Aspettando Godot ovvero la ricerca teatrale contemporanea

Roberto Alonge
Aspettando Godot
ovvero la ricerca teatrale contemporanea
di Roberto Alonge
Parlare di teatro e di cinema può non risultare facile nel periodo del dopoguerra, considerato che la regia si è costituita effettivamente in quegli anni come
una vera e propria drammaturgia. Il regista, cioè, è riuscito a piegare gli strumenti
del proprio lavoro sino al punto di far dire ai testi delle cose che i testi in qualche
modo solo in nuce contenevano. E questo aspetto non riguarda soltanto i grandi
registi del secondo dopoguerra italiano ma anche quelli di minor rilievo. L’esempio
più emblematico è quello di Mario Missiroli che ha fatto delle cose interessanti
quando dirigeva il teatro di Torino ma si è perso, quando, per motivi meramente
economici, ha dovuto lavorare con produttori privati. Negli anni ’80 Missiroli mise
su uno straordinario spettacolo sulla “Mandragola” di Machiavelli che, a rivederlo
in video negli ultimi tempi, risulta vagamente profetico se lo paragoniamo a
Tangentopoli. Egli, infatti, inventò una dinamica di spettacolo in cui mise in luce la
dimensione di attaccamento al denaro di una società borghese contemporanea, allestendo, di fatto, una “Mandragola” in abiti moderni, o meglio, in abiti da cerimonia. Gli uomini in tight e le donne con vestiti lunghi e veletta sul capo sono la
personificazione per così dire “scenografica” della buona borghesia del tempo,
mentre il personaggio principale, il frate Timoteo con il suo saio che lascia tranquillamente intravedere pantaloni, giacca e cravatta, diventa anch’egli da uomo di Chiesa,
il frutto più naturale della razza “borghese” degli altri personaggi, come si evince
anche dai comportamenti, dai vezzi e dai tic, primi fra tutti quelli di tirar su una
spalla della tonaca o aprire il porta sigarette. Il testo di Machiavelli, attraverso questo stravolgimento dei costumi, diventava un testo assolutamente moderno che la
diceva lunga sull’interesse per il denaro e per la corruzione: ad accentuare questi
due aspetti, poi, era la stessa scenografia che metteva sì in scena una piazza perché
tutte le commedie del ‘500 si svolgono in una piazza ma con la particolarità di avere
un buco centrale e intorno dei pezzi di monumenti, di archi, di colonne e di capitelli buttati quasi alla rinfusa a terra, che davano in tal modo la dimensione di una
piazza italiana dissestata, come se ci fosse stato un terremoto o come se fosse caduta
una bomba nel cuore stesso della piazza. Ad acuire questo senso di desolazione,
inoltre la “trovata” di fare uscire dal buco nero i personaggi, una sorta di vermicaio
da cui, metaforicamente, uscivano i personaggi proprio perché tutto il discorso,
nell’ottica rovesciata della commedia, diventava la crisi di una società di mercanti e
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quindi dell’intera classe borghese italiana. A “condire” questa miscela di scenografie
e costumi chiaramente allusivi, i grandi fantasmi della borghesia italica, il sesso e il denaro in particolare, perché tutta la vicenda della “Mandragola” si basa sul principio della
necessità di avere dei figli maschi per trasmettere l’eredità, che a loro volta devono trasmettere il capitale e, per chiudere il cerchio, diventare lo strumento per poter realizzare
la corruzione. L’esempio di Missiroli, dunque, è particolarmente emblematico perché
egli, di fatto, fa il regista ma in realtà si pone in una luce di drammaturgo perché utilizza
tutti gli strumenti per fare un suo personale discorso sulla contemporaneità e sulla condizione sociale dei nostri giorni. Per esemplificare, si potrebbe paradossalmente dire
che non c’è bisogno necessariamente di una drammaturgia perché, in fondo, il discorso
sulla contemporaneità è più facile da farsi al riparo, dietro lo schermo di una messinscena. E in questo senso il regista è la figura più provocatoriamente efficace di drammaturgo perché interviene anche sulle problematiche della contemporaneità semplicemente
utilizzando i codici e gli strumenti del teatro di regia.
Si possono, tuttavia, fare delle osservazioni tecniche sull’insistenza dell’elemento scenografico, se si tratti, cioè, di una peculiarità italiana oppure straniera. Di
certo la regia europea di un certo livello è molto interessata all’indagine sullo spazio,
per cui non si tratta di una peculiarità solo italiana. Tuttavia c’è chi lamenta, in Italia,
la mancanza di drammaturghi del calibro di Shakespeare o di Molière, fatti salvi nomi
quali Goldoni e Pirandello e questo in parte è vero perché manca in Italia una tradizione di parola nel senso che l’Italia è un paese di cantanti e di scenografi piuttosto
che di attori. La peculiarità del teatro italiano, infatti, non a caso è quella dell’opera
lirica e nei grandi teatri italiani della fine dell’800 l’edificio teatrale doveva servire sia
all’opera lirica che al teatro di prosa, ma i giorni migliori venivano dati all’opera lirica
mentre quelli commercialmente più infelici venivano dati al teatro di prosa, che era
l’anello di congiuntura sulla scia di una grande tradizione di musica e di musicalità.
Ad ogni buon conto, va anche notato che gli italiani furono gli inventori, già nel ‘600,
di straordinari macchinari per la felice riuscita di alcune scene: sappiamo, da una serie
di incisioni di stampe, di cose straordinarie per quei tempi, come la roteazione degli
oggetti o la creazione di fuochi: c’è, insomma, una grandiosa abilità tecnica che fa sì
che l’occhio dello spettatore diventi centrale cioè un “teatro dell’occhio” e non tanto
un “teatro dell’orecchio”. In un certo senso Ronconi può essere definito un erede
geniale di questa tradizione, per la sua capacità di lavorare con una immaginazione
visionaria che ha bisogno sempre di inventare delle scenografie sorprendenti. Ideò,
ad esempio, un’enorme scena che riproduceva l’interno di una serie di vagoni ferroviari, ma ha fatto uno spettacolo ancora più clamoroso nel famoso “Gli ultimi giorni
dell’umanità” dove ha mosso delle masse enormi di attori, camion, mitragliatori e
truppe, dando quasi l’impressione di organizzare un vero e proprio campo di battaglia. Naturalmente il testo si prestava molto ma soprattutto si avvertiva questo piacere di inventare degli spazi inediti con gli spettatori che dovevano muoversi e vedere
in contemporanea delle scene diverse. Un regista che lavora in questo modo cioè
all’interno di uno spazio enorme tendenzialmente infinito, può, a buona ragione,
essere definito un regista di tipo scenografico.
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Resta da chiarire, infine, l’ambivalenza di fondo tra cinema e teatro, se, cioè,
si può dire che il cinema ha rubato spazio e linguaggio al teatro. Effettivamente il
cinema ha rubato tutta una serie di possibilità al teatro ma rubandogliele ha anche
consentito al teatro di attrezzarsi con delle risposte particolari, senza dimenticare
che il teatro è l’arte dello spettacolo vivente cioè l’attore è vivo e quindi è inutile
cercare di rivaleggiare con il cinema costruendo le scenografie che saranno, per
quando straordinarie, sempre inferiori a tutta la magnificenza che il cinema può
dare. La specificità del teatro va recuperata proprio nella sua modalità di presentare
in carne ed ossa l’attore, lì dove il cinema ci presenta degli attori per così dire “finti”
e messi su una pellicola. Infine, un’ultima riflessione andrebbe fatta sulla intrinseca
purezza di un testo teatrale, se, cioè, esso debba essere restituito o meno nella sua
purezza o se il regista può permettersi delle “invadenze”. Per spiegare meglio il
concetto, potrei fare un esempio personale, a partire dalla mia esperienza. Quando
io scrivo dei libri su Pirandello o Ibsen so perfettamente che quello che io scrivo
forse non è esattamente quello che volevano dire Pirandello o Ibsen ma credo comunque che, se non posso tirare fuori quelli che sono i miei fantasmi, non mi metterei nemmeno a scrivere e troverei tale operazione noiosissima. Se uno studioso si
accinge a scrivere un libro, immagino lo faccia non per spiegare quello che già tutti
hanno detto, ma per dare e darsi la possibilità di partire dalla propria soggettività,
dalla propria autobiografia e dai propri interessi, di dire qualcosa di nuovo. Certamente è una violenza al testo, ma consente al testo stesso di far emergere una dimensione nuova. Un testo è come una pietra che ha tante facce e, dunque, una
molteplicità di chiavi di lettura, da quella sociologica a quella psicologica, da quella
strutturalista a quella antropologica. Insomma, a seconda di quello che io sono,
oriento il testo facendo venir fuori le cose che in parte sono mie. Probabilmente
anche il regista fa la stessa cosa nel momento in cui mette in scena un testo anziché
un altro.
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