Francesca Mazzara Cosa sono gli studi culturali? Da: www.culturalstudies.it A cura di Michele Cometa Gli studi culturali nella loro forma attuale si sono sviluppati sistematicamente in Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale. Esistono diversi lavori precedenti sulle stesse tematiche, ma fu in realtà solo dopo il conflitto che il sistema di istruzione autonomo e autogestito diffuso tra la classe operaia inglese andò via via scomparendo e fu allora che Sydney Reybould, direttore del dipartimento di Extra Mural Studies all’Università di Leeds sostenne che la WEA (Workers’ Educational Association) doveva occuparsi dell’istruzione dei lavoratori in un ambito legato all’università, e che quindi spettava in primo luogo all’istituzione accademica la responsabilità di rivolgersi a un pubblico più vasto. Il nuovo ordine di studi ricevette dunque il suo impulso da questa rete di istituzioni e organizzazioni operaie che avevano conosciuto la loro maggiore diffusione tra le due guerre mondiali e questa stessa struttura, pur trovandosi ora in una fase di declino, trasmise ai neonati Cultural studies lo spirito genuinamente radical che già ne animava la classe docente. Su questo elemento di impegno politico faceva particolare affidamento uno dei pionieri delle iniziative legate all’istruzione per adulti lavoratori, Tommy Hodgkin dell’Oxford University Delegacy ma ciò nonostante, le istituzioni accademiche che promossero iniziative in tal senso ebbero seri problemi dal 1947 in poi, con l’acuirsi del clima di sospetto della guerra fredda. The Highway e The Tutor’s Bullettin, riviste ufficiali dei corsi, sancirono il crescente interesse anche da parte della sinistra del Labour per le arti e la letteratura, cui, fino ad allora, erano state preferite nei corsi le scienze esatte e in particolare l’economia, spesso insegnata secondo i discutibili criteri del marxismo zdanoviano. L’approccio sociologico degli studi culturali, inedito soprattutto in ambito inglese, beneficiò notevolmente dell’influsso in Gran Bretagna di immigrati europei, principalmente tedeschi, come Karl Mannheim e Karl Polanyi, dopo l’avvento del nazismo. Mannheim in particolare, che ebbe un incarico alla London School of Economics grazie a Morris Ginsburg dopo il suo esilio da Vienna, aveva cominciato a lavorare già negli anni Trenta nel settore dell’istruzione per adulti, e arrivò a considerare quest’attività l’avanguardia di una nuova sociologia aperta alla raccolta di dati e alla sperimentazione sul campo. Egli fu inoltre un convinto assertore della necessità di un coinvolgimento dell’esiliato nella cultura della nazione ospite, in questo caso l’Inghilterra; la sua fede religiosa unita all’impegno politico in favore di un socialismo cristiano lo portarono a collaborare, fra gli altri, con il filosofo Alexander D. Lindsay, con lo storico George D. H. Cole e il pubblicista Harold J. Laski, tutti pensatori di scuola liberale. Soprattutto, a differenza di quei pensatori di sinistra che ebbero un ruolo consapevole nella nascita degli studi culturali, 1 Mannheim intrattenne rapporti di studio con Thomas Stearns Eliot, con il quale condivise una concezione della funzione dell’intellettuale come custode dei valori di un’intera società senza cedere però alla tentazione elitaria che anima l’intervento eliotiano nel ’48 delle Notes towards the Definition of Culture. Lo stesso termine intellectual ebbe una vasta circolazione in Gran Bretagna solo dopo la traduzione, nel 1936, di Ideologie und Utopie di Karl Mannheim del 1929. Contemporaneamente Paul Tillich e Adolph Löwe e altri francofortesi di orientamento weberiano, svolsero un compito sostanziale nell’introduzione nell’accademia inglese di una metodologia di matrice tedesca. Sia per Mannheim che per Polanyi, entrambi convinti assertori di un impegno dichiarato, il compito genuino dell’intellettuale consisteva nel sapere discriminare tra le forze oggettive e naturali da cui l’intera società beneficia sotto forma di spinte al progresso materiale e spirituale e quelle tendenze, di natura ideologica, di cui invece può trarre vantaggio temporaneo una sola classe e che, come tali, vanno smascherate e respinte. Mannheim sostenne inoltre la necessità di un imperativo o un’utopia, elemento molto presente anche in Bloch, Buber e Benjamin, che costituisse il fulcro di questo progresso collettivo e interclassista. In tale anelito la visione di Mannheim trovò adesioni in Gran Bretagna anche tra molti marxisti, che gli contestarono però la mancanza di un’analisi di classe del gruppo degli intellettuali e di un progetto politico esplicito e totalizzante. Il consenso riunito intorno a Mannheim portò nel 1940 alla pubblicazione di una versione ampliata di Mensch und Gesellschaft im Zeitalter des Umbaus del 1935, Man and Society, oltre che della raccolta di saggi Diagnosis of Our Time. Furono principalmente due i punti di questo sforzo collettivo che suscitarono vivaci dibattiti tra pensatori laici e socialisti e stimolarono così la nascita di una disciplina progressivamente autonoma: la concezione dell’intellettuale, in parte mutuata da Benda, come chierico capace di attuare un mutamento dall’alto, e l’idea di un progressivo degrado della società in quanto società di massa. Sulla massificazione della società nata dalla rivoluzione industriale si erano pronunciati a più riprese Eliot con la sua Idea of a Christian Society (1939) base delle Notes (1948), nonché Frank R. Leavis e Ivor A. Richards e fu su queste problematiche che si sviluppò l’attività di Raymond Williams, Richard Hoggart e Edward Palmer Thompson. Tutti furono impegnati pressoché nello stesso periodo in corsi di adult education: Hoggart, di origini proletarie, formatosi alla scuola liberale di Bonamy Dobrée, fu influenzato da Lionel Trilling con Middle of the Journey (1947) e The Liberal Imagination (1950) nonché da A Study of History (1951) di Toynbee e dai Four Quartets (1935-1942) eliotiani. Il suo interesse si incentrò prevalentemente sulla progressiva scomparsa di una genuina cultura popolare e sulle modalità di funzionamento della società urbana, caratterizzata da forme di aggregazione sempre più complesse. Il suo The Uses of Literacy del 1957 analizza come il sistema educativo interagisca con le forme di produzione culturale su larga scala, dal cinema alla letteratura popolare, e finisca col determinare l’appartenenza a una certa classe sociale, soppiantando, fra l’altro, la trasmissione tradizionale del sapere, prevalentemente orale, all’interno di una comunità. Hoggart, pur sostenendo di non essere animato da un intento politico 2 quanto dalla preoccupazione del declino in Inghilterra delle istituzioni di famiglia, comunità e classe utilizza una serie di strumenti e indicazioni mutuate dall’antropologia nell’analisi del folklore che assumono un carattere inequivocabilmente politico. L’idea di esperienza come convalida empirica di un processo storico caratterizza anche The Making of the English Working Class (1963) di Thompson dove la ricerca sulle origini della classe sociale divenuta formazione storica omogenea tra il 1780 e il 1832 è vista come un processo cui contribuiscono dinamicamente più fattori. Tra questi la sfera sovrastrutturale, ovvero culturale, nell’impostazione marxista adottata da Thompson assume un’importanza preponderante, smentendo sia la concezione meccanicisitica del marxismo volgare – anzi, secondo Thompson recuperando alla lettera l’originale marxiano dei Grundrisse e della Deutsche Ideologie – che la visione delle classi sociali come raggruppamenti statici e rigidamente separati tipica dei sociologi liberali come Dahrendorf. Anche il contemporaneo Culture and Society (1958) di Williams tratta delle trasformazioni della società inglese tra il 1780 e il 1950 esaminando l’evoluzione semantica di termini chiave come arte, industria, democrazia, e, appunto, cultura in un corpus di testi che abbraccia autori canonici della letteratura inglese e figure prevalentemente ottocentesche rilevanti nel pensiero politico, come Carlyle, Morris e Marx. Con quest’opera Williams unì l’impegno etico propugnato da Leavis all’indagine sociologica applicata alla letteratura, un approccio metodologico che il suo maestro Leavis e il gruppo della rivista Scrutiny non avevano mai voluto accettare. Consapevole delle tradizioni socialiste nella famiglia d’origine nel Galles, Williams nel corso di tutta la sua attività di studioso si sarebbe poi concentrato sulla formazione e lo sviluppo di concetti come cultura, canone, nazione e identità, rilevando lo scarto esistente tra ciò che veniva insegnato nella scuola e nelle università britanniche e il portato dell’esperienza nella comunità da cui proveniva. Con Williams iniziò l’analisi e la revisione delle idee alla base dei cosiddetti English studies, così come trasparivano dal cosiddetto Newbolt Report, dove si attribuiva all’insegnamento della letteratura notevole importanza nella formazione del cittadino inglese. I risultati di questo tipo di ricerca avrebbero poi dato luogo a una serie di suggestioni per un’azione politica incentrata sulla sfera culturale in circostanze storiche ben precise. Fra queste spicca il concetto di Englishness, insieme di valori legati ad un modello ideale di suddito e frutto dell’impostazione arnoldiana dello studio della letteratura. La Englishness costituisce tra l’altro il nesso teorico di tutta una serie di studi nel campo della comparatistica, delle ricerche postcoloniali e degli studi culturali. Contro una nozione unitaria e immutabile di Englishness a sostegno del canone si pronunciò Williams nei suoi studi tesi a rivalutare una nozione di cultura aperta alle suggestioni di Volosinov, a loro volta debitrici nei confronti di Bachtin e della scuola di Lotman. In The Country and the City (1973) Williams individuò anche il discrimine tra una tradizione nata e sviluppatasi dal centro metropolitano – come fulcro anche di espansione imperiale – e le testimonianze antagoniste, da Blake a Dickens in poi, che rappresentano e danno voce alla periferia, intesa anche come sfera regionale e minoritaria, e a gruppi subalterni. Sulla reazione sistematica al sistema di valori normalmente associato alla 3 Englishness si definisce anche la prassi degli studi (post-)coloniali, che sapranno valorizzare queste aperture nel campo degli English studies arricchendolo degli spunti teorici nati dalla contemporanea ricerca nel campo dei media. Anche i cosiddetti Culturalist studies o Culturalism nascono da una branca degli studi culturali come reazione al ruolo secondario assegnato dai teorici marxisti alla cultura rispetto alla sfera economica e, in particolare, alla priorità data da questi nello studio dei fenomeni sociali ai mezzi di produzione. Stuart Hall e Tony Bennett, fra gli altri, tradussero e utilizzarono negli anni Sessanta gli studi dei francofortesi contro una concezione, dominante in campo anglosassone, fortemente condizionata dalla sociologia americana (Paul Lazarsfeld, Bemald Berelson, Hazle Gaudet). Negli Stati Uniti l’orientamento prevalente nell’accademia, di matrice positivista, vedeva una società di massa indifferenziata, passiva e affatto condizionabile dai nuovi sistemi di comunicazione. Hall formula una critica serrata di quella concezione liberal pluralista legata all’orientamento comportamentista delle scienze sociali. In America alla fine degli anni Cinquanta la visione acquiescente dei media nasceva dalla soddisfatta constatazione del pluralismo politico come garanzia di una democrazia realizzata. Servendosi dello strutturalismo di Lévi-Strauss e Barthes fino alla teoria degli apparati di Althusser, Hall smentisce l’idea che i media forniscano una riflesso immediato della realtà e che soprattutto offrano a chiunque un analogo accesso ai canali di comunicazione e, attraverso questi, al dibattito politico. L’intera concezione liberale della democrazia ne risulta fortemente inficiata. Il cosiddetto paradigma critico cui approda la critica di Hall rivaluta e mette in primo piano la funzione dell’ideologia. Gli studi culturali vengono concepiti in opposizione al ruolo affatto secondario assegnato alla cultura nella sociologia di Parson e anche al modello base-sovrastruttura del marxismo volgare, soprattutto per ciò che concerne la distinzione operata all’interno di questo dualismo, tra forze ideali e materiali. La cultura indica la dialettica tra l’essere e la coscienza sociale; abbraccia come tale i valori che emergono e si affermano nell’ambito di una certa comunità dove la comunità in esame può corrispondere anche a un’intera classe sociale, visto che viene giudicata empiricamente: in altri termini, la cultura di un gruppo corrisponde a tutte le manifestazioni del gruppo stesso, considerate in una rete di relazioni e soprattutto non come dati fissi, ma all’interno di un’evoluzione storica. Nella considerazione dei media si sono affermate due concezioni che hanno condizionato l’evolversi degli studi del Culturalism: da un lato lo strutturalismo anglosassone ha sottolineato, sulla scia di quello francese, la crescente autonomia degli apparati fino al punto in cui essi sfuggono anche al controllo dell’autorità politica preposta al loro funzionamento. Rientrano in questo orientamento fra gli altri, gli studi Sande Cohen, Graham Murdock e Peter Golding. In un ambito non legato soltanto alla ricerca sui media gli studi sull’ideologia di Terry Eagleton possono anche essere riferiti al Culturalism. Dall’altra parte invece si pone il gruppo di studiosi, tra cui rientra lo stesso Hall, che concepisce l’agone politico come fondamentalmente aperto, pur non trascurando il ruolo dell’ideologia, 4 ricondotta però dall’idea althusseriana di fattore determinante ed esclusivo a una forza che tende a mascherare, servendosi dei canali della comunicazione, gli interessi prevalentemente economici di una classe o di un gruppo di potere (Th. Bennet). Hall e la frazione di studiosi cosiddetti culturalist si servono del concetto gramsciano di egemonia per individuare le aree dove si ottiene consenso attraverso un’azione congiunta condotta attraverso più canali di comunicazione. La mancanza in Italia di un termine specifico per gli studi culturali non significa che non vi sia nel nostro Paese un interesse per le tematiche che normalmente vengono studiate in ambito anglosassone. L’area di questi studi corrisponde in Italia a quella coperta da discipline come la sociologia, l’antropologia culturale o l’etnologia, spesso insegnate congiuntamente nelle facoltà di scienze della comunicazione. Il temine cultura designa sia una serie di attività di appannaggio quasi esclusivo degli intellettuali che, in un’altra accezione molto più ampia di uso corrente in antropologia, un gruppo di attività caratteristiche e qualificanti di una certa società, dai sistemi di produzione materiale alle convenzioni nell’abbigliamento ai riti religiosi o, infine, anche al modo di trascorrere il tempo libero. Tutti questi fenomeni devono essere studiati non già in termini intrinseci, in base cioè a criteri estetici, intellettuali, formali preordinati, ma piuttosto come parte essenziale delle norme di comportamento collettive, e dunque secondo le convenzioni che generano i giudizi di valore e l’idea di considerazione sociale. Ne consegue che la prassi in ambito culturale risulta fortemente condizionata dalla classe, dal sesso e dall’appartenenza a un particolare gruppo etnico. Tali differenze sono state in gran parte erose dal sistema di comunicazioni tipico delle società industriali che ha avuto anche in Italia l’effetto di rendere difficile oggi una chiara distinzione tra la sfera delle arti, dello svago e dello spettacolo e quella dei costumi tradizionali. Storicamente in Italia l’identificazione delle arti con l’istruzione e le arti alte è stata molto più duratura che altrove, per un retaggio umanistico legato a Croce e Gentile che identificavano la cultura prevalentemente o esclusivamente con una classe di intellettuali. Un differente concetto di cultura cominciò a emergere solo dopo gli studi di Cirese e De Martino che valorizzarono le suggestioni di Gramsci: le note sul folklore contenute nei Quaderni del carcere (1975) fornirono infatti la base teorica per una rivalutazione delle comunità agrarie localizzate prevalentemente nel Mezzogiorno. Questo interesse degli antropologi risultò allora storicamente motivato anche dalla marginalizzazione attuata nei confronti del Sud d’Italia da parte del fascismo. Rapidamente queste ricerche si estesero però a insediamenti urbani come testimoniano le prime ricerche sistematiche da parte dell’istituto De Martino di Giovanni Bosio. Ne è un esempio recente lo studio di Alessandro Portelli sulla città industriale di Terni, mentre un altro campo di ricerca venne aperto da Roberto Leydi nell’etnomusicologia. Questi lavori finiscono per assumere un marcato significato politico perché, nelle parole di Luigi Lombardi Satriani, studiare il folklore significava parteggiare per i diseredati, le classi subalterne in contrasto con quella cultura commerciale in piena ascesa in Italia negli stessi anni in cui Pasolini la poneva sotto accusa. Pasolini, Fortini e altri intellettuali videro la televisione come strumento di questa 5 commercializzazione e, come tale, intrinsecamente nociva per una società sana. Quest’opposizione fece seguito per certi versi a una radicata avversione degli intellettuali italiani nei confronti del cinema. Dopo le ricerche a carattere etnologico si aprì comunque negli anni Sessanta un altro filone degli studi culturali incentrato sui media di cui Ivano Cipriani e Umberto Eco furono tra i pionieri, trattando diffusamente di sistemi di comunicazione di massa nella rivista Ikon. Di recente, stimolato anche dalla particolarità della situazione politica italiana, si è sviluppato un interesse sulle modalità di influsso reciproco tra media diversi come televisione e stampa o sulla nascita e lo sviluppo di grosse concentrazioni industriali nel campo dei media. 6