Mauro Pala Gli studi culturali nella loro forma attuale si sono

Mauro Pala
Gli studi culturali nella loro forma attuale si sono sviluppati
sistematicamente in Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale.
Esistono diversi lavori precedenti sulle stesse tematiche, ma fu in realtà
solo dopo il conflitto che il sistema di istruzione autonomo e autogestito
diffuso tra la classe operaia inglese andò via via scomparendo e fu allora
che Sydney Reybould, direttore del dipartimento di Extra Mural Studies
all’Università di Leeds sostenne che la
WEA
(Workers’ Educational
Association) doveva occuparsi dell’istruzione dei lavoratori in un ambito
legato all’università, e che quindi spettava in primo luogo all’istituzione
accademica la responsabilità di rivolgersi a un pubblico più vasto.
Il nuovo ordine di studi ricevette dunque il suo impulso da questa
rete di istituzioni e organizzazioni operaie che avevano conosciuto la loro
maggiore diffusione tra le due guerre mondiali e questa stessa struttura,
pur trovandosi ora in una fase di declino, trasmise ai neonati Cultural
studies lo spirito genuinamente radical che già ne animava la classe
docente. Su questo elemento di impegno politico faceva particolare
affidamento uno dei pionieri delle iniziative legate all’istruzione per adulti
lavoratori, Tommy Hodgkin dell’Oxford University Delegacy ma ciò
nonostante, le istituzioni accademiche che promossero iniziative in tal
senso ebbero seri problemi dal 1947 in poi, con l’acuirsi del clima di
sospetto della guerra fredda. The Highway e The Tutor’s Bullettin, riviste
ufficiali dei corsi, sancirono il crescente interesse anche da parte della
sinistra del Labour per le arti e la letteratura, cui, fino ad allora, erano
state preferite nei corsi le scienze esatte e in particolare l’economia,
spesso insegnata secondo i discutibili criteri del marxismo zdanoviano.
L’approccio sociologico degli studi culturali, inedito soprattutto in ambito
inglese, beneficiò notevolmente dell’influsso in Gran Bretagna di
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immigrati europei, principalmente tedeschi, come Karl Mannheim e Karl
Polanyi, dopo l’avvento del nazismo. Mannheim in particolare, che ebbe
un incarico alla London School of Economics grazie a Morris Ginsburg
dopo il suo esilio da Vienna, aveva cominciato a lavorare già negli anni
Trenta nel settore dell’istruzione per adulti, e arrivò a considerare
quest’attività l’avanguardia di una nuova sociologia aperta alla raccolta di
dati e alla sperimentazione sul campo. Egli fu inoltre un convinto
assertore della necessità di un coinvolgimento dell’esiliato nella cultura
della nazione ospite, in questo caso l’Inghilterra; la sua fede religiosa
unita all’impegno politico in favore di un socialismo cristiano lo portarono
a collaborare, fra gli altri, con il filosofo Alexander D. Lindsay, con lo
storico George D. H. Cole e il pubblicista Harold J. Laski, tutti pensatori
di scuola liberale. Soprattutto, a differenza di quei pensatori di sinistra
che ebbero un ruolo consapevole nella nascita degli studi culturali,
Mannheim intrattenne rapporti di studio con Thomas Stearns Eliot, con il
quale condivise una concezione della funzione dell’intellettuale come
custode dei valori di un’intera società senza cedere però alla tentazione
elitaria che anima l’intervento eliotiano nel ’48 delle Notes towards the
Definition of Culture. Lo stesso termine intellectual ebbe una vasta
circolazione in Gran Bretagna solo dopo la traduzione, nel 1936, di
Ideologie und Utopie di Karl Mannheim del 1929. Contemporaneamente
Paul Tillich e Adolph Löwe e altri francofortesi di orientamento
weberiano,
svolsero
un
compito
sostanziale
nell’introduzione
nell’accademia inglese di una metodologia di matrice tedesca. Sia per
Mannheim che per Polanyi, entrambi convinti assertori di un impegno
dichiarato, il compito genuino dell’intellettuale consisteva nel sapere
discriminare tra le forze oggettive e naturali da cui l’intera società
beneficia sotto forma di spinte al progresso materiale e spirituale e
quelle tendenze, di natura ideologica, di cui invece può trarre vantaggio
temporaneo una sola classe e che, come tali, vanno smascherate e
respinte. Mannheim sostenne inoltre la necessità di un imperativo o
un’utopia, elemento molto presente anche in Bloch, Buber e Benjamin,
che costituisse il fulcro di questo progresso collettivo e interclassista. In
tale anelito la visione di Mannheim trovò adesioni in Gran Bretagna anche
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tra molti marxisti, che gli contestarono però la mancanza di un’analisi di
classe del gruppo degli intellettuali e di un progetto politico esplicito e
totalizzante. Il consenso riunito intorno a Mannheim portò nel 1940 alla
pubblicazione di una versione ampliata di Mensch und Gesellschaft im
Zeitalter des Umbaus del 1935, Man and Society, oltre che della raccolta
di saggi Diagnosis of Our Time. Furono principalmente due i punti di
questo sforzo collettivo che suscitarono vivaci dibattiti tra pensatori laici
e
socialisti
e
stimolarono
così
la
nascita
di
una
disciplina
progressivamente autonoma: la concezione dell’intellettuale, in parte
mutuata da Benda, come chierico capace di attuare un mutamento
dall’alto, e l’idea di un progressivo degrado della società in quanto
società di massa.
Sulla massificazione della società nata dalla rivoluzione industriale
si erano pronunciati a più riprese Eliot con la sua Idea of a Christian
Society (1939) base delle Notes (1948), nonché Frank R. Leavis e Ivor
A. Richards e fu su queste problematiche che si sviluppò l’attività di
Raymond Williams, Richard Hoggart e Edward Palmer Thompson. Tutti
furono impegnati pressoché nello stesso periodo in corsi di adult
education: Hoggart, di origini proletarie, formatosi alla scuola liberale di
Bonamy Dobrée, fu influenzato da Lionel Trilling con Middle of the
Journey (1947) e The Liberal Imagination (1950) nonché da A Study of
History (1951) di Toynbee e dai Four Quartets (1935-1942) eliotiani. Il
suo interesse si incentrò prevalentemente sulla progressiva scomparsa di
una genuina cultura popolare e sulle modalità di funzionamento della
società urbana, caratterizzata da forme di aggregazione sempre più
complesse. Il suo The Uses of Literacy del 1957 analizza come il sistema
educativo interagisca con le forme di produzione culturale su larga scala,
dal cinema alla letteratura popolare, e finisca col determinare
l’appartenenza a una certa classe sociale, soppiantando, fra l’altro, la
trasmissione tradizionale del sapere, prevalentemente orale, all’interno di
una comunità. Hoggart, pur sostenendo di non essere animato da un
intento politico quanto dalla preoccupazione del declino in Inghilterra
delle istituzioni di famiglia, comunità e classe utilizza una serie di
strumenti e indicazioni mutuate dall’antropologia nell’analisi del folklore
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che assumono un carattere inequivocabilmente politico. L’idea di
esperienza come convalida empirica di un processo storico caratterizza
anche The Making of the English Working Class (1963) di Thompson
dove la ricerca sulle origini della classe sociale divenuta formazione
storica omogenea tra il 1780 e il 1832 è vista come un processo cui
contribuiscono dinamicamente più fattori. Tra questi la sfera
sovrastrutturale, ovvero culturale, nell’impostazione marxista adottata
da Thompson assume un’importanza preponderante, smentendo sia la
concezione meccanicisitica del marxismo volgare – anzi, secondo
Thompson recuperando alla lettera l’originale marxiano dei Grundrisse e
della Deutsche Ideologie – che la visione delle classi sociali come
raggruppamenti statici e rigidamente separati tipica dei sociologi liberali
come Dahrendorf. Anche il contemporaneo Culture and Society (1958)
di Williams tratta delle trasformazioni della società inglese tra il 1780 e il
1950 esaminando l’evoluzione semantica di termini chiave come arte,
industria, democrazia , e, appunto, cultura in un corpus di testi che
abbraccia
autori
canonici
della
letteratura
inglese
e
figure
prevalentemente ottocentesche rilevanti nel pensiero politico, come
Carlyle, Morris e Marx. Con quest’opera Williams unì l’impegno etico
propugnato da Leavis all’indagine sociologica applicata alla letteratura,
un approccio metodologico che il suo maestro Leavis e il gruppo della
rivista Scrutiny non avevano mai voluto accettare. Consapevole delle
tradizioni socialiste nella famiglia d’origine nel Galles, Williams nel corso
di tutta la sua attività di studioso si sarebbe poi concentrato sulla
formazione e lo sviluppo di concetti come cultura, canone, nazione e
identità, rilevando lo scarto esistente tra ciò che veniva insegnato nella
scuola e nelle università britanniche e il portato dell’esperienza nella
comunità da cui proveniva. Con Williams iniziò l’analisi e la revisione delle
idee alla base dei cosiddetti English studies, così come trasparivano dal
cosiddetto Newbolt Report, dove si attribuiva all’insegnamento della
letteratura notevole importanza nella formazione del cittadino inglese. I
risultati di questo tipo di ricerca avrebbero poi dato luogo a una serie di
suggestioni per un’azione politica incentrata sulla sfera culturale in
circostanze storiche ben precise. Fra queste spicca il concetto di
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Englishness , insieme di valori legati ad un modello ideale di suddito e
frutto dell’impostazione arnoldiana dello studio della letteratura. La
Englishness costituisce tra l’altro il nesso teorico di tutta una serie di
studi nel campo della comparatistica, delle ricerche postcoloniali e degli
studi culturali. Contro una nozione unitaria e immutabile di Englishness a
sostegno del canone si pronunciò Williams nei suoi studi tesi a rivalutare
una nozione di cultura aperta alle suggestioni di Volosinov, a loro volta
debitrici nei confronti di Bachtin e della scuola di Lotman. In The Country
and the City (1973) Williams individuò anche il discrimine tra una
tradizione nata e sviluppatasi dal centro metropolitano – come fulcro
anche di espansione imperiale – e le testimonianze antagoniste, da Blake
a Dickens in poi, che rappresentano e danno voce alla periferia, intesa
anche come sfera regionale e minoritaria, e a gruppi subalterni. Sulla
reazione sistematica al sistema di valori normalmente associato alla
Englishness si definisce anche la prassi degli studi (post-)coloniali, che
sapranno valorizzare queste aperture nel campo degli English studies
arricchendolo degli spunti teorici nati dalla contemporanea ricerca nel
campo dei media.
Anche i cosiddetti Culturalist studies o Culturalism nascono da una
branca degli studi culturali come reazione al ruolo secondario assegnato
dai teorici marxisti alla cultura rispetto alla sfera economica e, in
particolare, alla priorità data da questi nello studio dei fenomeni sociali ai
mezzi di produzione. Stuart Hall e Tony Bennett, fra gli altri, tradussero e
utilizzarono negli anni Sessanta gli studi dei francofortesi contro una
concezione, dominante in campo anglosassone, fortemente condizionata
dalla sociologia americana (Paul Lazarsfeld, Bemald Berelson, Hazle
Gaudet). Negli Stati Uniti l’orientamento prevalente nell’accademia, di
matrice positivista, vedeva una società di massa indifferenziata, passiva
e affatto condizionabile dai nuovi sistemi di comunicazione. Hall formula
una critica serrata di quella concezione liberal pluralista legata
all’orientamento comportamentista delle scienze sociali. In America alla
fine degli anni Cinquanta la visione acquiescente dei media nasceva dalla
soddisfatta constatazione del pluralismo politico come garanzia di una
democrazia realizzata. Servendosi dello strutturalismo di Lévi-Strauss e
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Barthes fino alla teoria degli apparati di Althusser, Hall smentisce l’idea
che i m e d i a forniscano una riflesso immediato della realtà e che
soprattutto offrano a chiunque un analogo accesso ai canali di
comunicazione e, attraverso questi, al dibattito politico. L’intera
concezione liberale della democrazia ne risulta fortemente inficiata. Il
cosiddetto paradigma critico cui approda la critica di Hall rivaluta e mette
in primo piano la funzione dell’ideologia. Gli studi culturali vengono
concepiti in opposizione al ruolo affatto secondario assegnato alla
cultura nella sociologia di Parson e anche al modello base-sovrastruttura
del marxismo volgare, soprattutto per ciò che concerne la distinzione
operata all’interno di questo dualismo, tra forze ideali e materiali. La
cultura indica la dialettica tra l’essere e la coscienza sociale; abbraccia
come tale i valori che emergono e si affermano nell’ambito di una certa
comunità dove la comunità in esame può corrispondere anche a un’intera
classe sociale, visto che viene giudicata empiricamente: in altri termini, la
cultura di un gruppo corrisponde a tutte le manifestazioni del gruppo
stesso, considerate in una rete di relazioni e soprattutto non come dati
fissi, ma all’interno di un’evoluzione storica. Nella considerazione dei
media si sono affermate due concezioni che hanno condizionato
l’evolversi degli studi del Culturalism : da un lato lo strutturalismo
anglosassone ha sottolineato, sulla scia di quello francese, la crescente
autonomia degli apparati fino al punto in cui essi sfuggono anche al
controllo dell’autorità politica preposta al loro funzionamento. Rientrano
in questo orientamento fra gli altri, gli studi Sande Cohen, Graham
Murdock e Peter Golding. In un ambito non legato soltanto alla ricerca sui
media gli studi sull’ideologia di Terry Eagleton possono anche essere
riferiti al Culturalism.
Dall’altra parte invece si pone il gruppo di studiosi, tra cui rientra lo
stesso Hall, che concepisce l’agone politico come fondamentalmente
aperto, pur non trascurando il ruolo dell’ideologia, ricondotta però
dall’idea althusseriana di fattore determinante ed esclusivo a una forza
che tende a mascherare, servendosi dei canali della comunicazione, gli
interessi prevalentemente economici di una classe o di un gruppo di
potere (Th. Bennet). Hall e la frazione di studiosi cosiddetti culturalist si
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servono del concetto gramsciano di egemonia per individuare le aree
dove si ottiene consenso attraverso un’azione congiunta condotta
attraverso più canali di comunicazione.
La mancanza in Italia di un termine specifico per gli studi culturali
non significa che non vi sia nel nostro Paese un interesse per le
tematiche che normalmente vengono studiate in ambito anglosassone.
L’area di questi studi corrisponde in Italia a quella coperta da discipline
come la sociologia, l’antropologia culturale o l’etnologia, spesso
insegnate congiuntamente nelle facoltà di scienze della comunicazione. Il
temine cultura designa sia una serie di attività di appannaggio quasi
esclusivo degli intellettuali che, in un’altra accezione molto più ampia di
uso corrente in antropologia, un gruppo di attività caratteristiche e
qualificanti di una certa società, dai sistemi di produzione materiale alle
convenzioni nell’abbigliamento ai riti religiosi o, infine, anche al modo di
trascorrere il tempo libero. Tutti questi fenomeni devono essere studiati
non già in termini intrinseci, in base cioè a criteri estetici, intellettuali,
formali preordinati, ma piuttosto come parte essenziale delle norme di
comportamento collettive, e dunque secondo le convenzioni che
generano i giudizi di valore e l’idea di considerazione sociale. Ne
consegue che la prassi in ambito culturale risulta fortemente
condizionata dalla classe, dal sesso e dall’appartenenza a un particolare
gruppo etnico. Tali differenze sono state in gran parte erose dal sistema
di comunicazioni tipico delle società industriali che ha avuto anche in
Italia l’effetto di rendere difficile oggi una chiara distinzione tra la sfera
delle arti, dello svago e dello spettacolo e quella dei costumi tradizionali.
Storicamente in Italia l’identificazione delle arti con l’istruzione e le arti
alte è stata molto più duratura che altrove, per un retaggio umanistico
legato a Croce e Gentile che identificavano la cultura prevalentemente o
esclusivamente con una classe di intellettuali. Un differente concetto di
cultura cominciò a emergere solo dopo gli studi di Cirese e De Martino
che valorizzarono le suggestioni di Gramsci: le note sul folklore
contenute nei Quaderni del carcere (1975) fornirono infatti la base
teorica per una rivalutazione delle comunità agrarie localizzate
prevalentemente nel Mezzogiorno. Questo interesse degli antropologi
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risultò allora storicamente motivato anche dalla marginalizzazione
attuata nei confronti del Sud d’Italia da parte del fascismo. Rapidamente
queste ricerche si estesero però a insediamenti urbani come
testimoniano le prime ricerche sistematiche da parte dell’istituto De
Martino di Giovanni Bosio. Ne è un esempio recente lo studio di
Alessandro Portelli sulla città industriale di Terni, mentre un altro campo
di ricerca venne aperto da Roberto Leydi nell’etnomusicologia. Questi
lavori finiscono per assumere un marcato significato politico perché, nelle
parole di Luigi Lombardi Satriani, studiare il folklore significava
parteggiare per i diseredati, le classi subalterne in contrasto con quella
cultura commerciale in piena ascesa in Italia negli stessi anni in cui
Pasolini la poneva sotto accusa. Pasolini, Fortini e altri intellettuali videro
la televisione come strumento di questa commercializzazione e, come
tale, intrinsecamente nociva per una società sana. Quest’opposizione
fece seguito per certi versi a una radicata avversione degli intellettuali
italiani nei confronti del cinema. Dopo le ricerche a carattere etnologico
si aprì comunque negli anni Sessanta un altro filone degli studi culturali
incentrato sui media di cui Ivano Cipriani e Umberto Eco furono tra i
pionieri, trattando diffusamente di sistemi di comunicazione di massa
nella rivista Ikon . Di recente, stimolato anche dalla particolarità della
situazione politica italiana, si è sviluppato un interesse sulle modalità di
influsso reciproco tra media diversi come televisione e stampa o sulla
nascita e lo sviluppo di grosse concentrazioni industriali nel campo dei
media.
(Cfr. anche M e d i o l o g i a , Music studies,
Semiosfera, S t u d i
(post)coloniali, Studi gay e lesbici, Studi queer, Studi sulla diaspora,
Studi sulla migrazione, Studi sul pregiudizio e gli stereotipi, Black cultural
studies)
Bellettristica, Canone, cccs (Centre For Contemporary Cultural Studies),
Classe, Codificare vs decodificare, Colportage, Common, Comunicazioni
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di massa, Comunità, Controcultura, Culture, Dominante, Egemonia,
Emergente, Ideologia, Industria culturale, K i t s c h,
Letteratura
d’intrattenimento, Letteratura di massa, Letteratura marginale,
Letteratura minore, Letteratura popolare, Letteratura triviale, Marxismo,
Media, Media, Moda, Politica, Pop,
Post-marxismo, Processo di
significazione, Razza, Residuale, Show Business,
Struttura del
sentimento, Subcultura, Tecnologia.
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