18 ottobre 2012 Crisi economica e nuove povertà Elisa Badiali

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NEL CORTILE DELLA STORIA -
maggio 2013
I POVERI OGGI
18 ottobre 2012
Crisi economica e nuove povertà
Elisa Badiali – LIB21
L’espressione “nuove povertà” gode oggi di un’ampia diffusione. La crisi economica, la
disoccupazione, la precarizzazione delle situazioni di lavoro e la contrazione dei consumi, hanno
esposto, infatti, sempre più individui ad una condizione di vulnerabilità e povertà.
A rendere reale questa affermazione non sono solo le immagini delle manifestazioni, degli scontri e
delle assemblee pubbliche che attraversano via via tutte le città del mondo, o le parole della gente
che sempre meno riesce a mascherare un animo indignato, ma anche e soprattutto i dati presenti
all’interno dei rapporti Istat che ci forniscono un’amara fotografia della situazione economica
europea e italiana. È il rapporto sulla Povertà in Italia che mostra infatti una situazione generale
peggiorata proprio a partire dal 2008. Ma se a un primo colpo d’occhio è l’11,1% delle famiglie
definite relativamente povere ed il 5,2% di quelle povere in termini assoluti a fare più effetto, quello
che mi ha particolarmente colpito analizzando i dati è il 7,6% di popolazione che nel viene definita
come “quasi povera”1. Questa percentuale, infatti, mostra come la crisi della società salariale
moderna, l’indebolimento delle regolazioni collettive e delle forme di protezione assicurate dalle
politiche sociali, nonché la crisi dei legami sociali e familiari, abbiano finito per moltiplicare la
vulnerabilità, allargando le fasce sociali soggette a rischio ed accrescendo l’ansia nei confronti del
futuro. In particolare appare come si sia dilatata la zona di vulnerabilità fino a debordare anche su
quella dell’integrazione, coinvolgendo persone che fino ad un determinato momento erano inserite
all’interno di una stabile vita sociale e professionale, e che oggi si trovano invece a confrontarsi con
situazioni di precarietà e disoccupazione. Come ha sostenuto anche Richard Sennet, agli albori della
crisi economica che si sta rivelando la più grande solo dopo quella del 1929, il fallimento non è più
una prospettiva normale solo per i poverissimi o per le persone afflitte da problemi, ma è diventato
un evento familiare anche nelle vite della classe media2. Le esigenze di competitività e concorrenza
e la riduzione delle possibilità di impiego che caratterizzano lo scenario sociale contemporaneo
tendono, infatti, ad invalidare molte persone che dalla congiuntura sono condannate ad una
precarietà permanente e a una insicurezza perpetua in assenza di un mercato del lavoro organizzato.
L’esclusione sociale rischia quindi di diventare un processo che non coinvolge più solamente coloro
che si collocano ai livelli più bassi della stratificazione sociale, ma anche persone che erano state
fino a questo momento inserite nel circuito del lavoro e del consumo e che si trovano ora privi di
supporti, di appartenenza e di legami sociali. “Ciò che era impossibile un tempo oggi può verificarsi
con qualche probabilità: si può essere poveri pur con la casa ed il lavoro”3.
La crisi economica ha quindi permesso di mettere in luce il diffondersi di condizioni di “nuova
povertà”, diverse da quella del passato poiché non più residuali e in qualche modo a-temporali. Gli
individui, sempre meno appartenenti a fasce sociali dai confini chiaramente definiti, vivono
all’interno di una situazione come di fluttuazione della struttura sociale: da una condizione di
inserimento e stabilità possono trovarsi esposti al rischio della povertà in seguito ad eventi che
rendono visibile la fragilità dei legami sociali. “All’interno di questa prospettiva la condizione di
povertà viene a configurarsi non come un caso eccezionale, ma come l’estremità, il punto limite di
un percorso biografico”4. Per studiare la povertà oggi occorre assumere perciò un approccio di
analisi nuovo, capace di comprendere come, accanto alla tradizionale forma di povertà, si assista
ora ad una crescente differenziazione della povertà stessa, condizione che spesso si manifesta con
un processo di mobilità sociale discendente rispetto ad una posizione socio-economica precedente. I
“nuovi poveri” non si configurano come più una classe sociale omogenea e riconosciuta, bensì
come una massa dai contorni indefiniti, frammentata ed invisibile, che non dispone di una
propria autorappresentazione e di una propria cultura.
L’espressione “nuove povertà” può essere riferita allora ad una condizione di vulnerabilità, intesa
come senso di insicurezza ed instabilità, in cui si ritrova il soggetto con un percorso individuale
incrinato dalla precarietà e fragilità, tanto a livello lavorativo quanto nelle relazioni sociali. In
quest’ottica risulta fondamentale considerare che la dimensione economica non è la discriminante
essenziale, ma al contrario che la povertà è strettamente legata ad una complessità di fattori che
contribuiscono ad estendere la fascia di vulnerabilità ed il forte senso di insoddisfazione ed
incertezza fra gli individui che la compongono. La comparsa di approcci maggiormente attenti
alla eterogeneità e alla variabilità interna della condizione di povertà ha fatto emergere che il
principale difetto della concezione alla base del sistema di Welfare è stato, ed è, quello di farne una
questione macro, rimuovendo ogni considerazione relazionale, in particolare il ruolo della famiglia
e delle reti di solidarietà. Le analisi che privilegiavano una lettura dei fatti macro-sociali per lo
studio della povertà, sono state via via sostituite, dopo la teoria proposta da Amartya K. Sen, da un
approccio sempre più attento al tenore di vita e alle reti relazionali dell’individuo e alle sue
capacità di trasformare le risorse in capacità di vita. Il raggiungimento o meno di determinati
standard di vita dipende, infatti, anche da quelle che A.K. Sen identifica come le capacitazioni di
ogni individuo, ossia quelle capacità di cui una persona dispone per attivare o meno determinate
funzioni. Il concetto di capacità è perciò strettamente connesso a quello di funzionamento: esso
rappresenta, infatti, le varie combinazioni di funzionamenti che la persona può acquisire durante il
corso della vita, e quindi quelle libertà che possono essere identificate come libertà positive, ossia
che specificano che cosa una persona può o non può fare, oppure che cosa può o non può essere6.
Tale prospettiva mette bene in luce come, per riflettere sui processi di impoverimento, occorra
tenere conto non solo dei redditi o dei consumi degli individui, bensì anche e soprattutto delle
capacità che gli individui necessitano per mantenere condizioni di vita adeguate.
La crisi socio-economica, infatti, ha reso evidente come le libertà e le capacità promesse dal
modello liberalista, non riescano a compensare l’altra faccia della stessa medaglia, ossia il dovere
da parte degli individui di prendere da soli le decisioni. Nell’epoca dell’individualizzazione, della
riflessività e del rischio gli individui si trovano nella condizione di doversi sempre più assumere la
responsabilità della propria vita, di immaginarsi e costruirsi quelle che Beck identifica come vere e
proprie “biografie fai da te“, frutto di decisioni prese dal singolo senza l’ombrello protettivo della
religione e di quei sistemi forti di appartenenza che davano ricette comportamentali e linee di
pensiero forti e ben confezionate. Queste indicazioni che erano da una parte costrittive per
l’individuo, erano però dall’altra anche fonte di rassicurazione, nella misura in cui proponevano un
mondo dato e non discutibile, vissuto e percepito come giusto e immutabile, quasi naturale, al cui
interno il soggetto trovava il suo posto. Se l’individualismo, quindi, da una parte conferisce a un
numero crescente di uomini e donne una libertà senza precedenti di sperimentare, dall’altra, assegna
anche il compito di tener testa alle sue conseguenze. Questo paradosso alla base della società
contemporanea è, secondo il sociologo Robert Castel, espressione di un individualismo di tipo
negativo, basato cioè su una sottrazione dai legami con le collettività ed ottenuto tramite una
privazione piuttosto che un’emancipazione. Gli individui oggi devono dimostrare di essere in grado
di calcolare le possibilità positive e quelle negative dietro ogni loro azione, e quotidianamente
devono saper scegliere tra un range idefinito di possibili corsi d’azione.
È in quest’epoca che, minacciando quella che Anthony Giddens chiama la “sicurezza ontologica”5,
si diffonde quindi il rischio come caratteristica alla base della società6. E, se da una parte il rischio
ha rappresentato leva e motore di cambiamento, innovazione e progettazione dell’identità, dall’altra
ha portato con sé una diffusa percezione di incertezza, di non essere al sicuro, una più diffusa
sensibilità nei confronti dell’esclusione, che da problema degli altri, è tornato ad essere un problema
2 anche nostro, nel senso che prima o poi potrebbe toccare anche a noi. Si potrebbe commentare che
ogni gioco, ogni sfida, prevede vincitori e perdenti, e quindi un’assunzione del rischio. Ma quello
che appare oggi è che, nel gioco della libertà, la differenza tra le due categorie tende ad essere
sfumata, se non del tutto cancellata. Nella modernità liquida e del rischio, infatti, “chi ha perso si
consola con la speranza di vincere la prossima volta, mentre la gioia del vincitore è offuscata dal
presentimento della perdita. Per entrambi, la libertà significa che nulla è stabilito in modo
permanente e che la ruota della fortuna può ancora girare. I capricci della sorte rendono incerta la
condizione di entrambi. Ma l’incertezza è portatrice di messaggi differenti: ai perdenti dice che non
tutto è ancora perduto, ai vincenti sussurra che ogni trionfo tende ad essere precario”7.
L’abisso crescente tra il diritto all’autoaffermazione e la capacità di controllare il contesto sociale
che rende possibile o irrealistica tale autoaffermazione, diviene quindi una delle grandi
contraddizioni della società contemporanea. È all’interno di questo nuovo scenario che si profila
quindi una nuova tipologia di popolazione a rischio povertà, che potremo identificare come persone
con deficit di riflessività, cioè scarsamente in grado di analizzare le risorse che permettono loro di
sapersi muovere nell’incertezza, di sapere includere le difficoltà e gli eventi traumatici che si
trovano ad affrontare (siano essi la deprivazione economica, la perdita del lavoro, un divorzio, la
malattia) in una trama biografica che conservi la sua integrità. La capacità riflessiva per l’identità
sembra rappresentare, infatti, quel bene fondamentale che permette agli individui di essere in
condizione di conservare un lineare “andamento narrativo“. In quest’ottica, per lo studio delle
“nuove povertà” in cui il soggetto riacquista un ruolo centrale, diviene necessario comprendere cosa
consente ad un individuo di essere capace di scrivere il romanzo della sua vita in un’era in cui le
trame, i personaggi ed i copioni tradizionali cessano di essere un punto di riferimento. Tutto questo
significa, cioè, essere in grado di analizzare le strategie che i vari attori mettono o che
potrebbero mettere in atto per fronteggiare il possibile rischio. Strategie che non devono
necessariamente rispondere al modello idealtipico weberiano dell’agire razionale rispetto allo scopo
tipico dell’homo oeconomicus, bensì che si riferiscono all’insieme di quei processi che possono
permettere all’individuo di mantenere intatta la sua integrità biografica.
Occorre, quindi, orientare lo studio del fenomeno della vulnerabilità, non circoscrivendolo solo alla
comprensione delle dinamiche generali che coinvolgono l’11,1% della popolazione che rientra
all’interno della fascia dei poveri, ma anche verso un livello preventivo, per ricercare a monte cosa
può generare la caduta, e nel medesimo tempo anche cosa può fermarla. Concentrarsi cioè su quelle
situazioni che, verificatesi nell’arco della vita dell’individuo, possono essere con-causa del
processo di impoverimento. Occorre, in quest’ottica, analizzare tutte le sfere che caratterizzano la
vita degli individui e che possono essere ambiti di generazione del rischio: la sfera lavorativa, quella
che riguarda la protezione del cittadino da parte dello Stato, la sfera dei rapporti sociali, familiari ed
intimi.
Per l’analisi delle “nuove povertà” diviene fondamentale quindi prendere in considerazione, non più
solo la definizione di povertà assoluta (intesa come mancanza di risorse per consumare un certo
insieme di beni e servizi per soddisfare le necessità essenziali) e quella di povertà relazionale
(basata su un confronto relativo tra i diversi gruppi componenti la società), ma anche quella che
Ardigò chiamava la “povertà simbolica” o anche “povertà soggettiva” (che considera il grado di
soddisfazione dei soggetti nei confronti della salute, della casa, del tempo libero), nonché quella di
“povertà umana“, intesa come mancanza di beni essenziali e di particolari capacità e abilità per
soddisfare i bisogni ritenuti fondamentali. Sia la povertà assoluta che la povertà relativa sono
identificabili, infatti, come concetti unidimensionali, in quanto definiti rispetto ad un’unica
variabile, che può essere tanto il reddito quanto la spesa per i consumi. Entrambe le categorie hanno
inoltre la caratteristica di ridurre il mondo sociale solamente entro due categorie, quella dei
benestanti e quella dei poveri, perdendo di vista le molteplici forme di vulnerabilità che
3 costituiscono in realtà gli stati intermedi tra il benessere e la povertà e che possono aver origine da
particolari accadimenti del corso della vita, come ad esempio la perdita di un lavoro, la dissoluzione
del legame familiare o il peggioramento delle condizioni di salute.
Per tentare di fermare l’aumento dei processi di impoverimento che stanno travolgendo quote
sempre più ampie di popolazione, occorre oltrepassare allora la mera preoccupazione legata alle
differenze di reddito, caratterizzante il criterio della soglia e della costruzione stessa degli indici di
misurazione della povertà, per riuscire a prendere in considerazione anche gli aspetti relazionali
dell’esclusione sociale e la qualità relazionale dei nuovi bisogni. Le “nuove povertà”, infatti,
sono un fenomeno cumulativo e multidimensionale, in cui convivono diversi livelli di bisogni: i
bisogni primari, relativi alla disponibilità di beni materiali di sopravvivenza; quelli secondari, la cui
soddisfazione implica la responsabilità delle istituzioni (salute, igiene, assistenza, scuola, etc.); i
bisogni relazionali, relativi alla caduta dei legami comunitari ed alla mancanza di rapporti
interpersonali sul piano dell’affettività. Il livello di reddito e di consumo restano quindi
caratteristiche essenziali della povertà, ma non la esauriscono più. Le nuove condizioni di
vulnerabilità sono quindi anche trans-materiali, poiché si collocano contemporaneamente
all’interno ed all’esterno della sfera materiale e si proiettano verso la sfera immateriale dei
comportamenti sociali.
Una visione che intende superare la definizione di povertà esclusivamente in termini di
deprivazione economica, dovrebbe indurre a pensare perciò alla coesione sociale, intesa come
ricostruzione dei legami a partire dalle istituzioni economiche, culturali, politiche e civili, come una
parte importante di azione al superamento e alla risposta al problema delle nuove povertà.
Occorrerebbe cioè mettere in atto vere e proprie strategie e azioni per aumentare l’intensità di
capitale sociale8, in modo tale da allentare quella spirale negativa che incide sulla crescita dei
processi di impoverimento.
Elisa Badiali è Dottoranda in Sociologia, collabora con il Centro Studi Avanzati sul Consumo e la
Comunicazione Ces.co.com dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
1
Istat, La povertà in Italia, 2012 Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2007 3
G. Pieretti, Per una cultura dell’essenzialità, Franco Angeli, Milano 2009, p. 188 4
M. Bergamaschi, Ambiente urbano e circuito della sopravvivenza, Franco Angeli, Milano 2007, p. 27 5
A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, p. 96 6
U. Beck, La società globale del rischio, Asterios Editore, Trieste 2001 7
Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p. 11 8
Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, Il Mulino 2004 2
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