La scuola dell`inclusione: verso una comunità di

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La scuola dell’inclusione: verso una comunità di dialogo centrata sulla persona. Il progetto Stare bene a scuola del CISS/T di Imola. Nicoletta Balzaretti, Massimiliano Nunziati Premessa Il presente contributo intende descrivere un percorso di ideazione, costruzione e messa in atto di interventi legati all’inclusione scolastica di allievi con Disturbi Specifici dell'Apprendimento, coordinato dal Centro Integrato Servizi Scuola Territorio (CISS/T) del territorio imolese. Prima di addentrarci nella descrizione del processo, riteniamo necessarie alcune riflessioni e precisazioni dal punto di vista teorico e della contestualizzazione dell'intervento in questione. Parlare di inclusione scolastica su un territorio specifico significa molto più che enfatizzare l’intenzione di creare un contesto‐scuola realmente aperto a tutti e ipotizzare il superamento delle criticità a livello di esclusione‐selezione‐abbandono che caratterizzano la scuola italiana; analogamente ipotizzare interventi centrati sulla persona non significa attribuire ad un individuo un’etichetta vuota di senso che spesso non ne coglie unicità e singolarità, ma ha come obiettivo comprendere e valorizzare la trama di significati e dinamiche interpersonali che ne caratterizzano sostanzialmente l’identità e la storia di vita. Si tratta quindi di lavorare in una direzione che permetta da un lato di esplicitare e rendere chiare le dinamiche in cui la persona è coinvolta e dall’altro di porre le condizioni per una negoziazione di questi significati con tutti gli attori coinvolti nel contesto‐scuola. 1. L'ideazione del progetto “Star bene a scuola”: criticità di partenza In quella che da più voci viene definita come società post‐moderna (Bauman, 1999) si assiste ad una rapidissima evoluzione della struttura sociale in tutti i suoi aspetti, ad un cambiamento delle rappresentazioni che l’individuo ha di sé e dei gruppi sociali di cui fa parte e contemporaneamente ad un’estrema differenziazione delle singole realtà educative che si caratterizzano per diversa tipologia ed intenzionalità pedagogica. La problematica potrebbe definirsi come quella di una frammentazione educativa, che si concretizza nel moltiplicarsi delle realtà educative e formative, non solo in contesti definitivi formali (Maccario, 2006), ma anche in contesti di apprendimento informali e non formali (luoghi di incontro, associazioni sportive, proposte educative pomeridiane etc.). 1 La prima questione che ci poniamo è la seguente: quale direzione pedagogica hanno queste molteplici realtà educative? Vi è chiarezza al loro interno sul perché si educa, ovvero sulla direzione intenzionale del cambiamento nella persona‐educando? Nello scenario attuale, all’evoluzione in senso specialistico delle pratiche di ricerca scientifica e pedagogica così come all’estrema differenziazione che si incontra all’interno dei servizi educativi dal punto di vista delle percezioni dei singoli, delle rappresentazioni istituzionali e di gruppo e delle prassi educative messe in atto in ogni singola realtà, non sembra seguire una corrispondente evoluzione della scuola che, nelle sue strutture essenziali, sembra ancora ancorata a linee di pensiero pedagogiche e prassi educative sviluppatesi in un contesto sociale completamente differente. Lo sviluppo teorico cui si assiste in sede di ricerca accademica fatica così ad integrarsi sul complesso e multiforme terreno del contesto‐scuola, contenitore spesso non adeguato di un tessuto sociale oggi estremamente complesso e differenziato. Ad un’indubbia trasformazione delle esperienze di vita vissuta da tutti gli attori che si trovano coinvolti nel processo scolastico non sembra fare eco un’equivalente integrazione del sapere condiviso e delle procedure e prassi educative e di conseguenza, in termini più generali, ad una corrispondente evoluzione delle relazioni che a tutti i livelli si sperimentano in ambito scolastico. Il processo di specializzazione e di ricerca accademica spesso si traduce, in concreto, nella creazione di un lessico iniziatico di difficile comprensione all’esterno della disciplina a cui appartiene e di conseguenza di complessa integrazione nella vita scolastica di tutti i giorni. In questo senso, le direttive specialistiche, lontane dal tradurre in prassi educative una comprensione profonda delle problematiche a cui si riferiscono, si rivelano spesso tentativi standardizzati (dettati più da logiche fondate sull’autorità che le scienze esatte rivendicano sull'esperienza quotidiana dei singoli e sulle loro competenze che dalla mutua comprensione delle problematiche oggetto della loro analisi) di risolvere dal punto di vista produttivo e di controllo gestionale le problematiche che incontrano. Molte delle procedure formali di inclusione (ad esempio la Diagnosi Funzionale e il Piano Educativo Individualizzato) riconosciute nel contesto‐scuola faticano a tradursi operativamente all’interno di un’organizzazione scolastica alle prese con un drastico calo delle risorse economiche a sua disposizione e non ancora sufficientemente flessibile per integrarle al suo interno e presentano un indubbio problema dal punto di vista della percezione che singoli attori attribuiscono loro. 2 Il risultato di questa eccessiva proceduralizzazione delle conoscenze acquisite sviluppate in ambito scientifico spesso concorre a creare dinamiche di demotivazione e di comunicazione disfunzionale tra gli attori presenti nel sistema scuola. In questo senso dal punto di vista pedagogico la questione tecnica è di grande rilevanza e questo comporta nelle parole di Bertolini (1988) di «sottolineare il carattere di intenzionalità della stessa tecnica la quale infatti acquista il suo senso e il suo valore attraverso la capacità di essere congruente con ciò a cui si riferisce, ovvero con ciò che costituisce l'orizzonte dei fini cui si correla». Si tratta quindi di problematizzare le procedure interne al contesto‐scuola per evitare il rischio che si contraddicano dall'interno perdendo di senso e si riducano a puro tecnicismo che «esaurendosi in forme schematizzate meramente operative, che impediscono che si ponga con correttezza il problema del significato e si sganci dai fini o dalle ragioni per le quali la tecnica viene messa in atto, fino al punto di rivoltarsi contro l'uomo» (Bertolini, 1988). 1.1. Verso la costruzione di un linguaggio condiviso? Si delinea un problema di comunicazione intesa come traduzione di linguaggi differenti tra sapere specialistico e contesto scolastico che coinvolge non solo medici, psicologi, insegnanti ed educatori, ma anche genitori e studenti, intesi come destinatari principali del processo educativo. Concretamente, far fronte a questa problematica si traduce in una vera e propria operazione di traduzione tra codici che fanno riferimento a differenti discipline e che concorrono a delineare il percorso scolastico degli allievi con Disturbi Specifici di Apprendimento. Il lavoro di esplicitazione di significati condivisi e la loro negoziazione intersoggettiva crea quindi una matrice attraverso cui è possibile rendere comprensibile ciò che le singole discipline mettono in evidenza e delinea il terreno comune che si configura come contenitore per possibili interventi interdisciplinari. Senza questo lavoro di costruzione condivisa di significato i discorsi provenienti dalle singole discipline rischiano di inserirsi in maniera invasiva all’interno della rete di relazioni di un contesto che non è in grado di metabolizzarli correttamente, rischiando non solo di tradursi in prassi poco efficaci dal punto di vista educativo, ma anche di creare dinamiche esclusive e categorizzanti. Da questo punto di vista il richiamo pedagogico è quello di mantenersi sensibili e vigili onde evitare «il rischio di costruire nuove classificazioni che separino e producano abbassamento delle 3 attese per i ragazzi, mentre invece vogliamo promuovere la resilienza, valorizzare i talenti individuali e le potenzialità della comunità educativa1». Il problema della creazione di un lessico comune, di una polifonia, all'interno del contesto‐scuola e la costruzione di un discorso condiviso che permetta di fare luce sulle zone di ombra generate dalle reciproche incomprensioni e dagli sfasamenti di codice, si pongono come temi centrali nella formulazione di interventi educativi realmente condivisi e rispettosi della sensibilità di tutti. Non si tratta di negare la conoscenza acquisita a livello specialistico (medico, psicologico, pedagogico), ma di trovare il modo di utilizzare ciò che in essa è essenziale all'interno di percorsi educativi che si realizzano in contesti non immediatamente riconducibili a quelli in cui queste conoscenze sono nate. Al di là della specifica forma che può assumere questo linguaggio condiviso, sembra importante che le formule attraverso cui viene espressa e significata l'esperienza educativa e di vita dei ragazzi coinvolti siano realmente comprese ed accettate e che acquistino senso per le persone che attraverso queste conoscenze lavorano e vivono quotidianamente. Un’ultima riflessione di “inquadramento” riguarda la relazione tra linguaggio e realtà educativa: al di là delle differenze specifiche tra i vari codici è alle caratteristiche intrinseche del linguaggio che occorre fare riferimento nel pensare un intervento educativo realmente progettuale, trasformativo, aperto al possibile e al superamento del dato. Si tratta cioè, nello sviluppo di questo discorso condiviso, di fare particolare attenzione ad evitare definizioni cristallizzate che finiscono per oggettivare le situazioni e le persone, ricercando attivamente un linguaggio vivo e aperto al confronto, che possa mostrare e indicare piuttosto che afferrare l'oggetto a cui si rivolge. L'obiettivo di costruire una comunità di dialogo tra gli attori coinvolti nel contesto‐scuola si pone anche come una forma di resistenza pedagogica nei confronti di una tendenza allo sfilacciamento dei legami interpersonali nella società di oggi. Costruire un dialogo vero a scuola oltre agli obiettivi educativi già elencati, si pone come un primo passo attraverso cui la scuola, intesa come servizio e rete di relazioni tra le persone, fa valere le sue istanze di educazione e responsabilizzazione degli individui nei confronti della situazione sociale in cui vivono opponendo il dialogo e la comunicazione all'isolamento individualistico. 1
Estratto da Nonostante tutto, Manifesto del Congresso Erickson “La qualità dell’integrazione scolastica”, Rimini 8‐10 novembre 2013. 4 1.2 La centralità dei processi comunicativi come negoziazione dei significati all’interno della realtà scolastica. Dalle precedenti riflessioni emerge una caratteristica del sistema scolastico attuale una sostanziale difficoltà di comunicazione e comprensione reciproca da più punti di vista: ‐ dal punto di vista intra generazionale la complessità, la multietnicità e la poli‐cultura che caratterizzano il sistema scuola al giorno d'oggi rendono spesso difficile la condivisione dei significati anche tra gli stessi studenti ostacolando lo sviluppo del discorso scolastico in generale e generando frastagliate modalità di intervento da parte degli insegnanti; ‐ da un punto di vista inter generazionale gli stili educativi e di insegnamento dei singoli insegnanti fanno riferimento a metodologie di mediazione dei saperi spesso estremamente distanti dalla realtà vissuta dagli studenti: uno studente potrebbe ad esempio essere un esperto di nuove tecnologie e possedere una versatilità eccezionale, ma risultare profondamente inadeguato a sostenere una relazione educativa basata unicamente sulla conoscenza concettuale legata al codice scritto e visivo. Alla base dell'ideazione di un percorso educativo si pone quindi la comprensione sistemica del contesto‐scuola inteso come campo di relazioni tra differenti attori coinvolti sia nella costruzione di significati da attribuire alla realtà scolastica e alle sue problematiche sia nell’essere parte integrante dei percorsi di educazione e di insegnamento e delle procedure che li caratterizzano. Da questo punto di vista la scuola di oggi si espone alle criticità che l’hanno accompagnata fin dalle prime riflessioni moderne in ambito pedagogico, come la difficoltà di inclusione delle differenze, l'approccio poco flessibile e dogmatico, l'enfasi data alla trasmissione della conoscenza piuttosto che alla sua costruzione. Queste caratteristiche, inoltre, non si adeguano alle competenze di fatto richieste sia dalle Indicazioni nazionali e dalla normativa sia della società moderna che al contrario richiedono una sempre maggiore flessibilità creatività e capacità di accomodamento, così come essere esperti professionisti si traduce in un grado elevato di creatività, sensibilità e capacità di gestire l'imprevisto (Schön, 1999). Le nostre domande di partenza sull'asse della comunicazione, hanno dunque messo a fuoco: quali sono le pratiche in uso e le definizioni in uso del problemi da affrontare, nel caso specifico i Disturbi dell'apprendimento; in che modo queste pratiche e definizioni agiscono concretamente nella vita delle persone, in che modo influenzano la costruzione di una identità, sia del soggetto sia 5 di proposte educative particolari, per esempio doposcuola specializzati, associazioni di famiglie etc. 1.3 La centralità della persona: verso una riappropriazione di sé? I ragazzi sono persone, intese come esseri umani capaci di dare un significato unico e peculiare alle differenti spinte che li attraversano generate a livello culturale, istituzionale, sociale, familiare e relazionale. In questa prospettiva parlare di persona in generale rischia di non avere molto senso e di tradursi in un concetto astratto, in un etichetta che nasconde un complesso terreno di dinamiche interpersonali e simboliche in cui il ragazzo è coinvolto e che fatica a comprendere; occorre quindi esplicitare il significato delle dinamiche a cui è sottoposta la persona‐educando con Disturbi Specifici dell'Apprendimento e rendere comprensibile e negoziabile l’effetto dei diversi percorsi cognitivi, affettivi e relazionali in cui è coinvolto. Se da un lato si può comprendere che il considerare l'allievo come “persona” diminuisce il rischio di percepirlo in maniera univoca e di pensarlo come determinato da diagnosi ed etichette di derivazione medica e psicologica – si può parlare in questo caso di rischio di medicalizzazione‐ tuttavia sembra importante l'esplicitazione e la chiarificazione all'interno del contesto‐scuola del significato che diagnosi e procedure conseguenti hanno per il ragazzo e delle modalità attraverso cui contribuiscono a costruire la sua percezione di sé come individuo. Il percorso concettuale, nella prassi, non si esaurisce in una semplice messa tra parentesi delle definizioni attribuite ad un ragazzo in situazioni di difficoltà, ma si compie in un processo di negoziazione collettiva di questi significati tra tutti gli attori che partecipano al percorso scolastico, ragazzi stessi compresi. Il ragazzo con Disturbi Specifici dell'Apprendimento, se adeguatamente coinvolto in questo dialogo può riappropriarsi della sua identità e cominciare a ri‐costruirla in senso positivo e progettuale, comprendendo ad esempio il valore euristico di categorie come la differenza e l’accettazione di sé stessi e degli altri. Questa restituzione e riappropriazione di sé, naturalmente, può avvenire unicamente in un clima relazionale di apertura, ascolto e comprensione dove i significati delle procedure che vengono attuate a scuola (per esempio la costruzione del Piano Didattico Personalizzato) e i significati che vengono loro attribuite sono chiarificate attraverso un dialogo comune tra chi compartecipa alla 6 vita del ragazzo, sia questi un medico, uno psichiatra, uno psicologo, un pedagogista, un insegnante, un educatore, un genitore oppure un amico. Un processo di crescita di questo tipo permette che le competenze sviluppate dai ragazzi rispetto alla loro identità siano poi mobilizzabili come risorse all'interno del contesto‐scuola come testimoniato dalle attività di tutoraggio alla pari e dai possibili interventi formativi rivolti a compagni più giovani con le medesime problematiche di apprendimento. 2. Il progetto “Star bene a scuola” Il progetto “Star bene a scuola” nasce da un incontro tra diversi professionisti in un contesto coordinato dal Centro Integrato Servizi Scuola/territorio (CISS/T) del Comune di Imola. Lo sfondo di riflessioni e criticità delineato nei paragrafi precedenti si è focalizzato su alcune proposte relative ai Disturbi Specifici dell'Apprendimento e sulla finalità più generale di migliorare la qualità della vita scolastica di tutti coloro che vi partecipano ogni giorno. Gli obiettivi generali ideati da un gruppo di una ventina di insegnanti di tutti gli ordini di scuola, la responsabile dell'Ufficio Diritto allo Studio del Comune di Imola, due rappresentanti della Neuropsichiatria Infantile della Ausl di Imola, il Direttore del CISS/T, le responsabili di cooperative e un educatore professionale sono stati i seguenti: ‐ progettare percorsi e implementare modalità di comunicazione tra scuola e famiglia che promuovano la consapevolezza del D.S.A. come differente modalità di apprendimento e non come deficit; ‐ promuovere la motivazione degli alunni con D.S.A. nel gruppo classe attraverso un percorso di consapevolezza delle proprie modalità di apprendimento; ‐ saper progettare materiali didattici adeguati al disturbo specifico dell'alunno, sia per una didattica inclusiva del gruppo classe, sia per una valutazione formativa dei processi di apprendimento sensibile anche ai suoi aspetti motivazionali ed emotivi . Gli obiettivi delineati hanno dunque preso diverse forme: ‐una prima macro‐azione formativa “di secondo livello” sui Disturbi Specifici dell'Apprendimento: una serie di incontri di formazione che si distinguessero per approfondire aspetti che vanno oltre la semplice descrizione della problematica e avessero la forma di workshop in cui gli insegnanti 7 partecipanti potessero lavorare sulla costruzione di riflessioni e strumenti operativi, non solamente fruire di una lezione frontale; ‐ una seconda azione centrata sul consolidamento e diffusione delle buone prassi già presenti sul territorio imolese, in particolare su azioni di potenziamento alle abilità di studio, attuate nelle singole scuole sotto forma di laboratori o di doposcuola; ‐ una terza possibile direzione‐azione di creazione di una comunità di dialogo e di apprendimento con tutti gli attori coinvolti del contesto‐scuola (in primis insegnanti, famiglie, alunni e personale coinvolto a diversi livelli nei servizi del territorio). La costruzione di questa comunità di dialogo ha l’obiettivo di esplicitare una serie di significati condivisi circa la definizione della problematica in sé, definire in maniera negoziata tra tutti gli attori i possibili obiettivi di intervento, le metodologie da adottare ed i percorsi valutativi da intraprendere in itinere e alla fine del percorso. Da questo punto di vista si tratta quindi di organizzare, supervisionare e facilitare una serie di incontri tra i diversi attori presenti sul territorio accomunati dalla relazione che intrattengono con la problematica dei Disturbi Specifici dell'Apprendimento e di delineare, attraverso l'utilizzo di strumenti più o meno formalizzati, una serie di indicatori relativi alla qualità/inclusività della scuola. In questa direzione la creazione di una rete o terreno comune di significati all'interno della scuola delinea la cornice all'interno della quale si inseriscono i singoli interventi di formazione e le buone prassi diffuse sul territorio, che ritrovano in questa comunità di dialogo uno specchio di riflessione e un feedback sul loro ruolo e sulla funzione che svolgono. Si tratta quindi di intraprendere gradualmente un percorso condiviso per promuovere una cultura della qualità della scuola legata nello specifico ai Disturbi Specifici dell'Apprendimento ma più in generale al processo di inclusione, ora anche degli alunni con Bisogni Educativi Speciali (C.M. 8/3/13), capace di integrare le competenze specifiche di esperti con le esperienze soggettive di tutti gli attori coinvolti, in un'ottica di empowerment rivolto all'intera comunità territoriale. 2.1 Le problematiche e i significati emersi durante il percorso. Come riportato in precedenza nel progetto Star bene a scuola, parallelamente alle azioni formative e di supporto alla didattica, il gruppo di lavoro si è posto il problema di rilevare, attraverso una riflessione condivisa tra gli attori coinvolti, alcuni elementi percepiti come critici e problematici con l’obiettivo di esplicitarne il significato al fine di renderlo maggiormente comprensibile e comunicabile intersoggettivamente. 8 Sono state rilevate criticità riferite ai diversi livelli di esperienza di insegnanti, genitori, studenti e dirigenti, accomunati dalla relazione con la problematica dei Disturbi Specifici di Apprendimento che toccano il piano della motivazione, della relazione con se stessi e con gli altri, gli aspetti cognitivi ed affettivi della valutazione. Tali criticità verranno presentate sotto forma di “fasi”, come ad indicare una sequenza di stati d'essere della/e persona/e coinvolte. 2.1.1. Fase 1: lo smarrimento di fronte alla diagnosi di DSA Davanti ad una diagnosi di DSA, sigla spesso incomprensibile a quanto si deduce dal confronto e dalle testimonianze raccolte, la prima “reazione” è lo smarrimento, una studentessa ci racconta: «Non sapevo come affrontare questa difficoltà del DSA...sia nel rendimento scolastico sia come relazione con i compagni»; mi sentivo sola e mi chiedevo: «Perché tutti ti trattano male per il fatto che hai il DSA?» L'interrogativo pseudo‐shakespeariano che attanagliava all'inizio del percorso un gruppo di circa venti ragazzi tra il 14 e i 18 anni era il seguente: ho o sono un D.S.A.? Non è una questione banale legata ad una forma, ma ha una semantica molto profonda e problematica: mi caratterizzo come persona con un problema – e questo problema coincide con un deficit che equivale ad una disabilità? Oppure (secondo interrogativo), mi identifico con un Disturbo, quasi ad assumere come vissuto un'etichetta diagnostica che mi viene attribuita talvolta senza troppe spiegazioni. Il senso di smarrimento si ritrova anche in alcune testimonianze di genitori: «Il percorso che abbiamo fatto come famiglia in relazione alla presa di coscienza dell’esistenza di una difficoltà per nostra figlia è stato lungo, ha conosciuto momenti di sofferenza che ci ha resi, guardando all’aspetto positivo, molto più sensibili e comprensivi nei confronti dei terzi e ci ha “estratto” una forza di lottare che non sapevamo di avere. La vita presenta difficoltà per tutti, certo, poi in momenti di crisi come quello attuale…ma la lotta che si conduce per un figlio ha un sapore tutto diverso. » Ci si domanda così come mediare la comunicazione tra l'ambito clinico e la famiglia e come essere presenti nei momenti di presa di coscienza, da parte di famiglie, bambini o ragazzi, di una diagnosi di qualche tipo di difficoltà nell'apprendimento: da un lato vi è la necessità clinica di documentare e certificare attraverso codici e categorie diagnostiche; dall'altro la mancanza di percorsi di accompagnamento e supporto alla presa di consapevolezza del significato del termine “DSA” e alla sua trasposizione nell'ambito della vita della persona‐alunno. Ma cosa cambia dopo la diagnosi? 9 Come vivono ragazzi e famiglie nei loro processi identitari questa nuova “etichetta” che di fatto dà un nome a una situazione di problematicità, avviando procedure e percorsi burocratici e didattici all'interno del contesto‐scuola, e come rispondono insegnanti ed educatori, il sistema scolastico, ai loro bisogni, al loro disorientamento e alle loro domande? Fase 2: sentirsi «diversi» Un secondo step nella percezione ed integrazione nella propria vita del Disturbo Specifico dell'Apprendimento è l’esperienza del sentirsi diversi. Dalle testimonianze dei ragazzi e delle famiglie il vissuto di diversità non è del tutto una novità: «Non riuscivo a capire il motivo di queste lentezze...ho visto la calligrafia cambiare...in grande poi in piccolo poi in piccolissimo, incomprensibile»; «Pensavo che non fosse intelligente, che fosse handicappato… e alle volte ci credeva anche lui». Quale dunque il cambiamento? La formalizzazione in un documento scritto di tale “lentezza” o presunta “non intelligenza”? «No. Il cambiamento si ha poiché quando gli insegnanti hanno avuto in mano il pezzo di carta, hanno cambiato atteggiamento nei confronti di mio figlio, cercando scorciatoie per non fargli prendere un brutto voto...ma non era questa la modalità!». Ed ecco una seconda criticità: se i “segnali” di una problematica relativa all'apprendimento erano già visibili, se l'insegnante per sua professionalità è un mediatore di saperi (Damiano, 2013), ci si chiede perché cambiare la modalità didattica a seguito di un documento che di fatto nomina una problematica e la rende trasparente: solo per motivi burocratici, perché vi è una legge da rispettare e un documento progettuale da compilare? In breve: non si poteva lavorare con una didattica differenziata per tutti anche prima di una diagnosi? Fase 3: come lo dico ai compagni (se lo dico)? La richiesta di informazione proviene da più soggetti: alunni, genitori, docenti. La formazione in servizio non è obbligatoria e questa situazione è un dato di fatto: le famiglie hanno posto la domanda “perché non fare aggiornamento obbligatorio sui DSA?”, almeno quella per i docenti e le famiglie, dal momento che ci sono numerosi e molteplici iniziative, sia dell'Associazione Italiana Dislessia (AID) sia dai singoli Uffici Scolastici sia di specifiche realtà territoriali in cui questo tipo di formazione è diffusa. Forse manca ‐ almeno come gruppo territoriale imolese è emersa questa 10 percezione ‐ una formazione che si rivolge a tutta la scuola intesa come sistema e che faciliti la presa di coscienza del fenomeno. Se la diagnosi è precoce, sembra sia “più facile”: alla scuola primaria numerosi insegnanti riferiscono di lavorare in modo differenziato sull'intero gruppo classe per cui l'introduzione di uno strumento compensativo visibile quale potrebbe essere un personal computer non comporta, solitamente, una percezione di una diversità inspiegabile, se opportunamente presentato come un ausilio alla scrittura. Le diagnosi di DSA durante la scuola secondaria di I o II grado implicano un maggiore difficoltà, comportando una ristrutturazione dell'identità del ragazzo, ormai adolescente: al di là della consapevolezza e comprensione del disturbo, che si auspica sia accompagnata da una dovuta spiegazione e supporto psicologico, docenti, famiglie e gli stessi ragazzi riferiscono un rifiuto nella comunicazione con i compagni di una diversa modalità di apprendere. C'è vergogna, paura di essere derisi, «meglio sembrare pigri e nullafacenti rispetto ad essere etichettati come dislessici». Molti docenti chiedono come fare per proporre percorsi personalizzati che comportano una diversificazione delle consegne e delle prove di verifica, nel caso l'allievo voglia “mantenere segreta” la sua particolare modalità di apprendere: alcuni ricorrono, tendenzialmente con un esito positivo ad una iniziale conoscenza del problema, attraverso la proiezione del film Stelle sulla terra2 ; altri parlano dei diversi stili di apprendimento in classe, altri ricorrono a simulazioni di lettura di un ragazzo dislessico o a semplici presentazioni sui DSA. Crediamo che la consapevolezza in primis da parte della persona, del ragazzo, della sua situazione e della possibilità/diritto di essere messo nelle condizioni di poter apprendere come i compagni – sia l'elemento fondamentale per un percorso di comunicazione e condivisione in classe. In questo percorso, la famiglia mantiene un ruolo chiave di supporto all'elaborazione personale, nella consapevolezza che una diagnosi non dovrebbe essere un'etichetta, la sigla di un prodotto, bensì una spiegazione in termini clinici di un aspetto psicologico con evidenze non solo nell'apprendimento richiesto dalla scuola, ma con segnali anche nella vita quotidiana. Dalle testimonianze dei genitori: «XX aveva difficoltà anche nella semplice gestione di un appuntamento, doveva mettersi più sveglie e ancora sbagliava ora e luogo»; «per XX era una gran fatica scegliere vestiti adeguati, tutto alla rovescia, senza senso». 2 Il film è liberamente scaricabile dal sito www.tuttiabordodislessia.it
11 2.2. Una mappatura di bisogni, criticità e proposte Il progetto Star bene a scuola ha permesso di creare una prima mappatura di bisogni, criticità, questioni aperte e possibili proposte che provengono da parte dei diversi attori del contesto‐
scuola. Le varie voci sono state riportate, per un confronto sintetico, in una tabella: dal momento che l'elaborazione ha comportato una sistematizzazione per aree delle testimonianze, si è deciso di non commentare ulteriormente ciò che è ben visibile e comprensibile dallo schema e di concludere con un paragrafo propositivo, di sviluppo sia del progetto in sé sia di direzioni condivisibili in altre realtà. 12 Tematiche /bisogni Studenti
Genitori
Docenti
Accompagnamento nella comprensione della diagnosi «Mi sentivo diverso...un pazzo!» «È un mondo che ti crolla addosso» Le famiglie hanno paura dei servizi, non si fidano dell'invio ai servizi «mia mamma mi ha detto: hai una dote speciale…sei dislessico» «non avevo mica capito cosa avevo io » Vissuti emotivi «Non riuscivo a capire il «Non vogliono farlo sapere motivo di queste alla classe, non vogliono lentezze...ho visto la prove diversificate, non calligrafia cambiare...in grande poi in piccolo poi in utilizzano gli strumenti» piccolissimo, incomprensibile» «È frustrante non poter fare «La frustrazione degli nulla perché siamo bloccati insegnanti di non sapere...ce l'abbiamo anche dalla richiesta di non far sapere alla classe» noi come famiglia» «Paura di essere scoperti nel non saper fare» «Ansia di essere giudicati dai compagni» «L'errore l'abbiamo fatto tutti...è mio figlio che non studia...ci sono voluti anni per capire che XXX non voleva fregare nessuno ma non aveva lo strumento per stare a scuola, ci sono voluti otto anni...non è poco per un bambino dove pensa di essere lui lo sfortunato di turno» Richiesta di una Didattica adeguata al caso «Possiamo concordare «Interagire in modo costruttivo cercando uno insieme le parti da ridurre, strumento in modo che si possiamo se accettano gli trovi facilitato ma anche strumenti» «Vorrei che i miei responsabile del lavoro che insegnanti mantenessero le deve portare avanti» loro promesse, prima mi dicono che posso utilizzare «L'accusa era: XX legge le mappe...come faccio a le mappe, poi me le sapere io se legge o ha tolgono» appreso questi concetti? «Se mi lasciano parlare spiegherei ciò che so fare e ciò che no» Cosa abbiamo cercato? Un'altra strategia per dimostrare che c'era un apprendimento» 13 3. Possibili percorsi 3.1 Dall’avere fiducia alla costruzione di reti Gli studenti chiedono alla scuola coerenza ed attenzione, chiedono di «potersi fidare» dei docenti con i quali è stato concordato un percorso didattico personalizzato, chiedono di «mantenere le promesse», che non vi siano situazioni in cui, concordata una mappa concettuale come guida per l'interrogazione orale, il docente faccia di tutto per coprirla in modo da ostacolare non solo l'esposizione, ma soprattutto l'aspetto motivazionale e di regolazione dell'ansia dello studente. Le famiglie sottolineano la coerenza e la congruenza rispetto ad una didattica che sottoscrive piani didattici personalizzati e di fatto, nella prassi quotidiana, talvolta “se ne dimentica”. I docenti chiedono alle famiglie e ai ragazzi di fidarsi di loro, dei loro consigli orientati verso un approfondimento della problematica (nel caso non ci sia ancora una diagnosi), della loro modalità di proporre materiali e contenuti e di verificarli ‐ d'altronde il docente è un professionista della Didattica, chi meglio di lui può organizzare esperienze di apprendimento in coerenza con profili di apprendimento? Fiducia è la parola ricorrente, condivisa, da più attori. Come passare dalla condivisione di significati alla messa in atto di una relazione autentica di fiducia? Sul territorio imolese si sta creando una rete di famiglie, forse più reti parallele, nella scuola o attraverso associazioni che lavorano nell'ambito dei DSA. Le famiglie si incontrano, parlano, condividono criticità e risorse, esperienze positive, metodologie di apprendimento. Diffondono e promuovono conoscenza: «quando si è in tanti, la percezione di essere diversi diminuisce». 3.2 Verso una comunità dialogica che apprende. Come collegare le reti tra “pari” ‐ genitori con genitori, studenti con studenti, insegnanti con insegnanti? Per dare una possibile risposta a questo interrogativo è stata sviluppata la proposta di una learning community, un gruppo di persone che, rappresentando le diverse voci e rendendole protagoniste, lavori non solo a livello di progettualità ma di concreta costruzione di percorsi, proposte, occasioni, attività. Non si tratta di diffondere “buone pratiche” che, come rileva Milani (2013), «se prese come esempi da imitare [rischiano di] far credere che si possano replicare le soluzioni, che un progetto funzioni ovunque e in qualsiasi condizione» bensì di far emergere il «processo attivato». Si tratta quindi di intendere il contesto scuola come una comunità di dialogo e apprendimento dove le problematiche legate all’inclusione sono affrontate prevalentemente attraverso la 14 condivisione ed il confronto, dove le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano non devono essere necessariamente risolti nell’immediato attraverso delle procedure, ma diventano stimoli per percorsi di riflessione condivisa. Un approccio di questo genere presuppone una visione della conoscenza come processo comunitario, sviluppata da chi ogni giorno dà forma al tessuto sociale e culturale dell’ambiente scolastico. Una conoscenza condivisa e costruita quindi che può e deve integrare le conoscenze teoriche legate alle problematiche che via via si manifestano nell’ambiente scolastico, ma non si identifica unicamente con la trasmissione di conoscenze da parte di figure specializzate. Al contrario, si valorizzano le competenze relazionali, cognitive e pratiche di cui sono portatori insegnanti, educatori, genitori e allievi, si parte dalla loro capacità di dare significato alle realtà che vivono, di relazionarsi ai problemi che incontrano e di costruire, a partire da queste, una sorta di linee guida significativamente riconosciute dai protagonisti della vita a scuola. BIBLIOGRAFIA Arnkil T., Seikkula, (2013), Metodi dialogici nel lavoro di rete per la psicoterapia di gruppo, il servizio sociale e la didattica, Trento, Erickson. Bauman Z. (1999), La società dell'incertezza, Bologna, Il Mulino. Damiano E. (2013), La mediazione didattica. Per una teoria dell'insegnamento, Milano, Franco Angeli. Maccario D. (2006), Insegnare per competenze, Torino, SEI. Milani L. (2013), Colletiva‐Mente. Competenze e pratica per le équipe educative, Torino, SEI. Schön D. A. (1999), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari, Editore Dedalo. 15 
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