1. Il povero. 1.1. Il tipo sociale del povero. Come sorge la esigenza di tipizzare la figura del “povero”, di considerare il povero un particolare tipo sociale? Si tratta di una figura relativa ad una particolare forma di tensione sociale o disarmonia sociale, analoga al criminale o al malato. La povertà si presenta come una deficienza sociale che impedisce a un membro della società di espletare il suo contributo alla vita dell’insieme sociale con prestazioni positive (il povero, quindi, non immette i suoi personali contenuti di vita nella circolazione della vita sociale organizzata). Analogie euristiche. La povertà, in quanto deficienza o mancanza, che idealmente non dovrebbe esserci, è analoga al fenomeno delle lacune in un ordinamento normativo, o ad uno strappo in un vestito, o alla malattia di un organo in un organismo. Al povero, in quanto tipo sociale, è assegnata una posizione come membro organico nella vita del gruppo: egli è un membro in una particolare situazione di deficienza sociale che determina una tensione che può venire risolta o immediatamente tra gli elementi della società (forma della beneficenza privata), o attraverso la mediazione dell’unità che è sorta da tutti gli elementi (forma dell’assistenza statale). Il rapporto della collettività con i suoi poveri è una funzione formale costitutiva della società, cioè le forme in cui ogni società si correla ai suoi poveri concorrono a costituire il tipo di società. Il povero, in quanto tipo sociale, è considerato un appartenente al gruppo: egli è termine di una relazione col gruppo, allo stesso modo del funzionario o del contribuente, dell’insegnante o del commerciante. Ma, al pari dell’estraneo (o del malato o del criminale), egli è al-di-fuori del gruppo, in quanto è un semplice oggetto di misure da parte della collettività e non è inserito organicamente nella vita del gruppo. Dalla sua posizione esterna di escluso, il povero è posto di-fronte al gruppo come totalità, ricevendo o meno qualcosa da essa, trattato bene o male da essa. Questo “di-fronte” significa dunque una relazione ben determinata, che lo inserisce come elemento nella vita del tutto, lo intreccia in unità col tutto. Il “di-fuori” è una forma particolare dell’azione reciproca tra il povero e il tutto ed è quindi, in un senso più comprensivo, un “di-dentro”. Questa duplicità di posizione, questo simultaneo dentro e fuori, che appare difficilmente conciliabile dal punto di vista logico, è un fatto sociologico elementare. Tale fatto si chiarisce se si confronta la situazione dell’estraneo, del povero, dello straniero, con quella di un abitante della stella Sirio. L’estraneo al gruppo o il povero, pur essendo esclusi dalla vita del gruppo, appartengono al gruppo in quanto termini di relazioni o azioni reciproche col gruppo. Con un abitante di Sirio, invece, è impossibile (o almeno era impossibile ai tempi di Simmel) qualsiasi relazione o azione reciproca. L’azione reciproca tra povero e collettività, che intesse il povero nell’unità della vita sociale, dipende da tre condizioni: (i) in primo luogo, l’appartenenza del povero alla cerchia del gruppo, che fa sì che l’azione di assistenza della collettività nei suoi confronti (anche se non è finalizzata a lui in quanto individuo, ma è finalizzata alle esigenze di difesa e promozione della collettività stessa) sia rivolta a lui, anche se solo pro quota, in quanto appartenente al gruppo; (ii) in secondo luogo, la prestazione della collettività al povero; (iii) in terzo luogo, la reazione che da questa prestazione rimbalza sulla collettività, in virtù del fatto che la sua azione economica viene di nuovo resa possibile, che la sua forza fisica viene preservata dalla decadenza, e che i suoi impulsi vengono distolti dall’arricchimento violento. Questa azione reciproca manca nel caso del tipo medievale di elemosina, poiché il destinatario è completamente escluso dal processo di scopo del donante e non ha altro ruolo che quello di una cassetta delle offerte in cui viene gettato un obolo per salvare la propria anima. In virtù di questo carattere esclusivamente individualistico, qui l’atto del donare non è un avvenimento sociale, e mancano i presupposti di ogni reciprocità di azione. (Il povero è colui al quale si dice: tu non riesci a fare la tua parte nella vita collettiva e anzi metti in pericolo la stessa vita collettiva, ti aiutiamo noi, per permetterti di ritornare a fare la tua parte senza mettere in pericolo la vita collettiva.) 1.2. La cerchia sociale di appartenenza del povero. Simmel si chiede: a quale cerchia sociale appartiene il povero in quanto è povero? Risposta: dipende dallo stadio generale dello sviluppo sociale; in ogni caso egli appartiene alla cerchia più grande, praticamente attiva. Non una parte della collettività, ma la collettività in quanto unità è il luogo in cui hanno sede i rapporti col povero. Esempi di Simmel: Una società che è tenuta insieme o organizzata in base alla coscienza di stirpe rinvia il povero alla cerchia della sua stirpe. In una società che è tenuta insieme o organizzata in base al ruolo essenziale della Chiesa, sono le istituzioni ecclesiastiche a mediare la reazione sociale all’esistenza del povero. L’ultimo stadio raggiunto dallo sviluppo sociale è quello della moderna organizzazione statale (che ha sostituito il comune come luogo che ha goduto delle prestazioni economiche del soggetto ora impoverito e come organo dal quale si può quindi pretendere una relazione solidale). In particolare, se si accetta il presupposto della divisione della Terra tra stati nazionali sovrani, risulta che ogni stato ha i propri poveri, secondo la cerchia dei propri membri (cerchia di soggetti che hanno un ruolo, o dovrebbero averlo, nello svolgimento organizzato della vita collettiva). Ad esempio, i poveri argentini non sono poveri per lo stato italiano, in quanto al di fuori della cerchia di coloro tra i quali si svolge la nostra vita collettiva (che comprende i soggetti di nazionalità italiana, gli stranieri presenti o afferenti al nostro territorio, e tutti coloro che intrattengono rapporti con i soggetti di queste due classi). Lo stato italiano potrebbe però occuparsi, con sussidi o altre provvidenze, dei poveri argentini di nazionalità italiana. Qualora si accetti il presupposto della coincidenza della maggiore cerchia sociale con la cerchia statale e, correlativamente, si rifiuti il presupposto dell’esistenza di un’unica società mondiale degli uomini, che porterebbe tutti ad essere concittadini di tutti, può darsi caso di soggetti in situazione di deprivazione materiale, che non sono però considerati poveri. E’ il caso di caso di quei “poveri”, che in quanto cittadini di stati privi di una vita sociale organizzata (ad esempio, per una situazione di disastrosa guerra civile, e/o di miseria e carestia persistenti e diffuse), non possono rientrare nella corrente organizzata della vita sociale e non possono quindi essere considerati dalla collettività soggetti bisognosi di aiuto, in vista di un reinserimento nella corrente della vita sociale: in tal caso, essi non sono propriamente poveri, né per quello stato, né per alcun altro: essi sono individui abbandonati a se stessi. Si può ipotizzare uno stadio ulteriore dello sviluppo sociale, quello di una società tendenzialmente universale: uno stato mondiale, la cui cerchia comprende tutti gli uomini. Per una società universale, non vi sono poveri italiani o poveri argentini, ma tutti i “poveri” sono poveri allo stesso modo, in quanto vi è una cerchia sociale massima che comprende tutti gli uomini. Come modello di una logica universalistica, si può pensare alla logica universalistica della Chiesa cattolica (se si prescinde dalla assenza di potere temporale): per essa, tutti gli uomini hanno diritto a una vita pienamente umana, cioè hanno diritto a partecipare pienamente alla vita della collettività umana; perciò se taluni individui si trovano in una situazione di deprivazione che impedisce loro il pieno sviluppo della persona (situazione di povertà), essi hanno il diritto di essere riammessi in una condizione in cui tale sviluppo è possibile. A loro quindi è dovuto un aiuto da parte di tutti gli uomini di buona volontà. (Gli aiuti umanitari delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite seguono piuttosto la logica dell’intervento di emergenza per motivi umanitari, che non la logica dell’intervento di assistenza.) 1.3. Povertà assoluta vs. povertà relativa (in senso soggettivo e in senso particolare). Una domanda possibile è se la povertà (una determinata carenza in termini di capacità di far fronte a bisogni umani, conseguente a una insufficienza di mezzi) sia una situazione di deprivazione assoluta, cioè indipendente da ogni considerazione che quella situazione di vita possa ricevere nella vita individuale o nella vita sociale, o sia invece una situazione di deprivazione relativa, cioè dipendente dalla considerazione che quella situazione di vita riceve nella vita individuale o nella vita sociale. Per Simmel si può parlare di povertà in senso assoluto, ma è un concetto di difficile determinazione. Il concetto di povertà mostra piuttosto, per Simmel, un carattere relativistico. Innanzitutto, esiste un concetto di povertà in senso meramente soggettivo o psicologico: povero è colui i cui mezzi non sono sufficienti per i suoi scopi puramente individuali (povertà in senso soggettivo o psicologico). Alcuni scopi, però sono sottratti a una fissazione arbitraria e meramente personale, in quanto corrispondono a bisogni generali della persona umana. Scopi imposti fisicamente alla persona umana sono, ad esempio, il nutrimento, l’abbigliamento, l’abitazione. Non è però possibile stabilire con sicurezza una misura di questi bisogni generali che valga in tutte le circostanze e ovunque (misura assoluta) e al di sotto della quale, quindi, sussista la povertà in senso assoluto. Piuttosto, esiste una misura tipica di questi bisogni fissati socialmente in ogni ambiente sociale generale per ogni strato sociale (bisogni tipici di ceto). La povertà è un rapporto dei mezzi individuali con i bisogni tipici della classe cui l’individuo appartiene. La povertà perciò è relativa, in una società, ai bisogni tipici dell’individuo fissati in base alla classe sociale. In ogni società si danno molti concetti di povertà (particolare). 1.4. Relatività della povertà ad una società. In un altro senso si può parlare di relatività della povertà nel caso di una relatività dei bisogni ad una società. Si consideri il caso di un popolo selvaggio o guerriero, le cui condizioni di vita, in termini di nutrimento o della soddisfazione di altri bisogni umani (abitazione, cure sanitarie, abbigliamento, istruzione, speranze di vita, etc.) siano al di sotto della soglia che noi oggi riterremmo accettabile o sopportabile. Ora, tale società certamente non considererebbe i propri membri come poveri, e nemmeno noi li consideriamo poveri, se la povertà è relativa a quella società: quella società, infatti, non è una società come la nostra (tale società non solo è una società altra, ma è anche un’altra società). 1.5. Concetto analitico di povertà vs. concetto reale di povertà: la povertà come costruzione sociale. In un altro senso si può parlare di relatività categoriale della povertà (relatività alle categorie a priori). Secondo una teoria che potrebbe essere qualificata una sorta di kantismo applicato alle scienze sociali (teoria che può essere fatta risalire a Georg Simmel), la povertà non sarebbe un fenomeno positivamente dato in sé e per sé, uno stato di cose oggettivo, che esista indipendentemente dalle valutazioni e categorizzazioni con cui quel fenomeno possa venire considerato; piuttosto, quello stato di cose, quella condizione di vita, potrebbe venire concettualizzata come povertà (cioè come mancanza o deprivazione), o come frugalità (cioè come semplicità o primitività), o come sobrietà (cioè come misura o essenzialità), etc., secondo le categorie impiegate dall’osservatore, esterno alla società, o secondo le categorie impiegate dagli attori sociali stessi, all’interno della cultura sociale prevalente, o all’interno di una sottocultura. Cfr. Nietzsche: “Non esistono fenomeni morali, ma solo interpretazioni morali di fenomeni”. “Non esistono fenomeni di povertà, ma solo interpretazioni di fenomeni in termini di povertà”. La rappresentazione di un fenomeno come povertà è mediata dalle specifiche categorie impiegate nel concettualizzare il fenomeno da parte dell’osservatore o degli stessi attori sociali. Ora, il concetto di povertà può avere solo portata analitica: la povertà può rappresentare un mero evento concettuale, se ci si riferisce solamente a un concetto di povertà impiegato dall’osservatore. Ad esempio, in una indagine delle Nazioni Unite sullo stato di povertà del pianeta si impiega un parametro di povertà determinato, da applicarsi in tutti i casi, per quantificare il fenomeno della povertà. In questa ipotesi, il ricadere di un caso sotto la soglia di povertà rappresenta un mero evento concettuale, al quale può non corrispondere un fenomeno propriamente reale di povertà, una povertà avvertita individualmente o socialmente come tale. Perché la povertà diventi un fenomeno veramente reale, il fenomeno in questione deve essere percepito e interpretato come povertà all’interno della società data, cioè nell’ambito delle interazioni sociali costitutive della società, le interazioni, cioè, di cui siano protagonisti gli attori sociali stessi. Il linguaggio sociologico odierno direbbe che la realtà della povertà è una “costruzione sociale”. Scrivono Berger e Luckmann (cfr. Peter L. Berger e Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality, 1966 [trad. it. La realtà come costruzione sociale, 1969, p.66]): “La partecipazione alla cultura sociale permette così la “collocazione” degli individui nella società e la loro “manipolazione” appropriata. Ciò non è possibile per uno che non partecipi di questa conoscenza, come uno straniero, che può anche non riconoscermi come povero, perché magari i criteri della povertà sono del tutto differenti nella sua società: come posso essere povero io che porto scarpe e non sembro affamato?”. (Nota sul senso lato del termine ‘assistenza’. Dal fatto che la povertà si manifesti in ogni strato sociale che abbia elaborato un livello di bisogni tipici, presupposti per ogni individuo, risulta chiaro che spesso non è questione di un’assistenza al “povero”. Ma il principio di assistenza si estende più in là di quanto mostrino le sue manifestazioni per così dire ufficiali. Ad esempio, in una famiglia piuttosto ampia, che comprenda al suo interno membri più ricchi e membri più poveri, quando ci si scambia reciprocamente dei doni, al più povero si regalano oggetti utili, cioè oggetti che gli rendono più facile mantenere il livello della sua classe.) 1.6. Universalità e oggettività della povertà all’interno di una società: l’assistenza ai poveri e l’accettazione del soccorso. Il fatto che la povertà abbia un carattere relativistico (soggettivistico e particolaristico), comporta che esistono tanti concetti di povertà quanti sono gli individui (povertà in senso soggettivo), o quanti sono gli strati sociali (povertà in senso particolare). L’esistenza di tanti concetti di povertà soggettivistici e particolaristici, impedisce di affermare che qualcuno è oggettivamente e universalmente ritenuto un povero in una società. L’esistenza di tanti criteri individuali (soggettivistici e particolaristici) di povertà impedisce il manifestarsi di un concetto di povertà socialmente riconosciuto (oggettivo e universale). Si può essere poveri secundum quid (povertà in senso soggettivo e particolare), senza essere dei poveri simpliciter (povertà in senso oggettivo e universale). Secondo Simmel, un soggetto può essere “povero” in senso individuale, senza essere “un povero” in senso sociale. Ora, la povertà, per affermarsi come universale all’interno di una società, deve avere rilevanza per la collettività in quanto totalità; e per affermarsi come oggettiva all’interno di una società, deve essere riconosciuta da tutti i lati del rapporto, con generalità. Per la difficoltà di determinazione del criterio di povertà (rilevanza per la collettività e riconoscimento generale), devono valere, come determinazione sociale di povertà, segni certi della rilevanza collettiva e del riconoscimento generale. 1.6.1. In primo luogo, occorre un segno esteriore che manifesti la rilevanza sociale della povertà per la collettività in quanto totalità, e che perciò determini la povertà in universale. Tale segno, che attesta la rilevanza sociale di quella povertà, è l’atto con cui la società reagisce collettivamente alla povertà stessa: l’atto di assistenza alla povertà. Secondo Simmel, dal punto di vista sociologico non è data prima la povertà e ad essa consegue l’assistenza, ma si chiama “povero” solo chi riceve un soccorso che sancisce l’intollerabilità di quella situazione per la collettività. Tutti i presupposti della vita delle classi superiori comportano che qualcuno può essere povero in senso individuale, cioè rimanere con i propri mezzi al di sotto dei bisogni della classe, senza per questo dover ricorrere a soccorsi. Perciò egli è povero nel senso sociale, solo quando viene soccorso. Il povero diviene un povero in senso sociale quando viene soccorso, quando gode dell’assistenza (o dovrebbe goderne in base a norme sociali): è solo in questo caso, infatti, che la società reputa la sua povertà (in senso individuale) intollerabile e decidendo di intervenire manifesta la rilevanza sociale di quella situazione. La funzione di membro che il povero svolge nella società esistente non è data con il fatto che egli è povero; soltanto in quanto la società (la collettività o i singoli individui) reagisce con soccorsi a questo stato, egli assume il suo specifico ruolo sociale. Scrive Simmel (Sociologia, p. 423): “Il povero come categoria sociologica non nasce da una determinata misura di mancanza o di privazione, ma dal fatto che egli riceve un’assistenza o dovrebbe riceverla in base a norme sociali. Così secondo questo orientamento la povertà non è determinabile in sé e per sé, come uno stato da stabilire quantitativamente, ma soltanto in base alla reazione sociale che interviene dinanzi a un certo stato, esattamente come il reato, la cui determinazione concettuale immediata è assai difficile, è stato definito come “un’azione colpita da pena pubblica””. 1.6.2. In secondo luogo, occorre un segno esteriore del riconoscimento (non unilaterale, ma) generale della povertà, qualificabile perciò oggettiva. Tale stigma della povertà è l’atto di accettazione dell’assistenza. Secondo Simmel, è solo l’accettazione di un soccorso che colloca chi lo riceve al di fuori dei presupposti del suo ceto, costituisce la prova evidente che egli è formalmente declassato. Fin quando un individuo non accetti formalmente un soccorso, il pregiudizio di classe rende invisibile la sua povertà, che perciò non si manifesta come povertà in senso sociale, ma rimane una povertà individuale. Fin quando il soccorso non sia accettato, in effetti, la povertà rimane affermata solo dal lato di chi offre assistenza e quindi sempre solo soggettivamente, cioè dal punto di vista di un soggetto, quantunque soggetto collettivo. 1.7. La classe dei poveri. Soltanto il significato sociale di “povero”, a differenza di quello individuale, fa sì che i poveri si raggruppino in una sorta di ceto o di strato unitario all’interno della società. Per il semplice fatto di essere povero il povero non appartiene ancora a una categoria socialmente determinata. Soltanto nel momento in cui vengono soccorsi, questi individui entrano in una cerchia caratterizzata dalla povertà. La classe dei poveri viene tenuta insieme non da un’attività reciproca dei suoi membri, ma dall’atteggiamento collettivo che la società assume di fronte a essa: essa possiede, in base al suo significato e alla sua localizzazione sociale, una grande omogeneità, che però le manca per le qualificazioni sociali dei suoi elementi. Soltanto dove la povertà comporta un contenuto positivo comune a molti poveri sorge un’associazione di poveri in quanto tali. Secondo Iris Young, Justice and the Politics of Difference, 1990 [trad. it.: Le politiche della differenza, 1996], una forma di oppressione consiste nell’imporsi della prospettiva culturale del gruppo dominante, che concettualizza le differenze che alcuni gruppi presentano come mancanza e negatività. Dopo che un gruppo sia definito dalla cultura dominante come deviante, cioè tipizzato come diverso e inferiore, si apre la possibilità di rifiutarsi di coincidere con questa immagine svalutata, reificata, stereotipata di se stesso. Scrive Young: “Soltanto perché si possono confermare e riconoscere reciprocamente come portatrici di esperienze comuni e di analoghi punti di vista sulla vita e i rapporti, le persone appartenenti a gruppi oppressi dall’imperialismo culturale riescono in molti casi a mantenere un senso di soggettività positiva. […] In questo consiste l’ingiustizia dell’imperialismo culturale: nel fatto che l’esperienza propria del gruppo oppresso e la sua interpretazione della vita sociale non hanno la possibilità di esprimersi in un modo che lasci un segno sulla cultura dominante, mentre questa impone al gruppo oppresso la propria esperienza e la propria interpretazione”. 2. Forme sociologiche dell’assistenza ai poveri. 2.0.1. Simmel non elabora esplicitamente una sociologia del diritto, ma nei suoi scritti si trovano vari spunti fecondi per la possibile ricostruzione di una sociologia del diritto (cfr. Francesco Belvisi, Metodo formale e storia nella sociologia (giuridica) di Georg Simmel: l’esempio della sociologia della povertà, in: “Sociologia del diritto”, 25(1998), pp. 89-106). Qui mi limito a trarre da Simmel una indicazione di metodo per un’analisi sociologica delle leggi, delle norme positive. In particolare, Simmel analizza la struttura o costellazione sociologica delle leggi sulla povertà e sull’assistenza ai poveri, nel quadro di un più generale esame delle diverse forme di associazione che stanno alla base dei vari fenomeni di assistenza alla povertà o di soccorso ai poveri. (Cfr. anche, per un esempio in un altro settore del diritto, gli istituti giuridici relativi agli stranieri, l’esame simmeliano della tassa medievale sugli ebrei, Sociologia, p. 583.) 2.0.2. Simmel considera le forme sociologiche principali dell’assistenza ai poveri come esempi o simboli empirici delle forme di associazione [Formen der Vergesellschaftung] dell’agire etico in generale. Vi sono due forme fondamentali di agire etico: agire etico a priorità del diritto sul dovere e agire etico a priorità del dovere sul diritto. 2.0.2.1. Prima forma (forma giuridica) di agire etico: esistono a priori soltanto diritti. Il diritto è l’elemento primario, dominante; il dovere è soltanto il correlato di quello. Si può considerare la società in generale come una reciprocità di esseri titolari di diritti (diritti morali, diritti giuridici, diritti convenzionali, etc.). I doveri esistono soltanto come correlato di tali pretese. Se potesse accadere il fatto impensabile che ogni diritto venga soddisfatto in forma diversa dalla forma dell’adempimento di un dovere, la società non avrebbe bisogno della categoria del dovere. Per la forma giuridica di agire etico, l’altro soggetto sarebbe nel nostro agire etico il terminus a quo della motivazione. 2.0.2.2. Seconda forma (forma morale) di agire etico: esistono a priori soltanto doveri. Il dovere è l’elemento primario, dominante; il diritto è soltanto il correlato del dovere. Tutti i nostri doveri sarebbero doveri verso noi stessi: anche se come contenuto potrebbero avere un agire rivolto ad altri, la loro forma e fondazione come dovere scaturirebbe dall’io e dalle sue necessità interne: l’eticità del nostro agire è dovuta soltanto a noi stessi, all’io migliore che è in noi, al rispetto di noi stessi. Per la forma morale di agire etico, l’altro soggetto sarebbe soltanto il terminus ad quem del nostro agire etico. 2.0.2.3. Alle due forme principali dell’agire etico corrispondono due delle tre forme principali dell’assistenza ai poveri individuate da Simmel. Simmel distingue tre forme principali dell’assistenza ai poveri: (i) assistenza fondata sul diritto del povero (a cui è correlato un dovere di assistenza); (ii) assistenza fondata su un dovere tecnico di effettuare l’assistenza come mezzo per gli scopi dell’agente (al dovere tecnico non è correlato alcun diritto del povero); (iii) assistenza fondata sul dovere di prestare assistenza (a cui è correlato un diritto di assistenza). 2.1. Prima forma principale: assistenza fondata sul diritto del povero (a cui è correlato un dovere di assistenza). Forma della correlazione diritto-dovere, a priorità del diritto. Il dovere (deontico) di assistenza è un puro e semplice correlato della pretesa del povero: il punto di partenza e fondamento dell’assistenza è il diritto del bisognoso. 2.1.1. Diritto relativo a un rapporto dell’individuo con altri individui determinati. Caso del mendicante che (in paesi in cui la mendicità è un mestiere regolare) crede, più o meno ingenuamente, di avere acquisito un diritto all’obolo nei confronti di un benefattore che lo abbia fin lì regolarmente beneficato e biasima il rifiuto di tale prestazione come sottrazione di una somma dovuta (diritto che si suppone esser sorto per consuetudine). 2.1.2. Diritto relativo a un rapporto dell’individuo con la collettività. (La pretesa dell’assistenza si fonda sull’appartenenza del bisognoso a un gruppo.) Caso in cui l’individuo è visto esclusivamente come il prodotto del suo ambiente sociale (con un’estrema dissoluzione della responsabilità personale). Ora, poiché ogni sua situazione di bisogno o ogni sua perdita è imputata all’ambiente sociale, l’individuo ha il diritto di chiedere alla collettività una compensazione per ogni situazione di bisogno o per ogni perdita (diritto che si suppone derivare da un principio di giustizia, in particolare, dal principio secondo il quale si devono risarcire i danni causati). Caso in cui la pretesa del povero è rivolta a collettività particolari: stato (caso dei diritti sociali di cittadinanza), comune, chiesa, corporazione professionale, gruppo di amici, famiglia. Ognuno di questi gruppi può avere, in quanto totalità, rapporti molto diversi con il proprio membro. Vi è però un elemento in tali relazioni sociologiche che è comune a tutte: esse sembrano intrattenere rapporti tali con i propri membri, che in caso di impoverimento di un membro, diviene attuale un diritto di tali membri impoveriti all’assistenza. In questi casi, l’assistenza ai poveri trova la sua ragione sufficiente nella connessione organica tra gli elementi, è causalmente determinata dall’unità esistente e attiva nei consociati del gruppo [un organismo, in quanto unità organica, si preoccupa di risanare le proprie parti malate].Esempio storico di pretese all’assistenza fondate sull’appartenenza sociale è il caso degli antichi Semiti, presso i quali il povero ha una pretesa di partecipare al pasto, e correlativamente il gruppo ha un obbligo di far partecipare al pasto, in virtù dell’unità metafisica del gruppo, religiosamente sentita, per la quale il povero è incluso nel gruppo e il gruppo include il povero. 2.1.3. Diritto relativo al rapporto di un uomo con ogni altro uomo. Pretesa rivolta ad ogni individuo. Caso del povero che sente la propria posizione come un’ingiustizia dell’ordine del mondo e pretende un cambiamento di tutta la sua esistenza; egli rivolge una pretesa all’assistenza a ogni individuo che si trovi in una situazione migliore. La pretesa del povero si rivolge qui all’individuo, ma non a un individuo determinato, bensì ad ogni individuo, in base alla solidarietà dell’umanità in generale. Qui ogni uomo è visto come titolare di diritti umani (morali): ogni uomo è visto come portatore di diritti dell’uomo, tra i quali rientra il diritto a vivere una esistenza libera e dignitosa; tale diritto lo legittima a chiedere, a chiunque sia in condizioni migliori, una prestazione che assicuri il soddisfacimento di quel diritto. Ne risulta una scala che va dal proletario criminale che vede in ogni persona ben vestita un suo nemico, un rappresentante della classe che lo ha “diseredato”, e che quindi lo rapina in buona coscienza, sino all’umile mendicante che chiede supplicando un obolo “per amor di Dio”, come se ogni individuo avesse il dovere di colmare le lacune dell’ordine voluto propriamente da Dio, ma non pienamente realizzato. 2.2. Seconda forma principale: assistenza fondata su un dovere tecnico di effettuare l’assistenza come mezzo per gli scopi dell’agente (al dovere tecnico non è correlato alcun diritto del povero). Al dovere di assistenza non corrisponde alcun diritto del povero: il punto di partenza è il dovere (tecnico) di chi dà, senza correlazione con alcun diritto di chi riceve. 2.2.1. Dovere tecnico di carità (gravante sull’individuo) come mezzo per la salvezza della propria anima. Caso estremo è quello nel quale il motivo della donazione risiede esclusivamente nel significato che il donare ha per il donante: il povero sparisce come titolare di diritti e come obiettivo di interessi. Ad esempio, quando Gesù disse all’apostolo ricco: “regala i tuoi beni ai poveri”, egli si interessava non ai poveri, ma all’anima dell’apostolo. La rinuncia ai beni era per l’apostolo un semplice mezzo per la salvezza della propria anima. L’elemosina cristiana è essenzialmente una forma di ascesi o un’ “opera buona” che migliora il destino del donante nell’aldilà. Scrive Simmel: “L’eccesso della mendicità nel Medioevo, l’insensatezza nell’impiego delle donazioni, la demoralizzazione del proletariato con le elargizioni indiscriminate, contrastanti con ogni lavoro civile, tutto ciò rappresenta per così dire la vendetta dell’elemosina per il motivo puramente soggettivistico della sua concessione che considera solo il donante ma non il destinatario”. 2.2.2. Dovere tecnico di assistenza (gravante sulla collettività) come mezzo per il proprio benessere e la propria sicurezza. Il povero scompare come titolare di diritti all’assistenza, ma non come obiettivo di interessi, cui commisurare le modalità della prestazione di assistenza. L’assistenza si attua per proteggere e promuovere il benessere dell’insieme sociale, cioè per non far diventare il povero un nemico attivo, dannoso per la collettività, per eliminare i pericoli e le sottrazioni al bene comune che il povero minaccia e per mettere di nuovo a frutto la sua forza diminuita. Questa forma di attività si presenta in due casi principali: il caso dell’assistenza familiare volontaria, il caso dell’assistenza pubblica per legge. 2.2.2.1. Caso dell’assistenza pubblica. L’assistenza ai poveri come istituzione pubblica presenta una costellazione sociologica alquanto peculiare: (i) essa si indirizza esclusivamente all’individuo e alla sua situazione, è del tutto personale quanto al contenuto (alleviare situazioni individuali di bisogno); in ciò si distingue dalle altre istituzioni, che provvedono al bene pubblico e alla protezione pubblica a vantaggio di tutti i cittadini: esercito, polizia, scuola, strade, giustizia, chiesa, rappresentanza popolare, ricerca scientifica, etc., hanno ad oggetto l’unità di molti o di tutti. (ii) essa, pur essendo indirizzata all’individuo, considera l’individuo solamente la stazione finale, il destinatario, dell’intervento, ma non lo scopo finale, che consiste piuttosto nella protezione e promozione della collettività. Il povero come persona, il riflesso della sua situazione nel suo sentimento, è qui totalmente indifferente. La prevalenza del punto di vista sociale si rivela nel fatto che l’elemosina può venire rifiutata in base al punto di vista esattamente identico (l’interesse dell’insieme sociale) e spesso proprio quando la compassione personale ci spingerebbe a concederla. 2.2.2.2. La medesima costellazione formale esistente nel caso dell’assistenza pubblica, non vale solo per la collettività in generale, ma anche per cerchie più ristrette. Caso del soccorso familiare in favore di propri membri impoveritisi. Molto spesso il soccorso familiare si attua non a favore di chi viene soccorso, ma allo scopo che egli non costituisca una vergogna per la famiglia e che questa non perda la sua reputazione per il semplice fatto della povertà di un suo membro. Caso del soccorso sindacale in favore di propri aderenti disoccupati. Il soccorso che le unioni sindacali inglesi concedono ai loro membri in caso di disoccupazione, non deve soltanto procurare un alleviamento al bisogno individuale, bensì anche evitare che il disoccupato lavori per necessità a un salario troppo basso, premendo così sul livello salariale di tutta la categoria. 2.2.3. In questa forma di assistenza ai poveri, l’assistenza, prendendo al benestante e dando al povero, non tende però assolutamente ad equiparare queste posizioni individuali. Dato questo concetto di assistenza ai poveri, l’assistenza non vuole, neppure tendenzialmente eliminare la differenziazione della società in poveri e ricchi. Alla base di questa forma di assistenza ai poveri sta piuttosto la struttura della società quale esiste di fatto, nell’antitesi più netta rispetto a tutte le aspirazioni socialistiche e comunistiche, che vorrebbero proprio eliminare questa stessa struttura. Il senso di questa forma di assistenza ai poveri è di attenuare certe manifestazioni estreme di differenza sociale, in modo tale che la struttura sociale possa continuare a reggersi su tale differenziazione. Se l’assistenza si fondasse sull’interesse per il povero come individuo, non esisterebbe, in linea di principio, alcun confine al quale lo spostamento di beni in favore del povero debba arrestarsi prima di raggiungere la compensazione. Poiché l’assistenza avviene, invece, nell’interesse della totalità della società (della cerchia politica, della cerchia familiare o di un’altra cerchia in qualche modo determinata sociologicamente), essa non ha alcun motivo per essere, nella forma e nella misura, superiore a quanto richieda il mantenimento della totalità nel suo status quo. Il povero non partecipa all’assistenza ai poveri come soggetto che pone fini (soggetto portatore di un diritto all’assistenza), ma come materia da formare (soggetto privo di un diritto all’assistenza). 2.3. Terza forma principale: assistenza fondata sul dovere di chi assiste (a cui è correlato un diritto all’assistenza). Forma del rapporto diritto-dovere, a priorità del dovere (forma della beneficenza privata). Al dovere di assistenza al povero corrisponde una pretesa del povero come correlato, nella relazione morale da uomo a uomo tra sofferente e benestante. Il dovere di assistenza ha qui come scopo sufficiente il miglioramento della situazione del povero stesso. 3. Assistenza pubblica nello stato moderno vs. beneficenza privata. 3.1. Assistenza ai poveri nello stato moderno. L’assistenza ai poveri diviene sempre più materia di competenza della cerchia statale. La svolta nell’assistenza ai poveri, che diviene un’obbligazione astratta dello stato si compie in Inghilterra a partire dal 1834, in Germania all’incirca alla metà del 1800. Spesso è presente per legge un dovere dello stato di soccorrere i poveri, ma ad esso non corrisponde alcun diritto del povero a venire soccorso. In Inghilterra si sottolinea esplicitamente che il povero non ha nessun diritto di azione e nessun diritto al risarcimento danni in caso di soccorso illegittimamente rifiutato. Il diritto corrispondente a quel dovere dello stato non è il diritto del povero, ma è il “diritto” di ogni singolo cittadino a che la tassa per i poveri di cui è gravato venga prelevata e impiegata per un importo tale da permettere il conseguimento degli scopi dell’assistenza pubblica. Qui Simmel si riferisce alla categoria che i giuristi del diritto amministrativo avrebbero chiamato “interesse legittimo”. L’esempio da lui fatto lo conferma: se si potesse provare che un ladro avrebbe omesso di compiere un furto se gli fosse toccato il soccorso di povertà adeguato per legge e da lui richiesto, il derubato potrebbe in linea di principio citare l’amministrazione competente in materia di poveri richiedendo un risarcimento dei danni. Il povero si trova, di fronte al diritto dello stato, nella stessa situazione degli animali. Il maltrattamento degli animali (nella legge tedesca dell’epoca di Simmel) viene punito solo quando viene fatto pubblicamente e in modo da destare scandalo. Quindi non è il riguardo per gli animali in quanto tali a motivare la punizione, ma solo il riguardo per gli spettatori del maltrattamento. La esclusione del povero dalla posizione di scopo finale della assistenza si manifesta anche nella esclusione del povero dalla partecipazione al procedimento amministrativo. La posizione del povero (materia dell’intervento statale e non scopo finale dell’intervento) può essere paragonata anche a quella di un corso d’acqua che lo stato ha l’obbligo di deviare per ottenere l’irrigazione su alcuni terreni: il corso d’acqua è sì l’oggetto del dovere dello stato, ma non il portatore del diritto corrispondente; diritto che spetta piuttosto ai confinanti con il corso d’acqua. 3.1.1. Struttura sociologica della legge sugli alimenti. Il povero non ha un diritto all’assistenza nemmeno nel caso in cui la legge impone ai parenti benestanti del povero l’obbligo degli alimenti. Qui sembra a prima vista che il povero abbia effettivamente una pretesa verso i parenti benestanti, che lo stato si assume soltanto il compito di assicurare e di mettere in atto. Il senso intrinseco è tuttavia diverso: la comunità statale si prende cura del povero per motivi di opportunità, e si crea a sua volta una copertura rivolgendosi ai parenti, perché altrimenti i costi sarebbero per essa esorbitanti. La pretesa immediata da persona a persona, esistente tra il fratello povero e il fratello ricco e che è soltanto morale, non interessa affatto alla legge. Questa è la struttura sociologica della legge sugli alimenti: essa non vuole affatto attribuire a un dovere morale la forma coercitiva del diritto; la legge deve tutelare esclusivamente gli interessi sociali della collettività, e li tutela in entrambe le direzioni: soccorrendo il povero e coprendo i costi con i suoi parenti. Questo senso interiore dell’obbligo degli alimenti (senso esclusivamente sociale) viene simboleggiato dal modo dello svolgimento pratico dell’obbligo: il povero viene dapprima, dietro sua richiesta, soccorso a sufficienza, e soltanto in seguito si cerca un figlio o un padre che eventualmente, secondo la sua situazione patrimoniale, viene condannato a rifondere non tutte le spese di assistenza, ma forse la metà o un terzo. Il senso esclusivamente sociale (e non morale) della regola traspare anche dal fatto che, secondo il codice civile tedesco, l’obbligo di sostentamento a carico del parente del povero interviene soltanto quando “non mette in pericolo il sostentamento conforme al ceto” dell’obbligato. Dal punto di vista morale sarebbe richiesto, almeno in certi casi, un soccorso che arrivi fino a mettere in pericolo il sostentamento conforme al ceto. Ma la collettività rinuncia a mettere in pericolo il sostentamento conforme al ceto dell’obbligato, perché il decadere di un individuo dalla sua posizione conforme al ceto arrecherebbe allo status della società un pregiudizio che sembra superare, per importanza sociale, il vantaggio materiale che la società potrebbe ricavare da quell’individuo. L’obbligo degli alimenti non contiene quindi nulla di un diritto del povero verso i suoi parenti benestanti; non è altro che l’obbligo di assistenza gravante sullo stato, che lo stato ha rimbalzato sui parenti e al quale non deve corrispondere in generale alcun diritto o pretesa da parte del povero. 3.1.2. Simboli sostanziali del carattere centralistico dell’assistenza ai poveri. Il carattere centralistico dell’assistenza ai poveri si è rivelato in simboli sostanziali, molto tempo prima che divenisse concettualmente chiaro. Ad esempio, nell’Inghilterra dei tempi più antichi l’assistenza ai poveri era collegata al substrato più stabile dell’esistenza sociale, i monasteri e le parrocchie, poiché soltanto il possesso ecclesiastico della manomorta garantiva una durata e continuità dell’assistenza che desse affidamento. Il medesimo collegamento dell’assistenza ai poveri con il substrato più stabile dell’esistenza sociale si rivela anche nella successiva imposta inglese per i poveri, legata al possesso fondiario. L’assistenza ai poveri si rivela talmente al centro del gruppo sociale che nell’amministrazione locale soltanto gradualmente si sono aggregati ad essa, come suo baricentro, l’amministrazione scolastica e quella stradale, la sanità e i catasti. 3.1.3. Caratteri di minimalità e oggettività dell’assistenza statale. La prestazione della collettività statale nei confronti del povero ha due caratteri: è limitata ad un minimo ed ha carattere oggettivo (è oggettivamente determinabile). Carattere di minimo della prestazione della collettività. Lo stato e in generale la collettività si prendono cura soltanto del bisogno più urgente e immediato. L’assistenza ai poveri ha come principio stabile che dalla tasca dei contribuenti si può concedere al povero soltanto il minimo di sostentamento assolutamente necessario. Ciò è profondamente connesso con il carattere delle azioni spirituali collettive in generale: il contenuto dell’azione collettiva può essere soltanto quel minimo relativo alla sfera della personalità in cui essa coincide sicuramente con ogni altra. Da ciò risulta che in nome di una collettività non può essere fatta una spesa maggiore di quella che si può pretendere dal suo membro più parsimonioso. L’azione collettiva ha come contenuto il carattere di un minimo, a causa della necessità di abbracciare anche il livello più basso della scala (economica, culturale, etica, estetica, etc.). Così, anche la prestazione della collettività nei confronti del povero si limita ad un minimo, in modo perfettamente appropriato all’essenza tipica delle azioni collettive. Carattere di oggettività della prestazione della collettività. Dal fatto che la prestazione si limita a un minimo deriva anche il secondo carattere di tale prestazione: l’oggettività. Infatti, è possibile constatare in maniera oggettiva l’occorrente (fissare con sicurezza approssimativa, indipendente da apprezzamenti soggettivi, ciò che occorre), per preservare qualcuno dall’annientamento fisico. Ogni concessione al di là di questo limite, ogni azione che favorisca un innalzamento positivo, richiede criteri molto meno univoci, ed è rimessa per misura e forma ad apprezzamenti più soggettivi. I casi di indigenza che si presentano in modo uniforme, che non sono molto diversi tra loro (in particolare i casi di indigenza non provocata da malattia e da inferiorità fisica), sono i più adatti all’assistenza statale, mentre i casi che si configurano in modo individuale si addicono meglio alla più stretta comunità locale. La misura dell’assistenza è data non soltanto dal povero, ma anche dall’interesse della collettività. Mentre la collettività sembra avere innanzitutto interesse alla limitazione dell’assistenza verso il basso, sì che il povero non riceva troppo poco, sussiste però anche l’altro interesse, a che il povero non riceva troppo. L’insufficienza dell’assistenza privata consiste non soltanto nel troppo poco, ma anche nel troppo: essa educa il povero all’ozio, impiega in modo economicamente improduttivo i mezzi esistenti e favorisce a capriccio l’uno invece dell’altro. 3.2. Confronto con la forma della beneficenza privata. L’assistenza statale, con i suoi caratteri di minimalità e oggettività, rinuncia completamente all’esame della dignità personale del povero. Essa richiede quindi una integrazione da parte della beneficenza privata. La beneficenza privata si rivolge all’individuo determinato che ne sia degno e può scegliere i soggetti da assistire in maniera molto più soggettiva, perché della necessità più urgente si cura già lo stato. Essa ha il compito di rendere nuovamente produttivo il povero già protetto dalla morte per fame, di curare il bisogno, per il quale lo stato offre solo una mitigazione momentanea. L’assistenza statale è determinata dal terminus a quo, dalla necessità del bisogno più urgente, procede in senso causale. Lo stato viene in aiuto alla povertà: l’interesse si dirige alla povertà come fenomeno di deficienza sociale oggettivamente determinato, che richiede di essere eliminato, di essere compensato, in quanto tale, indipendentemente dal soggetto, dalle cause e dalle conseguenze individuali. L’assistenza si rivolge qui al fatto della povertà. La beneficenza privata è determinata dal terminus ad quem, dall’ideale di creare individui indipendenti, procede in senso teleologico. La beneficenza privata viene in aiuto al povero: l’interesse si dirige verso l’individuo povero, che deve essere messo, nella sua totalità, in una situazione nella quale la povertà scompare da sé. La povertà agisce qui soltanto come occasione attuale per occuparsi dell’individuo. L’assistenza si rivolge qui alla causa della povertà. E’ questa una differenza sociologica di prim’ordine. Esempio dei rapporti intimi, in cui l’interesse del soggetto può essere rivolto o all’amato o meramente all’amore. In questo secondo caso, al soggetto è sufficiente che venga offerto il valore emotivo dell’amore, spesso con una strana indifferenza verso l’individualità dell’amante. Sul medesimo problema si dividono le tendenze della criminalistica: la pena è rivolta al reato, come compensazione dell’ordine reale o ideale perturbato o al reo, in quanto soggetto che ha peccato meritevole di espiazione?