Storia,Teoria e Tecnica della Scenografia Virtuale

Storia,Teoria e Tecnica della Scenografia Virtuale
Secondo modulo anno accademico 2004-2005
Docente Luca Ruzza
con la collaborazione di Maia Borelli
Elenco delle immagini proiettate durante il corso:
Petr Kaska
Laterna Magika
Prod Cz Tv
1991
Repubblica Ceca
Un documentario sull'opera dello scenografo ceco Josef Svoboda scomparso nel 2001, creatore di una
combinazione rivoluzionaria di luce, film e musica, che ha influenzato gli sviluppi del teatro multimediale
contemporaneo con gli spettacoli creati insieme al regista Alfrd Radok a partire dal 1958 al teatro Laterna
Magika di Praga.
Denis Bablet
Josef Svoboda scenografo
Parigi
1983
Francia
Un documentario dello studioso di teatro Denis Bablet sulla vita e le opere dello scenografo di Praga Josef
Svoboda.
Walter Ruttmann
Opus I, Opus II, Opus III
1923/29 Germania
Filmati con immagini astratte, girati in 16 mm. dal grande regista tedesco (1887-1941)
Man Ray
Emak Bakia
1929
Francia
Sperimentazione fotografica e immagini astratte in una fantasia dadaista di oggetti, paesaggi e azioni.
Leni Riefenstal
Il trionfo della volontà
1936
Germania
Filmati di propaganda politica e scene di massa. Esiste una neutralità delle immagini?
Carmelo Bene
4 modi diversi di morire in versi
Prod. Ricerca e Sperimentazione Rai 1975 Italia
L’utilizzo dell’immagine del fuoco come scenografia virtuale di una ricerca televisiva di Carmelo Bene.
Jean-Louis Le Tacon
Waterproof
Prod. Ex-Nihilo
1986
Francia
Le riprese acquatiche utilizzate come scenografia di un video di danza.
Frank Herz
10 minuti più grande
1978
Lettonia
Il primo piano di un bimbo realizzato in 35 mm., per un discorso sulla presenza e su come comunicare le
emozioni
Italo Pesce Delfino
Red Pause
2002 Italia
Un esperimento di moltiplicazione virtuale dell’attore.
Studio Azzurro
Videoinstallazioni
1990-2000
Italia
Alcuni esempi di videoinstallazioni realizzate da Studio Azzurro.
Peter Forgacs
Il vortice
1998
Ungheria
Nella giornata della memoria, un complesso lavoro di montaggio per suggerire emotivamente molto di più di
quanto documentino in origine le immagini di repertorio utilizzate.
Gianfranco Giagni
Dentro il digitale
2004
Italia
Un documentario che si interroga sullo stato del cinema digitale in Italia.
Hotel Proforma
Theremin
2004
Danimarca
L’ultimo spettacolo del gruppo multimediale danese sulla vita di Theremin, inventore di un dispositivo acustico
elettronico che trasforma in suoni i movimenti delle mani.
Inoltre estratti dai seguenti film:
Lars von Trier
Dogville
2003
Danimarca
L’uso della scenografia teatrale nel cinema digitale di von Trier.
Peter Brook
Don Giovanni
1998
GB
Nell’opera del regista inglese uno spazio vuoto è scenografia.
Milos Forman
Amadeus
1984
Stati Uniti
La scenografia cinematografica del Don Giovanni secondo Forman.
Derek Jarman
Caravaggio
1986
GB
Il problema della committenza e della libertà della creazione artistica, un regista maledetto, Jarman, si esprime e
si riflette nelle immagini di un pittore maledetto, Caravaggio.
Lezione n°1 del 13/01/05
Si proietta il documentario Laterna Magika di Petr Kaska (Produzione Cz Tv del 1991 Repubblica
Ceca ) sull'opera dello scenografo ceco Josef Svoboda scomparso nel 2001, creatore di una
combinazione rivoluzionaria di luce, film e musica. Josef Svoboda ha influenzato gli sviluppi del
teatro multimediale contemporaneo con gli spettacoli creati insieme al regista Alfrd Radok a partire
dal 1958 al teatro Laterna Magika di Praga. Il documentario è ora disponibile in Mediateca del
dipartimento per consultazione.
Lezione n°2 del 14/01/05
Discussione sul lavoro dello scenografo teatrale, a partire dall’esperienza di Josef Svoboda, mostrata
ieri.
Per prima cosa si ribadisce che le competenze necessarie ad uno scenografo sono molteplici
(artigianali, drammaturgiche, artistiche, architettoniche, ecc.) e che la padronanza delle tecnologie
utilizzate in scena, sia di tipo analogico (costruzione di pannelli, sipari, quinte, schermi, fondali,
proiezioni di fotografie o filmati) che digitale (uso di computer per la programmazione dei movimenti
di scena e creazione di scene virtuali), deve essere assoluta. Lo scenografo è quindi un’artista totale.
Secondo Josef Svoboda la scenografia è essenzialmente la creazione di uno spazio drammatico che si
sviluppa nel tempo. Lo scenografo ha il compito di legare lo spazio al tempo, creando il movimento
delle scene, in rapporto drammatico con l’attore ed in sinergia con il lavoro del regista e del
drammaturgo.
Il teatro è il luogo dell’incontro tra sensibilità diverse che si pongono tutte ugualmente al servizio delle
necessità dello spettacolo. Per questo il dispositivo scenico utilizzato, che sia esso digitale o meno,
deve essere considerato come parte integrante dello spettacolo, non come creazione a sé.
Si discute anche, insieme a Sergio Borelli, giornalista e ex-funzionario Rai, del rapporto difficile tra
lavoro manuale ed intellettuale, tra chi crea e dirige un’opera teatrale o cinematografica, l’autore e il
regista - spesso senza padroneggiare la tecnica necessaria alla realizzazione - ed i veri e propri tecnici
di scena, che conoscono bene i dispositivi ma spesso non hanno voce in merito alla creazione.
Secondo Borelli la televisione non si rinnova perché in realtà non riesce a costruire un rapporto fertile
tra il livello tecnico e quello creativo: non che i tecnici televisivi non siano bravi ma sono male
utilizzati, quindi la struttura interna è fornita di tutte le competenze necessarie ma è diretta da chi non
conosce le nuove tecnologie.
Un altro argomento affrontato è stato quello di come soddisfare la committenza senza tradire le
proprie aspirazioni. Si fa l’esempio di Caravaggio, pittore che introdusse molte importanti
innovazioni formali. Questo artista riuscì a mantenere sempre un rapporto con la Chiesa, principale
committenza dell’epoca, pur restando fedele al suo interesse personale verso un forte realismo
pittorico.
Lezione n°3 del 20/01/05
Visione di “Red pause”, un cortometraggio realizzato con un particolare procedimento tecnico. Si
tratta di è una sperimentazione della società Proxima con Italo Pesce Delfino, autore e regista
dell’opera. In questo filmato assistiamo alla moltiplicazione dell’immagine: il personaggio
protagonista discute in un foro, rappresentazione visiva del suo dialogo interiore, con altri “se stesso”
sulla corretteza di dare o meno soldi agli extracomunitari che per vivere lavano i vetri al semaforo. Il
momento di attesa al semaforo, tempo di durata del cortometraggio, è, appunto, la “red pause”.
A detta del regista il suo filmato vuole essere “una dilatazione linguistica a livello cinematografico” di
quello che può succedere nella nostra mente.
È un esempio, in questo caso attraverso la moltiplicazione dell’immagine dell’attore, della possibilità
rivoluzionaria del digitale - rispetto al cinema - sia di raccontare in modo diverso storie già conosciute
sia di raccontare altre storie, proprio perché il digitale permette di mostrare ciò che l’occhio umano
normalmente non vede, ma che può essere immaginato. Questo nuovo spazio dell’immaginario è
appunto quello che definiamo come virtuale.
Si passa poi alla proiezione di una piccola parte del film “Caravaggio” di Derek Jarman, film che nel
1986 vinse il Festival cinematografico di Berlino. Derek Jarman è stato scenografo, regista,
compositore, uno di quegli artisti che attraversano trasversalmente discipline separate, riuscendo poi
ad unirle nelle sue opere. In “Caravaggio” Jarman “dipinge” le immagini, non parte dall’azione
pensandola come legata al movimento, ma cerca di riprodurre il movimento che l’occhio umano
compie mentre guarda un dipinto. Nella storia Caravaggio era un uomo libero all’interno di una
struttura molto rigida, iniziò a dipingere giovanissimo a Roma sotto la protezione del cardinale
Scipione Borghese, in questo modo egli “ricerca il suo codice trovando il modo di organizzar quei
denari per far quel che voleva”.
A partire dall’uso della luce che Caravaggio fece nei suoi quadri datiamo la nascita dell’idea della luce
teatrale. Quelle del pittore sono infatti illuminazioni immaginarie, molto presenti, simili alla
particolare condizione che si crea in campagna quando, con il cielo coperto, un raggio di sole riesce a
filtrare tra le nuvole. La luce ha, nei quadri di Caravaggio, una presenza quasi solida.
Ma al tempo di Caravaggio – fine XVI e inizio XVII secolo - la luce artificiale non era ancora
utilizzata. Riconoscere un uso ancor prima che sia scoperta la sua tecnologia, fare quello che viene
chiamato come datazione antecedente all’invenzione del mezzo tecnico, è una condizione che si
verifica molto frequentemente nell’arte. Jarman riproduce nel suo film l’atmosfera delle opere del
Caravaggio grazie all’aiuto della luce elettrica, invenzione della quale il pittore certamente non
beneficiava.
Spesso l’idea è presente tra gli artisti prima dell’effettiva disponibilità sul mercato della relativa
tecnologia e tutto il film è da guardare in quest’ottica.
Negli studi di produzione della televisione italiana l’ambiente dei set dove vengono girati film e
telefilm è ancora analogico. Alcuni sostengono che si potrebbero tagliare i costi usando solo il telo blu
del digitale.
Sergio Borelli ci racconta due episodi attraverso i quali cerca di spiegare il perché di questa
condizione: tra chi fa televisione c’è il timore di raccontare storie la cui ultima sia uguale alla prima.
Per questo c’è la volontà di rinnovarsi. Ad un certo punto lui ed i suoi colleghi pensarono di introdurre
nei loro documentari storici un minimo di narrazione, seguendo i formati della fiction.
In un documentario storico sulla repubblica di Salò fecero quest’esperimento: dovevano mostrare una
camera di tortura di Milano dell’epoca fascista ma il palazzo dove avvenivano le torture era diventato
un asilo. Nel documentario il giornalista bussa alla porta del palazzo oggi, gli apre una suora che
lavora nell’asilo, entra e trova alcuni attori che, vestiti come all’epoca, iniziano a raccontare in prima
persona la storia dei partigiani torturati in quel luogo, come se i veri protagonisti, ormai morti,
potessero venire intervistati oggi sui fatti accaduti lì in epoca fascista. I due piani temporali, ieri e
oggi, si intrecciano nella narrazione.
In un altro documentario storico intitolato “Fuga da Roma del re e di Badoglio” una telecamera
inquadra inizialmente il dettaglio di una lunga tavola nera sulla quale è scritto il titolo dell’opera e poi
l’inquadratura si allarga mostrando il conduttore seduto alla tavola in mezzo ai personaggi dell’epoca il re, il maresciallo Badoglio, ecc. - li presenta uno alla volta, poi inizia una conversazione tra i
personaggi storici che narrano e discutono oggi dei fatti a loro accaduti un tempo. I personaggi di ieri e
di oggi sono tutti riuniti alla stessa tavola a conversare insieme.
Molti ritengono il digitale come il mondo dell’onirico ed illusorio, quando in realtà anche l’immagine
analogica è comunque una riproduzione ed in quanto tale non può essere uguale alla realtà, l’analogico
non è quindi più veritiero di un’immagine digitale usata in modo realistico.
Il racconto e la realtà non si sovrappongono mai, qualsiasi sia la tecnologia utilizzata, il lavoro dei
media consiste sempre nel rappresentare più o meno realisticamente un pensiero.
L’avvento del digitale può essere paragonato alla nascita della fotografia, quando qualche pittore
(espressionista ed impressionista per esempio) si è scrollato di dosso il dovere di riprodurre fedelmente
la realtà creando, attraverso una nuova tecnica pittorica, un nuovo modo di interpretarla.
Il concetto di reale e di iperreale è recente, aggiungere oggetti che noi altrimenti non potremmo vedere
(come l’infrared per esempio la cui frequenza è leggermente superiore a quella percepibile dall’occhio
umano) è proprio del digitale.
Il digitale ci fa entrare in una realtà parallela che è solo mentale. I videogiochi creano una realtà che
non colleghiamo a nulla di esperenziale, quando infatti riduco un concetto ad un livello molto
semplice posso creare un linguaggio e dare vita a qualcosa di nuovo.
Con il digitale lo spazio in cui si trova il performer è mentale e non più fisico, questo crea uno spazio
molto più vicino a quello delle origini del racconto, la narrazione orale.
Tom Hanks nel film Polar Express scambia il suo corpo con quello dei personaggi del film, realizzato
in animazione, entra nei panni del bambino, poi del capotreno, ma nel contempo rimane nella storia
attraverso i gesti che compie ed in noi rimangono sensazioni a livello inconscio che ci permettono di
riconsocere la sua identità.
La realtà quindi non è fatta solo dalla forma esteriore di un personaggio, del suo corpo, ma anche di
elementi che non si riescono facilemente a tradurre in immagini. Polar Express con l’utilizzo delle
tecniche di motion capture ci permette di verificare che si mantiene la teatralità, la presenza dell’attore
Tom Hanks anche quando viene trasformata l’immagine del suo corpo.
Appunti di Andreina Giffenni e Emanuela De Vincentis
Lezione n°4 del 21/01/05
Riprendendo il discorso da dove lo abbiamo lasciato la lezione scorsa, ovvero da come si esprime la
presenza ci viene mostrato un breve estratto da un filmato che mostra solo l'espressività facciale. Si
tratta di TEN MINUTES OLDER del regista lettone Frank Herz (produzione Riga filmstudio, Lettonia
1978).
Frank Herz è un giornalista e cineasta lettone, iniziatore tra l'altro del cinema poetico di Riga, che nel
1978 gira in 35mm questo cortometraggio della durata di 10 minuti basato su di un unico piano
sequenza, un primissimo piano di un bambino, ripreso mentre insieme ad altri
coetanei guarda uno spettacolo per bambini. Ignaro di essere ripreso il bambino era libero di esprimere
senza interferenze esterne le proprie emozioni, in particolare il regista mostra le sue espressioni
facciali, la sua intensa partecipazione emotiva agli avvenimenti dello spettacolo.
20 anni dopo il regista cercherà di nuovo quel bambino per sviluppare un nuovo progetto titolato
FLASHBACK, dove attraverso un'intervista sui ricordi della realizzazione di TEN MINUTES
OLDER, i due parleranno degli accadimenti personali (del bimbo ormai cresciuto) e della Lettonia in
generale degli ultimi venti anni, compreso il periodo post '89, che segna l’anno nel quale iniziano le
lotte dei Paesi di area sovietica per l’indipendenza.
Riprendiamo a questo punto il discorso su Svoboda, in particolare leggiamo ed analizziamo in classe
degli estratti dalle lezioni che lo scenografo ha tenuto all'interno del Seminario del 20/25 Ottobre 1986
presso la scuola P. Grassi di Milano. In particolare leggiamo gli interventi relativi al rapporto tra
scenografia/virtuale/cinetica, soprattutto quelli che affrontano il meccanismo della messa in scena.
ESTRATTO 1 : Dalla lettura del primo estratto possiamo trarre 2 cose importanti. La prima che
Svoboda qui ci viene presentato non solo come un creatore di forme ma come artista totale avendo
lavorato come scenografo, architetto, regista, fotografo. Praticamente è un continuatore di quell'idea di
arte come opera totale in cui varie discipline si fondono in un unicum (in precedenza Wagner aveva
avuto gli stessi obiettivi, ovvero la ricerca non di un semplice spettacolo ma di un'opera d'arte totale).
La seconda cosa importante su cui soffermarsi è che Svoboda ha sempre sentito la necessità di
rappresentare l'opera in sintonia con il proprio tempo, come in precedenza Craig aveva fatto
rivoluzionando l’arte dell’attore, ponendo nuove basi alla partitura dei suoi movimenti e dando al
regista il ruolo fondamentale di creatore e coordinatore unico delle partiture di suoni, luci e movimenti
di cui si compone uno spettacolo teatrale.
ESTRATTO 2 : Questo secondo estratto comprende il commento di Denis Bablet, famoso critico
teatrale francese che a partire da Josef Svoboda è stato uno dei primi studiosi dei rapporti tra il teatro e
le arti multimediali, alle opere e al modo di lavorare di Svoboda. Inoltre leggiamo l’introduzione dello
stesso Svoboda stesso. I punti su cui vale la pena soffermarci sono:
1) per Svoboda il mondo teatrale è il luogo di incontro collettivo in cui si crea una
collaborazione diretta con ogni singola parte dello staff tecnico, quello che ne scaturisce è dunque
un'opera d'arte collettiva (concetto di comunità teatrale);
2) Prima di tutto lo scenografo è un artigiano che sceglie direttamente i materiali primi, con le
proprie mani e possibilità tecniche (multimediale compreso) crea qualcosa di nuovo;
3) Lo scenografo deve sapere legare lo spazio, il tempo ed il movimento in un unico rapporto
armonico con l'attore;
4) La scenografia deve essere vista come una creazione drammaturgica fatta per una
rappresentazione drammatica, bisogna quindi ripensare l'idea di scenografo come semplice pittore in
favore di quello dello scenografo come narratore;
5) La tecnologia stessa è solo uno dei materiali che lo scenografo si trova a manipolare come
artigiano, è sbagliato dunque fare un uso massiccio di tecnologia senza averne la padronanza specifica;
6) La scelta del materiale da modellare e della tecnica da usare deve essere sempre ragionata
ed essere direttamente proporzionata ai tempi correnti, la comunicazione infatti deve essere diretta al
pubblico, al suo gusto estetico e alle sue possibilità di comprensione. Lo scenografo deve fare di tutto
per facilitare e rendere più veloce questa comunicazione;
7) Quando utilizziamo della tecnologie ci sono sempre degli elementi collaterali da
considerare: per esempio le caratteristiche del dispositivo che si utilizza, il fatto di lasciare il
dispositivo nascosto o visibile in scena, ecc.
Appunti di Claudio Rapino, Patrizio Cossa e Valerio Gori
Lezione n°5 del 27/01/05
Proiezione a cura di Maia Borelli in collaborazione con l’Accademia d’Ungheria a Roma presso il
Centro Teatro Ateneo del documentario Caduta Libera, regia di Peter Forgacs, decimo episodio della
serie Ungheria privata (Tit. orig.: Az örvény – Il vortice, realizzato in Ungheria 1998, durata 75’) in
occasione della giornata della memoria che ricorre oggi.
SINOSSI La vita normale di una famiglia di Szeged, città del sud dell’Ungheria, negli anni che
precedono lo scoppio della seconda guerra mondiale. György Peto, ebreo di estrazione altoborghese e
di eccellenti frequentazioni, prende in mano la gestione della banca di famiglia alla morte del padre,
nel 1936. Appassionato di musica e di barche, Peto acquista una cinepresa 8mm alla fine degli anni
’30 e diventa rapidamente un prolifico produttore di home movies, su cui fissa il suo amore per la
fidanzata Éva Lengyel, le spedizioni in barca, le vacanze, gli anniversari, le amicizie, il suo
matrimonio nel 1941.
Intanto lentamente ma inesorabilmente, si applicano le leggi antisemite. “La vita sociale, le cerimonie,
l’amore, il divertimento, sono ritmati da una voce salmodiante che ‘canta’ le leggi sempre più
restrittive nei confronti del popolo di Israele, consegnandoci volti, sguardi e corpi caparbiamente
ignari del vortice che li ssta inghiottendo…” (Paolo Vecchi)
Nonostante l’ alleanza dell’Ungheria con la Germania nazista, la comunità ebraica ungherese è più o
meno intatta fino alla primavera del 1944, anno in cui si interrompono le memorie cinematografiche di
Peto. Forgács installa un incessante andirivieni tra gli avvenimenti politici e quelli privati,
immergendo entrambi nel flusso musicale malinconico e grave – il suono stridente e cristallino – di
Tibor Szemzo.
„Questo film fa lo stesso effetto di uno specchio concavo tenuto davanti allo spettatore. E, allo stesso
modo, posto davanti alla storia ungherese. Se ci avviciniamo allo specchio ogni cosa si ingrandisce
fino a diventare irreale: in primo piano, al posto del viso vedremo i suoi difetti, le pustole, l’acne, i
brufoli, i solitari peli superflui. Facendo un passo indietro invece, la visione si appanna, e tutto
comincia a vacillare fino a procurarci vertigini e nausea. Infine tutto diventa sfocato; dove si vedeva il
viso troviamo strane linee, strisce, luci abbaglianti. Un vero effetto vorticoso.” – dal saggio di László
Földényi F.
BIOGRAFIA Péter Forgács nasce il 10 settembre 1950 a Budapest, dove tuttora vive e lavora. Il suo
primo video, realizzato nel 1978 con apparecchi amatoriali Akai, si intitola I See That I Look, ma in
questo periodo lavora soprattutto come artista performativo, spesso insieme con László Lugosi. Il
video, frequentemente utilizzato all’intorno delle performance e delle installazioni, acquista un rilievo
autonomo solo a partire dal 1985, quando vengono realizzati Golden Age e Iron Age con la musica di
Tibor Szemző. Dopo alcuni interlocutori ritratti, nel 1988, relizza The Bartos Family, il film che
inaugura la serie „Ungheria privata” che al ritmo di circa uno l’anno è giunta oggi al quattordicesimo
episodio. I primi riconoscimenti internazionali arrivano negli anni ’90, durante i quali i lavori di
Forgács partecipano ai principali festival europei di cinema e video di ricerca. Nel ’97 „Free fall”
vince un premio speciale a Vue sur le docs di Marsiglia, il premio FIPRESCI a Leipzig e il Prix
Europa per il documentario a Berlino. Un paio di anni dopo è The Maelstrom a raccogliere premi e
riconoscimenti in tutto il mondo. Nel 2002 A Bibó Reader viene selezionato a Cannes nella Quinzaine
de Réalisateurs. Il tema dell’identità nazionale ungherese, le grandi tragedie novecentesche, alcuni veri
e propri personaggi scoperti negli oscuri home movies sono al centro anche delle installazioni di
Forgács.
Questo documentario ci permette di riflettere sui doppi significati di cui l’immagine d’archivio è
portatrice: da una parte quello che rappresenta in modo realistico - i normali riti e le feste che
scandiscono la vita di una famiglia borghese degli anni ’40 del secolo scorso - dall’altra quello che noi
ora sappiamo, che tutto quanto viene documentato dalle immagini d’archivio è in realtà già segnato
dalla tragedia e dalla morte. Questo doppio binario riempie l’immagine e la rende densa di significati
per lo spettatore, anche grazie al trattamento digitale del montaggio che sottolinea, insieme al sonoro,
il pensiero dell’autore ed il suo punto di vista.
Il filmato è ora disponibile in dvd alla mediateca del Dipartimento per consultazione.
Lezione n°6 del 28/01/05
In apertura di lezione il professore ha chiarito le modalità di presentazione del progetto che dovrà
essere da noi presentato in sede d’esame. Il tema del progetto per il secondo modulo verterà sul Don
Giovanni di Mozart. Sempre all’interno di uno spazio a forma di parallelepipedo con misure 12x9x6
metri, bisognerà realizzare un’installazione con particolare riferimento a una peculiarità del Don
Giovanni ed inoltre l’introduzione di un elemento digitale. La presentazione dovrà essere effettuata
anche in forma cartacea ponendo particolare attenzione alle seguenti componenti:
a. Breve testo di presentazione del progetto con riferimenti ai materiali utilizzati e alle fonti;
b. Breve testo di descrizione delle tecniche di riferimento da utilizzare per la realizzazione del
progetto, analizzate in maniera molto dettagliata;
c. Indicazione delle problematiche relative alla visualizzazione della presentazione (supporto
cartaceo, filmico, ecc)
d. I riferimenti all’autore del progetto con un breve profilo e le eventuali collaborazioni che si
sono rese necessarie per la realizzazione del progetto stesso (amici, conoscenti vari, ecc.).
DOGVILLE
È stato analizzato il film Dogville di Lars Von Trier visionandone alcuni capitoli. Ci si è soffermati
sulle motivazioni che hanno portato alla nascita del progetto e sulle tecnologie utilizzate dal regista in
maniera innovativa. Abbiamo analizzato l’interazione di una scenografia di tipo teatrale con l’uso di
luci di tipo cinematografico e poi l’uso del digitale (e in particolare del blue-screen) nel film con cui
per molti aspetti il regista si discosta dalle regole imposte dal movimento teorizzato nel 1995 da Von
Trier stesso e da Vinterberg (Dogma ’95).
AMADEUS
Sono stati analizzati poi alcuni frammenti del film Amadeus di Milos Forman, film che racconta il
rapporto tra i musicisti Salieri e Mozart. La scenografia di questo film è opera di Josef Svoboda, che
utilizza, per le riprese del Don Giovanni mostrate nel film, proprio il teatro di Praga dove
originariamente l’opera è stata messa in scena da Mozart. La storia del film è raccontata da un Salieri
ormai vecchio che confessa come abbia cercato durante la sua vita di distruggere Mozart, non
accettando in lui la coesistenza tra genio e sregolatezza e ritenendolo indegno di tutto quel talento.
Il tutto è messo in scena in modo sontuoso e dettagliato, ricostruendo fin nei minimi dettagli le
ambientazioni del tempo; in particolare lo spazio scenico del teatro viene rigorosamente riprodotto
secondo gli usi dell’epoca, per cui ad esempio viene sottolineato come, fino alla metà del 1800, le sale
fossero sempre illuminate, anche durante la rappresentazione, dalla sola luce delle candele che
ovviamente per motivi pratici non potevano essere spente e poi riaccese una volta finito lo spettacolo.
I frammenti visionati ci mostrano la fase di realizzazione e messa in scena di alcune famose opere di
Mozart (il Don Giovanni e il Flauto Magico) mostrandoci come compagnie teatrali popolari
scimmiottassero le opere di Mozart e come però lo stesso Mozart scrisse proprio per una di queste
compagnie il Flauto Magico indirizzando così il suo lavoro a un pubblico più ampio.
In conclusione si può dire che con le sue immagini splendide, questo film è un omaggio alla
Cecoslovacchia del regista che viveva a Praga ed è stato assistente di Radok e allievo di Svoboda della
Lanterna Magica.
DON GIOVANNI DI PETER BROOK
Anche Peter Brook ha realizzato una sua messa in scena del Don Giovanni di Mozart ma in maniera
molto distante dal rigore formale che abbiamo potuto trovare nel film di Milos Forman. In questa
rappresentazione infatti ci avviciniamo di più al lavoro realizzato da Lars Von Trier in Dogville. La
scenografia è infatti del tutto scarna, nemmeno suggerita. C’è in realtà un’operazione ancora più
“eccessiva” che in Dogville, poiché se non altro in Dogville i costumi suggerivano l’epoca in cui si
presume avvengano i fatti narrati; nel Don Giovanni di Brook invece anche i costumi sono del tutto
impersonali (abiti neri, classici da attore di teatro) proprio per suggerire un’idea totale di astrazione e
atemporalità del narrato. Secondo il punto di vista di Peter Brook per il teatro bastano solo l’attore e
lo spettatore. Ciò ci riporta al discorso sul virtuale.
IL VIRTUALE
A questo punto è nata una riflessione sul concetto di virtualità nel teatro e nel cinema. Pur essendo noi
condizionati pesantemente da cinema e televisione, bisogna tener comunque presente che il teatro è
una forma di spettacolo che ha più di 2000 anni e che per forza di cose quindi, problemi riguardanti la
virtualità devono essere già stati affrontati in passato. Soprattutto nel teatro delle origini lo spazio era
uno spazio non dato, uno spazio creato dalle capacità mimiche-gestuali e recitative dell’attore e da ciò
che di conseguenza recepiva lo spettatore. I primi esempi di virtualità sono quindi quelli in cui un
semplice racconto sviluppa la nostra immaginazione. Estremizzando il concetto potremmo dire che
delle prime forme di virtualità sono la semplice parola e quindi la scrittura. Lo scrittore di fatto chiede
un lavoro attivo di immaginazione al lettore. Come detto un processo simile avveniva anche nel teatro
greco e in maniera alterna fino al teatro naturalista che con la dovizia di particolari scenografici
doveva far risaltare sentimenti “altri”. Da qui al cinema il passo è breve: di fatto noi piangiamo davanti
a un semplice telo su cui vengono proiettate immagini. Allo stesso tempo però si pone un dilemma
perché il cinema in un certo senso è un passo indietro rispetto al virtuale del teatro: il cinema di fatto ci
mostra la realtà così com’è, non ci richiede un lavoro di astrazione troppo grande. In questa ottica
bisogna riconoscere che soprattutto nel cinema per lavorare con la virtualità bisogna avere determinate
e molteplici competenze e conoscenze. L’andare al cinema risulta essere comunque qualcosa di
virtuale, ma il problema si pone sotto altri punti di vista: cosa faccio o posso fare io con la macchina
cinema, quali sono gli spazi delle riprese che voglio mostrare, quali le inquadrature più congeniali.
Tali questioni sono centrali nel concetto di virtualità che si sono posti Lars Von Trier e Péter Forgàcs,
il regista del documentario Ungheria privata, che legano il concetto di virtuale alla ricerca creativa. La
scenografia virtuale quindi non è necessariamente digitale, ma anzi proprio Forgàcs ci mostra come
con il solo lavoro di montaggio di video amatoriali riesce a descriverci in maniera lucida l’epoca delle
deportazioni in Ungheria. Il fine diventa quindi dimostrare che si può comunicare e suggerire qualcosa
al di là di ciò che mostro.
Per concludere sono stati visionati dei filmati di Studio Azzurro e in particolare una
videoambientazione dell’Iliade del 1987 intitolato Totale della battaglia di Paolo Rosa, con musica di
Giorgio Battistelli, e una installazione interattiva che appunto interagendo con lo spettatore fa si che
gridando partano degli effetti visivi e delle proiezioni lungo un percorso allestito per lo spettatore.
Appunti di Giovanni Valentini
Lezione n°7 del 3/02/05
Il regista Gianfranco Giagni presenta in aula il suo documentario, “Dentro il digitale”, prodotto per
Raisat ed andato in onda in 12 frammenti di 5 minuti. Si tratta di un’inchiesta sul cinema digitale che
fotografa il pensiero degli intervistati - registi, critici cinematografici, direttori della fotografia, tecnici
del digitale della Proxima e scenografi - sul passaggio dalla pellicola al digitale.
Il documentario è ora disponibile alla mediateca del Dipartimento.
Le interviste sono montate e gli interventi spezzati in sequenze monotematiche; solamente le interviste
a Nanni Moretti e a Vittorio Storaro ci vengono presentate integralmente e in continuum. Ecco alcune
sintesi degli interventi:
1) Marco Risi, regista
Digitale significa girare un film con molti meno mezzi.
Il digitale varia inoltre il rapporto con l’attore, rendendolo più fluido, immediato, e giocando a favore
soprattutto degli attori meno esperti che si spaventano facilmente dall’enorme armamentario del
cinema in pellicola.
L’effetto speciale si deve notare, come nei fumetti; aggiunge tono al film.
2) Alessio Gelsini, direttore della fotografia
Nel cinema italiano, il digitale può diventare un modo per sopperire la mancanza di mezzi nella
costruzione scenografica.
3) Ferzan Ozpetek, regista
Il digitale è una cosa fredda; ho un rifiuto netto per esso.
L’effetto speciale non si deve notare.
Volontà d’ottenere un momento forte nella scena dell’incidente in “Le Fate Ignoranti”; modello di
riferimento, la scena dell’incidente in “Joe Black”. I tecnici suggeriscono l’uso del digitale, che viene,
per opera loro, utilizzato.
L’impiego dell’effetto speciale deve essere limitato; l’emozione è e deve restare l’effetto speciale più
forte.
4) Luca D’Ascanio, regista
Costruzione di storie che facciano leva su ritmo, velocità, dialoghi, giocando con ciò che le macchine
offrono, con le sfocature.
5) Alex Infascelli, regista
Favorevole all’impiego del digitale nella costruzione del racconto cinematografico.
6) Sergio Rubini, regista
L’effetto speciale deve restare nascosto ma l’introduzione del digitale è un’innovazione positiva e
perseguibile perché consente risultati, soprattutto per quanto riguarda il colore, che non sono ottenibili
con la stampa.
7) Gabriele Salvatores, regista
Ottimismo verso il digitale perché esso abbassa i costi dei film e, purché resti uno strumento in mano
ai registi e non ai produttori, aumenta la libertà e la democrazia.
Amore per l’effetto speciale poetico, di cui esempio è la piuma in “Forrest Gump”. Gli effetti speciali
devono essere legati alla creatività, non alla spettacolarità (teoria approfondita e sperimentata con
“Nirvana”).
8) Paolo Zeccara, supervisore senior effetti speciali Proxima
Descrizione, insieme a Giuseppe Squillaci, della realizzazione della scena dei binari del treno sul set
del film di Alex Infascelli, “Il Siero delle Verità”.
9) David Bush, supervisore effetti visivi
La progettazione è fondamentale per la buona riuscita di qualsiasi scena cinematografica, perché serve
a rendere tutto più governabile, gestibile.
Gli effetti speciali devono essere al servizio dell’autore; la storia è la cosa fondamentale. La trama del
film deve funzionare a prescindere dalla tecnologia che resta un supporto, molto valido, certamente,
ma senza possibilità d’essere in alcun modo protagonista.
Le più grandi potenzialità del digitale sono: la realizzazione di incidenti virtuali; la capacità di
moltiplicare artificialmente le comparse, fondamentale perché il cinema non può prescindere
dall’economia; la possibilità di cancellare, tagliare gli errori.
10) Primo De Santis, digital artist Proxima
Distinzione fra special effects, tutti quegli effetti speciali che è possibile riprodurre mentre si gira un
film, e visual effects, quelli che si possono aggiungere soltanto nella fase di post-produzione.
11) Nanni Moretti, regista
Piuttosto che fra pellicola e digitale, sarebbe sensato ed importante operare una distinzione fra
apparato pesante ed apparato leggero. Una troupe ridotta e una costruzione filmica meno tradizionale,
non più rigidamente divisa in compartimenti stagni, sono novità importanti che non si legano
necessariamente al digitale; la mole e la divisione sono già di molto diminuite grazie al passaggio dal
35mm al 16mm.
I lavori in super8 degli inizi della sua carriera rendevano tutto logisticamente molto complicato;
adesso per un regista che comincia è più semplice realizzare i film con il video.
Il digitale offre la possibilità di fare film a basso costo e porta pertanto ad una democratizzazione che
avrà come risvolto della medaglia una certa frequenza di film banali, poco pensati. Saranno molte di
più le persone che riterranno la costruzione di un film un fatto spontaneo, poco studiato. La facilità
della realizzazione sarà il pretesto e la ragione che porterà molti a cimentarsi con la costruzione di un
racconto cinematografico senza ritenere necessario dover prima assorbire criticamente i film visti,
conoscere e saper riconoscere le diverse scuole.
Grande ed immediato l’interesse per le novità tecnologiche riguardanti il suono; diffidenza e ritrosia
verso la possibilità di poter modificare luce, colore, parti dell’inquadratura.
12) Marco Dentici, scenografo
Utilizzo del computer per disegnare e colorare schizzi e bozzetti.
Potenzialmente, gli italiani hanno molto da offrire nel campo della scenografia digitale; non hanno
però a loro disposizione le possibilità tecniche che gli consentano di sfruttare a pieno queste
potenzialità.
13) Florestano Vancini, regista:
Ricostruzione digitale della Ferrara del 1500.
Per la realizzazione di un film, è necessaria l’integrazione fra diverse figure professionali.
14) Franco Di Giacomo, direttore della fotografia.
Iniziale impatto traumatico con il digitale; successivo ravvedimento: il digitale è il futuro, il treno da
non perdere, anche se attualmente presenta ancora grandi problemi. La differenza fra digitale e
pellicola è tutta in un fatto numerico: la pellicola dà 20 milioni di informazioni, il digitale più avanzato
massimo 8 milioni.
15) Stefano Martina, direttore Festival Arcipelago
Molto si sta facendo nel cortometraggio che è all’avanguardia per ciò che concerne il cinema digitale.
16) Andrea Traina, regista
Sperimentazione e utilizzo di tutte le tecniche che il cinema digitale offre specie nella auto produzione
a bassissimo corsto che ha realizzato.
17) Italo Pesce Delfino, regista
Per lungo tempo, direttore della fotografia; ultimamente, anche regista. La precedente esperienza ha
fruttato una competenza tecnica elevata e una dominanza di tutte le possibilità del cinema digitale.
18) Vittorio Storaro, direttore della fotografia
Iniziale diffidenza nei confronti del digitale, successivamente superata.
La tendenza governativa italiana ed internazionale tende a buttare la pellicola ora che c’è il digitale,
ma è una scelta sbagliata: dal momento che la tecnologia digitale non è ancora al livello di quella
analogica per quanto riguarda la riproduzione del reale, non si deve abbassare lo standard della
tecnologia su pellicola, quanto piuttosto innalzare quello della digitale.
Attualmente, la cosa più saggia da fare è scegliere di volta in volta fra analogico e digitale, a seconda
del tipo di progetto, del tipo di racconto cinematografico cui si deve lavorare.
Negli anni ’80, la rai, investendo cospicue somme, ha fatto delle sperimentazioni con nastro
magnetico in alta definizione, che hanno portato, fra altri prodotti, alla realizzazione del “Mistero di
Oberwald” di Antonioni. La qualità era però mediocre, specialmente per problemi legati alla
profondità di campo e al numero di informazioni contenute nel nastro magnetico, che una volta
riversato in pellicola per la proiezione in sala mostrava forti lacune a livello della qualità
dell’immagine.
Con questo fallimento è motivato il suo iniziale scetticismo nei confronti del digitale.
Non è ancora stata trovata la strada del cinema digitale in Italia; il livello della sperimentazione è
veramente minimo e l’uso del digitale si lega quasi esclusivamente al tentativo di risparmiare soldi.
Oggi abbiamo una tecnologia nuova ma un linguaggio vecchio. Il più grosso limite nel quale ci si
muove è che si è sempre nel linguaggio del media precedente.
DIBATTITO IN AULA
Americani: l’effetto speciale volge alla spettacolarità.
Italiani: l’effetto speciale deve essere interno al tessuto narrativo, più velato.
Americani: logica fumettistica; grandi budget.
Italiani: più legati alla letteratura, al realismo; budget di molto più bassi.
Cinema italiano/cinema americano: due modi di fare e pensare cinema completamente diversi.
La contrapposizione spettacolarità/creatività non dovrebbe esistere: purtroppo, per adesso, in Italia
ancora è un fatto reale; noi puntiamo sulla storia, sulla parola, un po’ per la mancanza di mezzi, un po’
per la nostra forte tradizione drammaturgico-letteraria.
In Italia non esiste ancora una vera coscienza del linguaggio digitale; ci si ferma agli aspetti più
superficiali di esso.
Anche con il digitale, è necessario preparare la scena: il fatto che costi poco, non deve portare al facile
errore di girare ad oltranza, 500 ore per 30 minuti di film, perché questo comporterebbe, nel
montaggio, uno spreco di tempo e denaro, senza calcolare l’effettivo rischio di non cavarne nulla.
Dal momento che il digitale è “facile”, elevato e reale è il pericolo di inflazionare sia la professione
del regista che i film: è necessario preparare il film a livello narrativo e tecnico.
I soldi sono effettivamente un fatto che pesa ed il digitale aiuta molto a risparmiarne nella fase delle
riprese. Vero è, però, che se il budget usato per set si svuota, quello per la post-produzione si riempie,
portando ad un incremento delle spese di riversamento e sviluppo.
Lo spazio della ricerca dovrebbe essere un’altra cosa rispetto all’industria cinematografica, mentre
invece non è così e questo limita le ricerche per via dei costi di produzione da contenere.
Il bello del digitale è che segue il respiro dell’operatore; la macchina leggera si muove con lui.
Con la Nouvelle Vague, negli anni ’60, la grande rivoluzione è l’alleggerimento della macchina da
presa che consente di poter fare molte più cose.
Orson Welles sognava una macchina molto piccola che permettesse d’infilarsi ovunque.
Moltissimi giovani tecnici italiani scappano dall’Italia e vanno in America. Ad Hollywood, importanti
premi Oscar sono andati a tecnici italiani per film americani (quindi il nostro problema è
fondamentalmente di soldi e tradizione; non mancano le menti, gli uomini).
Per gli ambienti piccoli, per lavorare sull’attore, per i documentari, conviene il digitale; per i film di
grandi spazi, con molti attori, conviene la pellicola perché ha ancora una definizione di molto
maggiore.
Warren Beatty chiese per la prima volta di mettere un piccolo televisore sul set, per vedere, anche se in
una qualità minore, ciò che stava avvenendo: è una grande rivoluzione; il monitor di controllo
(videoassist) sul set ha cambiato tutto.
I registi di vecchia generazione stanno ancora dietro la macchina da presa; i registi della nuova scuola
stanno davanti al monitor.
Appunti di Valeria Botta
Lezione n°8 del 4/02/05
ELENCO SITI CHE SI CONSIGLIA DI VISITARE PER UN APPROFONDIMENTO DELLA MATERIA:
Virtual Reality & Multi Media Park a Torino
www.edu.vrmmp.it
Noemalab il sito della newsletter italiana di Pierluigi Capucci:
www.noemalab.com
Il sito di Carlo Infante:
www.teatron.org
Video-performance GRENZE (Francia):
www.grenze.fr.vu
Il sito del laboratorio di creazione virtuale dell’Università Paris 8 tenuto da Emmanuele Quinz e Armando
Menicacci:
http://www.anomos.org
Il gruppo multimediale danese Hotel Proforma
www.hotelproforma.dk
Un musical via Internet:
www.academy.rpi.edu/projects/technophobe
Il lavoro di Giardini Pensili:
www.giardini.sm
Il sito di Stelarc:
http://www.stelarc.va.com.au/
George Coates Performance Group di San Francisco:
www.georgecoates.org
Netmage festival a Bologna:
http://www.netmage.it/
Neural: new media art, hacktivism, e- music:
http://www.neural.it/
Ateatro, rivista online con una sezione su teatro e nuovi media:
www.ateatro.it/
The Institute for the Exploration of Virtual Reality di Mark Reaney all’University of Kansas:
http://www.ku.edu/~mreaney/
Il sito del Virtual Art Museum:
http://www.artmuseum.net/w2vr/contents.html
Il Prx Ars Electronica di Linz, Austria
www.aec.at
Sull’adeguamento delle leggi sul diritto d’autore alle esigenze delle comunità creative:
www.creativecommons.it
Ricerche creative all’Università MIT di Boston:
http://www.media.mit.edu/research/index.html
Digital Storytelling Festival in Arizona
http://www.dstory.com/dsfsedona_04/