Eugenia Arru Patologia: lezione 42 prima ora 14/03/2013 CASSIFICAZIONE DEL DIABETE Un concetto importante che dovete sempre ricordare quando avete a che fare con un paziente diabetico è che il diabete non è solo l’aumento dei livelli di zucchero nel sangue o un problema che interessa il pancreas: il paziente diabetico è un paziente complesso. Il diabete di per se determina, in tempi più o meno rapidi, se non adeguatamente trattato, un insieme di complicanze che interessano tutta una serie di organi e apparati. Il paziente diabetico ha un aumentato rischio di andare incontro ad infarto del miocardio, di avere problematiche e complicanze renali, di avere neuropatia periferica. Spesso il paziente, soprattutto quello con diabete di tipo 2, si presenta dal medico perché ha una sensibilità alterata, per cui spesso non sente il dolore a livello degli arti inferiori. Sono pazienti che spesso hanno ulcere importanti ma si lamentano poco, si accorgono in ritardo di queste lesioni, questo proprio perché come conseguenza del diabete e soprattutto dello scarso compenso glicometabolico vi è una complicanza neurologica. Quindi ricordate: DIABETE glicemia alta alterazioni a livello del pancreas ALTERAZIONI SISTEMICHE. Abbiamo anche complicanze oculari che non sono infrequenti. Fino a non poco tempo fa si tendeva a classificare il diabete suddividendolo in diabete di tipo 1, che veniva definito insulino-dipendente, e diabete di tipo 2, insulino-indipendente. Ci si è resi conto, in realtà, che questa suddivisione non è corretta. Si è visto che anche il diabete di tipo 2, che solitamente insorge in età giovane/adulta, può avere necessità di terapia insulinica. Questo non si verifica quando si fa diagnosi di diabete di tipo 2 ma può verificarsi successivamente. Cosa significa? Ci sono situazioni in cui il paziente va incontro a momenti di particolare stress, per esempio dopo interventi chirurgici o dopo un infarto del miocardio. In queste situazioni il paziente con diabete di tipo 2 non riesce più a controllare bene la sua glicemia con le solite terapie (ipoglicemizzanti orali) e bisogna inserire in terapia l’insulina. Quindi anche il diabete di tipo 2 può avere bisogno di insulina. Vi riporto il caso di un paziente che mi è capitato da poco: paziente con diabete di tipo 2, sui 65 anni, in ottimo compenso fino a quel momento, aveva una glicata di 5.5/6, quindi un ottimo controllo glico-metabolico, e prendeva ipoglicemizzanti orali. Per problemi di ernia del disco ha avuto necessità urgente di terapia cortisonica. Il cortisone è uno degli ormoni contro-regolatori che tendono ad “opporsi” all’azione dell’insulina determinando iperglicemia. Ovviamente in questo paziente, che ha avuto necessità di ricovero, è stata iniziata la terapia col cortisone endovena, per cui la glicemia è arrivata ad avere valori di 350/400. La priorità era ridurre quindi i livelli di glicemia: durante il ricovero sono stati sospesi gli ipoglicemizzanti e si è passati alla terapia insulinica. Il paziente è stato dimesso e ha proseguito la terapia cortisonica per un breve periodo di tempo, più o meno 2 settimane a domicilio con le intramuscolo. Subito dopo la sospensione del cortisone però la situazione non è tornata nella norma, ha infatti avuto ancora bisogno di insulina. Piano piano i livelli glicemici si sono abbassati ed è tornato agli ipoglicemizzanti orali. Nella nuova classificazione abbiamo quindi diabete di tipo 1 che è quello a patogenesi autoimmune, il diabete di tipo 2 che solitamente si associa ai pazienti obesi o sovrappeso, in cui troviamo spesso altre patologie che aumentano il rischio cardiovascolare come l’ipertensione e l’ipercolesterolemia. Il diabetico di tipo 2 spesso ha un insieme di fattori di rischio che definiscono la cosiddetta sindrome metabolica. Oltre al diabete di tipo 1 e di tipo 2 abbiamo anche il diabete mellito-gestazionale e concetti importanti di ridotta tolleranza al glucosio e alterata glicemia a digiuno. Il Mody (Maturity Onset Diabetes of the Young) è una forma di diabete di tipo 2 che esordisce in un’età più giovane, solitamente prima dei 25 anni, è simile al tipo 2 ma ha esordio più precoce. Abbiamo poi il diabete mitocondriale. Il diabete di tipo 1 è a patogenesi autoimmune, quindi c’è un attacco da parte del nostro sistema immunitario nei confronti del self, del pancreas fondamentalmente, questo determina una progressiva distruzione del parenchima pancreatico fino ad un quadro di insufficienza completa nella secrezione dell’insulina. Interessa soprattutto i bambini, anche molto piccoli, e gli adolescenti. Il diabete di tipo 2 non ha patogenesi autoimmune, si inserisce in un quadro di alterazioni metaboliche abbastanza complesse ed è caratterizzato da un’iperglicemia dovuta non tanto ad un deficit della secrezione insulinica quanto ad un difetto periferico dell’azione dell’insulina, la cosiddetta insulino-resistenza, in particolare a carico di quei tessuti che sono insulino-dipendenti, quindi tessuto adiposo, tessuto muscolare. È la forma di diabete più frequente. Il diabete secondario è un diabete, come dice la parola stessa, che insorge in seguito a condizioni e a patologie di base che lo inducono, per esempio delle alterazioni endocrine. Ricordiamo che l’iperglicemia è dovuta ad uno squilibrio tra insulina, che tende ad abbassare la glicemia, e gli ormoni contro-regolatori, che invece tendono a innalzarla. Quindi anche malattie endocrine che interessano il pancreas, come tumori che producono glucagone, posso determinare un quadro di iperglicemia perché l’insulina, se c’è un terreno predisposto, viene secreta ma non riesce in quantità adeguata a controbilanciare l’effetto dei contro-regolatori. Il diabete può essere secondario ai farmaci, quindi cortisone. Ovviamente il cortisone se necessario deve essere dato al paziente, l’importante è fare controlli più frequenti per valutare il compenso glicemico in seguito all’inserimento in terapia del cortisone ed eventualmente inserire in terapia l’insulina. Ad ogni controllo si valuta se la dose di insulina va bene o deve essere modificata. Ci sono poi delle forme più rare di disordini genetici che determinano deficit nella secrezione o nell’azione dell’insulina. Il diabete gestazionale è un altro importante tipo di diabete. Che cosa succede in gravidanza? Si instaurano delle alterazioni ormonali che possono determinare uno squilibrio glico-metabolico con una conseguente iperglicemia. Gli ormoni più implicati sono progesterone, prolattina e lattogeno placentare. Al termine della gravidanza il sistema ormonale si “resetta” e quindi il diabete gestazionale dovrebbe scomparire. La donna dopo il parto dovrebbe tornare alla situazione di normale glicemia, questo però spesso non succede (circa il 30% dei casi) se nella donna che va incontro al diabete gravidico ci sono di base delle situazioni predisponenti, ad esempio sovrappeso/obesità, quindi condizione di insulino-resistenza. L’alterazione ormonale della gravidanza non fa altro che mascherare qualcosa che già di base era presente. Quindi il diabete gravidico può risolversi oppure successivamente può rimanere una condizione di iperglicemia, alterata glicemia a digiuno, alterata tolleranza ai carboidrati, che viene poi seguita nel tempo fino a fare diagnosi di diabete di tipo 2. Una donna con diabete gestazionale dovrà ripetere dopo due o tre mesi dal parto una curva da carico, proprio per vedere se questo alterato equilibrio glico-metabolico si è risolto oppure persiste. Per i criteri diagnostici del diabete si usa la classificazione del ’97 che è quella ancora vigente. (vedi slide 6) Quando facciamo dignosi di diabete? Quando troviamo valori di glicemia alterati. Possiamo fare riferimento a: - valori di glicemia a digiuno - valori random - valori presi dopo la curva da carico orale di glucosio Esempio: vi arriva un paziente con glicemia a digiuno di 110/111 cosa dovete fare? Valutate prima di tutto se è obeso o sovrappeso. Chiedete se ha fatto altri esami in passato, quindi valori precedentemente alterati, e se in famiglia ci sono casi di diabete, indagate insomma su questi aspetti. Se non ci sono fattori di rischio e non riferisce altri fattori alterati fate ripetere il controllo della glicemia a digiuno dopo un po’ di tempo. Se avete invece fattori di rischio (paziente iperteso, ipercolesterolemico, familiarità positiva) dovete richiedere una curva da carico, che farà in un secondo momento a digiuno. La curva da carico consiste nel fare un prelievo a digiuno per valutare la situazione di partenza, dopodichè il paziente beve una sorta di acqua zuccherata che contiene 75 g di glucosio. Starà quindi seduto e tranquillo. Ricordate di dire al paziente che non può passeggiare o svolgere qualsiasi attività perché ovviamente consumerebbe il glucosio e quindi si avrà un esame alterato. Alla prima ora e alla seconda ora si farà un altro prelievo. Anche il prelievo basale può essere fatto oltre che per la glicemia anche per l’insulina. Quindi al tempo zero, alla prima ora e alla seconda ora fate i prelievi e valutate eventualmente anche l’insulina per costruire sia la curva glicemica sia la curva insulinemica e valutare parallelamente ai valori di glicemia quella che è la capacità del pancreas di secernere insulina, sia basale che dopo stimolo. Facciamo diagnosi di diabete quando a digiuno abbiamo almeno due valori sopra i 126 mg/dl oppure se abbiamo un valore a digiuno superiore ai 126 mg/dl e dopo la curva alle due ore abbiamo oltre 200. Possiamo però avere l’alterata glicemia a digiuno: sotto i 126 e sopra i 100 mg/dl. Poi c’è il concetto molto importante di ridotta o alterata tolleranza ai carboidrati, per valori di glicemia compresi tra 140 e 200 dopo la curva da carico orale, quindi alle due ore. Cosa succede quando date al paziente da bere il glucosio? La glicemia rapidamente sale e in media abbiamo un picco nella secrezione insulinica, questo succede fisiologicamente, che è dovuto al rilascio in circolo di insulina che è già stata precedentemente prodotta ed è accumulata in vescicole di secrezione. Il glucosio tramite il trasportatore specifico, che in questo caso è il GLUT 2 (si riferisce alla slide 8) espresso sulle cellule pancreatiche, penetra nella cellula, viene fosforilato dalla glucochinasi e diventa glucosio-6-fosfato. Questo è un momento fondamentale perché se non si verificasse il glucosio non fosforilato tenderebbe rapidamente a fuoriuscire dalla cellula β. La glucochinasi quindi è un punto critico nella regolazione della secrezione insulinica, mutazioni a questo livello possono determinare il diabete Mody. Il glucosio fosforilato successivamente va nel mitocondrio, prende la via del ciclo di Krebs che determina la produzione di energia che normalmente viene immagazzinata sottoforma di ATP. L’ATP quindi aumenta e consente l’attivazione dei canali al potassio voltaggio dipendenti (da wikipedia: l’aumento dell’ATP intracellulare causa la chiusura dei canali ionici per il potassio) che sono presenti sulla superficie della membrana cellulare, conseguentemente si ha una depolarizzazione della membrana che determina l’apertura di canali ionici voltaggio dipendenti del calcio. Il calcio tende a entrare e questo comporta l’attivazione dell’apparato contrattile della cellula, il citoscheletro, con movimento delle vescicole contenenti l’insulina che era già stata prodotta. Le vescicole si muovono sino alla membrana, si fondono con questa e l’insulina viene rilasciata all’esterno. Questo è quello che succede fisiologicamente. Dentro il mitocondrio abbiamo le UCP2, che sono delle proteine disaccoppianti, quando subiscono mutazioni queste disaccoppiano la produzione di energia: dal ciclo di Krebs normalmente viene prodotto ATP, queste proteine fanno in modo che l’energia prodotta venga dispersa come calore, si produce quindi meno ATP e questa quantità non è sufficiente ad attivare in maniera adeguata i canali al potassio, quindi depolarizzazione e quindi fondamentalmente non c’è un adeguata secrezione insulinica. Le UCP2 sono un punto critico nella regolazione della secrezione insulinica e quando mutate posso determinare il cosiddetto diabete mitocondriale. Nei tessuti dell’organismo ci sono differenti tipi di trasportatori di glucosio. Nella cellula pancreatica abbiamo i trasportatori GLUT2 che sono a bassa affinità per il glucosio, questo concetto è molto importante perché se fossero ad alta affinità tenderebbero continuamente a buttare dentro la cellula glucosio, questo porterebbe ad una continua secrezione di insulina e il pancreas si “esaurirebbe”, cioè andrebbe in contro a deficit secretorio rapidamente. I GLUT2 si attivano quando ci sono delle variazioni significative della glicemia. Nel tessuto adiposo e nel tessuto muscolare sono espressi i GLUT4 che sono dei trasportatori che tendono a essere espressi sulla membrana in seguito al legame dell’insulina con i propri recettori. Quando la glicemia sale, l’insulina viene secreta dal pancreas, va in circolo e sul tessuto adiposo e sul tessuto muscolare, che sono tessuti insulino-dipendenti si lega al suo recettore di membrana, conseguentemente in seguito ad un insieme di secondi messaggeri i GLUT4, che sono all’interno della cellula (sulla membrana ce ne sono pochi), vengono espressi in grande quantità. Tramite i GLUT4 il glucosio può così entrare all’interno della cellula e la glicemia abbassarsi. Il cervello è un tessuto “nobile”, utilizza il glucosio come fonte energetica e presenta un altro tipo di trasportatori che sono i GLUT1, che sono molto affini al glucosio, questo è ovvio perché il glucosio deve poter penetrare nella cellula nervosa quando i livelli di glicemia sono molto bassi altrimenti si danneggerebbe molto facilmente. Per quanto riguarda il diabete di tipo 1 abbiamo detto che è un diabete a patogenesi autoimmune, in Europa ha un’incidenza che tende a ridursi passando dal nord al sud. La Sardegna però è una regione ad altissima incidenza di diabete di tipo 1 e si avvicina alla Finlandia, che è un altro paese dove l’incidenza è estremamente elevata. Anzi negli ultimi anni la Sardegna sembra aver superato la Finlandia in termini di incidenza. Sappiamo purtroppo che la Sardegna ha un primato non solo per il diabete ma per una serie di patologie autoimmuni, per esempio la sclerosi multipla e la tiroidite di Hashimoto, questo è dovuto al nostro bagaglio genetico e alla nostra situazione di isolamento. Nel diabete di tipo 1 il sistema immunitario attacca quello che è il self, quindi il tessuto pancreatico, alla base di questa malattia vi sono sicuramente dei fattori genetici predisponenti ma ci sono anche dei fattori ambientali. Dal punto di vista genetico esistono dei loci che favoriscono e aumentano la suscettibilità del paziente a sviluppare il diabete di tipo 1, sicuramente il sistema HLA è il principale implicato, si è visto che alcuni aplotipi (DR4-DQ8 e DR3-DQ2) sono a più alto rischio di andare incontro allo sviluppo del diabete. Altro concetto da ricordare è che la presenza di questi aplotipi non significa necessariamente malattia, questa associazione aplotipo-malattia viene fatta anche per altre patologie, per esempio positività agli anticorpi per le tireopatie, in realtà così non è, nel senso che la presenza di questi aplotipi e la presenza di autoanticorpi è solo indicativa di un rischio aumentato, però in assenza di altri dati non possiamo dire che il paziente è malato. Questo spesso viene travisato e si espone il paziente a uno stress continuo, lo si porta ad eseguire esami di controllo frequentissimamente, facendolo vivere in una condizione di malattia che in realtà è assente. Ricordiamo quindi: positività di questi fattori significa aumentato rischio e non malattia. Il paziente dovrà essere seguito nel tempo e se ne vedrà l’evoluzione. Un altro locus di aumentata suscettibilità è quello a carico del gene dell’insulina, che ha aumentato rischio a sviluppare la malattia se è presente del 10 % [non capisco cosa intenda dire, anche nelle slide non c’è un granchè, ma ho trovato un lavoro svolto proprio da degli scienziati dell’università di Cagliari: la patologia è dovuta ad una combinazione di fattori genetici ed ambientali. Esiste una principale regione genica di suscettibilità che comprende specifici aplotipi predisponenti contenuti nel complesso maggiore di istocompatibilità (HLA), localizzato sul braccio corto del cromosoma 6 (IDDM1). Un ulteriore contributo è apportato da varianti polimorfiche del promoter del gene dell’insulina, che mappa sul braccio corto del cromosoma 11 (IDDM2) e da altri geni purtroppo non ancora identificati.1] Poi ci sono altri due fattori di suscettibilità: CTLA-4, che è un antigene dei linfociti T citotossici e che normalmente esercita un effetto di inibizione sulla proliferazione dei linfociti T, quindi quando mutato può favorire l’attivazione di queste cellule e quindi favorire lo svilupparsi di una reazione autoimmune, allo stesso modo funziona PTPN22 che codifica per il cosiddetto Lyp che è un fattore che esercita sempre un’azione inibitoria sui linfociti T. (vedi slide 16) Il diabete di tipo 1 essendo immuno-mediato si caratterizza nell’85/90% dei casi dalla presenza di anticorpi contro i determinanti antigenici pancreatici, quindi contro le insule, contro la decarbossilasi dell’acido glutammico, contro l’insulina e contro IA2 1 (*) http://www.unica.it/UserFiles/File/Direzioni/DirRic/XVI%20Set%20Ric%20Poster%20ricercatori/Area06/MotzoPoster%202.pdf (anticorpi diretti contro granuli presenti nelle vescicole secretorie del pancreas). Il diabete di tipo 1 ha una patogenesi multifattoriale in cui i fattori genetici svolgono un ruolo di primo piano, il sistema HLA è spesso implicato, la distruzione autoimmune delle cellule β determina insulino-deficienza. Quali sono i pazienti più a rischio? I soggetti con anticorpi positivi, i parenti più o meno stretti dei pazienti cha hanno già diabete di tipo 1 (gemelli monozigoti, fratelli, figli). Per quanto riguarda la trasmissione da genitori ai figli si è visto che il rischio di trasmissione è di circa il 6% quando a essere affetto è il padre, 2% se è affetta la madre, se entrambi ne sono affetti il rischio cresce esponenzialmente. Nella popolazione generale con anamnesi familiare negativa il paziente è affetto da diabete di tipo 1 nello 0,5% dei casi, ma questa percentuale è in aumento, questo ci dice che la genetica spiega, ma non spiega tutto, nel senso che ci sono sicuramente anche dei fattori ambientali che poi aumentano il rischio in maniera indipendente dai fattori genetici. La reazione autoimmune si realizza contro degli antigeni che sono self. Le molecole MHC di classe 2 espresse su macrofagi, su cellule dendritiche presentano questi antigeni ai linfociti T e si ha l’interazione con il loro recettore (TCR). In seguito a questa interazione si ha la produzione una serie di secondi messaggeri intracellulari che determinano produzione di citochine e reclutamento di altre cellule immunitarie, attivazione di linfociti B e produzione di anticorpi. Slide 17: insulto a carico della cellula β, a seconda dell’entità dell’insulto la cellula può andare incontro ad un innesco dell’apoptosi ma, se l’insulto non è importante, il processo regredisce, se invece l’insulto è più importante avremo apoptosi e necrosi. Slide 18: in alto c’è la cellula β che viene attaccata in seguito ad un processo dannoso che può essere un’infezione virale, un’ablazione di sostanze tossiche. Viene innescato un processo immunitario che inizialmente deve essere limitato al contenimento di quest’infezione, in realtà però spesso succede che tra i determinanti antigenici estranei e quelli nostri c’è una certa somiglianza, per cui in realtà una reazione che inizialmente è prodotta per eliminare il fattore estraneo si dirige poi su quello che è il self, quindi sul pancreas. Dalla distruzione delle cellule β pancreatiche si originano dei frammenti che vengono inglobati dalle cellule dendritiche, processati insieme alle MHC di classe 2 e poi esposti ai linfociti T. Avremo poi produzione di citochine, attivazione di linfociti B e produzione di autoanticorpi.