Diagnosi e assessment

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Diagnosi e assessment
PSICOFISIOLOGIA
CLINICA
Daniela Palomba, Luciano Stegagno
CONCETTI E METODI
Definizione
Interessi prioritari della psicofisiologia clinica sono lo studio e la comprensione di
quei meccanismi di anomala reattività dell’individuo per cui, per esempio, da una
esagerata risposta cardiovascolare a determinati eventi ambientali si può progressivamente passare a una stabile ipertensione arteriosa. Essa si occupa anche, in direzione inversa, di quei fenomeni per cui una spontanea accelerazione del battito cardiaco può indurre uno stato d’ansia o anche scatenare una crisi di panico o, infine, di quelle anomalie dell’attivazione che possono esse stesse essere rappresentative della base patogenetica di disturbi somatici o psichici.
L’impianto concettuale e metodologico della psicofisiologia clinica è quello della
psicofisiologia1 da cui essa deriva (Stegagno, 1986; Palomba e Stegagno, 2004). Gli
elementi fondanti della disciplina riconoscono, pertanto, due radici principali: 1)
la psicologia sperimentale, che fornisce alla psicofisiologia, e poi alla psicofisiologia clinica, i principi metodologici per lo studio dei processi cognitivi, affettivi e
del comportamento; e 2) la fisiologia (e la fisiopatologia), che vi contribuisce indicando gli strumenti d’indagine e le basi funzionali e disfunzionali, non tanto a
livello di organi o apparati, ma piuttosto dell’organismo nella sua transazione con
l’ambiente circostante. La collocazione interdisciplinare della psicofisiologia clinica è ampia e frastagliata (Fig. 12.1). Assieme a discipline storiche che fanno da
sponda (medicina interna, psichiatria, psicosomatica) se ne aggiungono altre relativamente recenti (per es. psicologia della salute) che ne costituiscono il baricentro. Nel corso del tempo, l’evoluzione dei modelli psicofisiologici e psicofisio-
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In questa sede si farà riferimento alla disciplina da cui la psicofisiologia clinica direttamente
deriva. Per un inquadramento più ampio, che tenga conto anche delle relazioni con la psicologia fisiologica, la psicobiologia, la biopsicologia, e i settori di riferimento o di evoluzione della
psicofisiologia, si rimanda al lavoro di Stegagno (1994).
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Diagnosi e assessment
PSICOFISIOLOGIA
MEDICINA
COMPORTAMENTALE
NEUROPSICOLOGIA
CLINICA
PSICOFISIOLOGIA CLINICA
MEDICINA
PSICOSOMATICA
PSICHIATRIA
MEDICINA
PSICOLOGIA
DELLA SALUTE
PSICOLOGIA SPERIMENTALE
PSICOLOGIA DELLE
ORGANIZZAZIONI
PSICOLOGIA CLINICA
PSICOLOGIA SOCIALE
Figura 12.1 Lo schema rappresenta un ipotetico raccordo tra le discipline costitutive e di derivazione della psicofisiologia clinica.
logico-clinici è stata sostenuta da un corrispondente sviluppo di tecniche di indagine (strumenti di rilevazione delle funzioni fisiologiche), metodi di analisi dei
dati e procedure di verifica sperimentali e clinico-sperimentali. Inizialmente lo
strumento privilegiato dell’indagine psicofisiologica era il fisiopoligrafo, che permetteva la registrazione, solitamente dalla superficie corporea, degli eventi bioelettrici prodotti dall’organismo: per esempio, l’attività elettromiografica (EMG),
elettroencefalografica (EEG), cardiaca (ECG) ecc. Attualmente esso è stato affiancato (quando non sostituito) dal computer, che è in grado anche da solo di svolgere tutte le operazioni della catena di registrazione (salvo l’intercettazione del
segnale a mezzo sonda). Negli anni recenti si sono anche sviluppati strumenti d’indagine più sofisticati, nati perlopiù in ambito neurologico, che permettono, per
esempio, di seguire variazioni del flusso ematico in base alle esigenze metaboliche
del tessuto o degli organi interessati (la nota tomografia a emissione di positroni,
PET secondo la denominazione inglese), o che sfruttano gli effetti di un campo
magnetico indotto sulla distribuzione degli elettroni costituenti l’organo in esame
(risonanza magnetica, MRI) per arrivare a un alto potere di risoluzione nella visualizzazione di strutture corporee superficiali e profonde. Benché principalmente
applicate nell’indagine del sistema nervoso centrale (e in particolare del cervello
– brain-imaging, si veda Toga et al., 2000), queste tecniche possono essere e sono
state utilizzate anche nello studio di strutture extraneurali (per es., il cuore); complessivamente vengono definite tecniche di bio-imaging.
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Psicofisiologia clinica
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Più interessanti, soprattutto in ambito psicofisiologico psicosomatico, sono le
strumentazioni di rilevazione bioelettrica portatili (per es., l’elettrocardiogramma
dinamico di Holter, che consente la registrazione su nastro magnetico per 24-48
ore di indici quali frequenza e ritmo cardiaco) e telemetriche (ricezione a distanza di segnali, per es. elettrocardiografici o elettroencefalografici, a mezzo radiofrequenze). Entrambe permettono l’indagine delle reazioni psicofisiologiche del
paziente anche per periodi prolungati e nel proprio ambiente naturale (ecologico), cioè lontano dal laboratorio, sede usuale di registrazione. Esse risultano, quindi, particolarmente utili quando si vogliano ottenere informazioni sulle risposte
prodotte durante il confronto diretto con le situazioni reali supposte essere in relazione al disturbo.
Ancora più rilevante, rispetto alle innovazioni tecnologiche, è stata, negli ultimi venticinque anni, l’evoluzione dei metodi sperimentali di ricerca che ha permesso l’estensione in campo psicofisiologico clinico delle procedure di verifica empirica e replicabilità, un tempo esclusive della psicologia e psicofisiologia sperimentali (Feuerstein, Labbé e Kuczmierczyk, 1986). Esse vengono applicate per verificare sia le ipotesi patogenetiche del disturbo (somatico o mentale) sia il trattamento nei termini della sua efficacia complessiva (verifica dell’efficacia terapeutica) e
dei meccanismi attraverso i quali esso agisce (verifica del processo terapeutico).
Esemplificazione
La maggiore raffinatezza tecnico-metodologica raggiunta attualmente dalla psicofisiologia clinica ha prodotto, come ovvia conseguenza, modelli interpretativi più circostanziati e definiti che rendono sempre meno vaga la relazione tra eventi mentali, processi fisiologici e comportamento.
Un esempio può essere desunto dall’area della psicofisiologia clinica cardiovascolare. L’individuazione del type A coronary-prone behavior pattern (insieme di caratteristiche comportamentali, il “tipo A”, predisponenti alla patologia coronarica)
sembrava aver fornito un elemento chiave nello studio dei fattori psicologici nell’eziologia della cardiopatia ischemica (Rosenman et al., 1975). Le verifiche sperimentali di tale condizione hanno tuttavia chiarito che non sempre è possibile individuare una correlazione univoca tra personalità e modificazioni fisiologiche, mentre specifici fattori di mediazione tra reattività individuale e caratteristiche situazionali possono spiegare la comparsa di modificazioni vegetative e, specificamente,
cardiovascolari anomale, che a loro volta possono facilitare l’insorgenza della malattia. Per esempio, la controllabilità dello stimolo, le possibilità di scelta rispetto al
compito, il rapporto tra domanda ambientale e potenzialità individuali di farvi fronte (coping) possono produrre, in individui predisposti, una particolare attivazione
del sistema simpatoadrenergico associata a risposte comportamentali di competitività, impazienza, aggressività (Van Egeren et al., 1983). L’iperattivazione simpatica
può aggiungersi a, o essa stessa favorire, altri tradizionali fattori di rischio cardiovascolare (aterosclerosi, sovrappeso, fumo ecc.), precipitando la disfunzione cardiovascolare in patologia conclamata. Il legame tra personalità e malattia si definisce attraverso i meccanismi psicofisiologici che intervengono tra situazione
ambientale, reattività individuo-specifica e modificazioni cardiovascolari.
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Diagnosi e assessment
L’ASSESSMENT PSICOFISIOLOGICO
L’assessment (accertamento diagnostico) si riferisce alla raccolta di tutte le informazioni necessarie per inquadrare il disturbo riportato dal paziente, per stabilire
un’ipotesi patogenetica e per impostare un programma d’intervento. In un’accezione più completa l’assessment potrebbe riferirsi tanto alla fase diagnostica quanto a
quella di verifica dell’andamento del disturbo, durante e per effetto del trattamento. La ripetizione dell’assessment a intervalli regolari, in corso di trattamento e alla
fine di esso, costituisce di fatto il più elementare strumento di verifica empirica
dell’intervento applicato. Descriveremo di seguito:
1. le caratteristiche dell’assessment psicofisiologico;
2. gli strumenti principali;
3. i criteri metodologici.
Forse non è superfluo premettere che, per ogni disturbo somatico, l’assessment
psicofisiologico deve essere affiancato da quello medico tradizionale. Nella nostra
realtà questa prassi viene di fatto adottata per il semplice motivo che quasi sempre il paziente viene inviato allo psicologo (o allo psicofisiologo, se il sanitario ne
conosce l’esistenza) da una struttura medica. Tuttavia è altrettanto importante premettere che se viene richiesta una consulenza, o eventualmente un intervento psicofisiologico, questo non vuol significare che il paziente sia affetto da un disturbo
psicologico o addirittura psichiatrico. Come sottolineato da Surwit, Williams e Shapiro (1982), questo fraintendimento deriva probabilmente dalla tradizionale (ma
ancor oggi diffusa in ambito medico) concezione psicogenetica del disturbo somatico di origine psicosomatico-psicodinamica; dovrebbe, invece, essere definitivamente chiarito che l’intervento psicofisiologico andrebbe scelto sulla base della presumibile efficacia, della fisiopatogenesi del disturbo, del rapporto costi-benefici ecc.,
per problemi sia somatici sia psichici.
Caratteristiche dell’assessment psicofisiologico
Il requisito fondamentale dell’assessment psicofisiologico deve, per definizione,
includere componenti soggettive (il resoconto del paziente) e oggettive (modificazioni fisiologiche e comportamentali), sia perché le prime, da sole, sono impossibili da osservare direttamente, sia soprattutto perché dalla combinazione delle due
derivano informazioni complementari aggiuntive.
Un paziente con ipertensione arteriosa, per esempio, può riferire di non sentirsi affatto male quando la sua pressione arteriosa è elevata, o addirittura di sentirsi
peggio (presumibilmente per ragioni di efficienza emodinamica) quando la sua pressione viene abbassata farmacologicamente; il monitoraggio contemporaneo dei valori pressori, degli eventi ambientali e delle variazioni nell’autovalutazione soggettiva può evitare la sottostima di condizioni di rischio, ma anche facilitare l’autoregolazione di comportamenti disfunzionali. Analogamente, se in un paziente sofferente di cefalea si osserva una scarsa concordanza tra resoconto soggettivo di dolore e tensione muscolare, questo può voler dire che vi è una sovrastima soggettiva,
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Psicofisiologia clinica
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riscontro frequente in tutte le forme di dolore cronico (Linton e Melin, 1982), ma
può anche significare che la componente algica è sostenuta piuttosto da una concomitante alterazione vasomotoria (cefalea mista tensivo-emicranica). In alternativa, l’alterazione fisiologica può presentarsi in condizioni di stress, mentre in condizioni basali i valori fisiologici risultano nella norma, anche se associati a un resoconto soggettivo di dolore.
Strumenti principali dell’assessment psicofisiologico
L’assessment psicofisiologico si avvale quindi di strumenti diversi per indagare il
disturbo a tre livelli; gli stessi che caratterizzano, di fatto, qualunque indagine psicofisiologica (Fahrenberg e Stegagno, 1986). La Tabella 12.1 riassume i livelli e le
principali tipologie di accertamento per ciascuno di essi.
LIVELLO
SOGGETTIVO-COGNITIVO
Si riferisce alla valutazione della condizione psicofisica (stato di tensione, malessere, dolore, percezioni somatiche ecc.) o del tono emotivo (condizione di piacevolezza, ansia, depressione ecc.) del paziente come risulta dal suo resoconto soggettivo. Si parla, in questo caso, di componente autovalutativa o di self-rating. Vi vengono anche incluse quelle alterazioni dei processi più strettamente cognitivi (deficit di memoria o attenzione, distorsioni del pensiero o del linguaggio) indagate
Tabella 12.1 Livelli dell’accertamento psicofisiologico e principali procedure utilizzate per la valutazione a ciascun livello (con l’equivalente termine inglese, nei casi in cui quest’ultimo sia entrato nel comune lessico italiano). Sono anche riportati riferimenti esemplificativi di alcuni strumenti
testistici di comune impiego in psicofisiologia clinica
Livelli e strumenti dell’assessment psicofisiologico
Soggettivo: psicofisico, affettivo, cognitivo
1) autoresoconto libero (self-report)
2) stima soggettiva - questionari di autovalutazione (self-rating)
3) prova - reattivo (test) (per es., calcolo mentale, immaginazione emozionale)
Comportamentale: mimica, postura, gestualità; elementi paralinguistici, motori ecc.
1) videoregistrazioni, diari comportamentali
2) questionari di eterovalutazione
3) test (per es., public speaking test, tempi di reazione)
Fisiologico: segnali bioelettrici (EEG, ECG ecc.), biofisici (pressione arteriosa, temperatura),
biochimici (ormoni)
Fasi:
1) rilevazione dei segnali
2) registrazione
3) misurazione
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Diagnosi e assessment
ancora una volta attraverso procedure di autovalutazione o tramite test standardizzati. In generale, gli elementi considerati a questo livello hanno in comune il tramite di accesso rappresentato dal linguaggio (resoconti o risposte ai test fornite dal
paziente). La descrizione libera o la raccolta semistrutturata in forma di colloquio/intervista di tutte le informazioni riferite dal paziente rispetto al disturbo, alle
sue manifestazioni, alla sua origine ed evoluzione, alle circostanze e alle concomitanze in cui esso si verifica, alle conseguenze che produce, costituisce la base preliminare dell’assessment psicofisiologico. A partire da esso, molto ampia è la gamma
di questionari, scale, liste di aggettivi, analoghi visivi e test disponibili per l’indagine autovalutativa. Più specifiche della psicofisiologia clinica sono quelle procedure che appartengono al costrutto generale dell’attivazione emozionale, e cioè
stress e ansia oltreché, naturalmente, attivazione ed emozioni (Fahrenberg e Stegagno, 1986; Palomba e Stegagno, 1988).
LIVELLO
COMPORTAMENTALE-ESPRESSIVO
Comprende i comportamenti manifesti che precedono, si associano o conseguono
al sintomo (lamentele, richiesta di farmaci, tendenza all’isolamento ecc.), ma si
estende anche ai comportamenti in situazioni relazionali, sociali, lavorative che si
verificano in concomitanza del disturbo (e talora lo scatenano), che ne sono
influenzati o hanno ricadute su di esso (atteggiamento dei presenti o dei familiari,
ricadute sul lavoro ecc.). A questo livello appartengono anche tutte le modificazioni mimico-espressive, posturali, motorie e cinesiche, nonché le componenti verbali, intonazionali e paralinguistiche associate al disturbo (Argyle, 1978; Scherer,
1986). Infine esso comprende quelle componenti neurovegetative direttamente
accessibili all’osservazione diretta (arrossamento e pallore della cute, ipersudorazione, iposalivazione ecc.). In generale, questo livello viene definito come eterovalutativo, essendo basato sull’osservazione del paziente da parte del terapeuta, dello staff
ospedaliero, dei familiari ecc. Dati comportamentali, soprattutto se riferiti all’ambiente familiare e sociale in cui si trova il paziente, possono essere anche desunti
da rapporti autovalutativi come nel caso dei diari comportamentali, sempre più diffusi nella pratica clinica, nei quali è lo stesso paziente ad annotare cambiamenti
nei parametri suddetti nelle diverse ore del giorno, nel suo ambiente naturale e in
concomitanza di eventi significativi in relazione al disturbo.
LIVELLO
FISIOLOGICO
Vi appartengono tutte quelle modificazioni somatiche (incluse quelle che si producono nei parametri biochimici e ormonali) correlate al sintomo o alla malattia.
La strategia standard consiste nella rilevazione delle modificazioni che si verificano in diversi apparati, sia in condizioni basali sia in situazioni di attivazione o,
meglio, nel confronto diretto (attraverso immagini mentali, diapositive o, se possibile, in vivo) con eventi collegati al disturbo lamentato. La scelta dei biosegnali
da registrare (EMG, EEG, ECG ecc.) è ovviamente guidata dalla localizzazione del
disturbo, ma anche dalla rappresentatività di quel dato indice rispetto a processi
che si suppongono implicati nella patologia. Per esempio, in un paziente sofferente di emicrania è scontata la rilevazione del tono vasomotorio a livello dell’arteria
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Psicofisiologia clinica
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temporale superficiale (localizzazione specifica e prevalente del dolore), ma è raccomandabile la rilevazione del tono muscolare della muscolatura pericranica, che
potrebbe essere indicativo di una concomitante componente muscolo-tensiva del
dolore, o anche, per esempio, dell’attività elettrodermica (indicatore puro del tono
vegetativo simpatico), se si suppone che parte del disturbo sia associata o sostenuta da una disfunzione vegetativa2.
La procedura di registrazione dei biosegnali, con tutte le cautele e i possibili inconvenienti (artefatti) a essa legati, è la stessa che viene usata in campo sperimentale. Una preparazione nelle tecniche di registrazione psicofisiologica è complemento necessario della formazione dello psicofisiologo clinico. La manualistica
disponibile in italiano è limitata (Paillard, 1973; Mecacci, 1982; Pennisi e Sarlo,
1998), mentre indicazioni più dettagliate si ritrovano nei riferimenti in lingua inglese (Martin e Vanables, 1980; Stern, Ray e Davis, 1980; Stern, Ray e Quigley, 2001).
Criteri metodologici
Una volta raccolti, i dati devono essere decifrati e interpretati in modo da costituire elementi informativi utili alla diagnosi e all’impostazione del trattamento. La
maggior parte degli errori diagnostici, e conseguentemente terapeutici, deriva proprio da questa delicata e spesso sottovalutata fase dell’assessment. Tipiche sono le
distorsioni sistematiche di giudizio da parte del terapeuta. Tra queste, piuttosto
comune in psicofisiologia clinica è l’attribuzione di valore diagnostico assoluto al
riscontro fisiologico: la tentazione di trovare, per esempio, in un’eccessiva accelerazione cardiaca di fronte a uno stimolo stressante la conferma diretta dell’iperreattività simpatico-cardiovascolare in un paziente cardiopatico e, quindi, la giustificazione per un trattamento, poniamo, di training autogeno, è forte in presenza
di un dato così obiettivo come quello fisiologico! Pur ammettendo che (probabilmente) un buon training di rilassamento non è comunque dannoso, l’incremento
nell’attività cardiaca potrebbe essere transitorio o legato a una fluttuazione spontanea del parametro; esso potrebbe presentarsi solo per determinate condizioni emozionali e non per altre, o essere la conseguenza di una più complessa disfunzione
nella regolazione simpato-vagale3; potrebbe anche essere correlato a un tratto comportamentale stabile del paziente (competitività, litigiosità ecc.) o al fatto che egli
sta attraversando un difficile periodo lavorativo. In tutti questi casi sarebbe preferibile, e presumibilmente più efficace, un intervento mirato e comprensivo di trattamenti che agiscano a livelli diversi in fasi diverse.
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Nell’emicrania si presentano frequentemente sintomi quali nausea, fotofobia, cinetosi ecc. riferibili a una disfunzione vegetativa. In alcuni casi, in particolare nel bambino, questi sono così
eclatanti da indirizzare la diagnosi anche in assenza di dolore cefalico sistematico.
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La tradizionale concezione che associava linearmente ipertono simpatico e cardiopatia ischemica è stata recentemente rivista: la diminuita variabilità cardiaca (indice di una ridotta capacità del sistema cardiovascolare di adattarsi alle richieste metaboliche imposte dall’ambiente),
piuttosto che la semplice iperreattività, è stata indicata come fattore prognostico negativo in
pazienti infartuati (Kleiger et al., 1987). In generale si tende a considerare la disfunzione dell’iperattivazione simpatica in relazione al deficit regolativo esercitato dal parasimpatico.
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Diagnosi e assessment
Tre raccomandazioni, tra le tante, possono essere ribadite per non incorrere in
errori metodologici tali da compromettere la diagnosi e l’impostazione del trattamento:
1. raccogliere le informazioni relative allo stato attuale del disturbo, prima del trattamento (baseline), in modo accurato e completo. Questo vuol dire: effettuare
misurazioni di baseline ripetute (Surwit, Williams e Shapiro, 1982) in modo da
evitare riscontri occasionali e da cogliere eventuali fluttuazioni spontanee del
fenomeno (o la tendenza dei valori a regredire spontaneamente verso la media
per il puro effetto della misurazione ripetuta); replicare l’accertamento in condizioni diverse (per es., nell’ambulatorio, a casa del paziente, nel luogo di lavoro ecc.);
2. eseguire l’assessment ai tre livelli cui il disturbo può manifestarsi: soggettivo, comportamentale e fisiologico: distorsioni soggettive (emozionali o cognitive) del fenomeno, ma anche un’effettiva dissociazione tra sintomo e riscontro fisiologico possono diventare aspetto focale del trattamento;
3. tentare una valutazione quantitativa, oltreché qualitativa, della sintomatologia
presentata, in modo da poter verificare l’efficacia del trattamento in termini di
differenze rispetto all’osservazione di baseline.
Attualmente non c’è che l’imbarazzo della scelta tra le tante procedure statistico-sperimentali applicabili al settore clinico, sia per gruppi di pazienti sia per
il caso singolo (Feuerstein et al., 1986; Davison e Neale, 2000; Kazdin, 1996;
Barker et al., 2002). Anche al di fuori dell’ambito statistico esistono tuttavia strategie utili per la verifica dell’efficacia di un dato intervento. Il criterio più “semplice”, più spesso applicato nel cosiddetto “studio del caso” in neuropsicologia
clinica, prevede un range di valori normativi di riferimento, desunti dall’andamento di quella funzione nella popolazione normale (controllata rispetto a variabili sociodemografiche), e la valutazione di quanto il paziente vi si discosta al
momento dell’accertamento diagnostico e di quanto vi rientra (possibilmente) in
seguito al trattamento. Quando, come spesso accade, non è possibile definire dei
valori normativi per un dato fenomeno (psicologico o fisiologico), si può analizzare il cambiamento ottenuto per effetto del trattamento confrontando i valori
basali prima dell’intervento con quelli ottenuti nella fase di accertamento che
segue l’intervento stesso. Il criterio della percentuale di miglioramento (percent
improvement, Blanchard e Andrasik, 1987) si ricava facilmente dalla seguente
formula:
valore di baseline – valore post-trattamento
% di miglioramento = ——————————————————— ¥ 100
valore di baseline
Essa, pur in modo meno restrittivo rispetto ai criteri statistici, permette di tener
conto delle variazioni del fenomeno rispetto alla variabilità che esso può assumere nel singolo individuo e può essere inserita nel più semplice dei disegni sperimentali per caso singolo: A (osservazione di baseline) – B (applicazione del fattore terapeutico) – A (osservazione di baseline).
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Psicofisiologia clinica
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AMBITI E TIPI D’INTERVENTO
Se consideriamo i disturbi psicofisiologici in termini di apparati che essi possono
coinvolgere, l’elenco delle applicazioni possibili della psicofisiologia clinica risulterebbe lungo e forse noioso. Dalla sindrome del colon irritabile all’asma, all’ipertensione, alla patologia neuromuscolare e osteoarticolare, al diabete, all’epilessia, ai disturbi psicopatologici, si trovano in letteratura esempi di interventi psicofisiologici mirati (Turpin, 1989; Carlson, Seifert e Birbaumer, 1994; Gatchel e
Blanchard, 1994; Palomba e Stegagno, 2004). Conseguenza di tale estensione del
campo applicativo è che ricercatori e terapeuti tendono sempre più a riconoscersi in settori specialistici ristretti (psicofisiologo cardiovascolare, gastrointestinale
ecc.). Se da un lato questo corrisponde a una tendenza generale della ricerca e
della clinica, per cui è impensabile che si possano mantenere competenze adeguate in settori disparati e tutti in rapida crescita, d’altro canto tale tendenza
rischia di mascherare quella che è, a nostro giudizio, la funzione applicativa principale della disciplina: costituire un riferimento (trasversale a più settori) per l’indagine dei meccanismi psicobiologici che producono, facilitano, mantengono il
disturbo somatico o psichico. L’assessment psicofisiologico, come pure un eventuale trattamento che vi faccia seguito, raramente può costituire un intervento
autonomo e concluso in sé, sia perché è difficile che esso possa attuarsi senza la
collaborazione di altri settori professionali, sia perché, comunque, esso dovrebbe
inserirsi in un programma più ampio che preveda tre aspetti: ricerca dei fattori psicofisiologici che producono o accompagnano disturbi somatici o psichici; prevenzione di tali fattori nella popolazione generale; inquadramento diagnostico e trattamento delle disfunzioni psicofisiologiche legate ai suddetti disturbi. Di questi ambiti applicativi, l’ultimo ha una più ampia risonanza in campo professionale, essendo questo effetto probabilmente dovuto a un generale ritardo culturale nel riconoscimento delle diverse competenze specifiche dello psicologo clinico, a maggior
ragione se psicofisiologo. Qualche esemplificazione permetterà, seppur limitatamente, di delineare alcune di tali competenze.
Prevenzione e trattamento della cefalea in età evolutiva
Lo psicofisiologo clinico può essere chiamato a intervenire presso una scuola per
individuare precocemente in bambini o adolescenti le possibili reazioni somatiche
anomale (cefalea, colite, disturbi visivi ecc.) presumibilmente legate all’ansia sociale o da prestazione, che possano dar seguito a patologie conclamate (e magari croniche). Una crescente attenzione viene oggi riservata, per esempio, alle cefalee in
età evolutiva. Dati epidemiologici noti da tempo riferiscono che l’incidenza del
disturbo cefalalgico in età evolutiva si aggira intorno al 4-5%, in forma episodica;
inoltre, le prime crisi emicraniche possono comparire anche prima dei cinque anni
(Virtanen et al., 2002). La cefalea di tipo tensivo (il cui meccanismo patogenetico sarebbe da attribuirsi a una tensione muscolare persistente a livello della muscolatura pericranica e del collo) risulta più diffusa rispetto all’emicrania (disturbo prevalentemente legato a un’alterazione vasomotoria). Nella maggior parte di questi
casi non sono evidenti chiare alterazioni organiche o squilibri ormonali (nonostante
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Diagnosi e assessment
la familiarità della cefalea possa far pensare a una predisposizione costituzionale per
il disturbo), mentre emerge costantemente un’associazione con condizioni stressogene prevalentemente legate a cambiamenti significativi in ambito familiare e/o a
difficoltà scolastiche. Considerando che l’insorgenza del disturbo coincide spesso
con l’ingresso nel mondo della scuola, che ha i suoi picchi negli anni di maggiore impegno e che, nell’arco della giornata, il dolore compare prevalentemente al
mattino, nelle ore di scuola, si può supporre che l’ambiente scolastico rappresenti
per il bambino il primo ambiente, diverso dalla famiglia, caratterizzato da impegno
e competizione. Studi con pazienti cefalalgici giovani (Jacobides, 1982) confermano che spesso la stessa crisi algica è scatenata da una condizione stressante specifica (emotiva, di carico cognitivo o sociale). Inoltre, giovani pazienti cefalalgici si
caratterizzano per una maggiore paura del fallimento e una più accentuata motivazione al successo (Passchier et al., 1984).
In questo caso l’intervento sarà mirato ad accertare l’andamento del dolore nel
corso della giornata (per es., tramite un diario compilato su indicazione del bambino dai genitori e/o dagli insegnanti), a individuare quali situazioni, in ambito
familiare, relazionale e scolastico si associano più frequentemente al verificarsi del
disturbo e quali sono le reazioni più frequenti da parte dei presenti (genitori, insegnanti, amici). L’accertamento in laboratorio prevederà l’indagine dei pattern di
reazione psicofisiologica del bambino di fronte a situazioni stressanti. Tra i test
disponibili è preferibile utilizzare quelli che possono riproporre situazioni simili a
quelle identificate nell’accertamento precedente. Se, per esempio, fossero emerse
difficoltà relative all’ambito relazionale e scolastico, test quali problem solving, parlare in pubblico, videogame competitivi, possono risultare particolarmente efficaci
nell’evidenziare specifiche forme di reattività anomala in questa categoria di pazienti. L’identificazione di risposte elettromiografiche eccessive nella muscolatura pericranica (per es., frontale e nucale), di reazioni vasomotorie anomale a livello dell’arteria temporale, o di una esagerata risposta elettrodermica durante la condizione stressante, potranno costituire la base per un trattamento mirato (per es., un
biofeedback elettromiografico inserito in un programma di modellamento comportamentale). La ripetizione dell’accertamento psicofisiologico a intervalli regolari
durante il trattamento e per un adeguato periodo di follow-up permetterà di verificare la stabilizzazione e generalizzazione dei risultati conseguiti (Blanchard e
Andrasik, 1987; Trapanotto et al., 2004).
Interventi in psicofisiologia del lavoro
La richiesta d’intervento può anche provenire da un ente (fabbrica, ufficio ecc.)
che si preoccupi di individuare (e modificare) quelle condizioni lavorative disfunzionali che possano favorire l’insorgenza di patologie acute (per es., cardiopatie
ischemiche) o croniche (tra queste la più diffusa è la patologia osteoarticolare)
(Stranden et al., 1983; Cenni et al., 1994). Un esempio di grande attualità è quello dei disturbi associati al lavoro al videoterminale (VDT) o allo schermo del computer (Gale e Christie, 1987). L’alto incremento di utenza professionale e privata
del computer avutosi negli anni recenti ha infatti creato inevitabili problemi ergonomici, clinici e psicosociali. L’interesse degli specialisti dei diversi settori si è
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Psicofisiologia clinica
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quindi diffuso in misura proporzionale. Dal punto di vista clinico gli inconvenienti
più frequenti, come è facilmente intuibile, riguardano gli apparati articolare e visivo. Errori posturali, di non facile correzione, sono causa di sindromi dolorose principalmente al rachide e alle articolazioni scapolo-omerali (Melin e Lundberg,
1997); la fatica visiva, implicita nel compito, comporta disturbi transitori quali
arrossamento degli occhi e bruciore, e cronici quale la riduzione dell’acuità visiva, in massima parte per progressiva miopizzazione. Questi e altri tipi di disturbo
sono stati considerati in relazione allo stress psicofisiologico indotto dal lavoro al
videoterminale, con un circuito causa-effetto su fatica e monotonia di difficile eliminazione (Smith et al., 1982). In generale i risultati delle ricerche passate in rassegna tendono a evidenziare un’alta incidenza di stress psicofisiologico in operatori al VDT o allo schermo del computer. Tra le lacune evidenziabili nei programmi dei servizi di medicina del lavoro in questo ambito, di rilievo è certamente
la mancanza di strumenti idonei a ponderare le componenti soggettive dello stress
assieme (o meglio, interattivamente) a quelle fisiologiche (visive, muscolari, cardiache ecc.). Elemento centrale dell’intervento psicofisiologico è raccogliere dati
relativi alle componenti psicologiche (fatica mentale, deficit attentivi o mnestici,
tono dell’umore, benessere psicofisico ecc.) e correlarli con opportuni indici fisiologici (visivi, elettromiografici, posturali, cardiovascolari) il più possibile collegati a, e indicativi di, quelle condizioni psicologiche. L’accertamento può iniziare
con la somministrazione preliminare di un questionario non strutturato allo scopo
di raccogliere informazioni relative all’ambiente di lavoro (illuminazione, climatizzazione), al posto di lavoro (disposizione del VDT e caratteristiche dello schermo), al tipo e all’organizzazione del lavoro (acquisizione dati, dialogo con la macchina, tempi di lavoro ecc.). L’accertamento psicofisiologico, poi, può verificare se
e rispetto a quale tipo di impegno lavorativo si producano affaticamento fisico e
mentale, modificazioni del tono dell’umore, dolorabilità riferita nelle sedi articolari critiche (spalla e rachide), disturbi visivi. Parallelamente si indaga, attraverso registrazione di indici fisiologici, se e in che misura tali risposte siano in relazione a modificazioni sensibili a carico dell’apparato visivo, muscolare e degli altri
apparati periferici maggiormente coinvolti nella risposta allo stress (funzione cardiovascolare, attività elettrodermica).
Interventi in ospedale o ambulatoriali
Altro, forse più scontato, settore d’impiego dello psicofisiologo clinico è l’ospedale (o altro presidio sanitario ambulatoriale) dove l’obiettivo è quello di ridurre l’impatto dei fattori psicologici che conseguono e aggravano patologie medico-chirurgiche, ma anche di modulare reazioni psicofisiologiche disfunzionali che spesso sono
alla base di una patologia organica. Esempi tipici sono, in questo caso, la preparazione a procedure medico-diagnostiche invasive o a interventi chirurgici, situazioni in cui un’iperattivazione psicosomatica può abbassare la soglia dolorifica e rallentare i normali processi di recupero (Kendall e Watson, 1981; Palomba e Canestrari, 1987); oppure i training di autoregolazione della pressione arteriosa in pazienti ipertesi essenziali, in cui una terapia farmacologica spesso forzatamente “perenne” può essere ridotta se si riescono a individuare e modificare quelle modalità
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Diagnosi e assessment
comportamentali che tendono a produrre anomale reazioni cardiovascolari (ampie
rassegne sull’argomento si trovano in Surwit, Williams e Shapiro, 1982; Elbert et
al., 1988; Blascovich e Katkin, 1993).
Il settore dei disturbi psicofisiologici psicosomatici richiede un seppur breve inquadramento delle tecniche di autoregolazione dall’attivazione fisiologica (e tra queste
in particolare il biofeedback), strumento terapeutico specifico e privilegiato dello psicofisiologo clinico (si veda Schwartz, 1995). Tra le strategie di autoregolazione dell’attivazione psicosomatica in condizioni di stress si ritrovano: il training autogeno,
l’ipnosi, il rilassamento progressivo secondo Jacobson, la meditazione e il biofeedback. Tutte tali metodiche hanno come comune effetto una riduzione del livello di
attivazione, associata a una riduzione dell’eccitabilità simpatico-tonica e, in misura
più o meno rilevante, un’attenuazione della tensione muscolare. Esse vengono (o
dovrebbero essere) impiegate in modo differenziale a seconda della specificità dell’effetto (il biofeedback ha certamente un’azione più selettiva rispetto al training autogeno) e del livello di autoregolazione autogena che le caratterizza (l’ipnosi è più
consistentemente eteroregolata rispetto al biofeedback o al rilassamento di Jacobson). Tutte queste procedure possono avvalersi di registrazioni psicofisiologiche di
sostegno al resoconto soggettivo di rilassamento, o di ridotta attivazione vegetativa;
tra esse, tuttavia, il biofeedback (BFB) richiede obbligatoriamente la registrazione
della risposta fisiologica che si intende modificare. Esso consiste, infatti, in una procedura di autocontrollo che permette al paziente di regolare, attraverso un sistema
di retroazione (feedback) della risposta, le proprie funzioni fisiologiche (Fig. 12.2).
Fin dall’inizio il BFB è stato applicato come procedura di apprendimento alla
riduzione dell’attivazione o, se si preferisce, come metodo per prevenire l’insorgenza di un’attivazione eccessiva, sproporzionata, inadeguata. Diversi sistemi e funzioni fisiologiche sono stati sottoposti ad autocontrollo tramite BFB, nella prospettiva di riuscire a ridurne, possibilmente in contemporanea, la reattività: attività elettrica cerebrale con feedback elettroencefalografico (EEG), tono muscolare con feedback elettromiografico (EMG), frequenza cardiaca con feedback elettrocardiografico (ECG) e attività elettrodermica con feedback dell’attività elettrodermica (EDA), forse meglio noto con il corrispettivo inglese di galvanic skin
response, o GSR. L’obiettivo evidente è quello di riuscire a controllare lo stress
riducendo l’attivazione negli indici fisiologici che rispecchiano sia l’attività “volontaria” (cioè dipendente dal sistema nervoso centrale) sia quella “involontaria”
(dipendente dal sistema nervoso autonomo). Una volta dimostrata la possibilità,
da parte del soggetto umano, di sottoporre a controllo volontario le proprie attività fisiologiche, si sono costruiti modelli sperimentali di laboratorio per la simulazione dell’autoregolazione in condizioni di stress: durante la presentazione di una
condizione-stimolo che induca una tipica sequenza di stress (per es., calcolo mentale, cold pressor test, diapositive a contenuto fortemente emotigeno, procedure di
evitamento dello shock), il soggetto deve ridurre il più possibile quelle attività
fisiologiche che risultano prevalentemente implicate. Il presupposto è che il soggetto possa estendere e applicare nella vita reale le capacità apprese in condizioni di laboratorio.
La riduzione dell’attivazione simpatico-tonica indotta dalle procedure di autoregolazione è alla base del loro impiego nel trattamento dell’ipertensione arterioPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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Psicofisiologia clinica
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sa essenziale (si veda una sintesi in Vaitl, 1982; Jucha et al., 2001). Il biofeedback è stato applicato all’autocontrollo della pressione arteriosa anche se, in questo caso, l’anello più debole viene a essere proprio il meccanismo di feedback su
cui il trattamento dovrebbe basarsi; la difficoltà principale sta, infatti, nella rilevazione continua della funzione pressoria (ovviamente senza metodi intrusivi),
requisito indispensabile per il processo di autoregolazione. L’introduzione di metodi di misurazione diretta e non invasiva della pressione arteriosa (per es. il sistema Finapres, Ohmeda Corp., Denver, CO) ha permesso lo sviluppo di procedure
di biofeedback specifico (Nakao et al., 1999). Qualora non sia realizzabile un feedback diretto, risultati soddisfacenti nell’autoregolazione della pressione arteriosa si
ottengono con la combinazione di biofeedback e procedure di rilassamento, eventualmente associate a interventi comportamentali volti a modificare stili di vita o
abitudini incongrue (Glasgow ed Engel, 1987; Blanchard ed Epstein, 1996). In
particolare, lo sviluppo di un’autoregolazione basata sull’automonitoraggio (automisurazione domiciliare della pressione arteriosa), associata a un training di rilassamento progressivo, eventualmente “rinforzato” dal feedback in ambulatorio, potrebbe dare risultati ottimali.
1.
Rilevare
e
amplificare
3.
2.
Convertire
in segnale acustico
o visivo
Figura 12.2 Un esempio di circuito di biofeedback. 1. Rilevamento e amplificazione di potenziali
bioelettrici. 2. Conversione del segnale bioelettrico amplificato in una forma di facile comprensione
o elaborazione. 3. Ritorno (feedback) di questa informazione al paziente. Con la retroazione immediata, il paziente impara volontariamente a controllare la risposta (da Blanchard ed Epstein, 1996).
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Diagnosi e assessment
Diagnosi e trattamento degli stati d’ansia
Un ultimo settore applicativo che merita di essere menzionato è quello dei disturbi d’ansia (ansia sociale, fobie, disturbi ossessivi, disturbo post-traumatico ecc.). È
questa una fetta di psicopatologia di specifico interesse psicofisiologico che non
ha ancora trovato, in Italia, una precisa collocazione all’interno dei servizi sanitari: se pazienti psicotici, schizofrenici, depressi gravi sono spontaneamente indirizzati ai presìdi psichiatrici, i pazienti affetti da disturbi d’ansia trovano spesso
risposte inadeguate al loro problema sia presso i servizi della medicina di base sia
in ambito psichiatrico. Questa lacuna deriva, a nostro parere, proprio dalla mancanza di tecniche di indagine e modelli d’intervento idonei all’interno di entrambi i suddetti servizi. La psicofisiologia clinica ha invece a disposizione un vasto
repertorio strumentale-metodologico per la diagnosi, l’interpretazione patogenetica e il trattamento di tali disturbi (Birbaumer e Öhman, 1993). Non a caso alcuni centri di psicologia clinica, all’estero, sono dotati di servizi per il trattamento
dei disturbi d’ansia (fear clinics), all’interno dei quali sono stati messi a punto protocolli diagnostico-terapeutici specifici (Cuthbert et al., 2003). I disturbi d’ansia,
dall’ansia sociale alle fobie specifiche, agli attacchi di panico, sono tutti caratterizzati da un’attivazione psicofisiologica peculiare (Hugdahl, 1989; Rachman,
2004), tanto che alcuni modelli sostengono che l’iperattivazione fisiologica stessa
sia una caratteristica di base di questi pazienti e presupposto per lo sviluppo di
fobia (Lader, 1975; Barlow, 1988). Le reazioni fisiologiche e comportamentali non
costituiscono un semplice correlato dello stato d’ansia o della risposta fobica, ma
contribuiscono a generare, o almeno mantenere, il quadro clinico complessivo.
Questo meccanismo è stato ben delineato all’interno del modello bioinformazionale proposto da Lang (Lang, 1993) per la spiegazione della risposta emozionale
e delle sue deviazioni patologiche (in particolare ansia e fobia). Durante uno stato
d’ansia ogni elemento della situazione, dalle caratteristiche dello stimolo evocante ai cambiamenti cognitivi o affettivi indotti (perdita di consequenzialità del pensiero, attribuzioni di significato più o meno adeguate, deficit mnestici, esperienza
di malessere psicofisico ecc.), alle reazioni comportamentali (fuga, richiesta d’aiuto ecc.), a quelle fisiologiche (gambe che tremano, mani sudate, batticuore ecc.),
costituiscono elementi d’informazione che vengono elaborati dal cervello e fissati in memoria. Nell’organizzarsi in uno schema mnestico i vari elementi tendono
ad associarsi tra loro in un pattern più o meno coeso, in modo che basterà, in
seguito, l’attivazione di un solo elemento (per es., un batticuore occasionale) per
scatenare a catena l’attivazione di tutti gli altri. Questa coesione è particolarmente
forte nel fobico, per il particolare consolidamento dei legami associativi dello schema determinato soprattutto dall’evitamento e, quindi, dall’impossibilità di formare
legami associativi alternativi e più idonei. Nel paziente fobico il batticuore occasionale non sarà solo associato a un incremento di attività muscolare o respiratoria, come avviene per esempio durante una corsa, ma tenderà ad associarsi strettamente anche a una piazza affollata, alla sensazione di svenire, al fischio di una
sirena ecc. Tutti questi elementi si attiveranno reciprocamente anche per condizioni-stimolo minimali e, grazie all’evitamento, le associazioni costituitesi non
potranno essere modificate da nuovi input. Compito del trattamento psicofisiologico (per es., una desensibilizzazione sistematica accompagnata da un feedback
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delle risposte fisiologiche) sarà quello di indebolire i legami non adeguati e favorire quelli idonei. L’esposizione graduale allo stimolo accompagnata da un rilassamento progressivo permetteranno di dissociare, per esempio, il legame “tensione
muscolare alle gambe-piazza affollata” e di ristabilire quello “tensione muscolaresforzo fisico”; così, di seguito, si cercherà di agire sugli altri legami. Un intervento che privilegi il solo livello soggettivo-cognitivo, come pure solo quello fisiologico, potrà risolversi in un miglioramento transitorio o limitato (Foa e Kozak,
1986).
CONCLUSIONI
Non è stato ovviamente possibile, in questa sede, approfondire i tanti ambiti d’intervento o gli svariati protocolli psicofisiologici utilizzati per l’accertamento diagnostico e la terapia delle diverse patologie. Abbiamo preferito trarre da alcuni settori applicativi, tra i più diffusi o promettenti, degli esempi dimostrativi che suggeriscano le potenzialità della psicofisiologia clinica e dai quali risulti chiaro il riferimento a una metodologia specifica che costituisce la base di modelli diagnostico-terapeutici diversi.
Riprendendo alcune annotazioni in parte già accennate, ci sembra che il primo
significato della psicofisiologia clinica sia quello di aver assorbito la metodologia
tipica della psicologia sperimentale per trasferirla in un ambito clinico: è sicuramente un primo valido contributo al superamento dell’automatica dicotomia clinico vs sperimentale. Segue, senza stabilire ordini gerarchici, l’incontestabile vantaggio per le malattie psicosomatiche (appunto e più correttamente psicofisiologiche)
di essere affrontate per tutta la sequela del loro iter, dalla diagnosi precoce al follow-up, attraverso la registrazione fisiologica (e quindi quantificazione) dell’apparato od organo coinvolto (elettrogastrogramma per il gastropatico, pneumogramma
per l’asmatico ecc.). Meno immediata, ma per questo non secondaria, l’utilità della
psicofisiologia clinica in ambito psicopatologico: il caso delle precoci fluttuazioni
dell’attività elettrodermica nel soggetto a rischio schizofrenico rende ragione del
suo impiego anche nel settore delle psicosi.
Dagli esempi già fatti per le applicazioni terapeutiche (includendovi anche quelle preventive e diagnostiche) sono emerse a sufficienza, riteniamo, le peculiarità
del trattamento eseguito in laboratorio, quindi con un controllo costante delle
variabili implicate. Ciò vale non tanto rispetto a tecniche terapeutiche non sperimentali (dinamiche, sistemiche ecc.), perché scontato, quanto per procedure consociate che non eseguono controlli on-line delle funzioni fisiologiche implicate:
basti pensare, per esempio, al training autogeno.
LETTURE CONSIGLIATE PER L’APPROFONDIMENTO
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CARLSON, J.G., SEIFERT, A.R. e BIRBAUMER, N. (a cura di) (1994). Clinical Applied Psychophysiology. New York: Plenum Press.
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Diagnosi e assessment
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Sons.
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