Anno XXXIII, nov-dic. 2011, n.3/4 ra lii c u lt u ral fo n d im e n ti a p p ro fon LA RIVISTA DELLA SCUOLA 15 Quella che nei lager si compiva era una forma di annichilimento dell’uomo già Kant – in “La religione entro i limiti della sola ragione” – definiva il “male radicale”. Tuttavia Arendt non indica quale sia la reale natura di tale male, ma si limita a indicarne i luoghi in cui esso è nato: i lager. Ella è altresì convinta che, per capire il totalitarismo (e questo è l’obiettivo della sua opera del ’51), si debbano innanzitutto capire i lager, ossia quei luoghi in cui la logica del male radicale si è sviluppata appieno. Ma usare i lager per capire il totalitarismo equivale, naturalmente, a chiedersi quale fosse la funzione dei lager: a tal proposito, Arendt esclude in blocco tutte le possibili risposte utilitaristiche, secondo le quali i lager sarebbero serviti a qualcosa; al contrario – ella nota – essi non sono fabbriche finalizzate alla produzione di qualche cosa, né volte a creare cadaveri. Certo, quella che nei lager si compiva era una forma di annichilimento dell’uomo, giacché egli era in primo luogo annullato come individuo non appena, nel lager, gli erano negate una nazione e una giuridicità, e, in secondo luogo, era azzerato sul piano morale, nella misura in cui – nel lager – i classici problemi morali perdevano ogni significato (tale è il caso in cui alla madre è chiesto quale dei suoi figli preferisce che muoia per primo). Sicchè Arendt addiviene in fine alla conclusione che il vero scopo dei lager era la trasformazione della natura umana, la quale, così com’è, si oppone per sua natura al totalitarismo: il lager plasma un’umanità perversamente nuova e diversa, e questo è il sogno di tutti i pensatori moderni (dal “Faust” di Goethe fino a Marx). Nei lager quel sogno Robert Krams -1956010 - II re e la regina si è capovolto in incubo, l’utopia si è fatta distopia (è l’immagine del “giardiniere” in altre forme): dopo poche settimane di reclusione, persone tra loro diversissime sotto ogni profilo diventano una sola persona che non ha più umanità né diritti, ma a cui restano esclusivamente le funzioni primarie. Il passo successivo compiuto dalla Arendt è di chiedersi quale sia il ruolo svolto dalla cultura nei lager intesi come laboratori per cambiare la natura umana.A tal proposito, ella confessa a Jaspers: “ho il sospetto che la filosofia non sia monda e priva di macchia in tutto ciò”. Come disciplina, la filosofia ha innanzitutto responsabilità di tipo politico/dirette: è questo il caso in cui essa si mette al servizio di una certa linea politica, con un coinvolgimento diretto (è il caso di Gentile e il fascismo italiano); ma c’è anche una responsabilità di tipo intellettuale/indiretta, quando – come nel caso di Nietzsche e del nazismo – si precorrono filosoficamente posizioni che altri percorreranno fraintendendole. Abbiamo qui succintamente delineato le possibili responsabilità della filosofia in generale, ma dobbiamo ora chiederci quando si debba parlare di responsabilità riferita ai singoli filosofi: quand’è che un filosofo può essere qualificato a pugni. Lo slogan degli “ideologi” è, in questo senso, il seguente: “ciò che vale per la teoria, deve necessariamente valere anche per la prassi”; o anche quello latino: “fiat veritas ac pereat mundus”. É esattamente questo che si è verificato ad Auschwitz, dove i nazisti hanno tentato di concretare la loro perversa teoria: per mettere in evidenza ciò, Arendt si sente in dovere di dimostrare come l’orrore nazista si sia realizzato in virtù del fatto che il mondo è svanito, ossia è caduta quella pluralità che garantiva resistenza, giacché l’ideologia, per funzionare, non ha bisogno dell’io e del mondo: essa è, piuttosto, un parto della mente, un monologo paranoico, un’evasione dal reale. E tale rimozione della pluralità in tutte le sue sfaccettatura – rimozione su cui, come abbiamo detto, trova il suo terreno più fertile l’ideologia – affetta sempre più la filosofia, che tende sempre più a capovolgersi essa stessa in ideologia e a diventare preda di un folle pensare l’unità, riducendo l’umanità ad un solo uomo (nei lager, come abbiamo precedentemente rilevato, le pluralità e le differenze erano azzerate: si era una sorta di unico uomo ridotto alle funzioni primarie). Tuttavia Arendt si accorge ben presto che questo modello, se applicato al nazismo, funziona poco: e, per salvarlo, decide di estenderne l’applicabilità anche allo stalinismo, consapevole di come sia stato, più di ogni altro, Marx (che, nella lettura della Arendt, dello stalinismo è, in certo senso, l’antesignano) a tentare di far diventare prassi la teoria (rendere “filosofico” il mondo, com’egli amava dire), teorizzando la priorità della vita activa su quella contemplativa. Con Marx la filosofia diventa supporto politico del totalitarismo, anche se – come Arendt stessa rileva – “il filo che lega Marx ad Aristotele è assai più robusto di quello che lega Marx a Stalin”. Mostrata la validità della sua tesi per cui si procede sempre più in direzione di un’ideologia, cosicché si perde la pluralità in nome dell’unità, Arendt estende il modello – risultato valido nell’analisi dello stalinismo - anche al nazismo: la teoria della razza è diventata prassi nei lager (questa è l’ideologia). Come antidoto a questa inquietante marcia verso l’ideologia, ella propone di distinguere, all’interno della storia, una “tradizione principale”, che rimuove la pluralità e le differenze, e – ad essa contrapposta – una “tradizione alternativa” che, viceversa, valorizza ed esalta il pluralismo in ogni ambito, lottando contro ogni totalitarismo: appuntare l’attenzione su questa tradizione minoritaria è il compito che Arendt si assume a partire dal suo scritto Vita activa. Si tratta dunque di ripensare l’intera tradizione storica e filosofica tentando di valorizzare quegli elementi pluralizzanti che la “tradizione principale” ha eliminato o, nel migliore dei casi, messo a tacere: siamo pertanto di fronte a quello che potremmo definire un “contravveleno anti-ideologico”. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 il pensiero di Arendt subisce una nuova svolta in concomitanza con l’arresto di Eichmann, uno dei pezzi grossi della milizia nazista, fuggito in Argentina – con l’appoggio del Vaticano - dopo la disfatta tedesca: si cattura e si pro- cessa quello che, nell’immaginario collettivo, è il mostro per antonomasia. Israele, diventato Stato, vuole mostrare al mondo che, da quel momento in poi, chi oserà attaccarlo non si salverà; e il fatto stesso che lo Stato vada a prelevare Eichmann in Argentina è una prova lampante di ciò. Subito sorge un problema non da poco: chi ha il diritto di processare Eichmann? Per la prima volta si parla di crimini contro l’umanità: in tale occasione, Jaspers sostiene che tutto il mondo deve processare Eichmann (e Arendt condivide tale posizione), ma Israele si rivela sordo e decide di processarlo a Gerusalemme, anche quando molti (fra cui Arendt stessa) fanno notare che i lager non hanno riguardato esclusivamente gli ebrei, ma anche i comunisti, gli omosessuali, i minorati mentali e, in fin dei conti, l’intera umanità. A questo punto, Arendt decide di seguire di persona il processo a Gerusalemme e di vedere “in carne e ossa” quello che a quei tempi ancora definiva “il male radicale”: sicché si fa mandare da un giornale americano come inviata speciale e da quest’esperienza esce un libro – La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme – attraversato da cima a fondo da un costante senso di spaesamento che traspare fin da quando Arendt scende dall’aereo. Con la pubblicazione di quel libro, inoltre, ella perderà tutti i suoi più cari amici (tra cui Hans Jonas) e sarà ripetutamente accusata di “insensibilità”. Ciò può essere facilmente compreso fin dalle prime pagine, dove ella scrive che, alla vigilia del processo, Israele si stava organizzando come la Germania nazista: espressione, questa, che suonò assai sgradita alle orecchie di molti. Le prime domande che si sollevarono furono le seguenti: perché Eichmann non è processato da una corte universale? Perché non in Germania, dove compì i suoi crimini? La risposta – destinata a suscitare grande scalpore - che Arendt, sconcertata, forniva era che Israele aveva bisogno di legittimarsi e il processo ad Eichmann era un’eccellente occasione. Ancora più sconcertata ella fu allorché vide in persona Eichmann in tribunale; appena due giorni dopo, essa riferì a suo marito dell’incontro e così descrisse icasticamente Eichmann: “è un uomo grigio, piccolo, un coglione”. Ma ciò che più la colpì fu l’assoluta normalità di Eich- mann: quello che, nell’immaginario collettivo, era un mostro efferato, si presentava ora come una persona qualunque, del tutto sana, che non uccise mai nessuno con le sue mani e che addirittura svenne alla vista del sangue; egli era, in altri termini, semplicemente un “funzionario delle fabbriche della morte” e, di fronte a lui, la teoria del “male radicale” girava a vuoto. A questo punto,Arendt comincia a mutare prospettiva e ad elaborare una teoria simile a quella della “zona grigia” di Levi. L’avvenuto mutamento di prospettiva è da Arendt comunicato a Scholem (che, fino a quel momento, fu suo amico) in una lettera del 1963: “ho cambiato idea e non parlo più di “male radicale”. […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale”. La spaesante conclusione cui ella perviene è che Eichmann non è un mostro orripilante, un essere “non umano” che uccide per il gusto di uccidere: al contrario, egli né uccide né odia gli ebrei, bensì si limita ad organizzare il trasporto ferroviario degli ebrei nei campi di sterminio, ossia si preoccupa solamente che i treni arrivino in orario, senza curarsi minimamente del loro carico. ------------------------------------------------- “ Eichmann non è un mostro orripilante... egli né uccide né odia gli ebrei, bensì si limita ad organizzare il trasporto ferroviario nei campi di sterminio, si preoccupa che i treni arrivino in orario, senza curarsi minimamente del loro carico emerge, allora, la figura di un Ponzio Pilato che non giudica mai e che è sconvolto quando i nazisti optano per la “soluzione finale”: da tutto ciò,Arendt sostiene che “Eichmann non pensa” ed è perciò un uomo malvagio, quasi l’incarnazione del totalitarismo e dell’ideologia, pensa e agisce in modo meccanico, è “obbediente come un cadavere”. Chiamato a difendersi, egli arriva a dire di aver agito “kantianamente” e di aver seguito la volontà di Hitler: non sa ergersi a giudicare quel che fa, si limita ad obbedire ai comandi che gli sono impartiti; così rileva Arendt e, di seguito, si domanda se quello di Eichmann fosse un comportamento obbligato. A questa domanda risponde negativamente: non è assolutamente vero che in ogni uomo si nasconde e latita un potenziale mostro come Eichmann; al contrario, basta saper pensare ed essere giudici del proprio agire perché ciò non si verifichi. Per chiarire questo punto, Arendt adduce l’esempio della Danimarca, l’unico Paese che si era fermamente opposto all’invasione della Germania e delle sue idee aberranti. In fin dei conti, Arendt rileva che Eichmann ha compiuto un male immenso e incommensurabile ma credendo di fare del bene (in ciò risiede quella che ella chiama la “banalità del male”), non ha saputo opporsi poiché non è stato in grado di pensare e giudicare: perciò deve essere punito dalle leggi. Sicché la pena che gli fu inflitta a Gerusalemme (l’impiccagione) fu giusta secondo Arendt, benché ella non condividesse affatto la sentenza per cui Eichmann era un criminale contro gli ebrei: in realtà – ella nota – Eichmann fu un criminale contro l’umanità e perciò deve morire. Il concetto di obbedienza va bene solo quando si ha a che fare coi bambini o coi credenti, ma mai in politica, dove obbedire equivale ad appoggiare. Certo, non tutti possono essere eroi e intraprendere una resistenza attiva, poiché – come giustamente notava don Abbondio – il coraggio non ce lo possiamo auto-infondere, e tuttavia, ciò non di meno, tutti possono rifiutarsi di obbedire, intraprendendo per questa via una resistenza passiva. ☎ ------------------------------------------------Addirittura, si scopre che il suo progetto era di invadere il Madagascar e di mandare lì in esilio tutti gli ebrei: il loro sterminio esulava del tutto dalla sua volontà. Ne F ilo diretto per abbonarsi se avete una carta di credito è sufficiente una telefonata al 02/669.2195 oppure un fax al 02/6698.3333