individualismo metodologico e olismo

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LEZIONE
“INDIVIDUALISMO METODOLOGICO E OLISMO”
PROF. DANIELE SANTORO
Università Telematica Pegaso
Individualismo metodologico e olismo
Indice
INDIVIDUALISMO METODOLOGICO ---------------------------------------------------------------------------------------- 3
1
INTRODUZIONE -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
STORIA -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 4
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
3
MAX WEBER ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
GEORG SIMMEL ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 6
VILFREDO PARETO ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 7
GABRIEL TARDE------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 8
SCHUMPETER, POPPER E ALTRI ------------------------------------------------------------------------------------------------- 9
OBIEZIONI E MALINTESI ------------------------------------------------------------------------------------------------ 10
3.1
3.2
L'OBIEZIONE STORICISTICA ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 11
L'OBIEZIONE STRUTTURALISTICA --------------------------------------------------------------------------------------------- 13
4
L'INDIVIDUALISMO NELLA SOCIOLOGIA MODERNA -------------------------------------------------------- 15
5
BIBLIOGRAFIA -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 17
DAVIDE SPARTI: TEORIE DELL’AZIONE, TEORIE DELL’ATTORE: I PARADIGMI DI
ORIENTAMENTO INDIVIDUALISTICO ------------------------------------------------------------------------------------- 18
6
SFONDO STORICO E PREMESSE TEORICHE --------------------------------------------------------------------- 18
6.1
6.2
7
MODELLO DI RIFERIMENTO: L’INTENZIONALISMO --------------------------------------------------------- 24
7.1
7.2
7.3
7.4
7.5
8
IL CONCETTO DI INTENZIONALITÀ -------------------------------------------------------------------------------------------LA DIFFERENZA FRA AZIONI E NON AZIONI ---------------------------------------------------------------------------------L’ARGOMENTO DELLA CONNESSIONE LOGICA -----------------------------------------------------------------------------LE INTENZIONI COME VOCABOLARIO ---------------------------------------------------------------------------------------L’IMPOSSIBILITÀ DELLA COMPRENSIONE INTENZIONALE PRIVATA------------------------------------------------------
24
25
27
29
31
MODELLO DI RIFERIMENTO: IL PARADIGMA ECONOMICISTICO -------------------------------------- 33
8.1
8.2
8.3
8.4
8.5
8.6
9
INTRODUZIONE ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 18
L’INFLUSSO DI WITTGENSTEIN------------------------------------------------------------------------------------------------ 20
LA TEORIA DELLA SCELTA RAZIONALE -------------------------------------------------------------------------------------L’IMMAGINE DELL’ATTORE E LA LOGICA DELL’AZIONE -----------------------------------------------------------------RAZIONALITÀ, GIOCHI STRATEGICI E DILEMMA DEL PRIGIONIERO -----------------------------------------------------I PARADOSSI DELLA RAZIONALITÀ: SCELTE INDIVIDUALI, IDENTITÀ COLLETTIVA -----------------------------------SCELTE DI PRIMO E SECONDO LIVELLO -------------------------------------------------------------------------------------LA VARIABILE TEMPO E L’ABUSO DELLA FUNZIONE DI UTILITÀ ---------------------------------------------------------
33
34
36
39
41
43
MODELLO DI RIFERIMENTO: IL PARADIGMA COGNITIVO ------------------------------------------------ 46
9.1
9.2
9.3
9.4
LA «SOCIAL COGNITION » -----------------------------------------------------------------------------------------------------«SCRIPTS» E «FRAMES» -------------------------------------------------------------------------------------------------------SAPERE COGNITIVO, SAPERE PRATICO --------------------------------------------------------------------------------------LA NOZIONE DI PRATICA E L’«HABITUS» ------------------------------------------------------------------------------------
46
48
50
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Individualismo metodologico e olismo
Individualismo metodologico
di Raymond Boudon
Tratto da: AAVV, Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Editore
Treccani, Roma.
URL:http://www.treccani.it/enciclopedia/individualismo-metodologico_%28Enciclopedia_delle_Scienze_Sociali%29/
Sommario: 1. Introduzione. 2. Storia. a) Max Weber. b) Georg Simmel. c) Vilfredo Pareto. d) Gabriel Tarde. e)
Schumpeter, Popper e altri. 3. Obiezioni e malintesi. a) Le obiezioni positivistiche: riduzionismo e soggettivismo. b)
L'obiezione storicistica. c) L'obiezione strutturalistica. 4. L'individualismo nella sociologia moderna. □
Bibliografia.
1 Introduzione
L'espressione 'individualismo metodologico' indica in forma sintetica un concetto generale
proprio delle scienze sociali; in una parola, indica un paradigma. Il principio fondamentale di questo
paradigma è che ogni fenomeno sociale è il risultato della combinazione di azioni, credenze o
atteggiamenti individuali. Ne consegue che la spiegazione di tale fenomeno consiste nel ricondurlo
alle cause individuali delle quali è il prodotto: pertanto un momento essenziale di qualsiasi analisi,
sia nel campo della sociologia che dell'economia o della scienza politica, consiste nel comprendere
il perché delle azioni, delle credenze o degli atteggiamenti individuali responsabili del fenomeno
che s'intende spiegare.Come è stato più volte ribadito dai filosofi della scienza, nessun paradigma
risulta evidente di per sé, se non per quanti vi si richiamano. La stessa cosa accade nel caso
dell'individualismo metodologico: la sua importanza nella storia delle scienze non deriva dalla sua
capacità d'imporsi di per sé, ma dalla sua efficacia nella spiegazione dei fenomeni sociali.
Una prova indiretta di ciò è data dal fatto che l'individualismo metodologico non è mai stato
oggetto di un accordo unanime. Al contrario, ha dovuto sempre coesistere con altri paradigmi, come
per esempio quello positivistico, al quale si affida uno studioso dell'importanza di Durkheim. Tutto
questo è sufficiente per dimostrare che l'individualismo metodologico non ha affatto il carattere di
evidenza immediata di una proposizione come 2+3=5.In ogni caso, nelle forme di opposizione che
insorgono frequentemente nei confronti dell'individualismo metodologico si può vedere il risultato
di serie obiezioni di fondo, ma anche di malintesi, i quali fanno sì che la reale importanza di questo
paradigma tenda a essere sottovalutata.
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2 Storia
Il paradigma dell'individualismo metodologico - interpretare i fenomeni collettivi come il
prodotto di azioni, atteggiamenti, credenze individuali in molti casi è di applicazione così naturale
che si può affermare che nelle scienze sociali sia stato applicato da sempre.
Tocqueville, per esempio, l'utilizza costantemente. In L'ancien régime et la Révolution
(1856), un grande libro di sociologia comparata, egli prende come oggetto del suo studio un certo
numero di differenze tra due paesi tanto simili tra loro per molti altri aspetti come erano la Francia e
l'Inghilterra alla fine del XVIII secolo, e spiega sempre queste differenze come il prodotto di azioni
individuali.
Inoltre egli è colpito dalla differenza di stile che riscontra tra la filosofia politica francese e
quella inglese: mentre la prima è radicale, rivoluzionaria, astratta, speculativa, la seconda è invece
prudente, pragmatica, concreta, attenta ai fatti, cosciente della complessità dei fenomeni sociali.
Perché? si domanda Tocqueville. E la sua risposta è: perché la centralizzazione amministrativa è
molto maggiore in Francia che in Inghilterra. Di conseguenza, i 'philosophes' francesi - gli
'intellettuali', diremmo oggi erano facilmente portati a credere che ogni riforma sociale passasse
attraverso una riorganizzazione radicale del potere politico. Allo stesso modo Tocqueville spiega il
sottosviluppo dell'agricoltura francese rispetto a quella inglese, in un'epoca in cui i fisiocratici
avevano peraltro un'influenza importante, con il fatto che la centralizzazione amministrativa
francese spingeva i proprietari fondiari a ricercare cariche di corte e a trascurare lo sfruttamento
delle loro terre.
Se il paradigma dell'individualismo metodologico risulta d'uso corrente nelle analisi
sociologiche più antiche, la sua importanza è percepita appieno e analizzata solo a partire dalla fine
del XIX secolo. È forse l'economista austriaco C. Menger (v., 1883) il primo a sottolinearne
esplicitamente l'importanza. Sfortunatamente, per indicare quello che oggi chiamiamo
individualismo metodologico egli utilizza il termine 'atomismo'; ma con ciò non intende affatto
affermare che la società debba essere concepita come composta esclusivamente da individui, così
come la materia è composta esclusivamente da atomi. Egli sa perfettamente che una società
comprende anche istituzioni sociali e politiche, regole giuridiche e morali, costumi, tradizioni, e
anche risorse materiali, la cui natura cambia da una società all'altra. Parlando di 'atomismo', egli
riconosce quindi che gli 'atomi' costituiti dagli individui si muovono in un campo politico e sociale
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definito, ma intende affermare che il compito delle scienze sociali consiste nell'analizzare i
fenomeni collettivi come prodotto di azioni individuali e nel concepire queste azioni come
'comprensibili' (per utilizzare un termine che verrà impiegato successivamente).
La metodologia delineata da Menger ha ispirato a lungo gli economisti (cfr., tuttavia, A.
Mingat, P. Salmon e A. Wolfelsperger, Méthodologie économique, Paris 1985). Come sembra
naturale, trattandosi dell'analisi di fenomeni economici, gli economisti associano generalmente al
principio dell'individualismo metodologico quello secondo cui le azioni individuali obbediscono a
motivazioni utilitaristiche. Questa tendenza a coniugare individualismo metodologico e utilitarismo
ha indotto alcuni sociologi a ritenere, a torto, che esistesse un legame organico tra questi due
principî. In realtà, se tale unione appare pertinente nel caso dell'economia, essa non è tuttavia
ineluttabile: tra l'individualismo metodologico e l'utilitarismo non esiste alcun rapporto
d'implicazione reciproca. Questo aspetto è stato analizzato con estrema chiarezza da alcuni
sociologi classici e, in particolare, da numerosi autori tedeschi (Max Weber, Simmel), ma anche
italiani (Pareto) e francesi (Tarde).
2.1
Max Weber
Max Weber non utilizza l'espressione 'individualismo metodologico'. È stato osservato,
tuttavia, che s'incontra un'espressione pressoché identica in una lettera inviata da Weber
all'economista marginalista R. Liefmann, una lettera che ha un'importanza del tutto particolare, non
solo perché scritta nell'anno della morte di Weber, ma anche perché definisce in modo lapidario una
vera e propria epistemologia delle scienze sociali. "Anche la sociologia [come l'economia] - scrive
Weber - sul piano metodologico deve procedere in senso individualistico".
Se l'uso dell'espressione 'individualismo metodologico' è incidentale in Weber, egli tuttavia
utilizza costantemente questo paradigma nelle sue analisi sociologiche. Tutta la sua sociologia della
religione, per esempio, è fondata sul principio metodologico secondo il quale le credenze religiose
apparentemente più strane debbono essere analizzate dal sociologo come fornite di senso per chi le
professa. Per esempio, quando Weber s'interroga sulla diffusione del culto di Mitra tra i funzionari
dell'Impero romano o della massoneria tra i funzionari prussiani (v. Weber, 1922), egli analizza
questo fenomeno come il risultato di un atteggiamento comprensibile dal punto di vista degli
individui interessati: i funzionari romani hanno le loro buone ragioni per lasciarsi sedurre da questo
culto, in quanto è molto più congruente della religione romana tradizionale con il mondo nel quale
essi vivono. Il culto di Mitra non riconosce una potenza trascendente, ma si sottomette a una
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potenza immanente; l'adepto è sottoposto a un'iniziazione e supera gli stadi successivi di una vera e
propria gerarchia formale di gradi attraverso prove perfettamente definite, nel corso delle quali
viene giudicato in modo assolutamente impersonale. Questo culto poteva facilmente apparire al
funzionario romano come una trasposizione simbolica dell'universo burocratico cui apparteneva
professionalmente: egli era al servizio di una potenza immanente, l'imperatore, e le sue promozioni
dipendevano dal superamento di un certo numero di prove. Aveva quindi delle ragioni
comprensibili per preferire questo culto alla religione tradizionale, che si era definita in un periodo
in cui la società romana era ancora essenzialmente rurale.In generale gli scritti metodologici di
Weber insistono su un leitmotiv: l'affermazione che il compito essenziale del sociologo consiste nel
ricostruire il senso delle azioni, delle credenze e degli atteggiamenti degli attori sociali.
2.2
Georg Simmel
Simmel è ancora più esplicito e soprattutto più esauriente di Weber sulle questioni di
metodo. I fenomeni sociali, egli scrive, non possono essere nient'altro che il prodotto di azioni,
atteggiamenti e credenze individuali. Per esempio, le regole di educazione che si possono
riscontrare in una certa società in un determinato momento sono il prodotto di un complesso di
azioni e interazioni; esse sono accettate e rispettate in quanto hanno un senso per gli individui che le
adottano e resteranno in vigore finché saranno percepite come dotate di senso. In linea di massima
non esiste per Simmel, al di sopra degli individui, alcuna entità di ordine superiore che li trascenda.
In breve, Simmel (v., 1892) ha una concezione nominalistica della società, nettamente in
contrasto, per esempio, con la concezione realistica di un Durkheim. Ai suoi occhi la società non è
altro, in realtà, che l'insieme degli individui che la compongono. In questo senso, analizzare un
fenomeno sociale consiste sempre, almeno in linea di principio, nel ricostruire le azioni, le credenze
e gli atteggiamenti individuali che lo hanno determinato.
Ma Simmel sottolinea altresì che l'applicazione di un 'programma' - direbbe Lakatos - come
è quello dell'individualismo metodologico si trova a fare i conti con ostacoli pratici d'importanza
notevole: spesso, egli spiega, è molto difficile ricostruire le cause a cui far risalire una certa
istituzione, soprattutto perché esse nel frattempo sono scomparse senza lasciare una qualche traccia
concreta.
Per spiegare quest'ultimo punto si può far ricorso a un esempio ripreso da A. Vierkandt (v.,
1908), la cui metodologia in questo caso non si distingue in nulla da quella di Weber o di Simmel:
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l'esempio è tratto dalle nostre società, ed è l'usanza dei banchetti che, fino a non molto tempo fa,
seguivano i funerali. Quando si interrogano i partecipanti, o un sociologo dilettante, sulle cause di
una siffatta istituzione, le risposte oscillano tra un'interpretazione di tipo durkheimiano (il banchetto
funebre rinsalda la comunità degli amici e dei parenti del defunto) e una di tipo utilitaristico
(l'aspettativa del pranzo spinge a partecipare alla cerimonia). La prima interpretazione commette
l'errore di confondere cause ed effetti, e più precisamente di trasformare arbitrariamente un effetto
in una causa. La seconda è nel migliore dei casi parziale, nel peggiore riduzionista: non si può
supporre che la presenza di tutti i partecipanti, e neppure di una significativa maggioranza, possa
essere spiegata in questo modo.
Il fatto che si faccia spesso ricorso a queste spiegazioni insufficienti tradisce le difficoltà che
s'incontrano nell'identificare le vere cause di questa pratica, scomparse nella notte dei tempi: si è
dunque costretti a procedere per congetture.
Allo stesso modo, afferma Simmel, è evidente che un tasso di suicidi rappresenta soltanto la
somma di un complesso di atti individuali dettati dalle ragioni più diverse. Quando si osserva, per
esempio, che la curva che rappresenta l'evoluzione di questi tassi nel tempo cresce in modo
regolare, si deve indubbiamente ammettere che questa regolarità ha una causa precisa. Ma poiché
questa causa non può essere ricercata se non nelle azioni individuali responsabili di tale crescita, e
poiché queste ultime sono il risultato di motivazioni complesse ed eterogenee, ne consegue che è
assai difficile evidenziare questa causa.Incidentalmente si può osservare che alcuni sociologi
moderni hanno portato alle estreme conseguenze le implicazioni di questo tipo di osservazioni
sostenendo l'inanità di ogni analisi statistica in campo sociologico (v. Douglas, 1967). Simmel,
però, non arriva a queste conclusioni estreme e non vi è in effetti nessuna ragione per arrivarvi.
2.3
Vilfredo Pareto
Il Trattato di sociologia generale di Pareto si apre, come Economia e società di Weber, con
importanti considerazioni sul concetto di azione. La distinzione che Pareto fa tra "azioni logiche" e
"azioni non logiche" è celebre ed essenziale: l'economia, dice Pareto (v., 1916) sarebbe lo studio
delle azioni logiche, la sociologia, invece, lo studio di quelle non logiche. Lasciamo da parte, per il
momento, questa distinzione difficile, per osservare immediatamente che attraverso questa
distinzione Pareto propone di considerare e di analizzare tutti i fenomeni sociali come il risultato di
azioni. La sua distinzione propone esplicitamente di considerare le azioni di cui si occupa
l'economista come azioni 'razionali' - diremmo noi -, cioè come azioni ispirate dal desiderio del
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soggetto di impiegare i mezzi obiettivamente più adatti ai suoi scopi, mentre le azioni di cui si
occupa il sociologo sarebbero in generale dettate da motivi irrazionali. Pareto, tuttavia, precisa
molto chiaramente che le azioni non logiche non devono essere considerate come 'illogiche'; in altri
termini, le azioni non logiche hanno un senso, e il compito fondamentale del sociologo consiste
proprio nel ritrovare questo senso. Anche se il vocabolario di Pareto è assai diverso da quello di
Weber, entrambi concordano sul principio dell'individualismo metodologico (ogni fenomeno
sociale ha cause individuali). Pareto insiste anche sulla necessità di considerare ogni credenza e
ogni azione come dotate di senso. La differenza tra i due, dal punto di vista di questa nostra analisi,
consiste essenzialmente nel fatto che Pareto ha una visione molto più netta di Weber della
distinzione tra 'razionale' e 'irrazionale'.
2.4
Gabriel Tarde
Il contrasto tra Durkheim e Tarde è uno dei luoghi comuni della storia della sociologia. Sono
note le accuse rivolte da Durkheim a Tarde: questi avrebbe avuto il torto di voler spiegare i fatti
sociali non attraverso altri fatti sociali - come raccomandava Durkheim - ma attraverso fatti
psicologici. Per usare una terminologia moderna, Durkheim accusava Tarde di cadere nel
riduzionismo adottando il principio dell'individualismo metodologico.
Effettivamente Tarde ha cercato di spiegare i fenomeni di moda, ma anche le regolarità
statistiche che osservava nel campo dei fenomeni criminali e, in generale, tutti fenomeni ai quali si è
interessato, a partire dal principio dell'individualismo metodologico.
Il fatto che i fenomeni di moda seguono una "legge geometrica" (oggi diremmo una legge
esponenziale) deriva, secondo Tarde (v., 1890), dalla tendenza dei soggetti sociali a imitarsi
reciprocamente. Questa ipotesi 'psicologica' dà conto del fenomeno 'sociologico' che si vuole
spiegare: più numerosi sono i seguaci della nuova moda, più numerosi saranno gli imitatori. La
crescita istantanea del numero dei seguaci è quindi proporzionale al loro numero:dn/dt=kn .
Integrando questa equazione, se ne deduce facilmente che il processo di diffusione di una moda
segue una legge "geometrica".
Non è molto importante che, in questa analisi, Tarde semplifichi notevolmente i fenomeni
della diffusione sociale. Ciò che merita rilevare è che, in forma originale e creativa e in contrasto
con la raccomandazione di Durkheim, egli spiega un fenomeno sociale per via 'psicologica', in
particolare a partire dal paradigma dell'individualismo metodologico. D'altra parte, come si avrà
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occasione di verificare in seguito, in contrasto con i suoi stessi principî, anche Durkheim utilizza
suo malgrado questo paradigma nelle sue analisi più innovative.
2.5
Schumpeter, Popper e altri
Schumpeter e, sulla sua scia, Popper, Hayek e altri, hanno contribuito a imporre
l'espressione 'individualismo metodologico' per indicare il paradigma che era stato correntemente
utilizzato da Tocqueville e chiaramente identificato dalla maggior parte dei sociologi classici - da
Pareto a Weber - o per accettarlo, come questi due autori e molti altri, o per respingerlo
teoricamente, anche se non nella pratica, come Durkheim e in particolare i sociologi di
orientamento positivistico. 3. Obiezioni e malintesi
È importante richiamare il nome di Durkheim nel contesto della presente analisi, in quanto
nei suoi scritti teorici sono numerose le obiezioni nei confronti del paradigma dell'individualismo
metodologico (anche se, naturalmente, l'espressione 'individualismo metodologico' non compare
mai nelle sue opere).
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3 Obiezioni e malintesi
Le obiezioni positivistiche: riduzionismo e soggettivismo
Durkheim ha una concezione fondamentalmente positivistica delle scienze, concezione che
ha ereditato da A. Comte, la cui influenza in Francia alla fine del XIX secolo era assai notevole.
Comte aveva proposto di considerare la sociologia come la disciplina chiamata a coronare l'edificio
delle scienze. Come la biologia deve rispettare la specificità ontologica del vivente, allo stesso
modo la sociologia deve rispettare la specificità del sociale: in altri termini, non può spiegare il
sociale se non attraverso il sociale stesso; inoltre, come tutte le scienze, deve poggiare
sull'osservazione metodica di fatti osservabili. Ora, i 'fatti psichici' come le 'ragioni' che possono
avere gli attori sociali di fare o di credere questa o quest'altra cosa presentano dal punto di vista di
questa epistemologia due inconvenienti fondamentali. In primo luogo non sono 'osservabili'; inoltre,
se si vuole farne la causa dei fenomeni sociali, s'infrange l'obbligo di rispettare la specificità del
sociale.
In realtà non vi è alcun obbligo di adottare l'epistemologia positivistica di Comte, ma,
soprattutto, il fatto che le ragioni degli attori sociali non siano osservabili direttamente non implica
affatto che non si possa raggiungere l'oggettività quando le si descrive. L'esperienza quotidiana ci
insegna, al contrario, che possiamo correggere facilmente l'interpretazione che in un primo
momento abbiamo data di una qualche azione: 'se ha fatto questo, è sicuramente per questa ragione
e non per quest'altra' è una proposizione che spesso non presenta problemi. Se abbiamo osservato
metodicamente dei dati di comportamento, siamo spesso in grado di decidere che una
interpretazione è preferibile a un'altra. Pressappoco allo stesso modo non possiamo osservare
direttamente lo stato magnetico di un oggetto fisico, ma possiamo ricavarlo a partire dalle sue
'reazioni' in alcune situazioni ben determinate. In una parola, il fatto che le motivazioni degli attori
sociali non siano direttamente osservabili non autorizza in alcun modo a concludere che è
impossibile formulare in proposito ipotesi verificabili.
Questo non significa che l'interpretazione delle ragioni degli attori sociali o, se si preferisce
un altro linguaggio, la determinazione del senso delle loro azioni o delle loro credenze sia sempre
semplice; lo è in alcuni casi: l'individuo che guarda a destra e a sinistra prima di traversare una
strada lo fa per evitare di farsi investire, su questa interpretazione non può esservi alcun dubbio.
Naturalmente, è molto più difficile individuare il motivo per cui i funzionari prussiani si sentivano
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tanto attirati dalla massoneria. Anche se la teoria di Weber - secondo la quale questa attrazione
dev'essere interpretata pressappoco negli stessi termini di quella dei funzionari romani per il culto di
Mitra - in senso stretto non può essere dimostrata, essa può tuttavia essere facilmente considerata
come l'ipotesi più credibile che sia stata formulata a tutt'oggi a proposito di questo fenomeno.
Questa ipotesi è altrettanto solida della maggior parte delle ipotesi formulate nell'ambito delle
scienze della natura.
È ancora più difficile spiegare perché i tassi di suicidio aumentano o diminuiscono, anche
se, in molte delle sue analisi, Durkheim (v., 1897) propone al riguardo ipotesi affascinanti. Per
esempio, egli osserva che i tassi di suicidio tendono a diminuire nei periodi di crisi politica o di
tensione internazionale e interpreta questo fatto servendosi di un'ipotesi convincente: in questi
periodi il soggetto sociale non può ripiegarsi sulla sua sfera privata ed è spinto a occuparsi degli
affari pubblici; di conseguenza, le difficoltà personali che potrebbero indurlo a mettere fine ai suoi
giorni vengono relegate in secondo piano. Poiché questo cambiamento nella situazione degli
individui è valido per tutti, ne deriva una diminuzione statistica dell'egoismo. Ma, se è vero che tale
egoismo caratterizza lo stato della società e che questa analisi spiega efficacemente un fatto sociale
(la diminuzione del tasso di suicidio) mediante un altro fatto (la diminuzione dell'egoismo), è vero
anche che la relazione tra le due variabili sociali è il prodotto di un dato 'psicologico': non è
possibile restare ripiegati su se stessi in un periodo di crisi politica intensa. Contro i suoi stessi
principî, in questo caso Durkheim spiega un fatto sociale attraverso un fatto psichico e applica il
paradigma dell'individualismo metodologico.
3.1
L'obiezione storicistica
Un'obiezione frequentemente rivolta all'individualismo metodologico è che la metodologia
che esso propone ignora un punto essenziale, vale a dire che l'individualismo è una caratteristica
inerente alle società moderne: solo in queste società l'individuo sarebbe dotato di un'autonomia tale
da poter essere considerato l'atomo dell'analisi sociologica.
Che il livello dell'individualismo muti secondo le società, e che sia maggiore nelle società
moderne, è certo. Per fare un esempio significativo, è senz'altro vero che l'individuo godeva di
maggiore autonomia nelle società di tradizione liberale che nei regimi 'socialisti' dell'Europa
orientale che sono crollati l'uno dopo l'altro. Questo non significa però in alcun modo che in questi
due casi l'analisi sociologica debba seguire principî diversi.
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La situazione è analoga qualora si mettano a raffronto le società arcaiche con quelle
moderne: è vero che nel primo caso l'orizzonte dell'individuo si limita a un villaggio, nel secondo si
estende al pianeta. Differenze di ogni genere distinguono la situazione e il campo d'azione e di
percezione del soggetto sociale nei due casi, e tuttavia non ne risulta che il comportamento del
soggetto risponda a principî diversi.
In realtà ci si può chiedere se questa obiezione non derivi da quello che Piaget (v., 1965)
chiama "sociocentrismo": non abbiamo alcuna difficoltà a credere che i soggetti delle società
'socialiste' dell'Europa orientale siano simili a quelli dell'Europa occidentale, e che siano soltanto
collocati in campi sociali strutturati differentemente. Invece, nel caso di soggetti delle società
'arcaiche', questi ci sembrano appartenere a mondi così lontani dal nostro che ne ricaviamo
facilmente l'impressione che essi siano per se stessi diversi da noi.
Più in particolare, l'obiezione storicistica è fondata su un''iperbole' filosofica: si crede spesso
che la grande varietà delle forme di società implichi la liquidazione di un concetto classico, quello
di natura umana. In realtà non è così: se non esistessero principî di comportamento comuni a tutti i
soggetti sociali e indipendenti dal campo sociale nel quale essi si trovano, non sarebbe possibile
comprendere come due attori collocati in campi diversi possano capirsi tra loro.In verità, sarebbe
facile citare molti esempi che mostrano come il paradigma dell'individualismo metodologico
conduca, anche nel caso delle società arcaiche, a spiegazioni più soddisfacenti di quelle dei
paradigmi d'ispirazione storicistica. Ci si è chiesti spesso perché le società contadine tradizionali
dell'Asia o dell'Africa adottino le loro decisioni collettive all'unanimità. La spiegazione corrente
consiste nell'affermare che la nozione di individuo sarebbe una categoria applicabile solo alle
società moderne: i membri di queste società contadine non si considerano come individui autonomi,
ma come parti di un tutto, la comunità. Questa spiegazione arbitraria e puramente verbale può
essere vantaggiosamente sostituita da una teoria come l'individualismo metodologico (v., per
esempio, Popkin, 1979): in generale, queste società contadine sono società che vivono in un sistema
economico di sussistenza, dove tutti sono poveri, anche se alcuni lo sono meno di altri, e sono
comunque società di dimensioni ridotte. Questi dati strutturali fanno sì che il solo sistema che ha
qualche possibilità di essere considerato legittimo è quello in grado di garantire a ciascuno che non
dovrà subire conseguenze negative da una decisione collettiva: nelle società di questo tipo la
soppressione del diritto di spigolatura, per esempio, rappresenterebbe un pericolo mortale per i più
poveri. La sola protezione efficace contro gli effetti 'esterni' delle decisioni collettive consiste
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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pertanto nell'accordare a ciascuno un diritto di veto su queste decisioni, adottando, in altri termini,
una costituzione che preveda l'unanimità per le decisioni collettive. D'altra parte, basta osservare
che il diritto di veto e le decisioni adottate all'unanimità sono due facce della stessa medaglia, per
valutare quanto d'arbitrario vi sia nell'affermare che questo tipo di regola costituzionale comporta
una dissoluzione dell'individuo nel gruppo.
3.2
L'obiezione strutturalistica
Raramente l'obiezione strutturalistica è espressa in modo esplicito. Essa muove da una
sfiducia di principio nell'idea che le scienze sociali possano interessarsi ai contenuti di coscienza
degli individui senza andare contro la loro vocazione: le ragioni che gli individui danno delle
proprie azioni sono sempre 'false', le ragioni degli attori sociali sono sempre 'razionalizzazioni', ecc.
L'influenza del marxismo e del freudismo ha contribuito a rafforzare notevolmente questa
concezione, soprattutto negli anni sessanta e settanta, quando tanti sociologi sembravano convinti
che queste due correnti di pensiero costituissero l''orizzonte insuperabile' delle scienze umane. Ma
anche numerosi sociologi che non si richiamano né a Marx né a Freud, e neppure a Durkheim,
considerano ovvio che le 'ragioni' delle azioni e delle credenze degli individui non abbiano alcun
posto nell'analisi sociologica, in quanto sarebbero sempre ingannevoli. In queste condizioni si è
legittimati a cancellare l'individuo dall'analisi sociologica o a interpretare i suoi stati soggettivi, le
sue dichiarazioni, ecc. come pure e semplici illusioni.
Questa 'teoria', che fa della 'falsa coscienza' lo stato normale della coscienza, appare oggi
così curiosa che i suoi stessi sostenitori ne prendono le distanze. In realtà, come tutti i luoghi
comuni, questa nozione di 'falsa coscienza' poggia su casi molto concreti; diventa inaccettabile solo
quando viene utilizzata in modo iperbolico. Ricordiamo un esempio già citato: poiché le
motivazioni dei banchetti funebri si sono perse nella notte dei tempi, normalmente il soggetto tende
a 'razionalizzare' questa semi-istituzione, a trovarvi delle motivazioni fittizie e, infine, ad attribuire
il proprio comportamento a motivazioni ingannevoli. Questo esempio mostra che, in alcuni casi, le
ragioni del proprio comportamento date dal soggetto possono essere false; non dimostra,
evidentemente, che lo siano in ogni caso. È appunto su questa iperbole che poggia tutto lo
strutturalismo.
Se si adotta l'impostazione della presente analisi, si comprende più facilmente anche il
motivo per cui lo strutturalismo ha tentato di accreditare la tesi secondo cui la linguistica - o, più
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esattamente, la fonologia strutturale - sarebbe la regina delle scienze: i comportamenti linguistici,
soprattutto nella loro dimensione fonologica, sono largamente inconsci e il soggetto ignora
completamente le ragioni per cui associa un certo significato a un certo fonema. (Osserviamo
incidentalmente che il successo folgorante, ma circoscritto nel tempo e nello spazio, dello
strutturalismo è legato anche al fatto che, tentando di fondare la liquidazione del soggetto su basi
filosofiche, esso ritrovava, a suo modo, l'ideale oggettivistico del positivismo: per questo motivo lo
strutturalismo per alcuni anni è potuto passare per un movimento di pensiero che era riuscito a dare
alle scienze umane uno statuto scientifico).
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4 L'individualismo nella sociologia moderna
Gli anni ottanta saranno forse visti a posteriori come gli anni della maturità delle scienze
sociali. Nel corso degli anni sessanta e settanta 'grandi teorie' di ogni tipo - strutturalismo, teorie
neomarxiste, neofreudiane, ecc. - hanno occupato di volta in volta il primo posto; la maggior parte
dei sociologi riteneva che una teoria generale facile da cogliere nei suoi principî potesse spiegare il
mondo e servire da guida al proprio lavoro. Questo dogmatismo appare oggi sostituito da un saggio
scetticismo: non esistono teorie sociologiche generali, ma solo teorie parziali, non vi sono
paradigmi miracolosi, ma solo paradigmi più o meno utili ed efficaci.
Questo atteggiamento crea condizioni favorevoli perché il paradigma dell'individualismo
metodologico sia considerato nel suo giusto valore. In effetti l'individualismo metodologico non
costituisce in alcun modo una teoria generale, ma solo un paradigma, cioè un complesso di precetti
e di principî: considerare ogni fenomeno sociale come il prodotto di azioni, atteggiamenti o
credenze individuali (quando ciò sia possibile), tentare di ritrovare il senso di questi atteggiamenti,
azioni o credenze, e (quando ciò sia possibile) assimilare l'oscura e difficile nozione di 'senso' a
quella di 'ragioni'. In realtà, in molti casi, cogliere il senso di un'azione significa comprenderne le
'ragioni'. Detto questo, bisogna però tener presente che l'attore sociale stesso può avere una
percezione sbagliata delle proprie ragioni e che non vi è alcuna contraddizione nel supporre che tali
ragioni siano talvolta inconscie.
In breve, anche se l'individualismo metodologico in generale presuppone, sulla scia di autori
come Weber e Popper, che l'attore sociale debba essere considerato come 'razionale', non
presuppone però in alcun modo la trasparenza della coscienza. D'altra parte, esso ammette che le
ragioni dell'attore possono essere buone, senza per questo essere oggettivamente buone: insomma,
l'individualismo metodologico implica una concezione complessa della razionalità.Un altro punto
che occorre sottolineare è che l'individualismo metodologico conduce a una concezione della
sociologia in cui questa appare aperta verso le altre scienze umane. La concezione complessa della
razionalità implicita nell'individualismo metodologico istituisce dei collegamenti tra sociologia e
psicologia. Il fatto che esso consideri le 'strutture' non come realtà in sé, ma come parametri che
caratterizzano il campo sociale in cui si muovono dei soggetti dotati di autonomia, riavvicina anche
sociologia e storia, e consente al sociologo di ritrovare il senso della contingenza senza che ciò gli
sembri in contraddizione con l'ideale scientifico della sua disciplina. Pur utilizzando una teoria più
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semplice della razionalità, anche l'economista segue in generale il paradigma dell'individualismo
metodologico: sociologia ed economia appaiono allora complementari.
Si può fare un altro passo avanti e chiedersi se il paradigma dell'individualismo
metodologico, nonostante la sua 'sobrietà', non abbia una forte carica rivoluzionaria: quando tutte le
scienze umane avranno assimilato i suoi principî e compreso la sua importanza, i confini che le
dividono diventeranno più facili da superare (v. Dogan e Pahre, 1991).
Sia ben chiaro: tutto questo non significa affatto una dissoluzione delle singole scienze
sociali, ma solo una modifica dei loro rapporti in direzione di un arricchimento reciproco. Ho
cercato in altra sede (v. Boudon, 1990) di mostrare che la teoria durkheimiana della magia
rappresenta un contributo scientifico di primaria importanza. In contrasto con le tesi che Durkheim
sostiene nei suoi testi dottrinari, tale teoria s'inserisce perfettamente nel quadro dell'individualismo
metodologico. Essa è completamente astorica e, in questo senso, si differenzia per la sua stessa
natura dai lavori prodotti dagli storici sul fenomeno della magia. E tuttavia essa è perfettamente
utilizzabile da parte dello storico: in effetti, i migliori lavori degli storici moderni della magia (cfr.,
per esempio, K. Thomas, Religion and the decline of magic, Harmondsworth 1973) possono essere
visti come applicazioni, come parametrizzazioni di questa teoria a-storica.
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5 Bibliografia
 Boudon, R., Individualisme et holisme dans les sciences sociales, in Sur l'individualisme (a
cura di P. Birnbaum e J. Leca), Paris 1986, pp. 45-59.
 Boudon, R., L'art de se persuader, Paris 1990.
 Dogan, M., Pahre, R., La marginalité créatrice: fragmentation et croisement des sciences
sociales, Paris 1991.
 Douglas, J., The social meanings of the suicide, Princeton, N.J., 1967.
 Durkheim, É.,Le suicide, Paris 1897 (tr. it.: Il suicidio, Torino 1969).
 Hayek, F.A. von, The counter-revolution of science: studies on the abuse of reason,
Glencoe, Ill., 1952 (tr. it.: L'abuso della ragione, Firenze 1967).
 Israel, J., The principle of methodological individualism and Marxian epistemology, in
"Acta sociologica", 1971, XIV, 3, pp. 145-150.
 Menger, C., Untersuchungen über die Methoden der Sozialwissenschaften und der
politischen Ökonomie insbesondere, Leipzig 1883.
 Pareto, V., Trattato di sociologia generale, Firenze 1916.
 Piaget, J., Études sociologiques, Genève-Paris 1965 (tr. it.: Studi sociologici, Milano 1989).
 Popkin, S.L., The rational peasant: the political economy of rural society in Vietnam,
Berkeley, Cal., 1979.
 Popper, K.R., The poverty of historicism, London 1957 (tr. it.: Miseria dello storicismo,
Milano 1975²).
 Simmel, G., Die Probleme der Geschichtsphilosophie, Leipzig 1892 (tr. it.: Problemi di
filosofia della storia, Genova 1989).
 Tarde, G., Les lois de l'imitation, Paris 1890.
 Vierkandt, A.,Die Stetigkeit im Kulturwandel, Leipzig 1908.
 Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922 (tr. it.: Economia e società, Milano
1968).
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Davide Sparti: Teorie dell’azione, teorie dell’attore:
i paradigmi di orientamento individualistico
Tratto da: D. Sparti, Epistemologia delle scienze sociali, Bologna, Il Mulino, 2002 (ed.
digit.: 2010, doi: 10.978.8815/145987, Capitolo terzo: Teorie dell’azione, teorie dell’attore: i
paradigmi di orientamento individualistico, pp. 97-141, doi capitolo: 10.1401/9788815145987/c3)
6 Sfondo storico e premesse teoriche
6.1
Introduzione
Ci accingiamo adesso ad esaminare un insieme di paradigmi il cui elemento
epistemologicamente unificante è dato dal cosiddetto individualismo metodologico. I presupposti
dell’individualismo metodologico sono i seguenti: i) l’unità di analisi fondamentale delle scienze
sociali è l’azione intenzionale di attori individuali razionali o autointeressati; ii) tutti i fenomeni
sociali (incluse le istituzioni, le organizzazioni ed i movimenti collettivi) sono spiegabili nei termini
delle regole di composizione/aggregazione degli esiti delle scelte individuali[1]. Benché tutti e tre i
paradigmi presentati difendano una concezione dell’attore come contrassegnato da una forte activeness, vedremo i diversi modi in cui la teoria dell’azione può essere concepita a secondo che si
accentui l’atteggiamento naturalista (teoria della scelta razionale) o quello più marcatamente
ermeneutico (intenzionalismo). Storicamente è nel corso del secondo dopoguerra che il dibattito
epistemologico sulla natura della conoscenza e della spiegazione storica (di cui il capitolo
precedente ha ricostruito alcuni aspetti) è venuto a convergere con la discussione, sviluppatasi
nell’ambito della filosofia analitica dell’azione, sul carattere intenzionale o causale dell’agire
umano (e della spiegazione che esso richiede). In questo scenario si inserisce un ventaglio di opere
di larga risonanza: nel 1957 il filosofo della mente Elizabeth Anscombe pubblica Intention, testo
che propone un’analisi di parole del linguaggio comune come «azione», «intenzione», «causa»,
introducendo la cruciale distinzione fra la descrizione di eventi naturali e le molte e variegate
descrizioni di azioni intenzionali, spiegabili, secondo la Anscombe, con il ricorso al modello del
sillogismo pratico. Lo stesso anno, nel contesto limitrofo della filosofia della storia, esce Laws and
Explanations in History di William Dray, una drastica contestazione delle tesi naturalistiche di
Hempel sulle leggi storiche. Nel 1958 escono altre due opere di carattere antinaturalistico: The
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Concept of Motivation di R.S. Peters e, nel dominio della filosofia delle scienze sociali, The Idea of
a Social Science and Its Relation to Philosophy del filosofo delle scienze sociali Peter Winch. Nel
1961 è la volta di Free Action di A.I. Melden, il quale applica la nozione wittgensteiniana di «gioco
linguistico» all’analisi dell’autonomia individuale. Nel 1964 Charles Taylor pubblica The
Explanation of Behavior, al tempo stesso un’assidua critica della psicologia comportamentista ed
una presentazione e difesa del concetto di spiegazione teleologica, ossia dell’idea che «dentro»
l’azione vi sia un ineliminabile elemento finalistico, intenzionale (secondo Taylor le azioni
incorporano sempre la caratterizzazione del loro titolare, e sono per ciò stesso inseparabili da una
connotazione soggettiva in termini di finalità, desideri ed intenzioni). Nel 1971, finalmente, esce
Explanation and Understanding di George Heinrich von Wright, vertice esemplare di tutto il
dibattito.
Ciò che unisce questo insieme di scritti di ispirazione neodualista («neo» in quanto si
sforzano, implicitamente o esplicitamente, di rinnovare il dualismo classico di matrice storicista e
weberiana) è il tentativo di respingere non solo l’impostazione epistemologica ma anche
l’atteggiamento del neopositivismo nei confronti delle scienze sociali. Lo scetticismo assunto dal
neopositivismo verso gli strumenti di conoscenza dei dualisti classici, pur valido in relazione a certe
procedure (come l’Einfühlung del giovane Dilthey), non sarebbe accettabile se riferito ad
un’impostazione meno speculativa e psicologistica. Partendo da un’apertura verso le scienze sociali
che non pregiudichi da un punto di vista metodologico l’esigenza di categorie concettuali e
strumenti di analisi rigorosi, un intero gruppo di studiosi ha cercato di rinnovare le indicazioni del
dualismo classico, sforzandosi di riformularne il progetto. Con parole di opportuno commento, Karl
Otto Apel [1986] ha invocato a questo proposito una nuova fase della Erklären-Verstehen
Kontroverse.
Il programma neodualista si articola intorno a due rivendicazioni fondamentali:
1.
La grammatica logica dell’azione comporta la sostituzione della domanda
causalista (perché è avvenuto x) e della domanda essenzialista (che cosa è x) a favore della
domanda semantica (cosa significa x per y).
2.
L’ineliminabilità della caratterizzazione intenzionale dell’agire umano ci
obbliga a riconoscere l’inadeguatezza dei modelli nomologici per l’analisi delle azioni. I
modelli nomologici sarebbero infatti applicabili soltanto ad alcuni domini specializzati e
ristretti, là dove il comportamento risulta fortemente strutturato – ad esempio da fattori
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fisiologici – o là dove il comportamento si esprime in uno spazio culturale controllato da
imperativi funzionali, come nel dominio della vita economica.
6.2
L’influsso di Wittgenstein
Cosa lega fra loro questi contributi al di là del comune atteggiamento antinaturalistico? Il
richiamo ad uno dei massimi filosofi del Novecento, il viennese Ludwig Wittgenstein (1889-1951).
Dalla concezione, dovuta all’ultimo Wittgenstein, del linguaggio come attività e del significato
come uso, sono influenzati più o meno direttamente tutti i neodualisti (la Anscombe e von Wright
sono addirittura due dei tre eredi testamentari del filosofo austriaco). Vediamo quali aspetti della
filosofia di Wittgenstein sono apparsi rilevanti a coloro che si impegnano nella riflessione analitica
sulle scienze umane e sociali.
Anzitutto è fondamentale cogliere il particolare taglio linguistico delle osservazioni di
Wittgenstein. Nel porsi domande sull’agire umano intenzionale Wittgenstein non sta elaborando
una teoria del comportamento, quanto sollevando domande di natura grammaticale: si sta chiedendo
cosa diciamo quando parliamo di «azione», «motivo» o «intenzione». Nel tracciare la distinzione
concettuale fra ciò che appartiene all’ordine delle cause e ciò che appartiene all’ordine delle ragioni,
ad esempio, Wittgenstein sta mettendo ordine nei nostri concetti, e lo sta facendo mostrandoci come
tali concetti vengono impiegati quotidianamente nel linguaggio ordinario per spiegare le condotte.
Estrarre tali espressioni dalla loro «casa» nel discorso ordinario e ricollocarle all’interno di teorie
scientifiche come termini tecnici è meno utile che non descrivere l’uso di tali espressioni nelle loro
molteplici situazioni di impiego.
Per apprezzare il contributo epistemologico di Wittgenstein è anche importante conoscere la
sua concezione sociale del linguaggio, in base alla quale il significato di un enunciato è dato dalle
sue condizioni di asseribilità giustificata. Wittgenstein si domanda non cosa rende un enunciato
vero, ma in quali circostanze sono autorizzato ad asserire che l’individuo I ha compreso come si usa
l’espressione o il concetto x. In altre parole, Wittgenstein compie il passaggio dall’interrogativo:
«che cosa deve darsi perché sia vero questo enunciato?» (interrogativo sulle condizioni di verità), al
nuovo interrogativo: «in quali contesti questo enunciato trova posto, ossia viene giustificatamente
descritto e ascritto come enunciato sensato?» (interrogativo sulle condizioni di asseribilità
giustificata) – e quindi ancora, per implicazione: «quale ruolo svolge nella nostra vita l’uso
dell’espressione x nelle varie occasioni in cui la si enuncia?».
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Prendiamo ad esempio l’espressione «paura». Specificare le condizioni di asseribilità di tale
espressione equivale ad identificare i giochi linguistici – le circostanze ed i contesti – in cui i
membri della comunità C possono legittimamente ascrivere l’espressione «ha paura» all’individuo
I. Ora, Wittgenstein sembra assumere che tale legittimità derivi in buona misura dai giochi
linguistici praticati nella comunità linguistica di riferimento. Come attore parlerò sensatamente se
corrisponderò agli usi che in quella comunità vengono riconosciuti come legittimi, ossia se la mia
asserzione costituisce la mossa in un gioco. Esprimendo il punto al negativo: senza una forma di
vita nella quale è significativo e rilevante per i membri di C il dire di qualcuno «ha paura»,
l’espressione non verrebbe usata. E senza i giochi linguistici al cui interno gli usi dell’espressione
«paura» vengono declinati in mosse appropriate, non si potrebbero distinguere i modi sensati da
quelli insensati di impiegare una parola.
Comprendere una parola (comprendere la parola e dunque il concetto di «paura») avrà allora
a che fare con il saper operare con tale parola – saperla padroneggiare nelle circostanze appropriate
–, non con il saperla definire, ossia con il sapere a cosa equivalga. Comprendere non è una qualità
intrinseca alla mente dell’attore ma un riconoscimento attribuito da altri in base alle risposte che
offro nel corso dei diversi giochi che pratico insieme a loro. Di più: gli stati mentali che
accompagnano le parole sono meno importanti degli usi e delle tecniche per padroneggiare le
parole. Se chiamo il signor Rossi per nome ed ho in mente l’immagine dei peperoni rossi che ho
cucinato, queste immagini sono irrilevanti ai fini del ruolo che il chiamare svolge nel gioco
linguistico del chiamare per nome. In modo analogo, per capire una pratica come il gioco degli
scacchi, la vita mentale del giocatore di scacchi è meno rilevante delle regole degli scacchi. Prova
ne sia che oggi una macchina può eseguire «mosse» scacchistiche proprio come un giocatore
umano, pur non avendo una vita mentale. Generalizzando, potremmo dire che per Wittgenstein
qualunque mossa – non solo quella scacchistica – ha significato solo all’interno di quel gruppo
disparato di pratiche o procedure sociolinguistiche disciplinate da regole (e quindi ordinate al loro
interno) denominate «giochi linguistici».
Ma cosa è esattamente un gioco linguistico? Il gioco linguistico di Wittgenstein è un
fenomeno sociale appreso mediante addestramento; è una forma di agire, ossia qualcosa che si fa;
ha molteplici usi (vi sono molti giochi[2]); ed è regolato. Sono queste le caratteristiche che
contraddistinguono i giochi linguistici, e che ci consentono di distinguere nettamente il concetto di
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gioco (linguistico) di Wittgenstein dai giochi strategici descritti dai seguaci della teoria della scelta
razionale, di cui parleremo nei prossimi paragrafi.
Partiamo dalla natura pragmatica del gioco linguistico. Il punto riguarda anzitutto il fatto che
l’uso del linguaggio avviene sempre in un contesto di attività e reazioni, ossia che senza una
comunità di soggetti i quali agiscano in modo comune non vi sarebbe linguaggio. Ma riguarda
anche il fondamentale nesso fra parlare un linguaggio e svolgere un’attività: «la parola gioco
linguistico è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di
un’attività, o di una forma di vita» [1967, sez. 23], ossia di una rete di interdipendenze e parentele
fra l’insieme di modi di dire e di fare di un raggruppamento umano. Il linguaggio è agire tanto nel
senso che fa agire, quanto nel senso che riposa sull’agire. In quello che si potrebbe chiamare
l’approccio non intellettualistico al linguaggio di Wittgenstein, sotto o dietro al linguaggio non vi
sono né caratteristiche logiche, né credenze o opinioni, ossia operazioni mentali. No, «è il nostro
agire che sta a fondamento del giuoco linguistico» [Wittgenstein 1990, sez. 204][3]. Pensare al
linguaggio come ad una forma di agire si riduce grosso modo alla tesi per cui stabilire il significato
di una parola equivale a descrivere i modi in cui ci avvaliamo di essa, ossia come tale parola viene
usata. La misura del significano delle parole, e dunque del loro senso e valore, è cioè saldata alla
loro capacità di generare effetti, di far lavorare. Quando ad esempio gli sposi dicono «sì» al
matrimonio non descrivono il proprio matrimonio: lo realizzano. E quanto detto del matrimonio
vale per molte altre formule cerimoniali quali il battesimo, le nomine ed in genere tutti quegli atti
che si realizzano mediante enunciati performativi, ossia enunciati che non riferiscono ma piuttosto
eseguono, o portano a compimento un determinato atto. Avere significato, allora, ha a che fare con
un tipo di efficacia pratica, ed il parlare ha efficacia soprattutto facendo agire. Questa prospettiva
aprirà un sentiero poi percorso dalla teoria di uno dei più significativi esponenti della filosofia
analitica inglese, J.L. Austin, teoria che considera il linguaggio dal punto di vista degli atti che nel
parlare compiamo. Parlando non ci limitiamo a descrivere uno stato di cose; eseguiamo un atto
(persino asserire o constatare qualcosa è fare un’asserzione). Ed i tipi di atti che possiamo eseguire
nel dire ciò che diciamo saranno molteplici (posso minacciare, pregare, raccomandarmi di...).
Ora, vi è una seconda possibilità di sviluppare il concetto di gioco linguistico: non solo
pensare il linguaggio come una forma di azione, ma analizzare l’agire come un linguaggio.
Quest’ultima impostazione ci riporta alla concezione sociale del linguaggio di Wittgenstein, ed al
legame fra comprendere e condizioni di asseribilità: per comprendere un atto dobbiamo conoscere e
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descrivere le relazioni sociali in cui esso entra e viene usato. Se azioni ed atti linguistici non
possono concepirsi che come riferiti a contesti determinati, li comprenderemo bene quando
corrispondiamo agli usi che il contesto comunicativo riconosce come legittimi. Sotto questo profilo
capire un gioco linguistico è come diventare membri di una nuova, o più ampia, comunità
linguistica.
Quanto detto fin qui rappresenta lo sfondo per un complesso di filoni che pongono la
questione dell’attore e dell’azione al centro dell’indagine sociale. La questione unificante i
paradigmi individualisti che ci apprestiamo a discutere può essere desunta dalla risposta alle
seguenti domande: chi stabilisce o come si determina il confine di riferimento – la fonte –
dell’azione? L’attore partecipante, i co-agenti o l’osservatore esterno? Per i fautori della teoria
dell’azione la risposta va cercata nell’attore individuale. Questa è l’indicazione riscontrabile nei tre
paradigmi inclusi nell’orientamento in considerazione. Essi sono l’intenzionalismo, la teoria della
scelta razionale (rational choice theory) e la psicologia sociale cognitiva (social cognition). Pur
evidenziando delle affinità epistemologiche di fondo, i tre paradigmi non sono tutti sullo stesso
piano, poiché scaturiscono – e si costituiscono – dal confronto con problemi diversi.
L’intenzionalismo nasce nel contesto della filosofia analitica del linguaggio e si configura come
analisi grammaticale dei modi con cui ci riferiamo all’azione, come analisi dei giochi linguistici con
cui caratterizziamo l’azione in termini di intenzioni e ragioni. La teoria economicistica della scelta
razionale emerge in America come teoria delle decisioni (come microsociologia empirica) ed è
volta ad indagare il comportamento dell’attore che sceglie. Più in particolare, essa cerca di ridefinire
la razionalità come scelta dei mezzi più idonei per soddisfare delle preferenze (ed in questo senso è
concepibile senza forzature come una formalizzazione ed applicazione empirica del modello
intenzionalista). La psicologia sociale cognitiva, infine, sorta insieme al più generale indirizzo
cognitivistico in psicologia (un indirizzo che si propone di indagare le funzioni interne dell’uomo in
stretta connessione con l’idea informatica della mente come elaboratrice di informazioni), riguarda i
modi con cui si tende quotidianamente – in maniera preteorica o comunque non sistematica (e per
questo detta anche folk psychology o psicologia ingenua, popolare) – a rappresentare
cognitivamente le informazioni sul comportamento sociale proprio e altrui.
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7 Modello di riferimento: l’intenzionalismo
7.1
Il concetto di intenzionalità
Intenzionalità è termine introdotto dal filosofo Franz Brentano e successivamente ripreso dal
fenomenologo Edmund Husserl. Indica una caratteristica o proprietà di certi stati mentali, quella di
rivolgersi a, o di dirigersi verso un riferimento esterno (benché il riferimento sia esterno
l’intenzionalità come proprietà è interna allo stato mentale). È esemplificata linguisticamente da
enunciati come «Maria vuole che» o «crede che», ed identifica l’aspetto psicologico primario di
ogni rapporto di instaurazione fra soggetto e mondo, riferendosi al modo in cui quest’ultimo viene
preso in una relazione che lo rende dotato di senso per noi. La parola intenzione, invece, deriva dal
latino intentio, di matrice scolastica, e si riferisce ad una categoria più ristretta (la categoria di chi
agisce secondo intenzione), designando gli atti che facciamo capitare piuttosto che quelli che ci
capita di subire. Studiata in ambito epistemologico ed analitico, tale categoria esprime l’esigenza di
caratterizzare le azioni come consapevolmente guidate.
Questo agire secondo intenzioni è prontamente esemplificabile dalla differenza che sussiste
fra due eventi estensionalmente equivalenti ma descritti – e dunque caratterizzati – in due modi
diversi: lo sbattere delle palpebre e lo strizzare l’occhio. Un secondo esempio è il seguente: mentre
scrivo a macchina, sto creando al tempo stesso degli spostamenti d’aria, sto alzando il tasso di
rumore nell’ambiente circostante, sto consumando il nastro, ma ciò nondimeno quel che
propriamente faccio va descritto come scrivere una poesia. È questa assenza di ogni elemento di
casualità (ma anche di necessità naturale), ossia l’idea che le azioni vadano descritte come frutto
della capacità umana di intendere e valutare situazioni, che caratterizza la definizione di agire
intenzionale. In breve, un’azione è intelligibile quando nell’osservarla l’osservatore attribuisce uno
scopo all’attore (nell’ambito della più ampia gamma di attività e progetti che riconosce come propri
del soggetto agente). Potremmo anche esprimere il punto così: la spiegazione intenzionale è
autoesplicativa poiché l’agire viene spiegato senza bisogno di riferirsi ad elementi esterni all’azione
stessa. L’intenzionalismo nasce proprio per postulare o inserire un principio di elaborazione attiva
fra le condizioni esterne (determinismo strutturale o naturale) e le azioni individuali. Da dove
provengono gli scopi che attribuiamo alle azioni? Nessuna teoria dell’azione può fare a meno di
postulare un soggetto intenzionante.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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L’analisi intenzionalista delle azioni non si limita a rilevare un elemento teleologico insito
nella grammatica logica dell’azione. Immaginiamo di scoprire che un nostro conoscente compie
escursioni in bicicletta ogni domenica mattina all’alba. Ci domandiamo perché si alzi così presto
per fare un giro in bicicletta. Forse perché è salutare? Tale ipotesi (e la spiegazione ad essa sottesa),
pur accettabile nella vita pratica, tralascia di esplicitare alcune premesse concettuali. Non si tratta
solo del fatto che andare in bicicletta sia salutare, ma che lui crede o ritiene che lo sia; che desidera
compiere azioni che siano benefiche (e forse crede anche che l’andare in bicicletta non pregiudichi
la possibilità di compiere altre azioni che siano salutari). Più esattamente, la credenza indica lo stato
soggettivo o la convinzione stabile che si contrappone al dubbio ma che rimane inferiore allo stato
di certezza. Nella sua forma proposizionale si esprime attraverso enunciati della forma «x crede che
p». Con riferimento alla teoria dell’azione, la credenza indica l’elemento cognitivo di valutazione di
una situazione (le informazioni acquisite sulle circostanze dell’azione). Desiderio indica invece
l’atteggiamento favorevole o volizionale che può costituire la forza trainante dell’agire.
Ora, l’idea che si interpreti l’agire combinando l’assegnazione di una forza trainante o
motrice (poiché l’attore desidera o è motivato da qualcosa) con la credenza che, agendo in quel
certo modo, tale desiderio sarà realizzato (una credenza che assolve la funzione strumentale di
raffigurare il miglior modo di soddisfare il desiderio), pone la nozione di intenzione al centro
dell’analisi dell’azione. L’atteggiamento favorevole e la credenza connessa costituiscono la
condizione soggettiva – la si può chiamane anche ragione – di un’azione. Si badi, non occorre
dimostrare che l’attore sia consapevole delle sue intenzioni – sarà sufficiente mostrare che vi erano
ragioni per agire. Diremo allora che le intenzioni offrono sia una ragione per l’azione che
l’opportunità di spiegarla.
7.2
La differenza fra azioni e non azioni
Uno dei presupposti teorici fondamentali degli intenzionalisti è la differenza fra azioni ed
eventi (naturali). La firma di un contratto è un’azione e non un evento naturale, in quanto
presuppone l’attribuzione di intenzioni ed è inquadrabile in rapporto a regole sociali. Il movimento
sul foglio possiamo anche consideralo un evento naturale, ma ai fini della comprensione del
significato di tale evento dovremmo necessariamente ridescrivere l’evento come la conclusione di
un affare, giacché tale è il suo valore in quel contesto. Il lettore ricorderà che per i fautori del
modello nomologico la connessione tra eventi costituisce una relazione deduttiva o induttiva tra
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causa ed effetto, che questa relazione è generalizzabile in virtù della costanza della congiunzione tra
causa ed effetto, che il risultato di tale generalizzazione è un nesso nomico o legge, e che le cause
traggono il loro potere esplicativo dal fatto che si collegano ai loro effetti per mezzo di tale legge. Il
punto cruciale, secondo gli intenzionalisti, è che nel modello di Hempel si confondono le azioni
vere e proprie con atti o eventi di altro genere: movimenti essenzialmente fisico-meccanici (lo
starnutire, il digerire, lo sbattere le palpebre); eventi o processi che semplicemente ci capitano
(l’invecchiare); reazioni meccaniche a certi stimoli (i movimenti indotti da scariche elettriche).
Questi atti o eventi hanno in effetti una natura nomologica; tuttavia, si tratta di eventi i quali, non
entrando nella grammatica logica dell’agire, non acquisiscono neppure il carattere di azioni. Come
sottolinea von Wright [1980, 37], «non esiste una categoria generica di “azione” all’interno della
quale “intenzionale” e “non intenzionale” indicano due specie. L’azione è essenzialmente “azione
intenzionale”».
Insistiamo su questo punto. Non solo uno e lo stesso insieme di movimenti fisici può
confermare tipi completamente differenti di azioni (una danza, un segnale, un’esercitazione), ma un
medesimo tipo di azione può trovare attuazione o implementazione attraverso una gamma assai
variegata di movimenti fisici. Possiamo infatti interpretare come messaggio d’amore l’invio di fiori,
una dichiarazione scritta o una confessione a voce. Il mero scuotere la testa (ma con diverse
attribuzioni di intenzioni in diverse circostanze) può infrangere una promessa o mantenerla, può
significare la rinuncia ad un’eredità, l’insulto ad un amico, l’esecuzione di un comando, il
commettere tradimento. È in virtù del ruolo dell’attribuzione di intenzionalità nella costituzione dei
fenomeni sociali che vale il principio per cui non vi è alcun limite fisico a ciò che può contare come
questa o quell’azione. Ma non basta. Dal fatto che le azioni possono assumere un numero indefinito
di forme fisiche segue una conseguenza anti-riduzionistica ed antinomologica. Se ciascuna azione
può essere realizzata in modi diversi, essa può produrre un numero imprecisabile di configurazioni
di stimolo sul nostro sistema nervoso, e sarebbe pertanto un vero miracolo se questi innumerevoli
stimoli producessero esattamente lo spesso effetto neurofisiologico sul comportamento [cfr. Searle
1987, 69]. Lo stesso punto può essere espresso infine così: alla massima naturalista «stessa causa,
stesso effetto», in ambito intenzionalista si contrappone la massima «stessa causa, diversi effetti;
diverse cause, stesso effetto». Si consideri ancora un esempio: se ogni atto di «firmare un assegno»
è svolto in modo diverso, dato che la firma non è mai uguale a se stessa (varia per forma,
dimensione, colore dell’inchiostro, movimento del braccio ecc.), l’atto dovrebbe essere descritto
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come connesso a diverse cause fisiche e dunque anche a diverse leggi fisiche, e questo eliminerebbe
la possibilità di descrivere in modo univoco l’evento «firmare l’assegno». Ma ciò è assurdo.
7.3
L’argomento della connessione logica
Cosa rende il modello intenzionalista un efficace modello esplicativo? L’ipotesi che
l’intenzione porti all’esecuzione dell’azione. È necessario infatti distinguere fra intenzioni e
intenzioni che inducono all’azione. Possiamo immaginare che diversi coniugi desiderino liberarsi
del proprio marito o della propria moglie, ma di solito non passano all’azione. Si tratta adesso di
chiarire in che modo le intenzioni richiamerebbero l’azione, ossia quale sia la natura della relazione
di determinazione.
Partiamo da una considerazione. L’intenzione, come termine convenzionale senza il quale
l’azione non può essere (logicamente) pensata, fa parte dell’azione osservata, allo stesso modo in
cui l’uso delle regole grammaticali è parte insopprimibile del parlare. Non possiamo nemmeno
descrivere un desiderio senza chiamare in scena una credenza sulle circostanze in cui quel desiderio
potrebbe essere soddisfatto, così come – secondo gli intenzionalisti – non possiamo descrivere
azioni senza far implicito riferimento alle loro premesse: intenzioni, desideri e credenze. Solo se
ricostruiamo una connessione interna fra il fine intenzionato (l’elemento volizionale), la valutazione
della situazione in cui realizzare il fine (l’elemento cognitivo) e l’atto, solo allora possiamo spiegare
l’atto medesimo. Tale considerazione solleva immediatamente una questione ulteriore: come
possiamo dimostrare la cogenza delle intenzioni, ossia il fatto che proprio quelle ascritte
dall’osservatore sono le intenzioni rilevanti ai fini dell’azione? Per i naturalisti il problema è risolto
appellandosi alla nozione di antecedente causale dell’azione, ma una causa, per definizione, è
associata di necessità al suo effetto, mentre intenzioni e azioni sono fra loro concatenate in modo
inferenziale, non estrinseco e necessario. Il nesso fra intenzione ed azione non è cioè più stretto di
una semplice connessione logica. Riportando il cosiddetto argomento della connessione logica
(logical connection argument, secondo il nome datogli dal filosofo statunitense Frederick
Stoutland), la relazione fra l’aspetto volizionale-cognitivo e l’azione non è di tipo associativo, non
ha nulla a che fare con la connessione causale e legiforme che può esservi fra due eventi naturali,
ma è di tipo interno o logico, nel senso che poggia sulla plausibilità, per un osservatore, della
compenetrazione concettuale colta fra i vari elementi.
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Il medesimo punto può essere espresso usando non il termine «intenzione» bensì quello di
ragione. Mentre il rapporto fra ragioni e intenzioni è simmetrico, quello fra ragioni e desideri non lo
è. Posso ad esempio desiderare intensamente di possedere una nuova bicicletta anche se non ho
alcuna ragione (o quantomeno nessuna buona ragione) per acquistarla. Nondimeno, al pari delle
intenzioni, le ragioni fanno parte della grammatica logica con la quale comprendiamo e spieghiamo
le azioni. Torniamo all’argomento della connessione logica.
Le ragioni, in quanto intenzionali, sono sempre ragioni per (nel senso che non si può
formulare una ragione senza formulare ciò per cui essa è una ragione). Ora, il «per» privilegiato
delle ragioni è l’agire: le ragioni si riferiscono all’atto che realizzano e spiegano, mentre – ecco il
punto – l’evento che è una causa non si riferisce al suo effetto (il vulcano non ha ragioni per
eruttare). Perciò le ragioni non possono essere cause. Se è innegabile che le ragioni hanno un
contenuto come loro parte logicamente inseparabile, non per questo implicano necessariamente
l’aver luogo dell’azione rappresentata (come farebbe la causa con il suo effetto). Non è possibile
dedurre sistematicamente che il braccio si solleverà solo perché si ritiene che l’attore abbia una
ragione che rappresenta, come proprio contenuto, il sollevarsi del braccio.
Può essere utile illustrare il punto in questione affidandosi ad un chiarimento di Peter Winch
[1972, 102]
Supponiamo che N, un professore universitario, dica che rinuncerà alle lezioni della
prossima settimana poiché intende fare un viaggio a Londra. Qui abbiamo la specifica di
un’intenzione di cui viene data la ragione. Ora N inferisce la sua intenzione di rinunciare alle sue
lezioni dal suo desiderio di andare a Londra, come l’imminente rottura del vetro potrebbe venire
inferita o dal fatto che qualcuno ha lanciato un sasso o dalla fragilità del vetro? N non fornisce la
ragione in questione come evidenza della correttezza della sua previsione circa il suo
comportamento futuro [...]. Egli cerca piuttosto di giustificare la sua intenzione. La sua asserzione
non ha la forma «essendo presenti questi e questi fatti causali ci sarà questo risultato»; e nemmeno
la forma «io ho questa disposizione che farà sì che io agisca in questo modo»; è invece della forma
«in vista di queste e queste considerazioni, questa è la cosa ragionevole da farsi».
Chiarito che per gli intenzionalisti la relazione esplicativa non diventa causale, si tratta ora
di sottolineare come essa non sia nemmeno casuale: le intenzioni attribuite debbono essere cogenti
(debbono provocare l’azione), perché altrimenti sarebbe aleatorio che quando l’attore intenda
alzare il braccio si sollevi proprio il braccio e non la gamba. D’altra parte il «meccanismo» o i nessi
della catena fra intenzioni ed azioni sono di tipo motivazionale, non causale, nel senso che
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esprimono la relazione ricostruita fra desideri e credenze unitariamente raggruppate sotto
un’intenzione. La stessa validità del modello di spiegazione intenzionalista è garantita dal fatto che
l’azione e le sue intenzioni costituiscono, dal punto di vista di un osservatore, rispettivamente la
conclusione e la premessa di un’inferenza pratica. Diremo, più esattamente ancora, che il valore
inferenziale del modello intenzionalista è dato dal fatto che l’intenzione assegnata impegna (benché
non obblighi) l’attore ad agire.
Può essere utile concludere l’esposizione con un esempio [cfr. von Wright 1971].
Prendiamo il celebre caso dell’assassinio dell’arciduca austriaco a Sarajevo nel luglio del 1914. In
questo caso i legami che hanno portato all’incidente ed allo scoppio della guerra sono ricostruibili
come una catena non di cause (si tratta di eventi logicamente interdipendenti), ma di intenzioni che
portano alla guerra: da una parte imputiamo agli Asburgo l’aspirazione di estendere l’influenza
austriaca nei Balcani – che rappresenta una delle mire della politica austriaca. Dall’altra osserviamo
l’azione. Ora, sposando l’argomento della connessione logica, l’intenzionalista sostiene che le mire
della politica austriaca costituiscono la premessa (intenzionale) per l’emissione dell’ultimatum,
azione la quale, a sua volta, congiuntamente con una valutazione della nuova situazione venutasi a
creare con l’incidente di Sarajevo, costituisce la premessa intenzionale ulteriore per l’azione di
mobilitazione dell’esercito, fino a far scattare l’evento finale: lo scoppio della guerra.
7.4
Le intenzioni come vocabolario
Sono più d’uno i rilievi critici che possono essere mossi al modello intenzionalista. Ad
esempio, la relazione fra lo scopo, che nella mente dell’attore viene rappresentato come desiderio o
fine, da una parte, e i mezzi e le condizioni, dall’altra, va pensata non come genericamente possibile
ma come socialmente perseguibile, ossia viable, perché l’attore può ragionevolmente aspettarsi che,
in quelle date circostanze, il nesso che ha ipotizzato sarà effettivo. Se questa premessa è plausibile,
allora l’intenzionalismo finisce per presupporre proprio quel contesto istituzionale che vorrebbe
spiegare, poiché sarà proprio il contesto ha condurre l’attore alla selezione dei fini perseguibili.
Come hanno sottolineato in altra sede neo-istituzionalisti quali Douglass North, le istituzioni
delimitano ambiti ristretti di scelte possibili, favorendo così gli attori nelle loro operazioni di
determinazione dei fini, individuazione delle alternative, e scelta.
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Il più fondamentale fra i rilievi critici deriva tuttavia da una ambiguità intrinseca alla
discussione sulle intenzioni (e sulle ragioni): da una parte tali concetti vengono presentati e discussi
(più correttamente, a mio parere) come elementi costituenti la grammatica logica con cui l’agire
viene pensato e descritto. Dall’altra i concetti di intenzione, ragione, motivo, credenza vengono
presentati come determinanti empirici dell’agire. L’idea, in questo secondo caso, è la seguente:
l’aspetto saliente dell’agire sarebbe dovuto alla circostanza che l’attore sa di agire, e sa anche cosa
sta facendo mentre agisce, potendo dire a se stesso e ad altri – quale sia la sua intenzione nel
compiere quel tipo di azione. L’azione sarebbe dunque accompagnata da un’intenzione durante tutta
l’esperienza del suo svolgersi. Per questo l’agente conosce la risposta alla domanda: «che cosa stai
facendo in questo momento?». Da linguaggio logico dell’agire la teoria dell’azione diventa
applicazione empirica.
Ora, nei confronti di questa seconda interpretazione dell’intenzionalità non mancano
obiezioni. Si può ad esempio indicare la circostanza che non sempre le ragioni dichiarate dall’attore
coincidono con le ragioni attribuitegli da un gruppo di osservatori. L’indagine dell’agire sociale va
ben al di là delle intenzioni, perché molti eventi emergono come effetto non intenzionale di più
azioni individuali, o perché i motivi sono mascherati e dunque invisibili all’attore (per ragioni
patologiche o semplicemente perché emergenti da uno sfondo preriflessivo di capacità pratiche).
Seguendo l’interpretazione empirica dell’intenzionalità, anche il comportamento «discrasico», cioè
contrario alla razionalità, diventa una sorta di stupefacente ed inspiegabile patologia (si pensi ad
esempio all’azione del mangiare troppo: essa esprime al tempo stesso un desiderio di azione ed un
desiderio di astensione). Ma ciò che sorprende ancora di più, da un punto di vista filosofico, è la
presunta eredità di Wittgenstein.
Nell’opera di Wittgenstein è certamente possibile reperire la tesi per cui la grammatica del
linguaggio mediante la quale descriviamo le azioni si presenta in due logiche o due giochi
linguistici diversi: quello delle cause, ossia delle regole che presiedono alla ridescrizione di un
evento come conseguenza di un evento precedente, e quello dei motivi, vale a dire quello delle
regole di descrizione che permettono di ritrascrivere e rendere comprensibile un evento nella
prospettiva di un atto intenzionale[6]. La circostanza che le azioni debbano essere spiegate facendo
riferimento al perché sono state compiute ha il limite di oscurare le differenti implicazioni che il
perché può assumere. Sia le ragioni sia le cause costituiscono delle risposte a un’unica domanda
relativa al perché qualcosa ha avuto luogo, e ciò è indubbiamente fuorviante, osserva Wittgenstein,
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dato che nel caso delle ragioni il perché non può essere chiarito indipendentemente dall’attribuzione
all’attore di certi scopi. Sulle intenzioni come molle o bersagli empirici dell’agire, tuttavia,
Wittgenstein non si è mai espresso. O meglio, si è espresso in un’ottica performativa: l’uso di
nozioni come intenzione, volontà, credenza, motivo, ragione, ci consente di pensare queste stesse
nozioni come forme dell’agire (al pari delle azioni che le intenzioni, presumibilmente, realizzano).
Dar ragione di un’azione è essa stessa un’attività, un atto linguistico ulteriore per dare senso e
giustificare le nostre azioni ad altri attori, per dare ad intendere la ragionevolezza o l’appropriatezza
di quanto fatto. Non l’intenzione dichiarata come premessa dell’azione caratterizzata da stati
cognitivi anticipativi, ma l’intenzione come modo di rendere sensato e di comunicare ad altri quanto
fatto o detto. È proprio lo studio del ruolo che l’intenzione occupa nel contesto in cui viene
comunicata (in un dato modo ad un determinato insieme di interlocutori) a suggerire come la
dichiarazione di intenzioni non sia tanto determinante interno dell’azione, quanto atteggiamento
assunto nei confronti delle azioni. In questo senso le intenzioni proclamate, gli atteggiamenti
intenzionali ed il sapere dichiarativo in genere – ribadiamolo ancora – non sono, come vuole
l’interpretazione empirica dell’intenzionalità, una guida al coordinamento o alla preparazione di
azioni, ma modi per unificare, razionalizzare e giustificare comportamenti compiuti o in atto
secondo criteri di accettabilità sociale.
7.5
L’impossibilità della comprensione intenzionale privata
Se accettiamo l’idea di alcuni intenzionalisti secondo cui il significato di ciò che un attore fa
o dice è determinato dalla sua comprensione privata di ciò che sta dicendo o facendo, ossia se
accettiamo che la regola deputata a precisare il significato di un atto è contenuta in via anticipata
nell’intenzione dell’attore, Wittgenstein [1967, sez. 232. Cfr. anche 188, 190-191, 197, 213, 232] ha
una pronta obiezione:
Supponi che una regola mi suggerisca il modo in cui devo seguirla; cioè, mentre seguo la
linea con lo sguardo una voce interiore mi dice: «tracciala così!» – Qual è la differenza fra questo
processo, del seguire una specie di ispirazione, e quello del seguire una regola? Infatti i due processi
non sono certo gli stessi. Nel caso dell’ispirazione mi aspetto la direttiva. Non potrei insegnare ad
un altro la mia «tecnica» del seguire la linea. A meno che non gli insegni un modo di autoascoltarsi, di sviluppare la propria recettività. Ma in questo caso non potrei, naturalmente,
pretendere che egli segua la linea come la seguo io.
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In altre parole, se la regola semantica fosse effettivamente una sorta di autocomprensione
data privatamente a me stesso, «come faccio a sapere in che modo debbo obbedirle? E come faccio
a sapere che non mi inganna? Perché se può guidarmi per la strada giusta, potrà anche portarmi su
una pista falsa» [ibidem, sez. 213].
Per stabilire il significato di un atto abbiamo bisogno di un criterio ulteriore rispetto
all’intenzione dichiarata dell’attore. Ebbene, nel caso di chi si affidasse alla sola intenzione
dichiarata tale criterio non sussisterebbe, perché corretto è ciò che apparirà sempre tale all’attore
(l’attore è sempre giustificato di fronte a se stesso), e questo vuol dire che non si può parlare di
correttezza, appunto perché nessun criterio può essere applicato in tali circostanze [cfr. Wittgenstein
1967; sezz. 239, 258, 262, 268, 289].
La sfida cui è sottoposto il sostenitore della tesi dell’intenzione privata è quella di
determinare il significato di un atto mostrando come una sua applicazione sbagliata possa essere
distinta dalla sua mancata comprensione o dall’esecuzione di un altro tipo di atto. E se una
distinzione tra questi casi non sussiste, allora non sussiste nemmeno un criterio di appropriatezza
per l’identificazione del tipo di azione. Ne deriva che le regole di un agire privato-intenzionale
sarebbero solo impressioni di regole, e la mia impressione di stare seguendo regole non può
consistere nel mio seguire effettivamente una regola, a meno che non si dia qualcosa che lo
stabilisca e che non sia un’ulteriore impressione o credenza, perché questo sarebbe come comprare
varie copie dello stesso giornale per assicurarsi che ciò che viene detto è vero [cfr. ibidem, sezz.
258, 265]. Le intenzioni dichiarate dall’attore sotto propria esclusiva regia, atti di riconoscimento
privati, non possono corroborarsi l’un l’altra. Il criterio dell’intendere qualcosa dev’essere un
criterio intersoggettivo.
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8 Modello di riferimento: il paradigma
economicistico
8.1
La teoria della scelta razionale
La teoria della scelta razionale, conosciuta anche come teoria dell’utilità soggettiva, o teoria
neoclassica dell’agente economico, si propone di rinnovare l’attenzione posta dall’utilitarismo
ottocentesco (formulato da Jeremy Bentham e John Stuart Mill) sui comuni denominatori per la
misurazione delle scelte umane soddisfacenti. Essa ha pertanto una matrice sostanzialmente
empirico-naturalistica ed è estranea a Wittgenstein. D’altra parte, la sua collocazione nell’ambito
delle teorie dell’azione è legittimata dal fatto che essa ha per oggetto il comportamento individuale
in condizioni di certezza, di rischio o di incertezza, condizioni variabili a seconda della completezza
delle informazioni di cui l’attore dispone su se stesso, sulle conseguenze prevedibili dei suoi atti e
sui vincoli ambientali esistenti. Quando l’attenzione è focalizzata sulle scelte e sulle loro
conseguenze in situazioni di incertezza dovuta ai vincoli imposti dall’ambiente si parla di teoria
delle decisioni; quando l’attenzione è invece rivolta alle condizioni imposte dalle scelte altrui si
parla di teoria dei giochi.
La teoria della scelta razionale si fonda su una grammatica minima dell’agire sociale e cerca
di spiegare le azioni umane sulla base di pochissimi elementi: le scelte dei migliori (o degli
ottimali) mezzi disponibili, date le credenze ed i desideri degli attori (o meglio, per dirla nei termini
più formalizzati della teoria: date le informazioni e le preferenze dell’attore), dato un universo di
scelte possibili (il cosiddetto feasible set), e dato anche un qualche criterio di scelta razionale
(quale, ad esempio, la massimizzazione dell’utilità), ossia data una regola decisionale da applicare
all’universo di scelte in modo tale che per ogni coppia di scelte possibili l’attore sappia scegliere
secondo preferenza. In pratica, l’attore viene rappresentato come un fascio di preferenze ordinate,
una riserva di informazioni complete ed accurate, ed un efficiente calcolatore interno. Si badi,
l’attore può avere qualunque tipo di preferenza, anche quella «altruistica» nei confronti della
solidarietà sociale e dell’amicizia. Ma poi farà sempre – invariabilmente – quello che massimizza
l’utilità attesa da tali preferenze. L’utilità attesa è calcolata per scegliere quale corso di azione
intraprendere, e non è altro che la somma delle utilità di ciascun possibile esito, meno la probabilità
che quell’esito non abbia luogo.
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In termini più tecnici, la teoria della scelta razionale compendia: a) un postulato di
razionalità individuale e autointeressata, b) un insieme di vincoli e opportunità ambientali, c) un
ordinamento di preferenze coerente con l’esigenza di soddisfare i desideri dell’attore, d) un
meccanismo che collega la razionalità individuale con: d1) le condizioni ambientali, per mezzo di
una costellazione di credenze da cui discendono i corsi di azione alternativi praticabili, d2) gli esiti
correlati a tali alternative, d3) una regola di decisione che, nella forma di un calcolo massimizzante,
permette la determinazione (e quindi la spiegazione) dell’esito finale della scelta individuale.
Lasciando da parte l’impostazione assiomatica della teoria ci rivolgiamo ora alla sua
articolazione esplicativa. Si parla di teoria della scelta razionale perché si assume che l’attore abbia
la capacità di misurare i suoi mezzi in rapporto ai suoi fini, così come i diversi fini fra loro, e quindi
sappia anche agire secondo tali fini o ragioni, facendo sì che essi causino l’azione. Si tratta di una
definizione molto ampia, ma che esclude comportamenti istintivi, convenzionali o consuetudinari.
L’apparato analitico della teoria è scarno, e si fonda epistemologicamente sugli assunti di
individualismo e di comportamento utilitario tipici della microeconomia in quanto disciplina
costituente un’esemplificazione del comportamento umano in senso lato. La teoria della scelta
razionale, in altre parole, condivide l’assunto atomistico di coloro che sono stati chiamati
individualisti metodologici (ne parleremo più diffusamente nell’excursus): gli elementi ultimi della
realtà – e dunque della scienza – sociale sono gli individui ed i collegamenti che fra questi si
vengono a stabilire secondo determinate leggi di composizione.
Nell’ambito di questo quadro, autori assai diversi fra loro quali gli scienziati sociali Thomas
C. Schelling, Jon Elster o James Coleman, il neoutilitarista John C. Harsanyi, gli economisti
Amartya Sen, Herbert Simon o Kenneth Arrow accolgono il paradigma economicista come la teoria
più appropriata per spiegare il comportamento sociale (non è questa la sede per evidenziare le
reciproche differenze fra tali autori, né per valutare la loro relativa fedeltà o infedeltà
all’impostazione economicistica).
8.2
L’immagine dell’attore e la logica dell’azione
Riflettiamo anzitutto sull’immagine dell’attore veicolata dalla teoria della scelta razionale.
Se pensiamo ad un grande centro commerciale, dal caffè al cinema, dalla libreria all’abbigliamento,
dai concerti ai medicinali, tutto si presenta come offerta di beni e servizi da acquistare e consumare.
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Individualismo metodologico e olismo
In quanto centrata sull’individuo spinto verso oggetti capaci di soddisfarlo, la teoria della scelta
razionale presume che le scelte non siano casuali ma, almeno dal punto di vista delle inferenze
compiute dall’osservatore, frutto di un ordinamento. Per questo l’attore è definito come insieme,
come bandolo (coerentemente strutturato) di preferenze (e credenze). L’utilitarismo ottocentesco si
fondava sui seguenti passaggi psicologistici: in primo luogo l’attore avverte una preferenza. Poi
considera il modo di estinguere la preferenza mediante un’azione; infine agisce cercando di
soddisfare la preferenza. La teoria neoutilitarista della scelta razionale si occupa invece delle
conseguenze o del prodotto delle scelte, senza sollevare la questione ulteriore della loro
provenienza. La teoria ha dunque il suo punto di partenza nelle scelte, non nelle preferenze.
Per esprimerci in altri termini: piuttosto che affrontare il problema di stabilire cosa significa
preferenza per ciascun attore, la teoria della scelta razionale si appella al risultato finale delle
preferenze, alle scelte esibite nel comportamento decisionale degli attori. Poiché vi deve essere
coincidenza stretta fra preferenze e scelte (altrimenti l’attore non potrebbe essere considerato
razionale), e poiché lo stesso attore coincide con il prodotto delle sue scelte, possiamo definire
l’immagine dell’attore quella di un’entità «piatta». Oltre ad essere tra loro strutturate, le preferenze
sono reputate stabili nel tempo. Le preferenze attribuite all’attore, in altre parole, sono durevoli e si
assume che non cambino nel periodo di osservazione considerato. Nell’immagine che ci restituisce
la teoria, siamo esseri fedeli alle nostre preferenze.
Passiamo adesso alla logica dell’azione. Il primo assunto è che ogni comportamento è volto
a massimizzare interessi. Si tratta di una caratteristica della razionalità umana; essa obbedisce alla
necessità di perseguire la soddisfazione delle preferenze, di compiere la migliore scelta nelle
circostanze date. La forza di tale assunto sta nel rendere autoevidente la nostra politica di attori
razionali: siamo naturalmente disposti a massimizzare ciò che desideriamo e a minimizzare ciò che
non vogliamo. In termini più precisi, se si assume che gli attori dispongono di un certo numero di
opzioni o corsi di azioni possibili, si dovrà immaginare una valutazione delle varie ipotizzabili
conseguenze delle opzioni. Oltre alle preferenze rivelate dalle scelte, l’attore è caratterizzato da un
certo insieme di credenze, intese tecnicamente come informazioni sulle circostanze o sui mezzi per
realizzare le preferenze (e non antropologicamente come «fede» verso determinati atteggiamenti
culturali quali, ad esempio, la solidarietà, la pace o il lavoro).
Il problema che si pone è il seguente: come avviene il confronto fra corsi di azioni possibili,
grazie a quali metriche? È a questo punto che interviene il concetto di utilità: esso serve per
assegnare un denominatore comune in termini di costi e benefici alle varie opzioni, considerandole
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come variabili cui si assegna un valore o un’intensità di preferenza lungo una scala di utilità.
Limitandosi ad esprimere l’economicità del rapporto costi/benefici, la funzione di utilità non ha un
senso psicologico (non misura ciò che ha valore per noi, o ciò che è ritenuto soggettivamente
importante) ma eminentemente economico, ossia esprime il criterio di valutazione di ciò che è
vantaggioso. Ordinate le opzioni secondo lo schema delle utilità anticipabili con il calcolo, l’attore
selezionerà l’azione più promettente, quella che massimizza la migliore conseguenza possibile (o, in
certi casi, minimizza la peggiore conseguenza possibile).
In sintesi, l’attore è definibile come attuatore di una politica di massimizzazione dell’utilità
fra ordini di preferenze. Tale politica è logicamente fondata sul calcolo della probabile utilità per
ciascun esito di azione. L’attore agisce come se assegnasse valore ai risultati delle proprie azioni,
distribuendoli lungo una scala di intervalli che consente di comparare i vari corsi di azione possibili.
Qualsiasi azione (o decisione di compierla), la cui probabilità di successo non è superata da quella
di una qualsiasi alternativa disponibile, sarà scelta. Mosso da questa razionalità strumentale o
calcolante, l’attore è dunque concepito essenzialmente come un principio di scelta.
8.3
Razionalità, giochi strategici e dilemma del prigioniero
Infine il terzo punto, relativo alla razionalità. In termini formali la razionalità si esprime
attraverso tre criteri o proprietà: la coerenza logica fra informazioni e preferenze (fra credenze e
fini), la transitività delle preferenze (ossia il fatto che se un attore preferisce A a B e B a C, allora
preferirà A a C), e la cogenza dell’azione effettivamente compiuta, vale a dire il fatto che l’azione
finalmente intrapresa scaturisce da preferenze. Dato che un’azione è razionale anzitutto in virtù
della relazione logicamente appropriata fra preferenze ed azioni (e dunque dimostra che, alla luce
delle preferenze, l’azione era la migliore cosa da farsi), da un punto di vista metodologico possiamo
giudicare la razionalità delle azioni confrontando fra loro le preferenze rivelate e la risposta effettiva
(l’azione compiuta) nella situazione data. Non solo: se accettiamo la premessa che il
comportamento di un attore tende a massimizzare i propri interessi, allora possiamo prevedere il suo
comportamento. Così, quando la previsione del comportamento dovesse venire meno, ciò sarà
dovuto non al fallimento dell’attore nel massimizzare i propri interessi ma piuttosto
all’incompletezza delle informazioni dell’osservatore sul contesto vincolante nel quale l’attore
opera. Herbert Simon per primo ha introdotto la nozione di una razionalità limitata (bounded
rationality) per descrivere l’impossibilità di un controllo esaustivo delle informazioni ambientali, un
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controllo che garantirebbe l’effettiva massimizzazione di interessi. Con la caduta del postulato delle
informazioni totalmente controllate ed il riconoscimento che le informazioni disponibili sono
distribuite asimmetricamente fra soggetti che le possono utilizzare a proprio vantaggio, si configura
il passaggio dalla teoria della scelta alle teorie delle decisioni e dei giochi.
Tali teorie prendono le mosse dalla seguente considerazione: i fattori che possono causare
un’alterazione della razionalità delle scelte sono soprattutto gli elementi esterni che incombono
sulla situazione nella quale si trova l’attore, elementi quali le scelte altrui, le conseguenze non
intenzionali risultanti dall’interdipendenza fra varie azioni, i vincoli ambientali. La teoria delle
decisioni si propone di spiegare come in situazioni di incertezza, ossia in situazioni nelle quali non è
possibile determinare con certezza le conseguenze delle proprie azioni – anche considerando il
costo legato alla determinazione della soglia entro la quale risulta conveniente continuare a
procurarsi informazioni al fine di effettuare una scelta ottimale,l’attore ricorre a criteri alternativi di
ottimizzazione. Tra questi, ad esempio, il principio della minima utilità, applicando il quale
sceglierà l’azione il cui esito peggiore è almeno altrettanto buono del peggiore esito possibile di
qualsiasi alternativa.
Più in particolare, la teoria delle decisioni distingue due tipi di ambienti in cui l’azione si
situa: l’ambiente parametrico, riferibile a proprietà fissate naturalmente (e dunque permeabili
all’azione), e l’ambiente strategico, relativo al rapporto tra le proprie azioni ed il ventaglio di
possibili azioni attribuibili agli altri attori coinvolti nell’interazione (a loro volta protesi a soddisfare
i propri interessi individuali). Espresso altrimenti, non sempre l’ambiente che delimita le alternative
di azione disponibili è di tipo parametrico, appunto indipendente dall’attore, fisso e predeterminato
nei parametri entro cui l’agire ha luogo. Altri attori entrano in scena, le mie scelte dipendono anche
da quelle che ritengo saranno le scelte altrui. È così che nascono i giochi strategici. La teoria dei
giochi è appunto un formalismo matematico che permette di modellare le interazioni strategiche. E
nel caso dell’ambiente strategico il vincolo è dato dalla previsione delle decisioni altrui; è cioè un
vincolo implicito nel calcolo del tipo di comportamento che ci si aspetta da altri attori, ed in base al
quale si cercherà di determinare la propria condotta.
Per designare il modo in cui gli attori, individualmente o fra loro coalizzati per raggiungere
obiettivi non conseguibili separatamente, agiscono in situazioni che variano al variare della strategia
implementata (implementata nel tentativo, più o meno opportunistico, di ottenere il massimo
possibile nella distribuzione dei risultati dell’azione cooperativa), i sostenitori della teoria della
scelta razionale hanno coniato invece la parola gioco – usando il termine in un senso molto più
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esteso di quello corrente, tanto che guerre, elezioni, scambi economici diventano, in questo quadro,
altrettanti giochi. Nell’ambito della teoria dei giochi una strategia corrisponde alla regola di
comportamento assunta durante lo svolgimento del gioco. Fra i vari problemi della teoria dei giochi
quello più affascinante ed anche più dibattuto è il cosiddetto «dilemma del prigioniero». Il dilemma
del prigioniero è un gioco non cooperativo che si basa sulle assunzioni circa la razionalità strategica
degli attori. Esso studia le scelte di massimizzazione di un attore posto di fronte ad altri attori aventi
scopi simmetrici ma antagonistici ai suoi, ed ha il suo fascino nel costituire una sorta di banco di
prova per cercare di spiegare come sia possibile il formarsi della società partendo dalle premesse
individualiste della teoria della scelta razionale. La socialità, da un punto di vista esplicativo, è
considerata dagli economicisti un prodotto di secondo ordine, un prodotto emergente dalla necessità
di adattamento e convivenza fra individui primariamente asociali. Di qui la tendenza a considerare
naturale l’egoismo e derivata – e dunque in dovere di essere spiegata – la cooperazione.
Immaginiamo di essere stati (noi stessi ed un nostro amico) arrestati con le chiavi inglesi fra
le mani nei pressi di una banca sottoposta a rapina. L’unica prova decisiva sarebbe la confessione
che la polizia potrebbe ottenere da uno di noi due. Letti i diritti costituzionali dei sospettati di reato,
l’astuto capo della polizia ci offre la seguente soluzione d’intesa: se nessuno dei due confesserà,
negando i fatti, saremo entrambi giudicati colpevoli per detenzione di attrezzi da scasso e
condannati a due anni di prigione. Se entrambi confessiamo, ci verrà inflitta una più severa pena di
cinque anni per furto intenzionale. Se, tuttavia, soltanto uno di noi due dovesse confessare, il
confessore – in virtù dell’ammissione – riceverebbe una riduzione della pena da cinque anni ad un
solo anno di detenzione, mentre l’altro sarebbe incriminato ad una condanna di dieci anni e recluso.
Prima ancora di poter comunicare veniamo bruscamente separati. A questo punto ciascun attore
deve decidere se confessare o meno.
Come attori razionali desideriamo, ovviamente, minimizzare la permanenza in carcere. Se
non confessiamo, ma l’altro confessa, non potremmo usufruire della riduzione ad un solo anno. Ci
rendiamo conto che per non confessare l’altro dovrebbe fidarsi di noi (la situazione è un po’ quella
dei film western in cui i due rivali debbono gettare i fucili contemporaneamente). Ma se non ci si
fida del fatto che l’altro (l’amico-rivale) si fida di noi, se non disponiamo della certezza che la
cooperazione non si spezzerà, allora conviene confessare puntando alla condanna più mite, ossia
massimizzando il minimo danno. Detto altrimenti, conviene ad entrambi tacere. Ma attenzione, se
l’altro dovesse confessare converrà anche a me farlo. Dunque confessare è la strategia migliore,
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qualunque cosa faccia l’altro. Così confessiamo entrambi ed il soddisfatto capo della polizia ci
imprigiona per un quinquennio.
Si potrebbe pensare che il trucco sia quello di aver tenuto i prigionieri separati. Ebbene,
diamo pure loro l’opportunità di organizzare una strategia comune. Possiamo essere certi che si
accorderanno per non confessare, ma siamo certi che staranno ai patti? Così – ecco la conclusione
del ragionamento – la soluzione più razionale è confessare. Il dilemma dimostra che, sulla base di
assunzioni individuali, è razionale per un attore non cooperare.
8.4
I paradossi della razionalità: scelte individuali, identità collettiva
Con il dilemma del prigioniero incontriamo un paradosso più generale, il cosiddetto
paradosso della razionalità collettiva (o meglio: del modello «dal-basso» di razionalità collettiva
proposto dagli economicisti). Gli attori scelgono razionalmente, selezionano la strategia che
massimizza i loro interessi, rispettano i requisiti imposti dalla teoria della scelta razionale, ma il
risultato – ecco il paradosso – configura un esito complessivamente solo subottimale, un esito che è
comunque per entrambi peggiore dell’esito cooperativo. Si consideri un altro caso di ordine
quotidiano, quello dei pendolari. Molti pendolari viaggiano più in fretta se vanno al lavoro in
automobile piuttosto che servirsi del treno o della corriera, ma se tutti vanno in macchina si viaggia
più lentamente. La razionalità individuale può produrre l’indesiderabile conseguenza di condurre ad
un’irrazionalità collettiva. Il mio bene non coincide necessariamente con il bene generale: se tutti
perseguono i propri interessi privati, nessuno li realizza.
Nel caso del dilemma del prigioniero gli attori preferirebbero l’esito cooperativo ma non
possono raggiungerlo razionalmente, attraverso il processo decisionale legittimato dalla teoria,
poiché è razionale per entrambi confessare. Per produrre un esito soddisfacente, il dilemma deve
presupporre o la fiducia che l’altro manterrà la parola (la certezza che l’altro non confesserà), o la
violazione della razionalità (evitando di massimizzare l’utile), e in entrambi i casi ciò
comporterebbe la negazione dei principi chiave del paradigma economicistico.
Se i fenomeni collettivi, come vuole la teoria della scelta razionale, sono perlopiù derivati,
secondari, come è possibile, su queste premesse, costruire la società? Ai seguaci della teoria spetta
chiarire come può essere abbassato il rischio della non cooperazione, stigmatizzato dal problema del
free riding (secondo la celebre espressione di Mancur Olson), che letteralmente significa «scroccare
la corsa», ma che in senso lato allude a chi usufruisce slealmente di un bene pubblico senza
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accollarsene i costi. Perché mai dovremmo disturbarci ad andare a votare in una serata fredda e
piovosa sapendo peraltro che vi sono assai poche probabilità che il singolo voto sia decisivo per
l’elezione del nostro candidato? Quale utilità produce il tempo speso ad informarsi sugli
orientamenti politici? Nel quadro della teoria della scelta razionale esso appare un costo del tutto
sproporzionato rispetto al beneficio individuale che dovrebbe produrre. E ancora: perché dovremmo
scioperare, pagare le tasse o raccogliere le feci del nostro cane nei parchi se possiamo disporre delle
conseguenze pubbliche (vantaggiose) senza sforzi di partecipazione? Si tratta di un quesito già
presente nel pensiero sociale ottocentesco, soprattutto nel padre della sociologia moderna, il citato
Émile Durkheim. Se gli attori fossero prevalentemente dei massimizzatori di utilità, ossia se
agissero perlopiù ottimizzando il proprio interesse individuale, sarebbe più razionale violare le
regole intersoggettive che obbedirvi, cosicché, partendo da questi presupposti, nessuno stipulerebbe
un contratto sociale «entrando» in società. Eppure, le solidarietà nazionali, quelle etniche e la
persistenza dell’istituto familiare sono fenomeni non solo assai diffusi ma che sembrano precedere
ed eccedere i rapporti di scambio fra individui egoistici. La risposta più tipica degli economicisti è
che un’adeguata combinazione di incentivi (ricompense) e di sanzioni genera – e dunque spiega –
l’effetto di cooperazione collettiva.
Questa, in fondo, era anche la risposta scaturente dalla riflessione politica espressa da
Hobbes nel Leviatano: per sottrarre l’uomo dallo stato di natura e rendere possibile un accordo, un
patto sociale, è necessario introdurre un terzo agente (il Leviatano) che distribuisca incentivi e
punisca i violatori del patto. Ma poiché una buona parte di noi non diserta le elezioni e non inquina
le aree verdi, ossia produce beni pubblici invece di scroccare la corsa, gli incentivi e le sanzioni non
sembrano essere risorse sufficienti per rendere conto delle ragioni della fiducia e per spiegare
l’esistenza della società.
Come prendere posizione di fronte a tali problemi? Una risposta ulteriore, la quale trascende
le risorse della teoria della scelta razionale poiché scorge il fondamento dei rapporti sociali non nel
semplice accordo fra soggetti che disegnano il tipo di società in cui preferirebbero vivere, ma nel
fenomeno collettivo dell’identità sociale, riconduce la cooperazione alla solidarietà del gruppo cui
l’attore appartiene. L’identità, espressione di una determinata struttura di affiliazione sociale
(etnica, linguistica, religiosa, professionale), va presupposta prima delle scelte. Probabilmente il
seguace della teoria della scelta razionale pretenderebbe una spiegazione del perché gli attori
massimizzino l’identità, e di quale sia il vantaggio di agire secondo solidarietà. Perché,
insisterebbero, dovremmo assumerci l’onere di trasmettere e rinforzare norme collettive attraverso il
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processo di socializzazione? Come si spiega il «costo» di azioni persuasive quali quelle svolte dai
genitori nei confronti dei figli o degli intellettuali nei confronti dei movimenti e, più in generale,
quale «premio» si riceve dal processo comunicativo?
Per rispondere ai teorici della scelta razionale, si potrebbe far notare come la trasgressione
della rete di relazioni interpersonali comporti la sottrazione di identità sociale, ossia la fuoriuscita
dalla propria cerchia di riferimento, la perdita di coloro i quali, condividendo i nostri criteri di
valutazione, prestano un riconoscimento a ciò che siamo e a ciò che facciamo. Se non estendiamo la
rete di relazioni sociali nella quale siamo presi, se ci asteniamo dalla partecipazione, non solo la
nostra reputazione viene minacciata; lo è la nostra stessa identità sociale. Ecco il valore della
solidarietà e della partecipazione al processo comunicativo: quello di garantire l’assegnazione
reciproca di identità. Allora il vincolo del free riding semplicemente non ha luogo perché la stessa
partecipazione al processo comunicativo diventa un fine. Se proprio volessimo mantenerci fedeli al
vocabolario economicistico, cercando di arricchire radicalmente il modello epistemologico che lo
sostiene, potremmo esprimerci così: il «vantaggio» o la convenienza della solidarietà è quello di
mantenere, o formare nuove, identità sociali. Nessuna relazione sociale riposa sul solo calcolo
razionale, bensì presuppone una fiducia o solidarietà preesistente, fondata sul reciproco
riconoscimento di un’identità comune (lo stesso dilemma del prigioniero ha messo in luce come la
condizione di possibilità per la soluzione dei giochi strategici e di coordinamento sta nella
conoscenza di quello che l’altro farà, la quale dipende a sua volta dalla conoscenza delle loro
preferenze, nonché dalle informazioni sulla situazione: un attore può essere razionale solo se è
socialmente informato). Lungi dal poter derivare la società da un confronto fra individui razionali,
ogni contratto si fonda sull’esistenza di un elemento precontrattuale che lo precede e lo istituisce. Il
requisito implicito che la teoria della scelta razionale deve soddisfare per spiegare l’agire sociale è
una teoria indipendente dalla scelta, una teoria della cooperazione, della fiducia e dell’identità
sociale.
8.5
Scelte di primo e secondo livello
Oltre a questa osservazione di fondo, alla teoria della scelta razionale si possono muovere –
in forza di alcune sue ambiguità – delle critiche «interne». Un primo limite è legato al realismo
implicito nell’assunto di razionalità. La conoscenza assume la forma esclusiva di «informazioni»
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che debbono essere raccolte ed elaborate. L’idea è che, benché possano esserci lacune in tali
processi di acquisizione, l’informazione come tale è disponibile, non ambigua, oggettiva e vera. Ma
l’informazione non è un insieme di contenuti oggettivi che vengono trasferiti dall’ambiente
all’organismo, quanto il prodotto di una particolare selezione, la quale dipende a sua volta da una
teoria implicita.
Un secondo limite è collegato ad un’immagine troppo astratta e semplificata dell’agire.
L’agire non esprime solo ragioni o preferenze. Nell’agire decisionale ci domandiamo non soltanto
cosa vogliamo ma anche chi siamo (o chi vogliamo essere). È il caso di introdurre un elemento
spesso assente nel modello di azione professato dai seguaci della teoria della scelta razionale: la
riflessività, ossia la capacità di riconsiderare l’ordinamento delle proprie preferenze, ponendosi la
domanda relativa al tipo di preferenze che dovremmo avere. Nell’ambito della teoria il problema
della provenienza delle preferenze e della loro intrinseca razionalità (che non è la razionalità della
scelta susseguente ad una determinata dotazione di preferenze) è affrontato in due modi.
Disinteressandosene, ossia considerando le preferenze una realtà data e dunque razionale per
definizione, o considerando le preferenze stesse qualcosa di scelto razionalmente mediante
metapreferenze. Le metapreferenze, secondo Harry Frankfurt ed Amartya Sen, che hanno proposto
il termine (e a cui si deve una profonda revisione dell’immagine più ortodossa dell’agente
economico), rappresentano un secondo livello teorico, introdotto per dare conto della possibilità di
giudicare la razionalità delle preferenze. L’accento cade più sulla capacità di deliberare fra ordini di
preferenze che non sulla loro massimizzazione.
Pur suggestiva, questa seconda soluzione è stata oggetto di correzione da parte di Charles
Taylor [1985]. Taylor ha riconosciuto che vi sono preferenze (desideri di fare o non fare una cosa) e
metapreferenze, tuttavia ha anche sottolineato come queste ultime corrispondano non a scelte
quanto piuttosto ad atteggiamenti che riflettono un progetto di identità personale. Con le preferenze
l’attore si limita a compiere una valutazione debole, centrata sul calcolo di vantaggi e svantaggi,
ossia sull’abilità di concepire diverse possibilità di azione e di calcolare come realizzarle e di
scegliere tra esse. In questo caso l’attore si contraddistingue per il suo potere di pianificare. In virtù
del suo progetto di identità personale, il soggetto compie invece delle «valutazioni forti». In quanto
persone di un tipo per cui ha senso porsi la questione della vita che vogliamo vivere, noi ordiniamo
le preferenze tenendo conto del posto che occupano nel contesto complessivo del nostro progetto di
identità. Io faccio x perché nel mio modello di vita e nel mio vocabolario di valorizzazioni x è
importante; desidero essere un certo tipo, quel certo tipo di persona. A questo punto cade la
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necessità della coincidenza stretta fra preferenze e scelte, e dunque anche della transitività (che in
assenza di tale coincidenza non può più essere imposta): stante la mia valutazione forte, scelgo di
abbandonare il mio lavoro, dannoso per l’ambiente, anche se per ragioni economiche preferirei
conservarlo (valutazione debole). Se la teoria della scelta razionale illustra la gamma di scelte
possibili, essa non affronta il problema eticamente rilevante del cosa scegliere, e della
consapevolezza che nasce per aver optato in modo giusto. Non il risultato, ma la qualità o il valore
della preferenza appare decisiva. Se siamo esseri a cui le cose importano, l’operazione di scelta –
secondo Taylor – non può venire disgiunta dalla nozione di identità personale, perché questa è
definita dalle nostre valorizzazioni fondamentali, e viceversa: noi coincidiamo con le nostre
valorizzazioni fondamentali.
8.6
La variabile tempo e l’abuso della funzione di utilità
Un ulteriore problema è che molti requisiti della teoria della scelta razionale (ad esempio la
massimizzazione dell’utile, la transitività delle preferenze) appaiono non tanto caratteristiche
descrittive quanto modelli ideali o prescrizioni di ciò che dovrebbe significare essere agenti
razionali. Di fronte ad una persona che al ristorante un giorno ordina carne perché la preferisce al
pesce ed alle verdure, ed il mese dopo ordina solo verdure perché diventata vegetariana – violando
uno dei principi della razionalità dell’azione: il principio della transitività delle preferenze –, il
sostenitore della teoria della scelta razionale appare costretto a giudicare irrazionale la sua azione.
Ma essa non è necessariamente tale, possono essere mutate le finalità dell’attore. Nessun
comportamento riflette inesorabilmente una politica di scelte costanti. Nel tempo le preferenze e le
funzioni di utilità possono essere riconsiderate, fino al punto di diventare fra loro incommensurabili
in quanto riferibili a diverse identità soggettive (il carnivoro ed il vegetariano). Che tale circostanza
costituisca un problema, lo si può desumere dal seguente fatto: nell’ambito della teoria della scelta
razionale, non sembra esservi modo di distinguere tra slittamento temporale delle preferenze ed
irrazionalità.
Più in generale, il problema può essere posto mediante la seguente domanda: cosa ci
permette di confidare sulla durata nel tempo delle nostre preferenze, quella durata che deve essere
presupposta affinché le scelte siano non solo mie ma anche razionalmente calcolate? Il presupposto
della transitività è valido solo se si assume la condizione della durata nel tempo: solo se i criteri di
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ordinamento in uno schema di priorità delle scelte restano identici a se stessi. Certo, noi ora
abbiamo un profilo di preferenze determinato, quel profilo che presiede al calcolo delle
conseguenze delle nostre scelte. Ma questo non esclude che in futuro possa cambiare (a meno di
non postulare una vocazione irriducibile o una situazione socialmente molto vincolante).
Per poter pensare che quando le conseguenze avranno luogo l’attore avrà gli stessi criteri di
valutazione, la teoria dovrebbe disporre di tre certezze. La prima è la certezza sull’ambiente
circostante l’attore. La seconda è la certezza sulla durata del soggetto stesso: come sarà, e come
saranno le sue preferenze in futuro? Ed i criteri di valutazione delle sue scelte? Infine la certezza sul
contesto che assegna valore alle scelte del soggetto, ossia la certezza sulla cerchia insieme alla quale
compie le sue scelte. Poiché non è dimostrabile che si disponga delle informazioni sufficienti su tali
circostanze, la teoria incontra un limite di applicazione ed è costretta a contraddire i propri assunti
metodologici. Facciamo un esempio. Supponiamo di dover intraprendere una scelta di lungo
periodo, la scelta della nostra professione. In primo luogo, come del resto afferma anche la teoria,
non potrei nemmeno scegliere di fare il medico se non credessi di restare lo stesso tipo di persona,
quel tipo di persona per cui, ad esempio, aiutare il prossimo ha valore. Ma si consideri. Se nel mio
gruppo, o nella società in cui opero, fare il medico dovesse diventare disonorevole, moralmente e
finanziariamente, se dovesse cambiare la classificazione del prestigio delle professioni, allora le mie
azioni e le mie preferenze cambierebbero significato. È vero che si tende a non rinnegare le scelte
compiute, tuttavia, nel caso di un simile cambiamento, la nostra identità di portatori di preferenze
muta, e non è dimostrabile che si posseggano endogenamente i requisiti per anticipare il calcolo
delle conseguenze. Di più: l’esempio illustra come le utilità non sono usufruibili senza
riconoscimento sociale. Persino il semplice scambio economico implica il riconoscimento del
valore del bene che l’altro porta. La valuta con la quale si calcolano le scelte deve essere
scambiabile, deve avere corso (almeno entro un certo ambito).
Ritorniamo allo stesso punto di approdo anche seguendo una via diversa. Immaginiamo di
accingerci a spiegare le scelte reiterando la domanda «perché hai scelto così?» (perché hai deciso di
abbandonare gli studi e di gestire un’agenzia immobiliare?). Potremmo ricevere, in prima istanza,
una risposta del seguente tipo: «perché provo soddisfazione a guadagnare denaro». Ebbene, «perché
provi soddisfazione a guadagnare denaro?», insistiamo noi. «Perché posso acquistare cose
prestigiose», risponde il nostro interlocutore. D’accordo, «prestigiose per chi?». «Per quelli come
noi». Ecco che a questo punto incontriamo una risposta che trascende il modello della scelta
razionale e chiama in causa la cerchia sociale che condivide l’assegnazione di valore a scelte ed
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oggetti, la cerchia a cui l’interrogato appartiene (o vuole appartenere in quanto persona di un certo
tipo). Se questa conclusione è legittima, allora i processi di massimizzazione degli interessi non
solo non hanno propriamente luogo al di fuori di quel riconoscimento intersoggettivo che assegna
valore al calcolo di utilità, ma variano secondo le diverse identità collettive che li sostengono. E se
si considera che la funzione di utilità non solo è soggetta a variazioni temporali, ma dipende
necessariamente da altri attori che riconoscono qualcosa come valevole, bisognerà concludere che
senza un’indagine sul riconoscimento sociale dell’identità la teoria della scelta razionale non ci dà
la chiave per determinare quale sia, nei vari contesti, l’identità del soggetto d’azione cui le scelte
vanno fatte risalire. Si tratta della sua identità professionale? Ideologica? Familiare?
Infine, il concetto di utilità ha una sua intrinseca fragilità teorica. Pur dilatandone
l’applicazione, non è dimostrabile che ci si sposa, prega o si crede in Allah (per non fare che pochi
esempi) per massimizzare qualcosa o comunque per acquisire un qualche vantaggio personale.
Pensare tali condotte come volte alla massimizzazione di qualche utilità è tuttavia profondamente
controintuitivo. Il caso dell’amore è un primo esempio: quando amo e rispetto qualcuno, mi sta
generalmente a cuore la sua vita. Ora, sarebbe controintuitivo affermare che le azioni che svolgo per
prendermi cura della persona che amo sono compiute per soddisfare una preferenza (un po’ come lo
sarebbe affermare che il neonato esprime una preferenza per il seno della madre).
Un secondo esempio è dato dal rito. Il rito non è caratterizzabile nei termini di una relazione
esplicitamente strumentale: è un’azione priva di scopo (ma non certo priva di senso). Per spiegare
anche il rito nel quadro utilitaristico bisognerebbe generalizzare il concetto di utilità fino al punto di
renderlo compatibile con ogni possibile azione (per molti fautori della teoria della scelta razionale
l’utilità coincide semplicemente con la soddisfazione degli interessi, qualunque questi siano), nel
qual caso il concetto assumerebbe il contorno inconfutabile della tautologia: qualunque azione
l’attore compie, massimizza qualcosa. Così definita, l’utilità diventa inservibile, perché non ha più
alcuna rilevanza specifica come variabile esplicativa.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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9 Modello di riferimento: il paradigma cognitivo
9.1
La «social cognition»
Sviluppatasi in seguito alla rivoluzione cognitiva in psicologia, la social cognition
corrisponde ad un indirizzo della psicologia sociale volto a studiare l’attore umano come ricercatore
di coerenza ed osservatore «ingenuo» delle condotte altrui. Anch’essa, al pari della teoria della
scelta razionale, ha avuto uno sviluppo epistemologico relativamente indipendente dalle fonti
classiche presentate nei primi due capitoli di questo libro. Dati i problemi che la social cognition
solleva e discute, e data la sua affinità concettuale con gli altri approcci compresi nelle teorie
dell’azione, si è tuttavia ritenuto utile presentarla in questo capitolo.
Il modello di comprensione umana della teoria della cognizione sociale, come molti modelli
cognitivisti, è un modello rappresentazionalista, essendo basato sull’idea che ogni atto sociale fa
parte di uno schema implicito o esplicito, corrispondente al modo in cui gli attori si rappresentano la
(loro) comprensione (o parziale comprensione) del mondo sociale. Il lettore potrà cogliere delle
affinità fra cognitivismo e intenzionalismo. Ma si noti la differenza. Mentre l’intenzionalismo
spiega l’azione mediante le ragioni attribuibili all’attore, le teorie cognitive assegnano priorità alla
ricostruzione dei processi cognitivi di organizzazione e rappresentazione della conoscenza, senza
preoccuparsi di chiarire come l’attore traduca tali processi in scelte comportamentali, ossia senza
spiegare l’azione. Prima ancora di spiegare l’azione, i cognitivisti reputano rilevante ricostruire i
modi in cui la conoscenza del mondo sociale è rappresentata, memorizzata e riattivata allo scopo di
catturarne gli aspetti durevoli e stabili di ordine cognitivo. Di più: il comportamento non è
nemmeno oggetto di spiegazione ma fonte di informazione da incorporare negli schemi. Si tratta di
una prospettiva propriamente cognitiva in quanto implica che il compito dell’osservatore sia quello
di capire come individui e gruppi elaborino le informazioni nell’ambito di un certo contesto sociale.
Ciò presuppone una immagine dell’attore sociale come elaboratore di informazioni. La metafora
dell’uomo come macchina, caricata di determinate regole, è mutuata dalle scienze computazionali, e
fornisce alla psicologia sociale un modello di interpretazione dell’attore basato sulla nozione di
«schema cognitivo». L’uomo, si assume, organizza la propria esperienza secondo un’attività di
categorizzazione volta a selezionare e semplificare ciò che percepisce. La premessa epistemologica
è che l’azione umana è governata da piani e scripts, e che attraverso la manipolazione di simboli e
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lo sviluppo di rappresentazioni gli individui sono in grado di eseguire azioni e interazioni
intelligenti.
Quanto detto può essere espresso anche così: sia ciò che facciamo agendo, sia il nostro
modo di pensare e di vedere il mondo, sono basati su schemi cognitivi messi a punto e collaudati da
noi stessi nel corso del nostro sviluppo, e resi via via più adatti e più duttili. Tali schemi cognitivi o
teorie interne servono non solo e non tanto a percepire, o riconoscere, o ricordare, quanto
propriamente a schematizzare, ossia a dare forma unitaria e struttura all’esperienza e a ciò che
incontriamo (oggetti, eventi, individui). Sono gli schemi a rendere possibile l’identificazione e la
rappresentazione – fondata su esperienze passate e orientata da aspettative future – delle
componenti costitutive della vita sociale, a partire da quella particolare componente che è
l’individuo stesso.
Stando alle ricerche sperimentali sulla self-perception, ad esempio nel condurre la nostra
vita quotidiana procediamo portando un particolare schema di noi stessi. All’attività di scegliere
quello che vogliamo fare si accompagna un’attività di autodefinizione che precede ed influenza la
nostre scelte. Detta attività si appoggia ad una struttura organizzata in tre componenti, le tre
componenti principali dello schema di sé.
La tendenza alla specificità, ossia la capacità di differenziarsi, di concepirsi come distinti da
altri attori. Si consideri il caso di uno studente meridionale. Seguendo l’indicazione citata, se questi
sarà inserito in un gruppo di persone omogenee (per nazionalità, posizione sociale, o ruolo – se è
collocato fra italiani, poniamo), tenderà a percepirsi e presentarsi come meridionale; ma se sarà
collocato fra meridionali, allora tenderà a percepirsi e presentarsi come studente. La percezione
saliente è quella differenziale.
a)
La propensione a rappresentarsi come coerenti nel tempo, nel senso che,
come vuole il postulato della coerenza interna, tendiamo a selezionare dalla memoria del
passato quegli episodi che percepiamo come coerenti con la nostra identità presente.
b)
La capacità di provare stima di sé, fortemente legata al fenomeno
dell’asimmetria attributiva o attributional egotism, ossia la tendenza ad ascriversi il credito
(e dunque a sovrastimare l’attribuzione della responsabilità personale) per i buoni risultati e
a respingere il biasimo per i cattivi (attribuendolo a cause situazionali esterne). Si tratta, in
parole diverse, della tendenza a selezionare automaticamente (senza un’esplicita preferenza)
gli atti ed eventi che contribuiscono ad accrescere la nostra autostima (self-esteem).
In breve, lo schema cognitivo di sé esemplifica non soltanto un meccanismo
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egodifensivo, vale a dire protettivo dell’identità personale, ma una tendenza alla costanza
omeostatica: noi siamo soddisfatti non quando incorporiamo qualcosa dal mondo esterno
(quando soddisfiamo un desiderio) ma quando qualcosa ci appare internamente coerente e
distintiva. Poiché la maggior parte dei modelli cognitivi fanno riferimento alla nozione di
schema, si tratta ora di chiarire meglio come questo opera.
9.2
«Scripts» e «frames»
Fra i vari schemi discussi dalle scienze cognitive, i più noti sono gli scripts o copioni,
postulati dalla script processing theory di R.C. Schanck e R.P. Abelson, ed i frames, introdotti dalla
frame theory.
Prima di trovare applicazione nelle scienze cognitive e nelle computer sciences [cfr. Minsky
1989], la nozione di frame, come vedremo, è stata introdotta negli anni Cinquanta e Sessanta
dall’antropologo Gregory Bateson (1904-1980) e dal sociologo Erving Goffman (1922-1982).
L’idea è questa: nell’affrontare una situazione o anche solo un segmento di eventi (uno strip), ogni
attore si pone implicitamente il quesito: «che cosa sta succedendo qui?», ossia l’inquadra come
situazione di un certo tipo. Il frame è precisamente quella cornice cognitiva che rende intelligibile
un flusso di atti ponendovi, appunto, una cornice attorno. A teatro, quando si rappresenta l’Amleto,
gli spettatori che operano un corretto framing della situazione non corrono a chiamare la polizia nel
momento in cui il protagonista pensa di suicidarsi: sanno che è una rappresentazione, una
rappresentazione sostenuta da un frame portato via dagli applausi al cadere del sipario. Nel campo
della social cognition, come vedremo, il frame ha una connotazione simile ma più circoscritta.
Affinché una situazione possa essere compresa, sottolineano i seguaci della social cognition,
essa deve essere ricostruita alla luce di certi schemi cognitivi, ossia deve poter essere rappresentata
in una struttura di conoscenze preesistente. Tale comprensione avviene in due modi: l’uno
categoriale o strutturale, ossia per classificazione spaziale, come suggerisce la frame theory; l’altro
teleologico, ossia tramite l’inserimento di eventi ed episodi in una sequenza temporale-procedurale,
come indica la script processing theory. Già Alfred Schutz, lo si chiarirà nei paragrafi dedicati
all’orientamento situazionista, aveva notato il ruolo dei costrutti generalizzanti: essi servono per
categorizzare gli eventi tipici o stereotipati di una situazione, trascurando quelli marginali. Nelle
azioni abituali della vita quotidiana applichiamo questi costrutti come fossero delle ricette da
seguire [cfr. Schutz 1979, 21]. Un breve accenno ad un esperimento sulla cognizione tendenziosa
(biased cognition) aiuterà il lettore ad apprezzare l’uso della nozione di schema. A due gruppi viene
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presentato il filmato di una ragazza impegnata in ordinarie attività quotidiane. Al primo gruppo
viene detto che la ragazza è cameriera, al secondo che è bibliotecaria. Benché le informazioni visive
siano le stesse, per effetto delle diverse istruzioni ricevute sul contesto, i due gruppi percepiscono e
ricordano il materiale in modo nettamente differenziato, differenziato in base al ruolo attribuito alla
protagonista del filmato. In un caso scorgono uniformi, attrazione per la televisione e per i lavori
domestici, nell’altro uno stile legato alla vita di studio, una preferenza per i libri e per gli eventi
culturali esterni. La teoria degli schemi fornisce una plausibile interpretazione dell’esperimento,
riconducendo a due distinte codifiche le differenze di comportamento percepito. Un caso ulteriore è
rappresentato dagli stereotipi, ad esempio sessuali o lavorativi. Al di là del ruolo sociale che, più o
meno tendenziosamente, essi svolgono, gli stereotipi assolvono una funzione eminentemente
cognitiva: quella di produrre un incremento nella somiglianza percepita fra attori ed azioni
appartenenti alla stessa categoria, incrementando al tempo stesso le differenze fra attori ed azioni
assegnati a categorie diverse.
Veniamo adesso alla nozione di frame. Nell’ambito della social cognition esso si riferisce ad
uno schema (o ad un insieme di schemi e sottoschemi) volto ad organizzare le informazioni relative
non al singolo episodio concreto ma, più astrattamente, ad un determinato raggruppamento
semantico-categoriale (in genere raggruppamenti o domini altamente strutturati come ad esempio
matrimoni, cene, giochi, funerali, feste, riunioni di lavoro, sedute terapeutiche, supermercati e così
via). Qualora attivato, il frame fa sì che ogni elemento della situazione percepita richiami
automaticamente una serie di collegamenti con elementi ulteriori attribuiti solitamente a tale
situazione come tipica, nonché con la lista di aspettative da essi derivanti.
L’idea chiave catturata invece dal termine script è che la vita sociale è strutturata, come
vuole la parola stessa, secondo copione, ossia in una successione di scene o episodi collegati fra
loro. La sequenza complessiva delle scene configura una trama globale coerente ed unitaria (un
copione di vita o di situazione). Poiché la realtà sociale ci si presenta in copioni (catene di episodi
saldati insieme per via temporale o causale – nel senso che ogni episodio è condizione perché l’altro
si realizzi), questa elencazione di scene sociali assume la forma di una regola di organizzazione
cognitiva della realtà. Lo script ha così valore pratico, indirizzandoci verso l’azione: ci indica sia il
modo giusto di svolgere la parte in una situazione data, sia la parte giusta che è richiesta a chiunque
viene a trovarsi in una determinata circostanza[9].
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9.3
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Sapere cognitivo, sapere pratico
Per sua scelta, il paradigma cognitivo si impone un limite ben preciso: quello di considerare
il comportamento sociale regolato dagli stessi processi che governano la più generale attività
cognitiva dell’individuo. Esso implica, da un punto di vista metodologico, la riduzione dello studio
del comportamento sociale umano ad un insieme di abilità e cognizioni messe in atto in situazioni
stereotipate. È controverso se sia sufficiente conoscere come gli attori tipizzano gli eventi sociali in
situazioni standard per spiegare la ricca varietà di azioni umane. Certamente le relazioni sociali
possono essere descritte sulla base dei nostri poteri cognitivi, ma se tutta la nostra vita sociale
dovesse essere caratterizzata nei termini esclusivi delle nostre competenze cognitive, ci troveremmo
di fronte ad un mondo al tempo stesso iperdeterminato e scarsamente interpretabile. Il modello
cognitivista sembra così tradire certe forzature nel vedere individui isolati che «ad un certo punto»
entrano in rapporto con il contesto sociale, sorvolando sul fatto che difficilmente possiamo dire
esattamente dove nasce un identificabile piano di comportamento. È dunque più corretto dire che
siamo sempre immersi in una agency, in un agire contrassegnato da un vasto insieme di schemi non
formalizzati ma continuamente riproposti e modificati.
Il limite più grave del paradigma cognitivo sembra essere tuttavia un altro. Seguendo una
proposta del pragmatista William James (1847-1910) recentemente riattualizzata in epistemologia
da Michael Polanyi, è possibile tracciare una distinzione tra due tipi di conoscenze: quella praticooperativa, di statuto preteorico (knowledge by acquaintance), e quella teorico-dichiarativa
(knowledge by description).
Mentre quest’ultima riguarda il «sapere che», ed ha a che fare con prestazioni come il saper
descrivere un tavolo o come il riprodurre un albero a penna, il primo tipo di conoscenze, più simile
all’uso tacito di un repertorio di capacità, riguarda il «saper fare» e si esprime in azioni quali il
saper camminare, fischiare, andare in bicicletta, riconoscere volti, mantenere una certa distanza
fisico-posturale rispetto ad altri attori (per Wittgenstein – vale la pena di notarlo – questa stessa
distinzione appare insufficiente, poiché anche il descrivere un tavolo o il riprodurre un albero sono
atti pratici inseriti in una serie di altri atti che occorre saper padroneggiare). Per il pragmatista si
percepisce un oggetto come dotato di senso non tanto perché lo si prende di mira (l’attore non
dispone della realtà in modo essenzialmente conoscitivo) quanto perché ci si impegna verso di esso,
ossia perché vogliamo farne qualcosa. Per citare un esempio, abbiamo imparato a nuotare senza
apprendere una teoria del nuoto ma semplicemente praticando l’attività fino al punto da sviluppare
modelli di comportamento soddisfacenti. In quanto abiti comportamentali acquisiti non come corpi
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di credenze ben determinate ma confrontandosi praticamente con situazioni problematiche, ossia in
quanto conoscenze usufruibili ed utilizzabili ma non del tutto accessibili (si tratta infatti di
conoscenze prelinguistiche e anticipative rispetto alla rappresentazione cognitiva), i saperi pratici
sono saperi di sfondo (o quantomeno: passati sullo sfondo con l’uso). Anzi, non sono nemmeno
saperi saputi, se per «saputo» intendiamo esplicitato, argomentato e contestabile. Per questo tale
sapere è comunicabile soprattutto con l’esempio, ossia facendo.
È insomma opportuno distinguere le teorie che le persone usano per giustificare le loro
azioni – le teorie esposte – dalle teorie implicite che informano il loro agire (teorie in atto). Solo
occasionalmente la teoria esposta diviene anche conoscenza teorica – teoria di quel fare –, ma
proprio in quanto teoria esposta essa è sempre qualcosa di diverso dal comportamento da cui parte.
L’artista può offrire una teoria dei suoi quadri, benché difficilmente potrà codificare il suo saperfare affinché altri siano in grado di fare quadri come i suoi.
Questa discrepanza fra il sapere-che (e perché) si mette in atto un’azione ed il sapere-come
la si mette in atto costituisce una critica indiretta (indiretta perché non percepita dai cognitivisti)
all’impianto stesso del paradigma cognitivo. In quanto capacità di azione, in quanto conoscenza
gettata nella relazione fra attore e strumento (o attore ed attore), la conoscenza operativa non passa
per la rappresentazione mentale. È soltanto quando si incontra un intoppo che si è indotti ad
articolare, modificare e dunque rappresentare qualche aspetto dello sfondo inespresso della
cognizione. Ciò che viene rappresentato, tuttavia, per la circostanza stessa di essere rappresentato, si
trasforma in oggetto articolato, il quale a sua volta si appoggerà inevitabilmente su uno sfondo
opaco ed inarticolato di aspetti non problematizzati e dati per scontati. Ciò che la teoria della
cognizione sociale potrebbe porsi come obiettivo è dunque un resoconto delle modalità attraverso le
quali l’azione di richiamare ed articolare situazioni (azione rappresentazionale) interagisce con il
suo sfondo inarticolato (azione pragmatica).
9.4
La nozione di pratica e l’«habitus»
Troppo spesso l’attore sociale è stato visto come sede di rappresentazioni cognitive. Proprio
in contrasto con tale tendenza, a partire dagli anni Ottanta, si assiste – nelle scienze sociali – ad un
interesse crescente per l’agire inteso come prassi, come insieme di pratiche messe in atto dagli
attori. Una pratica è qualcosa che gli attori fanno con una certa regolarità, ossia una forma di agire
quotidiano e strutturato, che ha un’organizzazione temporale. In quanto collegata alle condotte
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effettivamente messe in atto, la conoscenza pratica si oppone alla conoscenza teoretica generale e
astratta.
Questa svolta ha implicato anche una rivalutazione del corpo inteso non come esecutore
degli scopi che l’attore si pone, ma come sede della nostra stessa comprensione. Una comprensione
situata ed incarnata più che cognitiva: io vengo a capo delle situazioni, mi raccapezzo
nell’ambiente, uso strumenti.
Fra le teorie più significative a questo proposito, segnaliamo la teoria dell’habitus di Pierre
Bourdieu, sociologo contraddistinto da un apprendistato iniziale in campo antropologico. Lo stesso
concetto di habitus viene introdotto proprio conducendo un’indagine etnografica sulle abitazioni,
sulle pratiche rituali e sulle strategie matrimoniali presso la comunità nordafricana di lingua berbera
Kabyle, nonché presso la società Béarn, nella provincia della Francia meridionale.
Habitus deriva dalla radice latina habeo (ciò che è acquisito), e rinvia ad un insieme di
disposizioni durature e tuttavia mobili. Per Bourdieu è la stessa società ad essere concepita come
rete di strutture, di disposizioni e di azioni. Le strutture producono orientamenti dell’agire i quali, a
loro volta, perpetuano ma anche modificano le strutture sociali. Queste disposizioni sono allo stesso
tempo strutture strutturate e strutture strutturanti, che rendono stabile e intelligibile l’agire sociale.
Habitus è allora un concetto che rende giustizia della dimensione né solo costituita né
esclusivamente costituente della realtà sociale, trascendendo le false antinomie (struttura/azione,
cultura/società, micro/macro).
Visto nel tempo, l’habitus è acquisito, ossia non solo interiorizzato ma propriamente
incorporato. Il bambino è indotto in una cultura: impara a muoversi, a comportarsi in un certo
modo, impara ad essere presente: «sta dritto quando mangi!», «non ti stravaccare!». Tali esortazioni
riflettono veri e propri valori incarnati. Habitus è il passato che sopravvive nel presente, è cultura
che diventa natura, storia fatta corpo. Habitus è al tempo stesso istituzione incorporata e corpo
socializzato (che ha incorporato in sé le strutture di un settore particolare del mondo – un campo –,
e che struttura la percezione di e l’azione in quel mondo). Perciò Bourdieu insiste sul nesso fra
habitus e campo (habitat), fra disposizione e posizione. Grazie all’habitus nel campo ci si sente a
casa, ci si ritrova, e questo perché il campo è anche in noi sotto forma di habitus (ho incorporato le
strutture di quel mondo).
In breve, l’habitus specifico si impone ai nuovi entranti come una tassa d’ingresso, anche se
in effetti più che l’habitus che il campo esige, il novizio acquisisce un habitus praticamente
compatibile o congruente con quello richiesto. In quanto disposizione incorporata l’habitus è
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irriflesso, ma non inconscio, piuttosto abituale o dato per scontato. Dato per scontato non significa
peraltro sconosciuto ma anzi talmente noto da non essere discusso o messo in questione se non in
particolari occasioni (come, ad esempio, quando una persona viene iniziata o quando viene
corretta).
Concludendo, un habitus non è altro che l’insieme di disposizioni specifiche richieste in un
campo e inscritte nei corpi attraverso schemi di azioni che riflettono l’esperienza passata e
consentono di orientarsi nel campo senza presupporre calcoli o progetti razionali, solo una certa
protensione. A differenza di quanto sostengono i cognitivisti, l’agente non è mai il soggetto delle
sue pratiche, perché queste si condensano in un insieme di capacità non discorsive che sfumano in
uno sfondo di abilità pratiche non direttamente accessibili alla consapevolezza dei parlanti, e
spesso, in quanto rete di competenze centrate sul corpo, nemmeno riattivabili esplicitamente.
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