed illustrata da Frank Miller, che è considerata da molti l’apice creativo
della testata dedicata al “Diavolo Rosso”. Protagonisti dei tali storie, oltre a Devil, sono il corpu-
lento e shakesperiano boss mafioso Kinyping,
il giornalista di cronaca nera Ben Hurich e
la letale ninja Elektra, il primo amore perduto dell’eroe. Ma su tutti i personaggi svetta
la città di New-York, ritratta in tutta la sua
alienazione e violenza, imprescindibilmente
legata alla natura stessa della metropoli più
famosa del mondo.
Miller, appassionato di pulp-magazine e noir
hollywoodiani, ha creato tra gli anni novanta
ed il ventunesimo secolo la saga di “Sin City”,
l’incarnazione cartacea più riuscita e nota
dell’hard-boiled.
Tuttavia l’archetipo del detective privato
sfonda i confini dei comics statunitensi per
trovare alcune interpretazioni memorabili
nel fumetto argentino: Jose Munoz e Carlos
Sampayo ideano il melanconico Alack Sinner, ex poliziotto deluso che si districa come
investigatore tra penosi e malpagati casi,
che hanno come protagonista un’umanità
derelitta sullo sfondo di un’opprimente NewYork (luogo dell’anima del genere poliziesco,
assieme a Los Angeles). Alack Sinner è una
dichiarazione d’amore di Minoz e Sampayo a
Chandler ed Hammet, padri putativi della
detective-story con i loro Sam Spade e Philip
Marlowe. In Italia il poliziesco ha, da sempre,
avuto un largo seguito nei fumetti: si pensi a
personaggi come l’inimitabile Diabolick delle
sorelle Giussani ed alle grottesche creazioni
di Luciano Secchi (Max Bunker) e di Magnus,
ovvero i vari Kriminal e Satanik ed all’irresistibile Alan Ford ed alla sua strampalata
agenzia investigativa. Piuttosto inconsueto
come investigatore è Dylan Dog (il cui successo rende inutile qualsiasi presentazione)
vista la natura esoterica (vera o presunta)
delle sue indagini. La Bonelli editore ha, oltre
a Dylan, una vasta gamma di testate dedicate
al poliziesco ed al giallo, dalla già citata Julia, a Nick Raider (che di recente è passata ad
un altro editore) a Demian, a Natan Never,
poliziotto del futuro prossimo venturo, in un
intreccio tra fantascienza e crime-story. In
Giappone sono decine i titoli dedicati al giallo
tra cui Detective Conan imperniato su Conan,
un bambino che in realtà è un giovane investigatore intrappolato in un corpo infantile a
causa del maleficio di una setta di criminali
e lo splendido Ghost in the Shell serial Cyber
–punk di Masamcine Shirow che fonde poliziesco e meditazioni zen sull’essere umano
nell’epoca dell’ipertecnologia. Entrambi sono
diventati due apprezzati anime
Roberto Cesano
riproduzione sulle radio Am e sui jukebox. Per
ottenere questo effetto, Spector riuniva grandi
folle di musicisti (che solitamente suonavano
strumenti solisti, come la chitarra) per suonare parti orchestrate, spesso raddoppiando o triplicando gli strumenti per ottenere un effetto
unisono, ed arrivare così ad un suono più pieno.
Spector era già conosciuto per la sua forte personalità e le sue idee non convenzionali sulla registrazione. Anche se la moda stava portando gli
altri studi a registrare in multitraccia, Spector
si oppose fermamente all’avvento del suono stereofonico, affermando che toglieva il controllo al
produttore in favore dell’ascoltatore. Inoltre preferì sempre i singoli agli album, definendo questi
ultimi “due successi e dieci pezzi di spazzatura”.
L’unica volta in cui Spector si impegnò per un
Lp come per un 45 giri fu per la registrazione
di “A Christmas Gift for You”. L’album uscì il
22 novembre 1963, il giorno dell’assassinio del
presidente Kennedy, per cui la tristezza generale può aver contribuito alla mancanza di vendite
iniziali del disco. Nel 1970 Allen Klein, manager
dei Beatles, portò Spector in Inghilterra. Qui fu
convinto da John Lennon e George Harrison a riprendere i nastri inutilizzati dell’abortito Lp Get
Back e di aiutarli a pubblicarli come un nuovo
album. Spector usò diverse tecniche di registrazione e cambiò notevolmente il sound originale
delle canzoni, aggiungendo archi e coriste. Let It
Be fu un successo commerciale notevole. Spector continuò a lavorare con Lennon ed Harrison
anche dopo lo scioglimento dei Beatles, ma la
collaborazione terminò nel 1973 a causa di una
rottura di carattere personale. Nel 1974 Spector
ebbe un incidente d’auto che gli costò diverse ore
di interventi chirurgici oltre a svariate centinaia
di punti di sutura in testa. Questa la presuna
causa delle strane abitudini adottate successivamente dal produttore americano. Nel 1980
produsse End of the Century dei Ramones e nel
1981 lavorò con Yoko Ono producendo Season of
Glass, il suo primo album dopo la morte del marito. Spector rimase inattivo per la maggior parte
degli anni ottanta, novanta e duemila. Risale al
2003 l’accusa di omicidio ed il relativo processo
giudiziario. Numerosi artisti e produttori hanno
dichiarato di essere stati fortemente influenzati
dalle tecniche di Spector, primo fra tutti Brian
Wilson dei Beach Boys. Bruce Springsteen tentò
di emulare la tecnica Wall of Sound per il suo
Born to Run. Nel 1989 è stato introdotto nella
Rock and Roll Hall of Fame. La rivista Rolling
Stones lo ha messo al 63° posto nella sua classifica dei 100 artisti di tutti i tempi.
Ennio Ciotta
19
MUSICA
DIAFRAMMA
Ancora e sempre Federico Fiumani
20
Federico Fiumani e i suoi Diaframma sono il
solco che ha segnato gli albori della scena dark
wave italiana. Gli unici, poi, a mantenere vivo
quel suono, quell’urgenza espressiva, quella
poetica unica e per questo speciale. Fiumani è
deus ex machina di tutto questo, personaggio che
è capace di superare la musica con una vita e
una scrittura che ha in sé una grande valenza
letteraria. Un poeta è stato definito da molti, e
alcune sue pubblicazioni ne sono la testimonianza. Punk in parte forse, uomo romantico disperatamente innamorato delle donne, linfa di quasi
tutta la sua produzione artistica. Un’artista che
con il suo essere sempre un po’ più in là rispetto
ai circuiti commerciali, dai quali è adorato, è riuscito a mantenere vive coerenza e sincerità, doti
non comuni nella musica e nei musicisti di oggi.
Nonostante tutto e tutti Federico è uno di quegli
artisti che ancora oggi e per sempre sarà tra le
voci più intense del rock italiano.
Abbiamo parlato con lui, tra le altre cose, di Difficile da trovare, nuovo album uscito in questi
giorni.
Raccontaci come nasce e cosa dobbiamo
aspettarci dal tuo ultimo lavoro discografico.
Nasce per caso, frutto del lavoro artigianale,
come da sempre. In realtà io scrivo continuamente, ma mettere tre accordi di fila e aggiungere qualche frase non vuol dire scrivere una
canzone. Con gli altri componenti del gruppo abbiamo lavorato sui pezzi che ci sembravano più
validi e che poi hanno formato il disco. È seguito
il rituale della sala prove dove io stesso ho lavorato agli arrangiamenti, fino ad ottenere il risultato desiderato. C’è da aspettarsi un bel disco...
Il titolo del nuovo album Difficile da trovare evoca proprio quella che da sempre
è stata la scena nella quale hai lavorato e
vissuto. Ci dai un parere sullo stato dell’
autoproduzione oggi, sulla scorta della tua
esperienza?
Inizialmente all’autoproduzione corrispondeva
anche un circuito militante, legato ai centri sociali; basta pensare agli Assalti Frontali, ai Fugazi, che non ne volevano sapere di royalites e
compromessi ma aspiravano al controllo creativo
del loro lavoro.
I Diaframma erano legati all’IRA records dall’84,
poi passammo alla SELF.
La tendenza anche oggi è un po’ la stessa, c’è
molta sfiducia verso le major, e per dirla tutta
“ognuno bada al suo orticello”!
“Io da giovane ero un tipo che/non vedeva niente avanti a se”. Come stanno ora le
cose?
Meglio! Ora qualcosa si vede..
Quella era una strofa propria della giovinezza,
quando non hai neanche la voglia di sapere cosa
ti aspetta.
Ora a quasi cinquant’anni, si vive più giorno per
giorno, accettando la realtà.
Ho degli obiettivi più piccoli...
Per esempio?
Per esempio il prossimo concerto, la produzione
del disco!
Ti sarai accorto che nell’ultimo periodo
stanno tornando in circolazione stampe e
ristampe dei mitici vinili. Pensi sia un’ondata modaiola passeggera, o un ritorno più
duraturo?
In realtà il vinile rappresenta solo lo 0,2% del
mercato musicale, quindi resta in netta minoranza. Se ne ristampano pochissimi giusto per
gli appassionati (come me), legati magari alla
bellezza di una copertina o al piacere tattile che
può provocare; ma lo vedo più come un fenomeno che si esaurirà in pochi anni e che certo non
potrà soppiantare l’uso dei cd e della tecnologia.
Gli ultimi dischi che hai comprato?
Vediamo... ieri tra i cd usati ne ho comprato uno
di Kate Nash. Poi 2000 Dirty Squatters e T’Rex.
Questo numero di coolclub è dedicato al
giallo, al noir. Ci fai un parallelismo con la
musica dei Diaframma soprattutto ripensando agli albori?
Mah... il percorso dei Diaframma non si è mai
macchiato di giallo... (ride)... e poi non sono un
appassionato del genere...
Intendendo noir come musica dark che negli anni ‘90 aveva più largo consenso anche
in italia.
Certo, i Diaframma degli albori erano sicuramente nutriti da un più cupo esistenzialismo, risentivamo molto dell’influenza dei Joy Division
e poi la stessa Firenze era molto influenzata dal
dark.
Grazie tante, Federico, ci vuoi lasciare con
un ultimo appunto sul nuovo disco?
Che dire? A chi piacciono i Diaframma avrà pane
per i suoi denti!!!
Ennio Ciotta e Loreta Ragone
MUSICA 21
ULAN BATOR
All’ombra del nuovo disco
La band francese ma italiana di adozione torna
con un nuovo album in cui le atmosfere postrock
e psichedeliche trovano nuovi paesaggi sonori.
Dopo Rodeo Massacre arriva Soleils che vanta
importanti collaborazioni a livello internazionale. Il disco inaugura anche la nascita dell’ etichetta discografica Acid Cobra records voluta da
Amaury Cambuzat leader della band.
Nel 2000 Ego Echo è stato prodotto dal leggendario Mike Gira, mentre più volte avete
incrociato il cammino con gli ormai ultracelebrati Faust. Questo evidenzia l’assenza
di confini della vostra musica, capace di
raccogliere successo sia in Europa che oltre Atlantico, ma soprattutto le affinità con
importanti personaggi di culto. Come sono
nate queste collaborazioni?
Naturale direi, abbiamo sempre scelto persone
con il nostro intuito sapendo già da prima che
queste collaborazione artistiche ci avrebbe portato a crescere. Poi, è vero che oggi si può anche
pensare che abbiamo fatto bene ma, all’epoca i
Faust erano un gruppo che la gente si era un po’
dimenticato. Lo stesso per Michael che chiudeva
l’episodio Swans con il magnifico doppio disco:
Soundtrack for the blind. Dopo di che c’è stato
pure il lavoro di Nouvel Air con Robin Guthrie,
altro personaggio culto della scena musicale degli anni ottanta.
22 MUSICA
La vostra idea di rock procede a braccetto
con quella di sperimentazione e siete diventati una punta di diamante dell’underground europeo. Vi siete seduti a tavolino e
avete deciso di non pensare all’esposizione
e al successo commerciale?
Ti ringrazio ma devo farti una confidenza: non ci
siamo mai seduti a tavolino. Non riesco neanche
ad immaginare cosa si combina “seduti a tavolino”. Tutto ci e venuto naturalmente ed è per
questo che Ulan Bator rimane una verità molto
fragile. Non ci sono mai stati successi economici.
Un successo di stima, un rispetto per il lavoro...
tutto qui e va bene così.
Parliamo sempre di tendenze musicali.
Avant-rock, post-rock, krautrock, sono alcune delle definizioni che ruotano attorno
alla vostra musica. Fino all’alba del nuovo
millennio questi “generi” hanno rappresentato l’avanguardia. Poi il post-rock sembra
essere quasi sparito dalla carta geografica,
(tranne le suite dei Mogway, sempre identiche a se stesse) per lasciare il posto a fenomeni di revival più o meno originali: folk,
new-wave (quella avant di Chrome e This
Heat si può annoverare tra le vostre influenze) e psichedelia, stanno certamente saturando la scena odierna (per quanto gli stessi
Banhart e Animal Collective siano ben poco
commerciali). Come credi che stia cambian-
do il mondo musicale, e soprattutto cosa
rappresenta per voi la parola post-rock?
Oggi la parola post-rock non ha più senso trane
se ci si dà un periodo preciso: dal 1991 (Slint) fino
al 2001. Quindi 10 anni di post-rock per come lo
intendiamo nel linguaggio giornalistico musicale. Non ci siamo trovati in mezzo a questo periodo ma all’epoca io rispondevo che il post rock era
tutto quello che c’era dopo Elvis. Oggi riesco meglio a datare questo genere anche se non capisco
in che era stiamo ma sento che fin dall’inizio di
questo nuovo millennio tutto sta cambiando con
di mezzo tanta confusione. Questa confusione tra
i generi musicali è, magari, anche positiva. Puoi
oggi ascoltare gli Iron Maiden e un’ora dopo gli
Animal Collective senza vergognarti. Anni fa era
un “reato”! Però, sempre questa grande confusione porta a non avere gusti ben chiari o definiti ed
a perdere un certo controllo del proprio “Gusto”.
È quello che mi manca oggi, il gusto personale,
spesso quando ascolto musica fatta in un modo
impeccabile ma priva di “scelte”. Un artista deve
essere “radicale” per comunicare.
Un altro personaggio chiave dell’avant-rock
anni 90 è tuo fratello François. Nell’esordio
de Les Enfants Rouge c’è un pezzo intitolato Soeur Violence, come un vostro brano di
Ego Echo. È solo una coincidenza o le due
traccie sono in qualche modo legate?
François-Régis è mio cugino. Si tratta di una
coincidenza. Il disco brano Soeur Violence di
François e stato scritto sei anni prima del mio.
Non mi ero accorto particolarmente del titolo
della sua canzone all’epoca, mi sa pure che la
scrive con la “a” : “Violance” (non so perché?!) Me
ne sono accorto un paio di anni dopo l’uscita di
Ego:Echo, mentre stavo sistemando i miei dischi
a casa. Con François siamo cresciuti assieme
quindi mi fa piacere di sapere che ci sia una forma di telepatia tra noi ;-)
Avete esordito per il Consorzio Produttori Indipendenti, suonate dal vivo in Italia
centinaia di volte, avete musicisti italiani,
di recente avete collaborato col cantante
dei Massimo Volume… Cosa vi tiene inesorabilmente legati a questa terra?
Tutto è nato dal fatto che i CSI ci hanno chiesto
nel 1997 di aprire per loro M’importa ‘na segatour. Da lì ci siamo, è vero, legati con l’Italia.
Un paio di anni dopo, mi sono pure trasferito
a vivere in Italia. È questo in realtà che mi ha
portato a collaborare con musicisti Italiani (Egle
Sommacal, Emidio Clementi, ecc.) Da quando
sono tornato a frequentare di nuovo la Germania, l’Inghilterra o ancora la Francia mi ritrovo
a suonare oggi con: James Johnston (inglese),
Alessio Gioffredi (italiano) e Stéphane Pigneul
(francese). Dipende sempre da dove ti sposti nella tua vita...
Tobia D’Onofrio
MUSICA 23
GIORGIO CANALI
La chitarra come un fucile
Personaggio diretto come la musica che suona,
una carriera lunga tra gruppi ed esperienze fondamentali del rock indipendente italiano e non
solo nelle vesti di musicista e produttore (Csi,
Cccp, Noir Desir, Ulan bator, Yo Yo Mundi, Marlene Kuntz, Santo Niente, Wolfango, Circo Fantasma, PFM e Virginiana Miller). Esce in questi
giorni il nuovo disco del suo progetto Rossofuoco
Nostra signora della dinamite.
24 MUSICA
Partiamo da Giovanni Lindo Ferretti? Partiamo. Non tanto per le sue scelte politiche
o di vita, che in fondo trovo piuttosto coerenti (e in fondo, che importa?) ma: da un
punto di vista musicale, com’è stato lavorare con lui, qual era il vostro approccio?
Contribuiva anche alla parte musicale, o si
limitava al testo?
Giovanni di musica non ha mai capito una sega e
di ciò, giustamente, se ne è sempre vantato, può
cantare ogni sua parola su qualsiasi musica esistente e non… ai suoi ascoltatori cambia poco o
nulla.
Disco nuovo: l’elettricità, a cui associo la
tua rabbia, c’è ma è come “raffreddata”
da una certa rassegnazione. Come se fosse cambiata la prospettiva, leggermente
spostata la camera, adesso inquadri da un
altro punto di vista. Ad esempio, non parli
di lupi mannari, ma della luna che ulula a
te. Sarà per i violini dell’incipit o il reverse
che apre Tutti gli uomini, così come l’elettricità lenta dell’ultima traccia, ma oltre al
consueto fuoco ho sentito il vento che spazza via qualcosa, forse persino gli uomini, in
questo disco. Esagero?
Semplicemente: sto invecchiando e la mia parola
d’ordine è diventata “ergonomia”, ogni goccia di
rabbia in più, è rabbia buttata al vento, spesso
fraintesa da più di un idiota e presa per il “solito
sermone retorico-populista” e la rabbia è uno di
quegli elementi che mi tengono in vita. Alla gente si dice: “non sprecate acqua!!!” così la si distrae
dagli sforzi importanti e la rabbia, invece che serbarla per gli scatti decisivi, la si spreca andando
a votare Lega, Di Pietro, la si rinchiude nei palasport con ruggenti beppigrilli o la si brucia dando
fuoco ai cassonetti della spazzatura.
Non sprecate rabbia!!!! La rabbia è un bene prezioso.
Ho letto un paio d’interviste che ti hanno
fatto. Sono elettriche, come tutta la tua musica, eppure, a proposito della tua musica,
divido il tuo chitarrismo in due periodi:
quello coi CCCP/CSI/PGR e quello da solista
(è un po’ semplicistico, lo so). Non dimenticherò mai l’esibizione coi PGR a Melpignano, qualche anno fa, e mi chiedo ancora se
sei lo stesso Canali dei Rossofuoco.
So suonare quattro accordi in croce e le linee paramelodiche dei miei sfoghi solistici sono sempre
le stesse… deve dipendere dal fatto che i seguaci del lindogiovannesimo come te, ogni volta che
Ferretti è sul palco, hanno visioni e audizioni
mistiche…
Adoro quando spari a zero sull’indie. Però
la tua è una critica molto precisa: in sostanza, dici, non si può cavalcare l’onda del
‘quanto siamo poveracci’ e farci dischi. Da
un punto di vista strettamente musicale,
quest’approccio in cosa si traduce? E quali
sono le sue conseguenze? La musica italiana sta diventando tutto un lagnarsi o c’è an-
cora posto per il rock?
Non ci siamo capiti forse, io della scena indie
italiana detesto lo spirito autoghettizzante, quel
compiacimento snob di essere una elite (spesso
fatta di estetica e basta) e che appena qualcosa
diventa più popolare, fa cacare… per ciò che riguarda il lagnarsi, il rock è fatto anche di lagne
e lamenti, sono trent’anni che sento lamenti e
mi lamento io stesso… il posto per il rock qui c’è
sempre stato, e ci sarà sempre, com’è vero anche
l’esatto contrario, il posto per il rock, qui non c’è
mai stato e mai ci sarà… se posto non c’è, si fa
come per i centri sociali: si occupa!
Tecnico del suono, produttore, autore di
colonne sonore, musicista rock interessato
all’elettronica in tempi non sospetti, e altro:
cosa tiene insieme tutto questo? Quante
volte ti hanno fatto questa domanda?
Un bel po’ di volte. Comunque a me sembra che
tutte ‘ste cose facciano parte di un unico “mestiere”… nessuno si stupisce se un pittore si esprime
con acquerelli, olii, tempere, e magari si dedica
pure alla scultura o all’allestimento di mostre.
Internet ha cambiato il tuo rapporto con la
musica, o solo col tuo pubblico? La strada
intrapresa da gruppi come Nine Inch Nails
o Radiohead è percorribile anche in un
mercato come quello nazionale?
Quando si saprà utilizzare internet seriamente
e non solo per farsi belli su facebook o farsi le
seghe sui siti porno, sarà possibile anche qui da
noi… compatibilmente con la “furbacchioneria”
dell’italico medio. Quella è difficile da sradicare.
A proposito dei tuoi lavori da “tecnico”: ti
sei occupato in passato degli Hic Niger Est,
band salentina che si è fatta apprezzare
molto qualche anno addietro. Che fine hanno fatto?
Remano, come tutti i gruppi che abitano alla periferia del mondo… fanno concerti dalle loro parti, e poco altro… per suonare altrove devono sobbarcarsi spese di viaggio insostenibili, peccato…
Sei di Ferrara, giusto? Se ti dico Dario
Franceschini, cosa ti viene in mente?
A Ferrara ci abito, non sono nato qui, quando
sono arrivato, una decina di anni fa, Franceschini era “il nemico”… fai tu… comunque se penso a
lui mi viene in mente il suo orribile accento ferrarese, insopportabile quanto il pane di merda che
si mangia qui e che, i ferraresi, ritengono a torto
il migliore pane del mondo, tu che sei pugliese sai
di che parlo…
Marco Montanaro
MUSICA 25
26
WHITE TREE
Cloudland
Ponderosa
WAVVES
Wavves
Fat Possum
Suona alla perfezione l’ultimo
progetto del pianista compositore Ludovico Einaudi, qui in
formazione con i fratelli Lippok (Robert e Ronald, elettronica e drum sets). Slow Ocean
è la traccia apripista: accordi
pianistici sospesi, intrecciati a
tenui sfumature elettroniche
riverberate; si entra nel vivo
dell’ascolto con la successiva
Kyril, vera perla del disco,
prima giocata su trame soffici e distese, poi prende piede un gradevolissimo loop di
pianoforte con gli effetti degni
comprimari melodici, il tempo
ternario dal sapore (diremmo
quasi) ‘etno-dance’. I sette
pezzi seguenti si sviluppano
sempre su questa falsariga
per un risultato finale complessivamente piacevole e mai
ridondante o noioso: la registrazione ed il missaggio sono
accuratissimi così come la
scelta dei timbri, adeguati al
contesto sonoro ricreato. Forse
l’unica pecca (ma soltanto se la
si considera tale) è una certa
tendenza di Einaudi all’autocitazione da lavori precedenti
(ad esempio in Mercury Sands
ed in Ulysses and the Cats);
questo, tuttavia, non impedisce la fruizione di Cloudland,
prodotto freschissimo e di ottima fattura.
Oscar Cacciatore
Tra gli artisti della blogosfera
finiti sulle riviste di tutto il
mondo, Wavves da San Diego
suona garage-punk sporco e
psichedelico, infettato di elettronica, melodie ipnotiche al
limite del mantra, impennate
di feedback e deliri in bassa fedeltà. I critici hanno codificato
questo genere come “shitgaze”, un connubio di shoegaze
e lo-fi che nelle sue infinite
declinazioni ha simili risultati
con i Times New Vicking. La
title-track paga tributo ai NoAge con cantilena college-pop.
Spacerider sovrappone tintinnii giocattolosi alle chitarre ultra-processate dei SonicYouth.
Vermin sfodera un post-punk
più riflessivo, ad illuderci che
un altro sound è possibile;
SideYrOn saluta il il primo
Beck, con l’aggiunta di padelle
arrugginite. The Boys… supera la struttura base di due/
tre accordi (con scale autistiche da un semitono all’altro)
e vanta un cantato californiasurf, mentre Spaced… affoga
un synth cristallino in tre epici
accordi circolari. La dimensione rituale è ipnotica, le stratificazioni ben calibrate, ma
all’ennesima
riproposizione
della formula, restano l’amaro in bocca e la speranza che
Wavves si avventuri in costruzioni un tantino più audaci.
Tobia D’Onofrio
HARMONIC 313
When Machines Exceed
Human Intelligence
Warp
Mark Pritchard ha scritto alcune delle pagine più intense
dell’elettronica anni ’90. Oggi,
aggiungendo una cifra a un vecchio moniker, diventa Harmonic
313 e pubblica una centrifuga di
sonorità del nuovo millennio, il
cui titolo accenna alla superiorità delle macchine sull’intelligenza umana. In questo scenario apocalittico non ha senso
parlare di ritorno dell’elettronica alla scuola minimal, oppure
di grime e dubstep come nuove
frontiere. Siamo infatti in territorio post-dubstep, di fronte a
una destrutturazione di generi
dall’effetto ipnotico e talvolta
straniante. Ibride locomotive,
paesaggi liquidi, pesanti bordate, stratificazioni di suono.
Emergono l’hip-electro-dub di
Cyclotron, la psichedelia di Koln, il quasi ambient di Galag-a;
l’incedere frenato e minaccioso di Call To Arms, il surreale
cantato soul di Falling Away, i
gioielli hip-hop di Battlestar, i
pugni nello stomaco di C64, il
treno spaziale di Quadrant 3.
Gli esperti hanno già chiamato
questo frullato di stili Wonky
Beats, e se il dubstep resta in
mano a giovani come Benga e
meno giovani come Prichard,
questo “nuovo” genere diventerà presto chissà quale sublime
mostruosità elettronica…
Tobia D’Onofrio
MUSICA 27
FEVER RAY
Fever Ray
Cooperative Music
EL-GHOR
Merci’ cucu’
Seahorse Rec.
EMMY THE GREAT
First love
Close harbour records
Il duo electro-pop The Knife è
composto da fratello e sorella.
Gli svedesi hanno conquistato
critica e pubblico, nonostante
una schiva personalità avversa
ai media. La metà femminile,
Karin Dreijer Andersson, partorisce questo album solista
che conferma la sua caratura
artistica (fresca di una collaborazione con Royksopp). L’incipit
tetra e minacciosa spiana la
strada al brano WhenIGrowUp
che più di altri ricorda la Bjork
di Vespertine, per i gorgheggi
ipnotici dal tono alienato che
disegnano preziose melodie con
voce sdoppiata. Qui come altrove, la base è radicata negli ’80
di Japan, Sakamoto (Forbidden
Colours) e Siouxie: minimale
elettronica dark mista a schegge gotiche orientaleggianti.
Una docile tensione esoterica
filtra anche dalle atmosfere più
malate o notturne. Il principale
pregio del disco sembra essere il
contrasto luce/ombra che amalgama componenti idealmente
opposte, come la delicatezza
graffiante e la glaciale inquietudine nordica: dove la musica
è ostile, la voce scalda l’atmosfera e viceversa, così un pezzo
non è mai soffice o inquietante,
bensì un equilibrato miscuglio
di entrambi gli umori. Soltanto
Seven si abbandona al lato popsitivo, in una tribale epifania
melodica. Un disco incantevole.
Tobia D’Onofrio
Acclamati all’esordio con il disco Dada danzè, gli El-Ghor
tornano sulla scena con un
nuovo lavoro intitolato Mercì
cucù. Un sound ruvido e personale lanciato su coordinate
indie-rock di matrice anglofrancese è la valvola di sfogo
dei quattro ragazzi campani,
egregi interpreti di un linguaggio musicale meticoloso e ben
accurato. Dieci composizioni
frutto di un ottimo intreccio
strumentale che la band riesce
ad erigere dimostrando un’elegante padronanza dei mezzi
a disposizione, soprattutto in
fase di arrangiamento. Canzoni di una forza disarmante che
evidenziano tutta la dolcezza
“grintosa” e la bellezza del
cantato in francese atto a contornare ritmiche già di per sé
intriganti. Scorrono una dopo
l’altra canzoni come J’arrive a
voir, Qu’est-ce que vous voulez?
e Rien n’est parfait, espressioni di un indie-rock corposo ed
energico. Mercì cucù consta
anche di momenti più morbidi
come Memoire aide moi e momenti strumentali come CucùTete e Nessuno mi risponde. Le
intrinseche doti compositive
vengono alla ribalta però tra
le note di Laisse nous la mer
e Miss Marianne, i brani più
rappresentativi dell’intero disco. Un album che vale la pena
ascoltare.
Alfonso Fanizza
La sua voce l’abbiamo già
sentita nel pezzo Seattle del
progetto The BPA (giochino di
un certo Fatboy Slim). Lei si
chiama Emma-Lee Moss, ha 24
anni ed è nata ad Hong Kong,
ma vive a Londra. Ha collaborato con Martha Wainwright,
Tilly and the Wall, Lightspeed
Champion, oltre che appunto
Fatboy Slim, prima di arrivare
a questo esordio dal titolo First
Love. Il primo amore, si sa, non
si scorda mai, e così è davvero
facile innamorarsi della voce di
Emmy e delle delicate melodie
pop che la circondano. Il suo
cantautorato è maturo, nonostante la giovane età, e scorre
leggerissimo. L’attacco Absentee entra quasi sussurrato che
manco te ne accorgi; We almost
had a baby è un pezzo perfettamente radiofonico ma non
scontato; la title track è una
bella storia della prima volta,
ma sempre raccontata a modo
suo. Ascoltatela, innamoratevi
di lei e siate felici.
Marco Chiffi
28 MUSICA
RED BASICA
Les Premiers Plaisirs
MK Records
Les premiers plaisirs è il disco d’esordio dei calabresi Red
Basica, uscito per la cosentina
MK Records a Febbraio 2009
e distribuito dalla Venus: un
album racchiuso in 11 tracce,
prodotte tra l’Italia e la Francia, che vagano tra il jazz-rock,
il free-jazz, l’elettronica, il folk
e numerose altre influenze che
lo rendono piacevolmente quasi inetichettabile. C’è tutto; ed
ancora più sorprendentemente,
tutto è stato messo al posto giusto in un esplosione di libertà
creativa congeniata da Mirko
Onofrio, vocalist, compositore
e polistrumentista, Gianfranco De Franco al sax, Giuseppe
Oliveto al trombone, Massimo
Garritano, Giuseppe Sergi e
Massimo Palermo, nell’ordine
chitarra, basso e batteria.
Un disco complesso, impressionista, costruito con atmosfere
che si evolvono fino all’ esplosione, che lascia sensazioni
prese in prestito al post-rock.
Festoso, elettronico, progressive, colorato, in contraddizione,
imprevedibile, indescrivibile a
parole. Difficile trovare qualcosa che non va, dal primo
all’ultimo secondo scorre ‘tranquillo’, come si dice da queste
parti. Procuratevi Les premiers
plaisirs. Se trovate i Red Basica in tour da qualche parte
rinunciate agli impegni ed andate a sentirli.
Federico Baglivi
DANIELE DURANTE
E allora tu si de lu sud
Autoprotto
I nonni e il dilagare della pizzica, il sole, la terra, la politica
e i politicanti, i privilegiati,
THE HORRORS
Primary Colours
Xl
A volte basta un amico dai gusti un po’ difficili a farti cambiare
parere su un gruppo. Mi è successo con gli Horrors, band che agli
esordi aveva quella sfacciataggine un po’ copiata e incollata da
Bauhaus e Cramps, tempi e modi a mio avviso inimitabili.
Messo da parte il teatrino da ragazzini in fissa con gli anni 80 the
Horrors passano da studenti a cultori della materia. Se l’esordio
lasciava ben sperare questo nuovo Primary colours conquista pienamente. Se nella materia in esame vogliamo restare possiamo
dire che il tiro della band si è spostato più in zona Joy Division,
My Bloody Valentine. Punk, garage, new wave chiamatelo un po’
come vi pare, qui si sente lo spettro dei Birthday party e addirittura l’influenza di Jarvis Cocker (Pulp), la strafottenza di non
dosare chitarre shoegaze, di essere slabbrati, noise, afasici, saturi
al punto di risultare fastidiosi e proprio per questo adorabili.
Osvaldo Piliego
i cialtroni e i “poveri cristi”;
trent’anni dopo, in musica e
parole, il Salento è più che mai
una Quistione meridionale per
Daniele Durante. E allora tu
si de lu sud, è una “trentennale considerazione” il nuovo
disco (in edicola con il numero
di maggio di “quiSalento”) del
musicista, fondatore alla fine
degli anni ‘70, insieme a Rina
Durante, del Canzoniere Grecanico Salentino. Cambiano
soggetti e scenografie certo,
ma la “questione” è sempre la
stessa. Sembra voler cantare e suonare questo Daniele
Durante nelle 14 tracce di un
disco un po’ anomalo, suonato
sì con chitarra, fisarmonica
e tamburello, ma anche con
“cardarina” (il secchio usato
per impastare la calce), incudine, “tinella”, e ancora “rattacasu” (grattugia), “stompu”
(mortaio), “farnaru” (setaccio)
e altri attrezzi di lavoro. Nasce così la “Vera, pizzica” di
Daniele Durante, tutta ritmo,
sentimento e una buona dose
di provocazione. Già chiara
allo spuntare delle prime, solari note della trascinante, un
po’ amara, ma anche ironica
title-track, “E allora tu si de lu
sud”, cantata insieme a Nando Popu e Don Rico dei Sud
Sound System. Tra i brani,
tutti originali, anche la riproposizione dell’ironica, pungente, brillante, quanto mai attuale “Questione meridionale”.
(D.Q.)
MUSICA 29
30
RAY TARANTINO
Recusant
Ponderosa
DEPECHE MODE
Sounds Of The Universe
Mute
Italiano di nascita ma adottato
dal mondo. La musica di Ray
Tarantino è di quelle ideali
come colonna per un viaggio
coast to coast. E proprio in
America sembra trovare la
sua ispirazione. Dalle parti di
Bruce Springsteen, dopo essere andato a lezione da Bob
Dylan. Recusant è un disco che
lo ha visto raccogliere successi
e accumulare concerti in giro
per il mondo. Voce roca da vero
rocker, canzoni allineate nel
filone grandi classici del rock
senza tempo.
Un po’ per nostalgici in alcuni
tratti, in altri si spinge verso
uno stile più English in cui
si avverte l’influenza del nuovo folk. Prodotto dal bassista
dei Simply Red quest’album
sembra arrivare da un tempo
in cui la musica era fatta di
canzoni, senza effetti speciali,
senza intellettualismi, senza
troppi giri di parole. Un disco
per amanti del genere ma che
nasconde possibili singoli da
classifiche.
Classifiche che il nostro Ray
aveva già scalato quando poco
tempo fa era tra gli artisti senza contratto discografico più
ascoltati sulla rete.
(O.P.)
A quasi trent’anni dal debutto di Speak & Spell ed anticipato
da Wrong, un singolo “noir” che si candida a diventare uno dei
classici della band, i Depeche Mode hanno pubblicato il loro 12°
album in studio, Sounds of the Universe, che conferma la band di
Basildon quale assoluto riferimento per le nuove generazioni di
artisti con la loro elettronica “universale”. Denso di atmosfere spirituali e riflessive, il nuovo disco è evidentemente caratterizzato
dal massiccio utilizzo di sintetizzatori analogici d’annata divenuti
per Martin Gore, nel corso delle registrazioni, una vera e propria
dipendenza che lo ha spinto a collezionarne più di un centinaio,
bottino di altrettante aste vinte su Ebay. Il risultato finale è un album curato nei dettagli più microscopici, frutto di un’instancabile
ricerca di rinnovamento ma dal sound inevitabilmente Depeche
Mode, l’epilogo di un periodo di intensa ispirazione interamente
catturato nella Deluxe Box Set Edition composta da ben tre CD,
un DVD, due libri fotografici di 84 pagine ciascuno, gadgets vari,
che farà certamente la gioia dei “devoti” più accaniti (un pò meno
del loro portafoglio) ripagati da una manciata di bonus tracks, cinque per l’esattezza, che accrescono l’aspetto qualitativo dell’intero
progetto.
Rino De Cesare
NICOLA ANDRIOLI
Pulsar
Dodici Lune
Sono molteplici i cieli per
note sotto forma di stella. Pulsar è il nuovo lavoro in quartetto del pianista
brindisino Nicola Andrioli,
pensato nell’atmosfera sempre vivida di Parigi e condotto alla “mise en forme”
dalla nostrana Dodici Lune.
Pulsar ci parla di una necessità emotivo - compositiva :
portare il tessuto musicale e
armonico alla ricerca dell’as-
soluta fusione dei linguaggi.
La scrittura marcatamente jazzistica incontra la tradizione
mediterranea di Enza Pagliara e Dario Muci (in Goodnight
and Calimera), la liricità del
fraseggio incide (Way North)
e accarezza. Pulsar conferma
per freschezza e piglio esecutivo, per pulsione e originalità
compositiva quando di positivo
Andrioli ci aveva fatto gustare
in trio con Alba, lavoro d’esordio al quale questo disco si lega
con piacevole naturalità.
Francesco Spadafora
MUSICA 31
THE JUAN MCLEAN
The Future will come
Dfa
Siamo in zona retro futurismo,
dalle parti dove il citazionismo
e la nostalgia per i suoni del
passato fanno tendenza e riempiono le piste. Quando alla fine
degli anni novanta battute e
sonorità erano ormai all’estremo e anche allo stremo delle
forze arrivò la Dfa e il punk
funk perfetta sintesi di una generazione che amava il rock e
la discoteca.
The Juan McLean insieme a
Rapture e Lcd sound system
è tra i massimi esponenti della materia. Questo The future
Will Come sembra profetico
nel suo essere vintage. Un album in cui house, tribalismi, la
new wave, l’ambient e la disco
music trovano un compromesso e convivono pacificamente.
Alla fine altro non è che Dance,
ballo per essere semplici, pura
materia riempi pista. Un po’
snob, ma allo stesso tempo un
po’ italo disco. Citazionista a
tratti, un po’ Human League,
un po’ Hercules and love affair,
per la serie prendiamoci sul serio, ma fino a un certo punto.
Osvaldo Piliego
FABRYCA
Istantanea
Godz
Se ci si limita a guardare al
proprio orticello i primi nomi
chiamati in causa sarebbero
32 MUSICA
Meg, Delta V, forse addirittura
si potrebbero rispolverare gli
Ustmamò. Se invece ci si dedica un attimo alla sostanza, le
cose si fanno decisamente più
interessanti. A cominciare dalla musica decisamente in sintonia con l’elettronica nord europea: fredda, ricamata di glicth,
quasi distante a suggerire altri
spazi, se poi ci si sposta alle atmosfere vocali è chiaro come ci
sia l’islandese Bjork a benedire questa “fabbrica”di canzoni.
E parliamo di canzoni, quello
che conta su tutto. I Fabryca
scelgono la strada della lingua
italiana, testi che raccontano
l’amore, la lontananza, i sentimenti, melodie e ritornelli dal
forte potenziale radiofonico. Il
tutto è confezionato alla perfezione e ci restituisce un disco
di pop italiano non banale e in
linea con quello che all’estero
chiamano electropop. E in Italia, di questi tempi non è poco.
Osvaldo Piliego
francese, inglese.
Di queste sue nature ha saputo prendere il meglio. C’è nella sua musica la passione per
l’America del blues, quella naturale propensione inglese per
la perfetta pop song, quel “je ne
sais quoi” tutto francese che è
sì europeo ma che ha imparato a conoscere e ad apprezzare l’Africa. E nella musica di
Piers si sente, a partire dalla
sua passione per le percussioni, i ritmi. Folk che parte da
Nick Drake e gli anni ‘70, ma
che pianta i piedi nel presente
e ha un respiro ampio e profondo. In questo episodio, più che
nei precedenti, c’è spazio per
il malinconico pop ( avete presente Damien Rice?), ma Piers
ha in più uno stile che definire
elegante è davvero poco.
Osvaldo Piliego
THE DECEMBERIST
The Hazard of love
Capitol
PIERS FACCINI
Two grains of sand
Tot ou tard
Oltre a tornare nel Salento
all’interno della rassegna Keep
Cool Piers faccini torna negli
scaffali dei negozi con un nuovo
attesissimo album. Per questo
Two grains of sand riacquista
la semplicità che solo la maturità di un’artista completo
come lui sa rendere vibrante e
pulsante. Amico di Ben Harper
Piers è uno e trino: italiano,
Con Colin Meloy non c’è mai da
meravigliarsi. Una mente assolutamente vulcanica capace di
intessere trame musicali e storie fantastiche. Un cantastorie
dei nostri giorni che dopo le avventure picaresche e le leggende giapponesi ha deciso di osare ancora di più, di far straripare la storia di farle inzuppare
tutti i brani di fare quello che
un tempo avremmo chiamato
concept album o ancora meglio
una rock opera. Pensato come
un musical finisce per diventa-
re il nuovo appassionante disco
dei Decemberist.
Meloy non è solo in questa difficile avventura, fatta di personaggi che hanno voce è accompagnano Colin e soci in questo
fantastico viaggio. Becky Stark
dei Lavender Diamond è Margaret, l’eroina della storia e
poi My Brightest Diamond è la
regina. Non avrei mai pensato
di usare la parola progressive
in una recensione dei The decemberist ma nel suo senso più
didascalico può riassumere il
multiforme e repentino variare
delle forme musicali messe in
campo. Dall’incedere decisamente rock del finale di Wanting comes in Waves, alla psichedelia di The Hazards of love
1, passando per i momenti più
squisitamente intimisti di Isn’t
It A Lovely Night, An Interlude il disco è una tavolozza di
colori sgargianti e tinte fosche
tutte pronte per rappresentare
un bozzetto di vite fantastiche.
Non è un disco semplice, per lo
meno non vi aspettate le piccole gemme pop di Picaresque,
piuttosto è un disco che a ben
vedere nasconde un tesoro.
Osvaldo Piliego
NEIL YOUNG
Fork in the road
Reprise
Con l’età, si sa, si diventa più
saggi, si assume una consapevolezza di ciò che è intorno a
noi e, soprattutto, si ha, alla
fine, la voglia di dire tutto sen-
SARA LOV
Seasoned eyes were beaming
Netwerk
Per chi ama i Devics non sarà certo una novità, per chi non li ha
mai ascoltati sarà sicuramente una sorpresa, per entrambi sarà
una bella rivelazione. Sara Lov, voce e “metà” della band di Los
Angeles, questa volta decide di fare le cose senza Dustin O’Halloran (comunque presente qua e là nell’album) e ci regala il suo
primo lavoro da solista. Seasoned eyes were beaming è un disco
che sottolinea una personalità musicale molto definita e sensibile.
Atmosfere bucoliche, intime ballate, e papabili successi radiofonici (ascoltate ad esempio la perfetta pop song A thousand bees) sono
solo alcuni dei tratti somatici di questo bel “ritratto di signora”.
Intriso di ricordi, giovinezze che occhi hanno visto, interrogativi
sospesi, questo disco esalta i colori di una voce bellissima e particolare nelle sue piccole asprezze melodiche. Il tutto è avvolto da
produzione e arrangiamenti che non aggiungono ma esaltano le
piccole perle folk, i rimandi country old style, il pop più europeo,
il respiro, la leggerezza che oggi, più che mai, non è mai troppa.
Osvaldo Piliego
za aver nulla da perdere. Pochi
si possono permettere questo in
musica.
Poche ad oggi sono le voci testimoni di un’epoca, feroci come
poetiche sentinelle.
Quest’ultimo periodo di Neil
Young può essere definito per
certi versi militante. Dopo
l’invettiva contro Bush Living
the War arriva questo Fork in
the road. Qui i temi mettono
da parte la politica per toccare
la tematica dell’ambiente. In
attesa di Archives, una mastodontica opera di 10 dischi che
raccoglierà alcuni dei brani che
hanno caratterizzato la sua
lunghissima carriera e, gioia
dei più feticisti, molti brani
inediti, questo Fork in the road
è il nuovo capitolo di un’artista
che non ha perso la strada.
MUSICA 33
34
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub
Beyoncé – Halo
Nessuno avrà
il coraggio di
ammetterlo e
qualcuno penserà anche che
sono
impazzito:
questa
canzone è perfetta.
Epica,
drammatica,
con un video
da
musical
stile
“Saranno Famosi”, con un ritornello in cui l’ennesima
erede di Aretha Franklin si dimostra all’altezza
dell’ennesimo paragone. Tre o quattro ottave tra
la parte da gatta e quella da star. Di sti tempi,
potrebbe anche diventare la canzone pop dell’anno. Qualcuno continuerà a pensare che sono
impazzito. Saranno gli stessi che aspetteranno
Beyoncé alla prova-concerto per un brano sì perfetto, ma difficilissimo.
Green Day – Know your enemy
Primo singolo dall’ottavo
album
della
band
californiana (note a
margine:
74
minuti, produttore Butch Vig,
mr.
Garbage
ma sopratutto
mr. Nevermind
dei Nirvana).
Niente di nuovo sotto al sole, né nel titolo né nelle intenzioni.
In realtà questa traccia sembra fatta apposta
per nascondere l’esplosività di 21th Century
Breakdown, accolto con tutti i crismi dalla stampa internazionale. Billie Joe è in grande forma,
amici miei. Prepariamoci a una bella annata per
la musica rock.
Calvin Harris – I’m not alone
Non ha mai brillato per stile. Anzi, Calvin Harris è proprio tamarro. E la perfida Albione gli da
ragione. La tastierina da super-dj dance anni ’90
mixato con un bel po’ di eredità eighties è l’unica
cosa davvero significativa di questo pezzo. Detto
niente, però: l’intuizione è geniale, seppur ignorante. Non a caso è partita la caccia al remix,
senza esclusione di colpi bassi. Calvin ha creato
un mostro.
Franz Ferdinand – Womanizer
I concerti italiani
hanno
visto le prime
improbabili
cover di Britney
Spears,
che qualcuno
con folle lucidità ha definito nuova icona
punk. Forse la
spiegazione è
meno romantica: Womanizer è un divertissement gradito a
molti musicisti perché facile da replicare, montare e ricomporre. I Franz non fanno altro che
replicare lo spartito con il loro incedere meravigliosamente nevrotico, con il loro marchio di fabbrica. E così, facile facile, giunge un brano che
potrebbe anche diventare hit dell’estate.
Malika Ayane – Come foglie
“Ma
allora
come spieghi
questa maledeeehta nostalgia?” La cantante che può
vantare già più
tentativi di imitazione, alcuni
perfettamente
riusciti, impreziosisce il suo
inizio di carriera con una delle rare perle del Festival di Sanremo 2009. Testo di Giuliano Sangiorgi (Negramaro), presenza scenica unica, somiglianze spiccate
con Ornella Vanoni. Anche perché, pur se molto
diverse nei lineamenti, l’aurea meneghina è spiccata. Basta ascoltare le vocali, la E in particolare.
Dino Amenduni
35
36
DAMMI UNA SPINTA
Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...
Oi Va Voi – Everytime
Band inglese,
origini israeliane, terzo disco
auto-prodotto
(ed
etichetta
propria,
un
dato interessante per una
band policulturale sin dalla
sua ragione sociale), video girato da due ragazzi polacchi. KT Tunstall, cantante della prima ora, si è oramai messa in proprio. Everytime
è forse il brano più radio-friendly di questo collettivo che prova a fare il grande salto di qualità.
E noi, nel nostro piccolo, diamo la spinta.
Bjork – Nattura
Pazza Islanda.
Crisi economica profonda, un
primo ministro
omosessuale,
un
rapporto
tra
abitanti
(300mila)
e
qualità
della
produzione
musicale che
non ha eguali
nel mondo. I
loro abitanti ritengono che la loro terra sia la più
bella del mondo. Bellissima. Così tanto che ai primi segnali di crisi ambientale i Sigùr Ros hanno
chiamato Bjork e hanno deciso di realizzare un
documentario per raccontare i rischi del riscaldamento globale e dell’inquinamento. È seguita una
spaventosa produzione artistica. Ed è spuntato
questo brano fuori di testa. Collaborazione di
Thom Yorke, remix di Switch. Pazza Islanda.
Bombay Bicycle Club – Always like this
Cercando disperatamente informazioni su Internet su questa band che può stare simpatica anche solo per il suo nome, finisco su Google Maps
e scopro che il Club della Bicicletta di Bombay
esiste veramente. Dopo essermi fermato a sorridere, continuo a cercare e scopro che dopo 4 anni
di vita, questo quartetto londinese si concederà
l’ebbrezza del primo album. Ed era anche ora:
Always like this è a prova di testa che si muove
in tutte le sale da ballo e gli uffici in cui proverete a farla suonare.
Camera Obscura – French Navy
Una
piccola
gemma
di
questa
band
scozzese
che
ha
all’attivo
13 anni di
età e nessun
brano degno di
nota. Ora sono
spuntati sulle
pagine
dei
giornali inglesi
con il quarto album, My Maudlin Career che
sembra fatto apposta per colmare quel vuoto che
i Belle and Sebastian, scozzesi anche loro, hanno
forse lasciato nel cuore dei fans. A noi non resta
che fare un percorso a ritroso e scoprire questa
band che, proprio come i più famosi cloni, riesce
a creare atmosfere dolci e sognanti in un posto
come la Scozia, che ispira tutt’altri immaginari
al sapore di luppolo. Chissà, forse le cose da
qualche parte si ricongiungono.
Marmaduke duke – Rubber Lover
Sono un duo
di rock concettuale, dicono.
La definizione
è forse più
concettuale
dell’etichetta,
quindi preferisco concentrarmi su questo
esperimento.
Scozzesi come i
Camera Obscura, solari come loro (si infittisce il mistero sullo
speciale ingrediente che si può respirare nell’aria
di Glasgow), sono già nella top ten inglese quindi
la spintarella potrà apparire un po’ pleonastica.
Al più è una succosa anticipazione di un successo
che, ad occhio e croce, non andrà oltre questo singolo. Maledetto rock concettuale.
Dino Amenduni
37
SALTO NELL’INDIE
SEAHORSE
RECORDINGS
38
Questa puntata di salto nell’indie incontra un’etichetta che
piace molto a noi di coolclub.
it per sonorità e scelte artistiche. Abbiamo parlato con Paolo,
anima, mente e mani di questo
cavalluccio marino amante della
musica.
Un progetto che nasce
dall’amore per la musica,
quella suonata, un musicista
che passa dall’altra parte, ci
racconti il tuo percorso? La
tua scelta?
Se non fossi stato musicista probabilmente non sarei stato né
produttore né discografico. Dico
questo perché a me interessa la
musica sotto i tutti i suoi risvolti… e da quando
ero piccolo ero letteralmente additivo a tutti i
percorsi che le indie label inglesi ed americane
propinavano dalla metà degli ‘80… conoscevo
tutte le vicissitudini legate ad una etichetta discografica che amavo… seguivo anche le interviste ed i fenomeni legati alle scene musicali che
non erano che risvolti di una politica a sfondo
socio-culturale che le stesse etichette erano interessate a divulgare. In Italia ora proviamo a
fare la stessa cosa in un contesto ben diverso e
con un’attitudine non esclusivamente esterofila.
Non solo produzione ma anche registrazione, fate tutto in casa?
Si, ho uno studio impiantato in un piccolissimo
centro della bassa toscana vicino a Cortona. È
un posto ideale per registrare sia per la serenità che si coglie dall’ambiente naturale sia dal
contesto sociale fatto a misura d’uomo. Dunque
niente stress, orari di lavoro liberi e possibilità
di accoglienza nella mia casa per tutti gli artisti.
Avete uno sguardo decisamente internazionale, come si muove e come sceglie Seahorse?
Ho un certo sesto senso verso gli artisti che hanno qualcosa da dire e lo diranno nel futuro… è
un po’ come guardare me stesso e i miei percorsi
esistenziali; personalmente avendo avuto non
poche difficoltà ad affermare le mie potenzialità di musicista e songwriter mi sono messo nei
panni di coloro che ora hanno questa urgenza;
ed ogni volta che scelgo le bands guardo soprattutto alla loro consapevolezza di essere talvolta
piuttosto soli in questo marasma musicale odierno… ma forti
e soprattutto consapevoli delle
loro doti… ciò porta vantaggi e
benefici in tutto il contesto in
cui mi muovo. Tale discorso è
ovviamente valido quando vado
a proporre un gruppo italiano
“consapevole” all’estero.
Ci racconti brevemente le vostre produzioni?
Amo le emozioni forti, non mi accontento del gruppo ben preparato ma essenzialmente piatto
e stereotipato… La Seahorse fa
musica di confine e dunque non
è identificata in un genere musicale predefinito… piuttosto accade che le bands che produco si
sentano accomunate da un sound che negli anni
sono riuscito a tirare fuori dalle mie produzioni
e questo credo che si evinca dai dischi che faccio.
Dunque emozioni e profondità e sguardo comunque attento ad una certa dolce leggerezza “pop”.
Essere indipendenti è una condizione possibile? Il paese è reale?
È più che altro una condizione sottile, che aiuta
meglio a far comunicare gli addetti ai lavori con
la label e di conseguenza con i musicisti… la realtà è parimenti legata alle potenzialità che gli
artisti riescono ad esprimere attraverso i canali
su cui noi discografici lavoriamo assiduamente.
Attualmente il mio lavoro mi ripaga sufficientemente dalle grandi energie umane e materiali
profuse.
Producete un sacco di dischi, cosa avete in
cantiere?
Le prossime uscite su cui lavorerò saranno il
primo album dei !Golemmings Go! Un delicato
e profondo musicista di Pescara. Il disco uscirà a
Giugno. A luglio uscirà il secondo album dei sassaresi Goose. La settimana prossima andrò a
chiudere il disco... è un fantastico gruppo Pop di
matrice americana ma con testi in italiano. Da
settembre in poi aprire le serrande della “Red
Birds” la prima sottoetichetta della Seahorse.
Tratterà di una serie d’artisti con progetti individuali. Dunque songwriters con attitudini folk
ma non solo. Ci saranno sorprese anche dal versante della musica d’avanguardia. Il calendario
del 2010 e già quasi ultimato.
Antonietta Rosato
MUSICA 39
ON
THE
ROCK
Dischi da ascoltare tutto d’un fiato
Questo mese si parte con una segnalazione: l’ora
alla settimana di Theme Time Radio Hour in
cui Bob Dylan fa il DJ. La trasmissione va in
onda ogni domenica notte sino all’una. Purtroppo l’accesso tramite iplayer dal sito della BBC è
disponibile solo per il Regno Unito, nel prossimo
episodio il tema sarà ‘Truth and Lies’ (“Verità
e Bugie”) e le selezioni includeranno tra l’altro
Don’t Lie To Me di Fats Domino, Don’t Play That
Song di Aretha Franklin, Guitar Slim’s Twenty
Five Lies and La-La-La Lies degli Who. Ho controllato, comunque, e sul mulo trovate tutte le
puntate del 2008 e tante altre ancora.
Restiamo in tema di grandi, Leonard Cohen, lui
difficilmente sbaglia un colpo, ed anche questo
nuovo doppio CD (con allegato oramai inseparabile dvd) ne è l’ennesima testimonianza. Live
In London documenta l’eccezionale ultimo tour
europeo (del quale abbiamo contato ben oltre
cento date) ed in modo particolare il concerto del
17 luglio scorso a Londra. In tutto 26 canzoni.
Cercate su YouTube Democracy e ne avrete una
40 MUSICA
gustosa anteprima. Settantaquattroanni ed ancora stupisce; costretto a ritornare sui palchi,
dopo un’assenza durata 15 anni, per far fronte
al buco milionario lasciatogli dalla ex manager
(e amante?) Kelly Lynch mentre lui per 5 anni
si era ritirato in uno Zen Center a Mount Baldy a meditare, a disintossicarsi dall’alcohol, dal
Prozac e soprattutto da una devastante depressione. Quando è ritornato alla vita pubblica si
accorto di non avere più il becco di un dollaro.
E quindi….
Da Leonard Cohen ai Lowlands il passo è... lungo. Ma lo azzardiamo. 7 ragazzi di Pavia amanti
del polveroso roots rock il cui album d’esordio
The Last Call è stato completamente autoprodotto. Bé, mi direte, sei rimbambito, qual è la
novità? Eccovela: 4 stelle su 5 dai critici di Maverick, bibbia del country, l’irruzione nella «top
ten» di Miles of Music, il principale negozio online di musica folk, un giudizio esaltante (9 su
10) da Americana UK, avamposto britannico di
quel rock dal sapore antico. Vi
basta, se no andate sul loro
sito (www.lowlandsband.com)
ed oltre che ascoltare la loro
musica leggerete una rassegna
stampa incredibile. I singoli
sono stati accolti nel palinsesto
delle radio di mezzo mondo. In
un recente intervista al Corriere dicono: «Abbiamo cominciato mandando una pioggia
di email alle redazioni di radio
e riviste musicali degli Stati
Uniti, volevamo far conoscere
le nostre canzoni agli esperti
del genere: è andata bene. All’inizio siamo stati
trasmessi da una manciata di radio universitarie, poi si sono accorti di noi alcuni importanti
siti specializzati. Qualche mese più tardi, la nostra musica si ascoltava dall’Australia all’Inghilterra, siamo finiti persino sulle frequenze della
Bbc». State aspettando che vi dia un riferimento
verso qualcosa che conoscete? Green On Red su
tutti.
Vi sarete accorti, oramai siamo alla terza puntata di questa paginetta, che difficilmente scrivo
di dischi appena pubblicati. L’ho fatto per tanti
anni, incapsulato nella catena test-pressing/cartellastampa/ascolto/recensione. Qui vi racconto di dischi che ascolto e uno di questi è stato
pubblicato lo scorso fine marzo (magari anche
recensito tra le nostre pagine, risparmiatemi la
ricerca…), si chiama Lovetune For Vacuum ed è
l’esordio (preceduto lo scorso anno da un ep con 4
brani) di una ragazzina di 18 anni Anja Plaschg
in arte Soap&Skin. Di nazionalità austriaca,
studia piano al conservatorio di Vienna. Tanto
è leggiadra la sua musica tanto è oscuro il suo
modo di interpretarla. John Cale compositore,
co-fondatore dei Velvet Underground e produttore della maggior parte degli album più rinomati
di Nico presenta proprio in questi giorni (Il 10
maggio a Ferrara) un tributo live alla sua amata
icona a vent’anni dalla sua tragica scomparsa. In
questo evento Cale e il suo gruppo sono accompagnati da una line up d’eccellenza che include
Lisa Gerrard (Dead Can Dance), Mark Lanegan
(Queens of the Stone Age, The Gutter Twins,
collaborazione con Isobell Campbell) il cantante
degli Sparklehorse Mark Linkous, Peter Murphy
(Bauhaus), i Mercury Rev, e lei, la nuova stella
austriaca. Tutti loro interpreteranno le canzoni di Nico, reimmaginandole e reinventandole.
Cavolo a 18 anni! Ma restiamo sul concerto, il
progetto si chiama A Life along the Borderline: A
Tribute to Nico (Una vita sulla linea di confine: Omaggio a
Nico). Già portato in giro sui
palchi di mezza Europa John
Cale ha assicurato alla stampa
inglese che lo scorso 11 ottobre
il concerto al Royal Festival
Hall è stato registrato e che
presto potrebbe essere pubblicato.
E a proposito di Isobel Campbell e Mark Lanegan è uscito
lo scorso anno Sunday At Devil
Dirt, secondo episodio, a due
anni di distanza dal precedente, della loro collaborazione. Folk-pop e blues malato continuano
a contaminarsi come non mai e il duo è ormai
capace di una simbiosi perfetta, come Sonny &
Cher, Kenny Rogers & Dolly Parton o Marvin
Gaye & Tammi Terrell. L’antica storia degli opposti che si attirano ha sempre avuto un posto
speciale nella biografia della musica pop, sin da
quando Lee Hazlewood e Nancy Sinatra si sono
riuniti nel 1966 a cantare These Boots Are Made
For Walking. L’archetipo della Bella e la Bestia
ha raggiunto il culmine con Serge Gainsbourg
e Jane Birkin insieme in Je t’aime... Campbell
è stata l’angelico sussurro dietro Belle e Sebastian, Mark la bestia dietro Screaming Trees e i
Queens of the Stone Age.
Tutti si domandano, anche all’indomani di questa uscita, se la loro collaborazione sarà duratura nel tempo. In una recente intervista all’Indipendent la Campbell ha assicurato: “Quando
siamo sul palco, tutto sembra avere senso. Cantare con Mark ed è una esperienza speciale, quasi religiosa. Mi rende felice. Amo la sua voce, mi
piace cantare con lui, mi piace scrivere per lui, e
io amo sentir cantare da lui le mie canzoni”. Una
dichiarazione d’eterna fedeltà?
Infine chiudiamo con Bruce Cockburn mia grande passione giovanile. Canadese autore di alcune delle più belle pagine di songwriting moderno
(recuperate In the Falling Dark del ‘76 e Circles
in the Stream dell’anno successivo) torna con un
doppio album (Slice O’ Life, Solo Live) dal vivo
in acustico, solo voce e chitarra. Sul sito ufficiale
della casa discografica (http://truenorthrecords.
com/Albums.php?album_id=536) è possibile
ascoltare tutti pezzi nella loro interezza. Brani
che si muovo fra passato e presente della sua
lunga carriera. Una sorta di greatest hits dal
vivo. Buon ascolto...
Vittorio Amodio
MUSICA 41
LIBRI
CHI HA UCCISO
TECLA DOZIO?
L’autore di Assassinio in libreria,
atipica crime story italiana
ci racconta come è nato il suo libro
Lello Gurrado, barese, giornalista di lunga esperienza, ha pubblicato libri di cronaca, cultura
e storia (Mamma eroina, Se ho smesso io, Don
Mazzi, un prete da marciapiede, Gli sdrogati,
San Siro, la scala del calcio).
Con il tempo è scivolato verso la narrativa, e
questo romanzo ne è, per ora, la conseguenza più
estrema. Una storia divertente, ambientata nella Libreria del giallo di Milano, la mitica Sherlockiana che ora purtroppo ha chiuso i battenti,
dove un assassino si aggira tra gli scaffali di libri
e tra i migliori giallisti italiani e del mondo.
Questo libro inaugura la collana marcosultra,
narrativa italiana estrema, paradossale, sovversiva abbinata a una nuova grafica d’artista.
Ogni anno le copertine ultra saranno firmate da
un diverso artista italiano emergente, che verrà
promosso insieme ai libri. Il 2009 è l’anno di David Dalla Venezia, pittore veneziano.
Con Gurrado abbiamo scambiato due chiacchiere
divagando sul mondo del giallo.
Come nasce l’idea di un romanzo con personaggi reali e peraltro famosissimi come
quelli che popolano il tuo libro? Non avevi
paura di confrontarti con dei mostri sacri
della letteratura gialla mondiale?
Ho voluto scrivere una storia credibile, con luoghi reali e personaggi veri. Non ho scelto gli
scrittori famosi per confrontarmi con loro, ma
semplicemente per rendere più plausibile la vicenda. Per capirci, se avessi scritto un romanzo
42 LIBRI
sul calcio avrei messo tra i protagonisti Buffon, Totti, Del Piero,
Cassano, Mourinho... Se l’avessi
fatto sul cinema avrei scomodato
la Bellucci, Scamarcio, Brad Pitt,
Angelina Jolie.
Sembra che tu ti sia divertito
molto a giocare a prevedere le
reazioni degli scrittori, come
in una sorta di ricerca di
plausibilità e verosimiglianza di ciò che accade. È stato
un po’ come giocare a scacchi provando a immaginare
le mosse dell’avversiario, o
hai trattato i tuoi personaggi
come normali personaggi di
un racconto giallo?
Il mio intento iniziale era quello di trattare Camilleri e compagni come normali personaggi
all’interno della storia, ma è vero che, nell’evolversi della storia, ho subito la loro personalità e
mi sono sforzato di intuire quali sarebbero state
le loro mosse se la vicenda fosse stata vera. È
comunque vero che mi sono divertito.
Seppur con tutto ciò che comporta la trama insolita che hai scelto di dipanare, il
tuo romanzo rispetta molte delle regole del
giallo classico, non ultima la trovata, molto
simpatica ed efficace, di coinvolgere nella
storia un enigmista...
Il giallista ha l’obbligo di rispettare certe regole,
ovviamente non scritte, ma essenziali. Tra queste concedere al lettore la possibilità di risolvere il caso. Altrimenti la sfida scritttore-lettore
sarebbe impari. L’ho fatto anch’io, anche se in
modo “enigmatico”.
Come hai effettuato la scelta dei giallisti
che entrano nel tuo romanzo? Credo di
aver capito che per quanto riguarda gli italiani sono effettivamente i migliori amici
della Libreria del giallo. È così anche per
gli stranieri o hai seguito un po’ il tuo gusto
personale nello stilare la classifica dei dieci più grandi scrittori di crime stories del
mondo? E se è così non pensi che uno come
Ellroy avrebbe potuto dare un po’ di verve
a tutta la situazione?
Hai capito bene. I giallisti italiani sono effettivamente quelli più legati alla Libreria del giallo
e a Tecla Dozio. Per quanto riguarda gli stranieri, anche per loro ho fatto un’operazione “pro
veritate”. Tutti quelli citati sono
realmente stati nella libreria di
Tecla Dozio e sono suoi amici. Per
capirci meglio: avrei voluto inserire anche Patrizia Cornwell, ma
Tecla Dozio mi ha chiesto di non
farlo perché non la conosceva personalmente (e non la ama, come
scrittrice...). Ellroy? Avrebbe dato
verve, eccome, ma anche tanti altri, se è per questo.
Si assiste alla rivincita degli
autori di casa nostra di fronte
alle star internazionali. Credi
che il giallo e il noir italiani
abbiano qualcosa da invidiare a quello per esempio americano o ormai anche i nostri
autori hanno raggiunto una consapevolezza e una maturità tali da non aver paura
dei colleghi stranieri?
A mio parere siamo ancora indietro. Non soltanto agli americani e agli inglesi, tradizionali leader del genere, ma anche agli spagnoli, ai francesi, ai nordici, vedi la trilogia di “Millennium”, che
hanno più inventiva, forse più coraggio di noi.
E attenzione perché si stanno imponendo anche
i greci, i turchi, i sudamericani... Credo che dovremmo darci una mossa lasciando indietro gli
stereotipi del giallo tradizionale e inventando
qualcosa di diverso. Ovviamente in questa operazione è indispensabile la collaborazione degli
editori che, invece, spesso hanno meno coraggio
degli stessi scrittori.
Il Daily telegraph nelle sua classifica dei
“cinquanta scrittori gialli da leggere prima di morire” ha incluso Andrea Camilleri,
unico tra gli italiani. Non credi che forse
anche qualcun altro avrebbe meritato di
entrare in quella classifica?
Beh, se prima di morire un lettore del Daily Telegraph leggesse Il nome della rosa di Eco o Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda
potrebbe forse morire più contento.
Ultima domanda. Un romanzo giallo italiano e uno straniero di cui assolutamente
non si può fare a meno.
Quelli italiani li ho appena citati. Per gli stranieri: tra i classici l’inarrivabile Dieci piccoli indiani
di Agatha Cristie, tra i contemporanei uno qualsiasi di Fred Vargas, forse L’uomo a rovescio.
Dario Goffredo
LIBRI 43
MARCO
ROVELLI
Lo scrittore ci racconta chi muore al lavoro
Lavorare uccide è un libro sulla morte sul lavoro,
su quella tragedia ininterrotta che abita l’Italia,
e che è trattata dai media ordinari nella sola
rappresentazione dell’esteriorità, quindi in modo
o distratto o sguaiato. In questa inchiesta narrativa, invece, non compaiono né disattenzione
né volgarità: ogni pagina è uno scavo penetrante
nel lavoro contemporaneo, nei suoi meccanismi
annientanti, nel suo operare sempre più distanza da qualunque forma di umanità. Ne abbiamo
discusso con l’autore Marco Rovelli, nel mese che
celebra il lavoro e i diritti ad esso legati.
Hai iniziato a documentarti per il tuo libro
in tempi per nulla attenti alla morte sul
lavoro: ai tanti casi non era dedicato neanche uno sparuto trafiletto sul giornale.
Eppure, nonostante l’assenza d’informazione, hai percepito l’insostenibilità di ciò che
pareva non degno di uno spazio adeguato.
Come sei riuscito a “non distogliere mai lo
sguardo”, ad andare ben oltre quel che ci
era dato di vedere?
Bella domanda, spero di esserne all’altezza.
Come con tutte le cose che mi piace raccontare,
anche in questo caso ci sono arrivato in maniera
casuale. Lo sguardo fa da sé: le cose significative
ti balzano agli occhi. Comunque, tutto è partito,
come scrivo nell’introduzione del libro, dal mio
lavoro sui migranti in Lager italiani. Ho continuato il viaggio in Italia, e ho notato che il terreno più comune, sia ai cittadini che ai non-cittadini, è proprio quello del lavoro, in cui si rintraccia
una continuità davvero concreta. Basti pensare
allo slogan del movimento anti-razzista “siamo
tutti clandestini”, che suona un po’ falsante visto
che la condizione del clandestino reale è distante
da quella di chi è cittadino: di fatto attraversa il
44 LIBRI
solco del diritto negato. Nel lavoro questa distanza è annullata.
A proposito dei migranti... sono i funamboli
del lavoro negato, in biblico continuo tra diritti sospesi e discriminazioni ignobili. Dedicherai a loro un’ulteriore pubblicazione...
Esce a settembre, si intitola Servi d’Italia. È
un’altra parte del viaggio, attraverso i soggetti
del diritto negato. Prova a rispondere alla domanda “perché esistono i clandestini?”, quei
clandestini che realizzano quello che un tempo
si sarebbe definito “sottoproletariato”, cioè una
classe sociale più debole, meno garantita, e che
trascina sulle spalle tutto il peso di un’economia
basata sul lavoro nero. Il lavoro nero in Italia è
essenziale: basti pensare che il “sommerso” cresce più del PIL ufficiale, e raggiunge una quota
pari al 20%.
Torniamo a Lavorare uccide, e all’informazione relativa alla morte sul lavoro. Non c’è
più una lacuna vera e propria, ma forse il
problema ora sta nel modo in cui l’informazione stessa è presente…
Come in ogni progresso, c’è un regresso. È positivo che i giornalisti, quei giornalisti che facevano fatica a vedersi pubblicato un trafiletto, ora
ne parlino. Dopo i moniti del Presidente della
Repubblica, certe notizie compaiono con più frequenza. Ma negli ultimi mesi si è presentato anche il rischio dell’assuefazione, del dare visibilità
ad un evento senza però indagarne i “perché”. La
notizia in sé non comunica nulla, non è significativa. È rilevante andare a fare un’inchiesta, scovare le responsabilità, seguire i processi…
Restando sul “come” se ne parla, Lavora-
re uccide è anche un attacco lucidissimo
all’uso improprio di espressioni come
“morti bianche” e di termini come “martiri”. Quali sono i rischi dell’assoggettamento, spesso inconsapevole, ad un lessico superficiale e inopportuno?
A volte è inconsapevole anche da parte degli
stessi produttori delle parole. È interessante
ragionare sulla percezione delle stesse, ma questo in genere non lo si fa perché andare a vedere cosa c’è “dentro” dischiude un mondo… e il
linguaggio, si sa, è un atto performativo, produce mondi, ed è fatto apposta per occultare…
Leggerti in quest’ultima tua fatica è stato
come affrontare un viaggio privo di una
sua geografia. Mi ha colpito il fatto che
ogni differenza fosse come indistinta: Napoli e Treviso, fabbrica e cantiere portuale, precariato e assunzione a tempo indeterminato...
È una notazione interessante… c’è un terreno
- quello del lavoro - che smaterializza le geografie e gli spazi, e ho costruito la successione
dei capitoli proprio perché mi interessava la
omogeneità “materiale”, che non è data dalle
differenze, ma da quella continuità di cui parlavo prima.
In più di un brano, poi, sottolinei spesso l’esigenza di giustizia manifestata dai
parenti delle vittime, e la loro richiesta
continua di “sanzioni pesanti”: c’è una
disperazione ansiosa di individuare le
responsabilità e di punire i colpevoli. La
tua formazione, però, è dichiaratamente
libertaria, quindi piuttosto diffidente nei
riguardi di qualunque intervento di tipo
autoritario-istituzionale. Cosa ha significato far incontrare il tuo orientamento
di pensiero con l’afflizione di “chi è rimasto”?
Io non sono certo uno di quelli che afferma che
il carcere sia una soluzione. Però questa è una
società che sta divenendo sempre più produttiva di carcere, sempre più carceraria, per cui
se la legge è uguale per tutti, lo devono essere
anche le pene. Poi, sul senso della punizione,
sull’efficacia della detenzione, o anche sulle
possibili alternative, si può discutere. Ma intanto, bisogna ricorrere per esempio alle sanzioni pecuniarie, oppure impedire l’attività di
imprenditore a chi è risultato responsabile di
determinati incidenti.
Concludo chiedendoti questo: nel tuo
precedente libro, Lager italiani, descrivi i
Centri di Permanenza Temporanea e le
tante “vigliaccherie autorizzate” all’interno delle strutture di contenzione. Quali
somiglianze hai riconosciuto, confrontando un’istituzione totale come il CPT con
una dimensione lavorativa che “totalizza”
tanto da condurre addirittura alla morte?
Una confronto di questo genere si può fare da
un punto di vista sociologico, ma ci sono in gioco
condizioni di vita abissalmente diverse. I gradi
di intensità sono distanti, e la comunanza può
esser data solo dalla “precarietà”. Il diritto si fa
importante strumento in tutto questo, perché
produce il possesso della cittadinanza, mentre il
CPT è finalizzato proprio alla precarizzazione, a
costruire un’indotta docilità, che faccia stare il
clandestino nell’invisibilità. Finché si è invisibili, di fatto non si può essere soggetti di disordine.
Stefania Ricchiuto
LIBRI 45
GIANFRANCO MANFREDI
Ho freddo
Gargoyle Books
Manfredi è un autore
poliedrico, complesso,
problematico. Per abbracciare tutta la sua
multiformità d’estro,
basti ricordare che
dagli anni’70 ad oggi
non c’e stata zona di
resistenza
culturale
che si sia sottratta al
suo demone geniale.
Musica, teatro, fumetto, cinema, narrativa:
in ogni dove artistico
si può rintracciare più
di un suo seme. Da ricercatore penetrante qual
è, ha sempre mosso una sinergia raramente rintracciabile in altre scritture, e cioè la concordia
tra una documentazione incontestabile - composta da letture rarissime e sopralluoghi spesso eccezionali - e un’apertura generosa verso
l’inafferabilità del mistero. Facendolo continuamente, ha creato suo malgrado un non-genere,
il gotico-filosofico, in cui rientra pienamente
anche questo ultimo Ho freddo, che si rivela sin
dalle righe iniziali una lettura irresistibile in
qualunque tempo, ma indispensabile in questo
momento storico. Calarsi nelle sue pagine ora,
in un’Italia targata 2009 e affannata da paranoie securitarie pressoché quotidiane, concede di
fatto un esercizio di cautela importante contro
l’emergere piuttosto sbrigativo di deliri fobici
ed ossessioni fanatiche. Le derive del terrore
sono le protagoniste incorporee di questo libro
notturno, che fa coabitare luoghi sinistri, personaggi inquietanti, ma soprattutto interrogativi
angosciosi. La storia narrata è un teatro cupo
a misura di lotta tra intelletto e irrazionalità,
con due delle figure “fisiche”, i gemelli Aline e
Valcour, a fare da ciceroni tenaci tra le traiettorie impensabili della paura collettiva. Esperti
in malattie epidemiche e razionalisti convinti, i
due giungono nel Rhode Island del ‘700, e in pieno territorio puritano assistono alla nascita del
vaneggiamento di un’intera comunità. Un morbo
ignoto sta mietendo delle vittime tra le fanciulle
del luogo, e l’incomprensibilità della malattia sta
spianando la strada ad una rinnovata caccia alle
streghe. Risuona ovunque la parola “vampiri”, e
l’ossimoro del morto vivente, non recepito nella
sua assurda contraddizione, scatena pratiche
dettate da un’ignoranza perversa: così, le tombe
sono profanate, i cadaveri vengono straziati, l’in-
telligenza è ormai offesa. I cimiteri rimuovono
il senso del riposo eterno, divenendo laboratori
insensati della superstizione più scellerata.
Stefania Ricchiuto
ALAIN VIRCONDELET
La vera storia del Piccolo Principe
Edizioni Piemme
New York, 1942. Antoine de Saint-Exuperie si trova nella
grande mela da più di
un anno, in esilio volontario dal regime di
Vichy, dalla presenza
saturante della compagna Consuelo, dal
malessere che lo corrode. Saint-Exuperie
vaga intollerante per
i grandi viali di New
York, per le case della cricca francese, fa la spola tra i diversi volti
di se stesso. Il Piccolo Principe nasce lì e allora come placebo di una crisi esistenziale, ma la
sua sorte sarà ben diversa. La vera storia del
Piccolo Principe racconta la gestazione febbrile
del racconto naif a cui Saint-Exupery finì per affidare la grande verità di se stesso, attraverso
l’esperienza tangibile dei propri incontri e delle
contraddizioni che intrecciavano quei legami. È
così che ritornano e si sovrappongono le immagini di Consuelo, delle molte amanti, delle notti
newyorkesi, della guerra, della casa d’infanzia,
compresenti in Antoine come un assurdo mosaico in cui ogni tessera si sovrappone a un’altra
eppure non la offusca. All’apice di questo paradosso la vita amorosa dello scrittore, costellata
di amanti eppure capace di essere devota a Consuelo, la sposa legittima “male amata e insieme
tanto amata”, che Antoine elegge a imperativo
sacro e con cui tuttavia non riesce neanche a convivere. È lei la rosa del Piccolo Principe, come le
viene confessato in una lettera. In sostanza, per
la vita dell’uomo Saint-Exupéry il libro è forse
l’epigrafe di un fallimento esistenziale, quello di
colui che è stato capace di consegnare un’illuminazione tanto profonda, ma incapace di negarsi
il male. Dentro l’amarezza di ciò che viene tanto
crudamente demistificato, c’è la speranza che il
limite di ogni uomo contenga un potenziale di riscatto tanto vasto quale è il messaggio del libro.
Il magico insegnamento del Piccolo Principe non
perde il proprio richiamo: semplicemente diviene
un po’ più agrodolce, e per questo più autentico.
Giorgia Salicandro
LIBRI 47
ALESSIO SPATARO
Dark Country
Self Comics
“Se Alessio Spataro
fosse musica per me
sarebbe i Fugazi”.
Questa la dedica appassionata di
Giovanna Cacciola, voce
delle storiche noise
band catanesi Uzeda
e Bellini, che appare
in quarta di copertina
del volumetto tascabile “Dark Country”,
fumetto “senza parole”
del disegnatore Alessio Spataro, realizzato in
monocromia rossa edito da Self-Comics. I Fugazi, formazione post punk americana, ha scritto la
storia dell’autoproduzione musicale, svincolandosi completamente dall’industria discografica,
regalando e diffondendo il suo suono nervoso ed
attento tramite una rete di appassionati e sostenitori fra fans, seguaci del genere, produttori
discografici indipendenti, promoter ed organizzatori. Una scelta di vita, quella dell’indipendenza, che presenta fin da subito il suo prezzo dal
punto di vista economico, ma che disegna e crea
rapporti veri, basati su scelte e principi sani e
quindi destinati a durare agli affanni ed al logorio del tempo. Pesare le parole in momenti in
cui gli affetti sfuggono involontariamente come
le ombre, fare l’elenco delle cose che avrei voluto
dirvi, delle cose che avrei voluto fare, della vita
che vorrei fosse tutta mia, anzi, tutta nostra.
Lo stesso Alessio, persona dall’indole serena e
pronta al confronto, diffonde in questa maniera
la sua esperienza ed il suo punto di vista da “artigiano della vignetta”, fidandosi di chi guarda
al mondo nella stessa maniera in cui lui guarda
al mondo.Non mi capita spesso, ma appena ho
avuto modo di conoscerlo di persona, ho avuto la
sensazione di conoscerlo da sempre. Una stretta
di mano ed un sorriso sincero restano il miglior
social network possibile al mondo. Il libro è un
comic book di 48 pagine, brossurato, senza parole ma con la musica protagonista. Parla della
tragica lotta di un giovane chitarrista che cerca ispirazione ritirandosi in campagna, mentre
dall’altro lato c’è una vecchia massaia che non
sopporta il chiasso dell’amplificatore. Parliamo
di un duro confronto generazionale, dell’eterna
lotta fra il bene ed il male, dando ancora una
volta per scontato cosa sia il bene e dove risieda
il male. Parliamo di sogni, desideri, esigenze. In
realtà non parliamo davvero di nulla, perchè il
48 LIBRI
nulla avanza in tutti i sensi. Se Alessio avesse
voluto comunicare qualcosa in più avrebbe aggiunto le parole ai tratti delle sue penne e matite, parole che non gli mancano data l’esperienza
e le collaborazioni raccolte in giro. Ancora una
volta emerge la nostra presunzione di avere un
parere, anzi un ardito parere su tutto, soprattutto su quello che non c’è. Le parole non ci sono,
questa volta non servivano. Ci sono giorni in cui
il vento soffia davvero forte, al mattino ti svegli
favorevole a qualcosa e la sera rimugini la noia
nei confronti di quel “qualcosa” prima di concederti al sonno. Pensi di aver capito tutto, in realtà non hai capito proprio un bel nulla, perchè chi
va avanti realmente nella vita è solo l’orologio, e
tu cavalchi il tempo come un surfista si adopera
sulle onde, cadendo di volta in volta in un mare
sempre più profondo e pericoloso, ma l’esperienza lo ha reso tuo amico ed ormai conosci innumerevoli tecniche per non affogare. Sempre meno
forza per risalite sempre più difficili, ma alle
volte ci si diverte solo così. Le idee buone non
muoiono mai, per quelle bastano poche parole,
anzi pochissime. A volte nessuna.
Ennio Ciotta
YOANI SANCHEZ
Cuba Libre
Rizzoli
Yoani è una blogger cubana poco più che trentenne, e da desdecuba.
com/generaciony rende al mondo i dettagli
scomodi del vivere in
un’isola ribelle, che è
da sempre riferimento
assoluto per tutti i popoli in lotta dell’America Latina. Aggiorna
il blog spedendo e-mail
ad amici di rete sparsi
per il mondo - nella sua
terra non le è consentito l’accesso al portale che
la ospita - e lo fa barcamenandosi tra gli internet point degli alberghi, pagando costi e tempi
salatissimi. Tutto questo, per continuare ad esistere nonostante l’ipnosi collettiva che la circonda, e nonostante la sua condizione insostenibile
di “prigioniera insulare” – ha dovuto rifiutare
mille inviti all’estero perché “non autorizzata a
viaggiare”. Ora, esce in Italia con un libro in cui
si scaglia contro il doppio sistema monetario e
il mercato nero, il condizionamento ideologico e
l’informazione di regime, e in cui restituisce una
Cuba contemporanea che non piacerà ai fidelisti
convinti. Unica pecca di questa testimonianza
mai rabbiosa: l’assenza di un minimo riferimento all’embargo terrorista che da cinquant’anni
soffoca l’isola. Da leggere, per rendersi conto che
Rivoluzione Cubana significa un passato di conquiste intoccabili, ma anche una realtà di traiettorie oppressive indifendibili.
Stefania Richciuto
G. ZAPPATORE - P. FUMAROLA - V.
D’ARMENTO
All’ombra di Georges Lapassade
Sensibili alle foglie
Sintetizzare la ricerca
di Georges Lapassade
è impresa irrealizzabile: la sua vita di uomo
nomade e di studioso
multidisciplinare
si
è snodata attraverso
infiniti campi di elaborazione, per segnare
ogni volta – indiscutibilmente – quelle zone
del pensiero resistente
rappresentate
dalle
discipline dell’etnometodologia e dell’analisi
istituzionale. Proprio a causa della quantità, e
soprattutto della “densità”, dei suoi contributi,
tutti determinanti, è opportuno abbracciare le
teorie e le pratiche di questo ricercatore differente procedendo per geografie, come suggerisce
la casa editrice Sensibili alle foglie con questa
uscita tematizzata, dedicata alle testimonianze
sulle tracce salentine di Lapassade. Nel Salento,
infatti, il filosofo e sociologo francese ha penetrato il territorio scavando finemente nella cultura
locale, e avvisando dei rischi di una “modernità
che travolge” e che porta a smarrire l’autenticità
della tradizione. Ad un anno dalla scomparsa,
solo gli autori raccolti in memoria in questo testo
gli rendono l’omaggio dovuto: il Salento istituzionale non l’ha finora fatto, nonostante Lapassade
sia stato il creatore reale – mai riconosciuto – di
un evento come La Notte della Taranta.
Stefania Ricchiuto
VITO BRUNO
Il ragazzo che credeva in Dio
Fazi Editore
Viale Magna Grecia, rione Tamburi, i fumi dell’Ilva, il ponte girevole, la periferia sporca e polverosa, la salita verso Martina Franca. Il romanzo
di Vito Bruno si staglia su una Taranto lontana
dalla modernità e lacerata dal fallimento. Priva
di speranze e di sogni. Il protagonista è Carmine,
un prete che sulla soglia dei cinquant’anni sente
vacillare la forza della sua vocazione e della fede
che lo ha sorretto fino a quel momento.
Le sue certezze si infrangono di fronte ad una domanda posta da una prostituta venuta dal Montenegro: qual è il senso del dolore? Don Carmine
non riesce a rispondere ma inizia a sentire dentro un profondo senso di inquietudine mischiato
alla consapevolezza di non essere più all’altezza
dell’abito che indossa. Da quel momento in poi
la Taranto dei giorni nostri si fonde con la narrazione e diventa “un posto perfetto per soffrire
tutti insieme”. Gli eventi incalzanti e veloci vedono il prete coinvolto in situazioni più o meno
lecite, con il solo scopo di salvare Alena e donarle
un destino più fortunato. Il futuro non sembra
esistere, tutto è schiacciato sul presente. E ogni
singolo essere umano è costretto a covare da
solo la propria pena. Finché le acque inquinate
e placide del Mar Piccolo benedicono una tanto
agognata salvezza…
Lucio Lussi
FABRIZIO CANCIANI - STEFANO
CROVI
Delitti e canzoni
Todaro Editore
In origine Delitti e canzoni
era uno spettacolo di cabaret portato in scena da Fabrizio Canciani, scrittore,
e Stefano Crovi, cantante
e cabarettista. Dallo spettacolo i due “criminologi
della canzone italiana”
hanno tratto l’idea di questo libro, con l’intento di
ricreare l’atmosfera di una
jam session o quello che
succede normalmente in
uno studio di registrazione dove non è raro che
un musicista intervenga nelle registrazioni di un
altro gruppo o nascano collaborazioni quasi per
caso davanti alla macchinetta del caffè. E così
Canciani e Crovi hanno invitato i loro amici, musicisti, scrittori, cabarettisti, comici, poliziotti, a
scrivere qualcosa sul tema delitti e canzoni. Ne
viene fuori un libro leggero, leggibilissimo e non
scontato su un rapporto, quello tra il crimine e la
canzone, che in Italia ha le sue radici nelle canzoni della mala, cantate dalla Vanoni, o nei testi
di De Andrè e tanti altri, ma che riserva ancora
tante sorprese che questo libro vuole svelare.
Dario Goffredo
LIBRI 49
TODARO
EDITORE
Todaro editore è una piccola casa editrice ticinese, con un’anima profondamente italiana e con
un occhio di riguardo puntato al mondo del noir.
La collana Impronte, che vanta tra i suoi autori
alcuni dei nomi di punta del genere poliziesco
italiano è curata nientemeno che da Tecla Dozio, animatrice della mitica libreria del giallo di
Milano, la Sherlokiana, punto di riferimento per
autori e lettori.
Coolclub.it ha fatto due chiacchiere con Veronica
Todaro.
La Todaro editore è una casa editrice svizzera, ma ha un legame molto forte con
l’Italia. Il mercato editoriale italiano è un
mostro strano, si legge pochissimo e si pubblicano 40.000 titoli l’anno. Come si pone
una casa editrice come la tua nel mondo
editoriale italiano?
La nostra casa editrice ha una doppia anima:
svizzera e italiana, in quanto parte della mia famiglia risiede a Lugano da molti anni e io stessa
50 LIBRI
ho compiuto parte dei miei studi lì, però sono italiana. Comunque un editore di lingua italiana,
a meno che non si concentri sulla realtà locale
ticinese, non può prescindere dal rivolgersi al
pubblico italiano: in termini assoluti il bacino di
lettori in Ticino non è così ampio, anche se in
termini percentuali i ticinesi leggono più dei loro
cugini italiani.
Quali sono la linea editoriale e il progetto
che vi contraddistinguono?
Quando siamo nati, nel 1996, avevamo diverse
collane: di cultura gastronomica, di fiabe e mitologia, di viaggi etc. Nel 1999 abbiamo iniziato
(tra i primi in campo editoriale) a dare spazio
agli autori di gialli in lingua italiana con la nostra collana “Impronte”. Negli anni questa collana è cresciuta e per concentrare le nostre forze
su questo progetto, abbiamo messo in stand-by
alcune altre collane. Oggi pubblichiamo gialli/
noir, libri di viaggio e qualche fuori collana che
ci sembra interessante.
Il vostro catalogo spazia dalle fiabe e dalla magia, al noir e al giallo, passando per
la storia, la cucina e i vostri bellissimi manuali semiseri. Come avvengono le scelte
editoriali?
Come già detto alcune collane sono state sospese,
per motivi commerciali o per mancanza di materiale “buono”. Inoltre, per un piccolo editore, la
specializzazione in uno o due argomenti “paga”,
in termini di distribuzione nelle librerie e di fidelizzazione dei lettori. Le scelte editoriali vengono effettuate con diversi criteri: qualità della
scrittura, della storia narrata, della vendibilità
in primis. Poi possono esserci motivi contingenti:
interesse del momento a un determinato argomento, originalità del progetto, “innamoramento” vero e proprio!
Che tipo di politica attuate nei confronti
dei manoscritti?
Riceviamo moltissimi manoscritti e vengono tutti esaminati. Non tutti vengono letti dall’inizio
alla fine, in quanto dopo poche pagine è chiaro
se l’autore sa o non sa scrivere (non in termini
di grammatica o sintassi, ovviamente, ma deve
avere ritmo, dialoghi che funzionino, personaggi
che possano incuriosire etc). Una buona storia
scritta male non fa un buon libro. Dicevo, esaminiamo tutti i manoscritti, i tempi di lettura sono
lunghi, circa 4/5 mesi mediamente. Se il libro ci
interessa (deve avere l’approvazione mia e della
curatrice della collana, Tecla Dozio) contattiamo
l’autore per verificare che il romanzo sia ancora
disponibile e che abbia voglia di apportare le modifiche richieste (sempre piuttosto leggere, che
non stravolgono il progetto iniziale dell’autore e
che comunque vengono sempre motivate). A quel
punto si fa il contratto, si impagina, si corregge,
si sceglie la copertina, si stampa, si distribuisce
e... si spera!
Non chiediamo mai la partecipazione alle spese
all’autore! Paghiamo poco (come ogni piccolo editore che si rispetti) ma non chiediamo un euro (o
un franco).
Questo numero di coolclub.it è dedicato al
giallo e al noir. Ci parli della collana Impronte?
Impronte nasce nel 1999, da un progetto mio e di
Tecla: dare spazio agli autori italiani di giallo, in
particolare quelli esordienti o emergenti. Negli
anni abbiamo pubblicato quasi 40 titoli: alcune
antologie tematiche (Delitti sotto l’albero, Capodanno nero, Innamorati da morire, Uccidere per
sport) con racconti di autori famosi (Carlotto, Lucarelli, Fois, Macchiavelli, Vallorani, Comastri,
Montanari etc.; addirittura nell’ultima antologia
abbiamo ospitato due “mostri sacri” stranieri;
Deaver e Lansdale), molti esordienti che sono
poi diventati scrittori Todaro con 3 o 4 romanzi pubblicati e scrittori già noti al pubblico che
ci hanno concesso di pubblicare una loro opera (
Mino Milani, Franco Foschi, Roberto Mistretta,
Massimo Marcotullio). Un’altra caratteristica
importante della nostra collana è l’ambientazione italiana; il territorio diventa co- protagonista
del romanzo. Abbiamo così romanzi ambientati
sull’Appennino abruzzese, a Sassuolo, Milano,
Pavia, in Sicilia, Campania... ci manca la Puglia!
Se qualcuno volesse cimentarsi in un giallo ambientato nel Salento, per esempio... siamo qui!
Ci sono dei libri a cui sei particolarmente
affezionata tra quelli da voi pubblicati? O
ci sono delle storie legate a un titolo?
Un po’ come una mamma, sono legata a tutti i
libri che abbiamo pubblicato. Con alcuni vado
più d’accordo con altri meno, ma non potrei sceglierne uno. Come lettrice ho i miei personaggi
preferiti, e ci sono libri che ci hanno dato maggiori soddisfazioni e altri (spesso non per colpa
loro) che non hanno raggiunto la diffusione che
ci aspettavamo, ma l’editoria non è una scienza
esatta, le variabili sono tante e imprevedibili.
Sono molto orgogliosa della nostra ultima antologia Delitti diVino, perchè per la prima volta
abbiamo pensato di interpellare, al posto dei soliti noti, i nostri autori. E il risultato, in termini
qualitativi, è stato ottimo. Anche sul piano delle
vendite sta andando molto bene.
Quali sono le novità e le prossime uscite in
catalogo?
Verso fine aprile usciranno: Sentieri invisibili
di Giuseppe Battarino, un magistrato di Varese
che ha ambientato il suo primo romanzo nella
procura di una cittadina del Nord Italia, e ci
racconta come lavora realmente una procura;
Delitti e canzoni di Fabrizio Canciani e Stefano
Covri, una jam session letteraria con contributi
di oltre 30 tra scrittori, musicisti, giornalisti, cabarettisti. Piuttosto divertente. A maggio uscirà
Lunaris. Dal diario di un Licantropo, una storia raccontata in prima persona da un giovane
uomo che si accorge di essere diventato licantropo. Non è un horror, è piuttosto una biografia un
po’ inquietante.
Si possono trovare le schede delle nostre novità
consultando il nostro sito: www.todaroeditore.
com
Dario Goffredo
LIBRI 51
CINEMA TEATRO ARTE
KUBRICK
Dieci anni senza
Capita purtroppo sempre più spesso che si assista a celebrazioni di ogni tipo, a memorial, a
retrospettive, a rassegne. Non per Stanley Kubrick. O almeno non come avrei desiderato.
Ho contato fino a 10 da quando, stroncato da un
infarto, si è spento nella sua casa di campagna
all’età di 70 anni.
E la sua eredità appare oggi, a distanza di due
lustri, pesantissima. Inutile citare la sua filmografia, che vede al suo interno per citarne alcuni Shining e Lolita, Barry Lindon e il postumo
Eyes wide shut.
In un numero di Coolclub.it dedicato al giallo,
52 cinema teatro arte
meglio soffermarsi sulla pellicola che più di
tutte ha costituito per Kubrick l’incontro con il
genere: Rapina a mano armata.
Nel noir del 1956, terzo film del regista diretto
a soli 28 anni, si ritrovano tutti i tratti distintivi del giallo classico, con un qualcosa in più:
il flashback.
In un continuo andirivieni di eventi, idea
mutuata da Clean break, libro di Lionel White da cui la pellicola è tratta, Rapina a mano
armata scombina temporalmente le idee dello
spettatore, che assiste alla stessa rapina vista
attraverso gli occhi dei diversi protagonisti. Il
risultato è fenomenale, per pubblico e critica.
Ma lo è innanzitutto perché il film di Kubrick,
a suo modo, introduce nel cinema alcuni degli
elementi che qualche decennio più tardi faranno la fortuna di autori considerati di culto, come
Quentin Tarantino (vedi Le iene e Pulp fiction).
Fulcro del film un colpo per l’appunto, che una
banda variegata, che ricorda gli Ocean’s di Steven Soderbergh, intende realizzare ai danni di
un ippodromo a New York. Tutto sembra filare
liscio fino a quando l’avidità di uno degli elementi non manda a monte un piano quasi perfetto, fino al clamoroso finale a sorpresa.
Ma il giallo è solo uno dei generi che l’eclettico
cineasta americano sposa nella sua carriera.
Esploratore di generi e comunicazione, il regista Kubrick lavora la pellicola e l’inquadratura
con la difficile arte del mosaico; avaro di concessioni produttive, preferisce costruire film
che alla lunga si rivelano opere sì impeccabili
tecnicamente, ma soprattutto sincere spiritualmente.
Rifiuta qualsiasi morale il cineasta americano, che anzi inserisce nelle sue opere un solo e
grande protagonista: il dualismo.
In Arancia Meccanica, il teppista Alex viene
messo in condizione, da una società conformista, di non poter più scegliere tra il bene e il
male; in Barry Lindon emerge l’insanabile conflitto tra amore ed odio; ne Il dottor Stranamore si racconta come l’uomo sia capace di amare
quanto di sterminare con disinvoltura suoi simili e, come detto prima, l’avidità contrapposta
all’accontentarsi diventa un elemento decisivo
in Rapina a mano armata.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo, quanti
sono i film di Kubrick, quanti sono i momenti di
pura e aperta riflessione da essi generati.
A un’analisi prettamente da spettatore si uniscono poi centinaia di teorie che vedono i film
del regista vicini a diverse filosofie.
Celebre è il filone che accomuna alcune opere
di Kubrick, in particolare 2001 – Odissea nello
spazio al pensiero di Nietzsche.
Il millenario viaggio dell’essere umano da primate a creatura dello spazio rappresenterebbe
per molti il punto d’arrivo del superuomo di
Nietzsche, con tutte le contraddizioni che questo comporta.
Una teoria affascinante senza dubbio, forse
basata sul nulla, ma che rende bene l’idea su
quanto i film del cineasta di New York siano
ancora lontani dall’essere “decifrati”, o semplicemente di quanto siano immortali nel loro continuo richiamo a caratteri fondanti dell’umano
modo di essere.
E questo rappresenta forse il premio più grande
per Kubrick, passato a miglior vita con il rimpianto di un Oscar mai concesso e che ha tutto
il sapore della vendetta di chi non aveva mai
tollerato un genio fuori dagli schemi, capace di
non farsi ricattare, ma di vivere la costruzione
di un film come un momento sacro, lontano da
ogni compromesso.
D’altronde è noto, la storia, almeno inizialmente è fatta dagli uomini, ma alla lunga sono i
compromessi a non essere fatti per la storia.
C.Michele Pierri
cinema teatro arte 53
SHAMELESS
Si potrebbe giustamente affermare che il cinema
sia ormai entrato nelle nostre case. Megaschermi digitali, audio dolby-surround e film scaricati
da Internet prima ancora di essere proiettati nelle sale. Inoltre la televisione ci ha resi dipendenti
dalle serie tv che a cavallo del nuovo millennio
si sono moltiplicate esponenzialmente, portando
al successo planetario produzioni eccellenti che
impiegano tecniche, attori e registi mutuati dal
grande cinema. Si è quindi assistito a una proliferazione di serie televisive per tutti i gusti e le
fasce di pubblico.
Tra le più geniali ed esilaranti troviamo certamente Shameless, pluripremiata fiction britannica ideata e trasmessa da Channel 4. Doppiata
per l’Italia a quattro anni dall’uscita, e messa
in onda solo su canali a pagamento, Shameless
(Spudorato/Indecente) nasce dall’idea semplice e
brillante di mostrare al mondo uno scorcio della vera Manchester, una verosimile panoramica
dei Council Estates; una visione autentica, cruda
e criminale, ma non per questo meno British di
quella di un tranquillo villaggio scozzese. In due
parole, lo spettatore gettato in pasto ai leoni, in
un angolo di ghetto. E così sia.
Il compito di mettere insieme i cocci di quest’illustrazione neorealista è affidato a Frank Gallagher, l’alcolizzato capofamiglia che veste spesso
i panni della comica voce narrante (voce che in
ogni puntata cambia da un personaggio all’altro),
facendosi così ambasciatore della working-class,
assai cara alle genti d’oltremanica. Un personaggio sull’orlo del baratro, simbolo del sottoproletariato urbano, ingabbiato fra dinamiche familiari
e personaggi che incarnano gli archetipi della
società inglese. Microcosmo metropolitano su un
ottovolante in corsa frenetica.
La trovata geniale dello show, a mio avviso, consiste nell’aver cercato il modello ispiratore nelle
popolarissime fiction britanniche; in quelle serie
televisive seguite in modo maniacale da grandi e
piccini di ogni ceto o religione, animali domestici inclusi (in Italia potrebbe essere La Piovra).
54 cinema teatro arte
Stereotipi e ambientazioni che di soap in soap
continuano a soddisfare i gusti del pubblico, questa volta vengono infarciti di epica proletaria e
riscritti in una visione stravolta, nel quadro della sceneggiatura più esilarante e politicamente
scorretta che la TV in terra d’Albione abbia mai
prodotto.
In Shameless il riferimento alle fiction si perde
quasi subito sotto l’occhio iperrealista dell’attenta regia di Paul Abbot che, impiegando una telecamera mobile, distilla con mano ferma tensione
e poesia, cinismo e dramma, in un film/baccanale
à la Danny Boyle, ben confezionato dal punto di
vista formale. Ottima la fotografia, trascinante
la colonna sonora (un combat-folk squisitamente
British), bravi gli attori.
I temi trattati sono molto forti, ma puntualmente stemperati dall’umorismo. Molti cenni
autobiografici e innumerevoli attacchi pungenti
alla realtà sociale e politica inglese, scandagliata
dallo sguardo anarchico e cinico dei Gallagher,
in perenne lotta contro il mondo. Una realtà contraddittoria che puntualmente diventa nonsense.
Una realtà in cui i figli si prendono cura del padre. Una raffica di situazioni in cui la criminalità
è la norma (o quantomeno una necessità) e in cui
il giudizio perbenista rischia di rimanere sospeso per miracolo, lasciando che la morale sbocci
quando meno te l’aspetti, dalle situazioni estreme e dagli angoli oscuri dell’anima che ciascuno di noi trascina più o meno consapevolmente
dentro di sè.
Si potrebbe giustamente osservare: d’accordo,
ma tutto quel cinismo? Chi può ridere di fronte a
uno spirito tanto blasfemo e spregiudicato?
Mi viene da rispondere: il cinismo è proprio la
chiave.
Forse il cinismo è come uno scudo per osservare
la realtà senza restarne accecati; il cinismo per
non essere annientati e trovare la forza di reagire; il cinismo perché è la vita, per prima, ad
essere spietata, assurda e indecifrabile…
Tobia D’Onofrio
STEVEN SODERBERGH
Che - l’argentino
L’impresa di Soderbergh ha dato i suoi frutti
in 4 ore di pellicola divisa in due capitoli - Che
- l’argentino e Che - il
guerriero, atteso per i
primi di maggio - interpretati e interpretabili dall’unico possibile
Guevara: Benicio Del
Toro. Che - l’argentino
racconta in 131 minuti
l’incontro e la traversata
dei ribelli rivoluzionari sino a Santa Clara. Il 26
novembre del 1956 il medico argentino Ernesto
Guevara salpa alla volta dell’isola di Cuba con
un giovane avvocato di nome Fidel Castro e altri
80 ribelli determinati a rovesciare la dittatura
di Fulgencio Batista. Medico, stratega e instancabile guerrigliero, il Che, dopo un lungo faticosissimo periodo sulla Sierra Maestra, conquista
la città di Santa Clara e si riunisce ai compagni
per marciare su L’Avana. Questo lavoro portato
avanti dal regista per ben sette anni, ricalca “di
passo in passo” la rivoluzione del Che, dall’incontro con Fidel sino alla sua morte. Ricerche,
sopraluoghi, interviste e varie stesure della sceneggiatura per capire una delle personalità più
note al mondo. Il dinamismo nel film manca e
non ce n’era bisogno, l’energia è nella storia e
Soderbergh l’ha saputa calibrare bene. Lunghe
soste tra i monti, pesanti fardelli da portare in
spalla, paura degli spari e una voce che ti accompagna per tutto il film, carica di passione e
speranza. Tutto questo lo senti addosso e ti sfiora con prepotenza nell’animo. Piccoli aneddoti
che raccontano l’uomo, il pensiero, la violenza,
guidati da ragioni di libertà e uguaglianza, perché come dice lui stesso a chi pensa che tutto ciò
sia un gioco: “la nostra è una rivoluzione non un
colpo di stato”. Il film alterna immagini in bianco e nero del discorso di Guevara all’ONU del
1964 con la rivolta fisica e mentale che affrontò
in prima linea sul campo, tratta dal Diario di
una rivoluzione cubana. Piani sequenza, camera a spalla, primissimi piani: così viene raccontato uno degli uomini più famosi al mondo. Le
parole del Che si scagliano come un monito sul
grande schermo. Soderbergh ricalca l’impresa di
quest’uomo, che al di là dell’etichetta politica e
della mercificazione del suo volto, riesce comunque ad emozionare e a riverberare nel tempo.
“Ti dico una cosa, anche se potrà sembrarti ridicola: un vero rivoluzionario è guidato da un
grande sentimento d’amore, amore per l’umanità, amore per la giustizia e per la verità.” In questo periodo storico parole del genere non possono
lasciarci indifferenti.
Giusi Ricciato
COSTA-GAVRAS
Verso l’Eden
Verso l’Eden, presentato
anche al Festival del cinema Europeo di Lecce,
racconta la storia di Elias
(Riccardo Scamarcio), un
giovane clandestino che si
getta a mare nel momento in cui le motovedette
della guardia costiera
greca stanno per catturarlo. A nuoto arriva in
un villaggio vacanze per
turisti. Trovati degli abiti
da inserviente è scambiato per tale e richiesto
per prestazioni, sia di manodopera sia sessuali.
Costretto a fuggire se non vuole essere arrestato,
Elias ha una meta precisa: Parigi. L’obiettivo?
Incontrare un mago prestigiatore che forse gli
cambierà la vita. Dov’è andato a finire il regista Gavras di una volta? Colui che accendeva
discussioni politiche e infervorava animi e “stomachi”? Lo stesso di Z l’orgia del potere, di Missing o L’affare della sezione speciale? Gavras si
è lanciato in un tema già esaminato, discusso e
di difficile portata: il clandestino. Trovando un
titolo, a mio parere significativo, Verso l’Eden,
rappresenta per alcuni popoli il “luogo mitico”,
il posto in cui arrivare e in cui raggiungere una
facile serenità. Il sottile intento però è stato
sciupato da un viaggio irreale, stra-ordinario o
forse concesso a pochi. Ad Elias non accade nulla
o meglio, è molto fortunato. Uno dei pochi superstiti di un barcone stracolmo di gente, approda su una spiaggia turistica, che per lui sarà la
culla di Mosè nella “ricca casa del faraone”. È
nutrito, aiutato, saziato delle sue voglie, fugge
alla polizia, si orienta in posti che non sa, senza parlare o pronunciando solo qualche parola,
trova passaggi facili da sconosciuti, cibo e letti
comodi. Questo film è una bella favola, lontana,
però dai problemi che questo tema porta con sé.
Forse potrebbe diventare o addirittura essere
una speranza futura, assicurando a tutti l’Eden,
sottraendolo ai clichè della globalizzazione.
Giusi Ricciato
cinema teatro arte 55
LE RAGIONI
DELLA LEGGEREZZA
Odissea, di César Brie chiude strade Maestre
56 cinema teatro arte
Con Odissea, l’ultima produzione del Teatro de
Los Andes, per la regia di César Brie, in scena
a Koreja il 2 e 3 maggio, si chiude la stagione
2008/2009 di Strade Maestre, che, almeno per
quest’anno, è riuscita ad assicurare nomi importanti del panorama teatrale nazionale ed internazionale. Per l’anno prossimo, con la crisi che
taglia, vedremo cosa aspettarci. Stagione generosa di successi, grandi emozioni e grandi nomi;
per citarne alcuni, Roberto Herlitzka, Alfonso
Santagata, l’attesissimo Peter Brook e il sempre
benvenuto César Brie: maestri nel proporre un
modo di raccontare che ha nella semplicità la
sua chiave di volta. Una semplicità mai fine a
se stessa, ma necessaria e commovente nella sua
essenzialità. Abbiamo conosciuto, dunque, un
teatro che racconta sostenendo le ragioni della
leggerezza, come fa il teatro di César Brie; dove
la leggerezza non è inconsistenza o esteriorità,
ma prende le forme di un dire poetico, di una sinergia tra il movimentato spettacolo del mondo e
il ritmo interiore. Leggera è, allora, la scenografia, composta esclusivamente da canne di bambù
che “si aprono, si chiudono, ruotano, si spostano
avanti e indietro. Creano strade, case, boschi,
recinti, mura. Un marchingegno semplice che
sembra complessissimo”: sottili e fragili canne
creano sipari invalicabili, suggeriscono spazi
diversi, moltiplicano le presenze. Leggeri sono
anche gli attori, preparatissimi ed esperti, come
sempre nei lavori di César: si impongono sulla
scena con i loro canti, le loro danze, le acrobazie,
e sono perfetti, puntuali e precisi nel gestire gli
oggetti, i cambi di personaggio e di scenografie.
I loro gesti sono sicuri e rigorosi, come se anche loro facessero parte di quel marchingegno
scenografico di cui, allo spettatore, viene svelato davanti il meccanismo. Leggera è la storia
raccontata, quella dell’omerico Ulisse, che con
l’avanzare dello spettacolo, si arricchisce di sfumature e influenze letterarie e reali. Dieci anni
fa, lavorando sull’Iliade, Brie intraprende il suo
percorso di riscrittura contemporanea dei classici ed ora, per mettere in scena l’Odissea, alle tante influenze letterarie (quella di Joyce prima fra
tutte), intreccia gli spunti che vengono dalle vicende personali di ognuno dei suoi compagni del
Teatro de Los Andes. “Per affrontare l’Odissea
siamo partiti da noi; quali sono i nostri naufragi,
le nostre passioni, i nostri mostri? Cosa abbiamo
abbandonato? Dove si nasconde la nostra Itaca?”
Partire da se stessi per capire chi siano gli Ulisse
di oggi: “Gli artisti nel loro perenne viaggio attraverso le forme; gli impiegati, ancorati nei loro
uffici che vanno via immobili con la loro immaginazione; i migranti che arrivano sulle nostre
spiagge naufraghi, fuggendo dai mostri della miseria e della guerra, e la cui fuga si vuole sanzionare come delitto. Di tutto questo parla l’Odissea.
Il racconto dei racconti agli albori dell’uomo”. La
riscrittura dell’Odissea parte, dunque, da questa
preliminare indagine su di se e sul mondo, di cui
si sente con forza l’eco in tutto il primo atto, che è
compatto, denso, carico di un tono corale, mentre
si perde un po’ nel secondo, in cui i riferimenti al
contemporaneo appaiono un po’ forzati, mediati
da passaggi intellettuali, razionali e non emotivi. Se Ulisse è un migrante, come un terzo della
popolazione boliviana, allora il suo racconto diventa il tentativo dei sudamericani di entrare
negli Usa (straordinaria e fortemente suggestiva
la trasformazione da uomini in porci che la maga
Circe compie a suon di Coca-Cola e hamburger!);
Polifemo diventa il capo della banda che assalta
il treno su cui viaggiano i poveracci verso nord
(potenti, in questa scena, le invettive di Ulisse
contro quel mondo che ti attrae e ti sputa via);
Cariddi sono le acque del golfo del Guatemala,
dove in tanti finiscono annegati; Scilla è il deserto, dove ti attendono i cani da guardia, corrotti e dissoluti; le umiliazioni e la cacciata di
Ulisse da parte dei pretendenti hanno il tono e
le parole delle aggressioni razziste scoppiate in
Bolivia mentre la compagnia sta lavorando allo
spettacolo. Se questo è il viaggio dei nuovi Ulisse, il ritorno ad Itaca non può concludersi se non
come una deportazione: da qui si parte e qui si
torna, sconfitti, umiliati, espulsi, marchiati come
vinti. Leggero è, infine, il teatro di César e della sua compagnia: “Noi non abbiamo né soldi né
risorse, ma una ricchezza che spesso si smarrisce
nella voragine del teatro contemporaneo. Abbiamo tempo. Lo sfruttiamo. Ci siamo dati il tempo
necessario per approfondire la nostra ricerca. E’
questo il filo che tiene insieme gli altri”. Lavorare con i miti impone di non avere fretta. Come
ci insegna Calvino, “è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni
dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro
linguaggio di immagini”. Ragionarci sopra, meditare su ogni dettaglio: sono passate due ore e
mezzo dall’inizio dello spettacolo, e ancora non
sei stanco. Poi lo spettacolo finisce, e ti ritrovi
ancora a pensare al tuo di viaggio, verso dove
o lontano da cosa: un viaggio intrapreso senza
fretta, verso la tua meta, qualunque essa sia.
In scena Lucas Achirico, Cynthia Callejas, Gonzalo Callejas, Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Karen May Lisondra, Paola Oña, Ulises Palacio,
Juliàn Ramacciotti, Viola Vento.
Michela Contini
cinema teatro arte 57
FANCULO
IPPOLITO!
Ippolito Chiarello lancia la pietra, con grande nonchalance, e la tira dritta sulla fronte dello spettatore che, stordito, lo osserva, e osserva come di
fronte a sé ci sia la rappresentazione teatrale del
pensiero comune, quello dell’uomo che si domanda: “Perché non abbandonare tutto una volta per
tutte? Perché non ve ne andate a fan…? Mo me
ne vado io a fan... e chi s’è visto, s’è visto!”. Dare
una spinta, quindi, uno strattone al rallenty della
quotidianità che quello stesso uomo, comodo, in
poltrona, ha creato attorno a sé “Ogni uomo è artefice del proprio destino” recita un adagio dei più
antichi. Lo spettacolo, Fanculopensiero - Stanza
510, è liberamente e ironicamente (per fortuna)
ispirato al romanzo di Maksim Cristan, scrittore
croato che per un periodo della sua vita decide di
mollare tutto per vivere la strada, un uomo che,
da giovane manager in carriera, si ritrova a riscriverla la strada, uno che ce l’ha fatta a fare quel
passo... quello dettato dall’istinto e dal coraggio di
dare un taglio netto! Dopo aver dato un assaggio
in alcune piazze salentine con Fanculo a se stessi,
fanculo al proprio personaggio, fanculo al ruolo!,
dove si è spogliato delle sue vesti d’attore, e del
personaggio di Chiarello non è rimasto che un
naso irriverente, Ippolito porta in scena al Politeama Greco di Lecce nelle date dell’8-9-10 Maggio,
un pensiero al quale i molti evitano di dare spazio.
Si sa, il quieto vivere. L’arrivo di Fanculopensiero
sugli scaffali delle librerie è stato, per Cristan, la
fine della sua vita di scrittore da strada; per Chiarello, forse, l’inizio di una missione per l’umanità;
per lo spettatore, che siederà sulla poltrona del
Teatro, un momento per entrare in contatto con i
propri pensieri più nascosti, cercando la cura migliore per provare meno dolore possibile dopo il
lancio del sasso di un Ippolito Chiarello che con
il suo indiscutibile talento, regge la scena per 55
minuti nascondendo la mano!
Eleonora Leila Moscara
58 cinema teatro arte
SUPER
SENTIERI NEOBAROCCHI TRA ARTE E DESIGN
Il progetto “Super - sentieri neobarocchi tra arte
e design” inserito in “Puglia Circuito del contemporaneo”, si propone di indagare la tendenza neobarocca che attraversa il mondo dell’arte,
del teatro e del design della contemporaneità.
Opere ed eventi che tracciano itinerari culturali
inediti attraverso cui ritrovare pratiche etiche
di produzione e progettazione artistica capaci di
proiettare i tratti identitari del territorio salentino in una dimensione globale e aperta. Primo
appuntamento dal 17 maggio al 12 luglio con
Super - sezione design a cura di Marco Petroni
che, nella ex Chiesa S.Francesco della Scarpa,
presenterà i lavori di: Jurgen Bey, Marijn van
der Poll, Marcel Wanders (Droog Design) una
selezione di opere inedite di Accademia di Eindhoven - Fabio Novembre - Fernando e Humberto Campana - Riccardo Dalisi. All’interno della
mostra la sezione “Il design che pensa”, curata
da Giovanni Innella e Agata Jaworska, presenterà 12 progetti degli studenti della prestigiosa
Design Academy di Eindhoven. Da giugno a dicembre partirà la sezione gli “Antefatti” a cura
di Antonio Cassiano tra il Museo Sigismondo
Castromediano e S. Francesco della Scarpa con
la presenza di maestri ancora attivi e propositivi.
Un percorso evolutivo della produzione salentina
tra architettura e arti applicate. La terza piattaforma espositiva, a novembre, curata dai Cantieri Teatrali Koreja, è dedicata ad installazioni
e pratiche performative basate sulla commistione tra vari linguaggi artistici dalla pittura, alla
scultura, all’architettura, alla musica, alla poesia, al teatro ed a complessi meccanismi di visione. Il progetto sarà accompagnato da un’intensa
attività di formazione con convegni, conferenze,
seminari, proiezioni ed incontri a tema con i protagonisti del panorama nazionale.
EVENTI
DAL GIOVEDÌ ALLA DOMENICA
Appuntamenti alla Svolta di Lecce
Proseguono e si intensificano gli appuntamenti
della Svolta, un nuovo ristorante e jazz bar
di Lecce, che si presenta con una ricetta i cui
ingredienti principali sono la cucina semplice,
rispettosa dei cicli naturali degli alimenti, e la
musica jazz. Ogni giovedì serata “Casinò”, ogni
venerdì spazio alla rassegna “Svolta classic jazz
live”, serata all’insegna della purezza del Jazz e
della buona tavola, ogni sabato jam session. La
domenica infine (dalle 19.00) aperitivo a buffet
e musica dal vivo brasiliana. Info 329 8455974
– 3924300512
MERCOLEDÌ 13
Tobia & The Sellers alla Suite 77di Maglie (Le)
Il nuovo progetto di Tobia Lamare, leader degli Psycho Sun, è fatto di ballate acustiche che
uniscono il folk di Neil Young alle asprezze dei
Violent Femmes. Una manciata di canzoni che
compongono un album dal titolo The party (in
uscita nel 2009). Tobia Lamare mette da parte la
chitarra elettrica e imbraccia la sua acustica per
omaggiare, con i suoi nuovi brani, la musica che
da sempre ha amato (Bob Dylan, Elvis, il blues,
il country, gli Eagles). Insieme a lui il Seller Alfonso alla chitarra.
The Phonems and Forest City Lovers alle Officine Cantelmo di Lecce
Quante storie per un Caffè al Caffè Letterario
di Lecce
Mauro Pagani al Castello di Copertino (Le)
GIOVEDÌ 14
La Banda del Tarantino al Jack & Jill di Cutrofiano (Le)
Proseguono gli appuntamenti con la musica dal
vivo al Jack and Jill di Cutrofiano (Le). Tutti
gli appassionati dei film di Quentin Tarantino
troveranno pane per i loro denti con l’esibizione della Banda del Tarantino. Sei musicisti alle
prese con le più belle e famose canzoni tratte
dalle colonne sonore di Kill Bill, Pulp Fiction,
Le Iene, Dal Tramonto all’Alba, Jackie Brown,
Grindhouse.
Festival dell’energia – Lectio magistralis Decidere oggi l’energia di domani Piergiorgio Odifreddi
al Cinema Massimo di Lecce
La Lectio magistralis è tenuta da Piergiorgio
Odifreddi (Professore di Logica matematica,
Università di Torino). Tra i più noti divulgatori
scientifici in Italia, Piergiorgio Odifreddi. nella
Lectio Magistralis che apre il Festival, indaga le
ragioni profonde che stanno alla base della necessità di un approccio laico alla scienza e alle
questioni energetiche.
Festival dell’energia – Grande Salento Orche-
KEEP COOL V EDIZIONE
Prosegue Keep Cool, la rassegna organizzata da
CoolClub che questa’anno giunge alla sua quinta edizione. Mercoledì 13 maggio è la volta di
The Phonems and Forest City Lovers all’istanbul Cafè di Squinzano. I Forest City Lovers realizzano canzoni potentemente e intimamente
“strappacuore”. I Phonems sono un gruppo canadese basati sul songwriting di Magali, meglio
conosciuta come chitarrista e batterista degli
Hidden Cameras.
Si prosegue sabato 23 maggio, all’Arci Novoli,
con Casador e i Tecnosospiri. Casador è il nuovo
capitolo in inglese nella carriera di Alessandro
Raina, cantautore già voce dei Giardini di Mirò
e oggi frontman degli Amor Fou. I Tecnosospiri,
sono ispirati da un mondo culturale che va molto
oltre le influenze musicali e di cui i Tecnosospiri
si servono, per descrivere l’attuale “Stato in Crisi” dei nostri tempi.
Sabato 30 maggio, sempre all’Arci Novoli, è la
volta degli Ulan Bator. Il gruppo si forma a Parigi nel 1993 e fonde una miscela di post-rock
dilatato, krautrock tedesco anni 70 e new wave.
A giugno Keep Cool ospita i mitici Morlocks (13
giugno). Info: 0832303707; [email protected]
stra/Larry Ray in Piazza Sant’Oronzo a Lecce
Il direttore d’orchestra è il Maestro Marco Della Gatta che conduce venti abili esecutori tutti
diplomati al conservatorio e residenti nelle tre
province del Grande Salento. Larry Ray è un
soul singer di razza che stupisce per la capacità
di mescolare Soul, Funky, Blues, Gospel, Jazz,
Rap, Hip-Pop, Rhythm&Blues.
Mascarimirì all’Obelisco di Lecce
VENERDÌ 15
Fabio Mercuri al Kalì di Melpignano (Le)
A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
Antonio Scarcella racconta “Ipotesi su Ulisse” di
eventi 59
Antonio Mercurio. A seguire “Il complesso d’inferiorità” presenta “Senti nella nebbia il dire è
la messa in Croce”. L’Odissea non è, come molti
credono, un romanzo d’avventure né una celebrazione del “ritorno” a Itaca come altri pensano.
È un libro sapienziale, così come lo è la Bibbia
per gli Ebrei e per i Cristiani. Ulisse è l’archetipo principale dell’essere umano ed è una vera
stupidità il fatto che sia conosciuto dai più per la
sua astuzia e per i suoi inganni e non per la sua
saggezza e per il suo coraggio con cui trasforma
sé e gli altri che stanno rinchiusi nella loro solitudine narcisistica.
Festival dell’energia – Energy Dancefloor SmartShortCut DJ/VJ set in Piazza Sant’Oronzo a Lecce
Il collettivo di giovani artisti italiani si nutre
dell’alchimia che le più attuali tecnologie dell’audio e del video permettono per la progettazione e
la realizzazione di performance live. Produzione
Elettronica, improvvisazioni Jazz e proiezioni
su grandi schermi sono gli elementi che si mescolano per confondere gli spazi e trasformare la
piazza in Club e DanceFloor. Il DJ/VJ set sarà
accompagnato dalla simulazione di un Sustainable Dancefloor: una pedana che produce energia elettrica proporzionalmente alla quantità di
pubblico danzante.
Amorosi sensi – omaggio a Rina Durante a Villa
excelsa a San Nicola (Le)
Skatafashow – Cesko in ricordi di una vita al Teatro Don Tonino Bello di Presicce
I Treni all’Alba alla Masseria Valente di Crispiano (Ta)
Stonecutters + Cancrena + Reveries all’Arci 37 di
Giovinazzo (Ba)
SABATO 16
Festival dell’energia – Mondo Marcio + Piero
Pelù con il progetto “Acquasantissima” in Piazza
Sant’Oronzo a Lecce
Accolto con grande entusiasmo dalla stampa
specializzata e indicato come un’ autentica rivelazione dai quotidiani e dai magazine più noti in
Italia, Mondo Marcio è stato tra i primi a por60 EVENTI
tare il fenomeno dell’hip hop italiano agli occhi
del grande pubblico. Il progetto di Piero Pelù con
gli Acquaragia Drom, “Acquasantissima”, è un
progetto originale ed unico nel panorama musicale italiano che vede sul palco un cantante e
un chitarrista rock con una formazione di chiaro
stampo tzigano. Nello spettacolo di 2 ore sono
completamente riarrangiati in chiave “Rock and
Rom”, brani del repertorio di Piero Pelù e degli
Acquaragia Drom.
Mavado, Nandu Popu e Don Rico al Finis Terrae
di Lequile (Le)Ballarock dj set all’Istanbul Cafè
di Lecce
A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
Vito Bruno racconta il suo “Il ragazzo che credeva in Dio”, edito da Fazi, interviene Mauro Marino, a seguire Gianluca Longo, concerto di mandole per “Il mandolino storie di uomini e suoni
nel Salento”.
DOMENICA 17
Super - Design a San Francesco della Scarpa
Lecce
Si inaugura, con un’intervista ad Achille Bonito
Oliva sul tema “Lo stato delle arti”, domenica 17
maggio la mostra internazionale di design “SUPER”, curata da Marco Petroni nell’ex Chiesa S.
Francesco della Scarpa nel centro storico di Lecce. All’interno della mostra la sezione “Il design
che pensa”, curata da Giovanni Innella e Agata
Jaworska, presenterà 12 progetti degli studenti
della prestigiosa Design Academy di Eindhoven,
centro di formazione d’avanguardia.
Mannaggia a’ mort al Teatro Don Tonino Bello
di Presicce
MERCOLEDÌ 20
Sir Frankie Crisp alla Suite 77di Maglie (Le)
GIOVEDÌ 21
Toromeccanica al Jack & Jill di Cutrofiano (LE)
Maggio all’infanzia Bari
Si rinnova in Puglia, per il dodicesimo anno, il
tradizionale appuntamento con il festival Maggio all’Infanzia della Fondazione Città Bambino,
ideato e curato dal Teatro Kismet OperA di Bari
e quest’anno realizzato in collaborazione con il
Cerchio di Gesso/Oda Teatro di Foggia e con la
compagnia La luna nel letto di Ruvo di Puglia:
l’appuntamento è fissato dal 22 al 25 maggio.
Spettacoli,laboratori, animazione, presentazioni
di libri, la presentazione della rivista ‘Unduetrestella’ e incontri animeranno le piazze e le strade
di tutti e tre i centri in cui il festival sarà presente, invitando tanto i bambini quanto adulti e famiglie e partecipare a momenti diversi e colorati.
VENERDÌ 22
Dente al Kalì di Melpignano (Le)
Giuseppe Peveri alias Dente, si avvicina alla
musica dapprima come chitarrista dei Quic, passando per la band La Spina, per poi intraprendere la carriera solista, che lo porta nel 2006 a
firmare per Jestrai, esordendo con il suo primo
album ufficiale “Anice in bocca”. Nell’aprile 2007
esce “Non c’è due senza te” sempre per Jestrai.
L’album è subito accolto con calore da pubblico e
critica. A febbraio del 2009 è uscito “L’amore non
è bello” (Ghost Records/Venus).
Maggio all’infanzia Bari
A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
Lino Angiuli presenta “Puglia in versi. I luoghi
della poesia, la poesia dei luoghi” edito da Gelso
Rosso, intervengono Maurizio Nocera, Antonio
Errico, Pierluigi Mele, Piero Rapanà.
A seguire “Da qualche parte Sandra” con Claudio Prima, Emanuele Coluccia e Sandra Caiulo
Puglia, una e trina, costruita di Parole. Di sospensioni, di vertigini che salgono le cime dei
campanili e caracollano nell’infinito della polvere di tufo. Che sanno il soffoco della pianura, la
LA TARANTA NELLA RETE
carezza e l’abbaglio del mare. Una Puglia cruda,
amara dove “La migrazione del tempo collima
con un canto sfibrato, l’aria è irrespirabile, (e) si
va verso un futuro di privazione” così la leggiamo
nell’Abbecedario dei migranti di Vittorino Curci
dove Gamal “ha conosciuto una tristezza nuova”.
Una Puglia una e trina, mai scontata, mai prigioniera di cartoline o dei doveri del marketing
territoriale. La Puglia dei poeti, di chi, nell’essenza sa, la necessità del canto! Molti i nomi.
Quelli a noi più vicini: Vittore Fiore, i due Vittorio: Bodini e Pagano, Girolamo Comi, Aldo Bello,
Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele.
SABATO 23
Casador e Tecnosospiri all’Arci di Novoli (Le)
Maggio all’infanzia Bari
A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
Gino Pisanò presenta la poesia di Umberto Valletta; Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara
e nicchiarica” edito da Manni
Focus sul Caucaso - Caucasian Chamber Orchestra al Palazzo dei Celestini di Lecce
Il Focus si chiuderà con il concerto della Cauca-
Una mappa sonora territoriale, un concorso per band musicali, borse di studio, workshop e incontri d’autore, per un’iniziativa di respiro nazionale che parte dal Salento.
La Taranta nella Rete è un progetto culturale organizzato dal Comune di Melpignano (Le) in
collaborazione con Istituto Diego Carpitella, nell’ambito del programma Rete dei Festival aperti
ai giovani, promosso dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e sostenuto dal Ministro
della Gioventù, Giorgia Meloni. Le attività sono rivolte a laureandi, dottorandi, musicisti e studiosi con documentato curriculum. Sono inoltre previste, tramite bando pubblico, 10 borse di
studio (sottoforma di vitto e alloggio) per garantire ai giovani non residenti nel Salento la partecipazione ai workshop e agli incontri.
Il programma prenderà il via a maggio con il concorso nazionale Note per la “Notte” per giovani
band (al di sotto dei 30 anni) che interpretano o rielaborano le musiche di tradizione, in collaborazione con il Mei di Faenza. La prima band classificata si esibirà sul palco del Concertone estivo
di Melpignano, mentre la seconda e la terza band classificata terranno un concerto durante il
Festival itinerante della Notte della Taranta.
sian Chamber Orchestra, diretta da Uwe Berkemer: il repertorio punta su pagine classiche e
autori delle regioni caucasiche. Fondata nel 2003
da Uwe Berkemer, l’orchestra ha suonato in importanti sale da concerto europee quali Konzerthaus di Berlino, Hofburg di Vienna, Dôme des
Invalides di Parigi, Sala Grande del Conservatorio di Bruxelles, ma dal punto di vista finanziario,
il futuro dell’ensemble è in crisi e il complesso può
permettersi di esibirsi solo nell’ambito di singoli
progetti.
OSS + Hobophobic + No Thanx alla Masseria
Valente di Crispiano (Ta)
DOMENICA 24
Maggio all’infanzia Bari
Vernice Fresca - Lucia Manca in concerto al Convento dei Frati Minori Salice Salentino
Persae ad Astragali Teatro a Lecce
LUNEDÌ 25
Maggio all’infanzia Bari
MERCOLEDÌ 27
Valeria Noceto trio alla Suite 77 di Maglie(Le)
GIOVEDÌ 28
Rino’s Garden - Tributo a Rino Gaetano al Jack
& Jill di Cutrofiano (Le)
VENERDÌ 29
Intensive Jazz Quartet al Kalì di Melpignano
(Le)
A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
Giuse Alemanno racconta il suo “Le vicende no-
tevoli di Don Fefè, nobile sciupafemmine grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato
servitore Ciccillo”. Intervengono Elisabetta Liguori, Antonio Errico e Piero Rapanà.
SABATO 30
Ulan Bator all’Arci di Novoli (Le)
Zat + Ninive alla Masseria Valente di Crispiano
(Ta)
DOMENICA 31
A Maggio le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
La poesia e i poeti. Irene Leo legge dal suo “Sudapest” edito nei Poet/bar di Besa; Ilaria Solazzo
legge dal suo “Gocce nel deserto” edizioni Mancarella; Rita Rucco legge dal suo “Sensi di Versi”
edizioni il Filo; Fernando Rausa legge dal suo
“Terra mara e nicchiarica” edito da Manni.
DALL’1 AL 5 GIUGNO
“K- NOW” Showcase del teatro pugliese alle Manifatture Knos di Lecce
Induma Teatro e Luoghi Comuni in collaborazione con le Manifatture Knos, ripropone, in continuità con lo scorso anno, la nuova edizione di
“K-now”: cinque giornate dedicate interamente
al teatro e, quest’anno, alla drammaturgia contemporanea.
SABATO 6 GIUGNO
Jonny Kaplan and the lazystars in concerto“Alli
Matonni” ad Erchie (Br).
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Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento (Sinatra
Hole), Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni,
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Fellini), Torre Colimena (Pokame pub), Oria
(Talee), Bari (Taverna del Maltese, Caffè
Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New Demodè,
TimeZones), Taranto (Associazione Start, Trax
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