Quaderno n.2 Nero su Bianco edizioni Luglio 2011 a cura di Graziano Graziani Matteo Vallorani con Bernardo Brogi Hanno collaborato Matteo Boscarol Alessandra Cava Manuela De Leonardis Luca Scarlini Serena Terranova Cinzia Toscano Disegni di Brochendors Brothers Anna Deflorian Impaginazione Brochendors Brothers Anna Deflorian In collaborazione con il Coordinamento critico-organizzativo di Santarcangelo 2009/2011 Si ringrazia Keiko Shiraishi www.santarcangelofestival.com www.altrevelocita.it COME NON DETTO Parlare di Seinendan vuol dire parlare di Giappone. Non solo perché questa compagnia, tra gli ospiti di punta di Santarcangelo 41, è una delle più importanti della scena del Sol levante. Ma anche perché dietro all’interesse per il suo lavoro si nasconde la curiosità per un paese che ha fortemente contaminato il nostro immaginario ma di cui, in fondo, conosciamo ben poco, soprattutto a livello teatrale. Per questo il quaderno dedicato a Oriza Hirata e alla sua compagnia si apre con il tentativo di tracciare un panorama del contesto artistico nipponico, dove inquadrare la ricerca e il metodo del regista giapponese. Si parte con delle breve considerazioni sul teatro giapponese passato per le piazze italiane, utilizzando il festival di Santarcangelo come visuale privilegiata, che traccia la silhouette di una scena aperta a innumerevoli stili e contaminazioni, in dialogo con altri campi dell’arte. Da qui si diramano gli approfondimenti che tre critici e studiosi tracciano nei rispettivi settori: la scena teatrale, l’arte visiva, il cinema. La seconda parte del quaderno è dedicata all’incontro con Oriza Hirata, il suo teatro e il suo metodo. Partiamo da una lunga conversazione con lui, sulle origini della compagnia e della teoria che ha elaborato durante i primi anni di lavoro; mentre le recensioni degli spettacoli ci danno conto della sua estetica e della sua particolare ricerca drammaturgica. Infine, attraverso un doppio report, raccontiamo quanto accaduto nel laboratorio per attori professionisti che il regista giapponese ha tenuto nell’ambito del festival: da un lato gli esercizi compiuti, presentati come una sorta di “metodo Hirata”; dall’altro la raccolta delle impressioni degli attori italiani, che si sono confrontati con un approccio formativo molto diverso da quelli diffusi qui da noi. La visione d’insieme è una sorta di mappa di un teatro di parola che parla, più che tramite il testo, attraverso ciò che la parola non dice. Graziano Graziani 3 INDICE Big in Japan pag.5 Così lontano, così vicino pag.7 Conversazione con Hirata pag.17 Cos’è Seinendan pag.23 Tokyo Notes — recensione pag.25 The Yalta Conference — recensione pag.27 Lasciar cadere le parole — il metodo Hirata pag.29 Da oriente a occidente pag.35 Bibliografia essenziale pag.39 4 GRAZIANO GRAZIANI BIG IN JAPAN Una breve riflessione sul teatro giapponese in Italia, attraverso il prisma del festival di Santarcangelo. Ritratto di una scena ricca, estremamente variegata e per molti aspetti ancora misconosciuta. L’idea di teatro giapponese che abbiamo in Italia è generalmente legata alle grandi tradizioni di quel paese, il Nō e il Kabuki, con qualche curioso che si spinge fino al Rakugo, un genere comico tradizionale. In epoca più recente il Butō, la “danza delle tenebre” nata come reazione all’olocausto nucleare, si è conquistato una sua nicchia di visibilità. A ben vedere un panorama piuttosto parziale per un paese che abitualmente inonda il nostro immaginario a più livelli, dalla tecnologia al cinema, dai fumetti all’arte visiva. L’idea di un paese incastonato nel contrasto irriducibile tra una modernità strabordante e un passato ipercodificato è, a quanto pare, l’unica griglia estetica in cui riusciamo a incasellare il Giappone. Certo, a differenza del cinema e dell’animazione, che possono contare anche sulla diffusione via web a costo zero, il teatro è un oggetto artistico con cui è più difficile entrare in contatto: i costi sono elevati e la barriera culturale della lingua è più difficile da superare che in altri settori dell’arte. Eppure la curiosità verso il paese del Sol Levate cresce, e le programmazioni dei festival la seguono di pari passo, proponendo al pubblico italiano alcuni dei protagonisti di una scena contemporanea ancora praticamente ignota al grande pubblico. Anche il festival di Santarcangelo è stato un link di questa rete di curiosità. Se guardiamo anche solo all’ultima triennalità, che si 5 Graziano Graziani conclude quest’anno, troviamo in programma almeno una compagnia giapponese per edizione. Una coincidenza – ma nessuna coincidenza è davvero tale –, vista la grande distanza tra i progetti che hanno dato corpo agli ultimi tre festival: il suono per Chiara Guidi nel 2009, il rapporto tra realtà e finzione per Enrico Casagrande nel 2010, il ruolo dell’attore per Ermanna Montanari nel 2011. Due anni fa, con White lives on speaker, il duo composto da Yoshimasa Kato e Yuichi Ito dava vita a delle figure antropomorfe con l’amido di riso, che grazie alle vibrazioni di un subwoofer si modellavano e si muovevano per poi ricomparire al cessare delle onde sonore. Una ricerca sonora ed estetica che sconfina nell’arte visiva, più vicina a un’istallazione che a una rappresentazione, eppure intimamente teatrale nel tentativo di attingere alla sfera emozionale, persino sentimentale, degli spettatori. L’anno scorso i Fai Fai hanno messo in scena uno spettacolo corrosivo per il ricorso estremo al pop e a un gusto surreale tutto interno alle derive kitsch e trash dell’immaginario nipponico contemporaneo. My name is I love you, un lavoro che non ha mancato di dividere il pubblico, ruotava attorno allo stereotipo romantico di cui l’industria culturale del Sol levante si nutre con ingordigia, che puntualmente si rovescia nel suo opposto soft-porn. Nel mezzo una serie di simboli – il fedele cane Hachiko, i manga, i robot – che siamo abituati ad attribuire più al cinema giapponese che al teatro. Infine quest’anno Oriza Hirata presenta due lavori – Tokyo notes e The Yalta Conference – dove il fulcro è la drammaturgia. Ma una drammaturgia costruita come reagente agli stereotipi della scrittura teatrale del Novecento europeo, che cerca il significato più tra i silenzi e nelle interruzioni delle frasi che non nella parole stessa e nel suo significato. Una ricerca che si rapporta allo stile colloquiale giapponese e che dunque è estremamente connaturato a quella cultura, ma allo stesso tempo non si può fare a meno di notare di come essa sia consonante con l’idea di teatro post-drammatico che si è delineato nell’ultimo decennio nel vecchio continente. Questi spettacoli rappresentano tre discorsi autonomi che aprono l’arte scenica verso orizzonti estremamente differenti tra loro: l’arte istallativa, il pop, la ricerca drammaturgica e il quotidiano. Ma proprio nella loro estrema diversità essi ci danno testimonianza di una scena ricca ed estremamente reattiva, aperta a forme di ricerca e contaminazione radicale che vanno ben al di là di qualunque stereotipo. Che poi è il compito del teatro, o almeno del teatro che produce senso. 6 LUCA SCARLINI / MANUELA DE LEONARDIS / MATTEO BOSCAROL COSÌ LONTANO, COSÌ VICINO Immagini, sogni e ossessioni del paese del Sol levante sono entrate ormai stabilmente nel nostro immaginario, ma nonostante ciò il Giappone resta un grande sconosciuto. Abbiamo chiesto a tre critici e studiosi di ambiti diversi di tracciare una panoramica delle estetiche che animano il dibattito artistico nel Giappone contemporaneo, tra cinema, teatro e arti visive. TEATRO Hirata e gli altri Dal Giappone sono arrivati nei decenni postbellici vari segnali che hanno interagito con il mondo dello spettacolo occidentale. Se molti sono stati quelli che hanno sentito il fascino delle codificazioni del Nō e del Kabuki, nelle loro strutture altamente formalizzate, altrettanto importante è stato l’impatto che il Butō ha avuto sull’immaginario euroamericano, con infiniti (e spesso assai noiosi) imitatori. Poco o niente fino ad ora si sapeva invece del repertorio di drammaturgia del paese, ricco, variato e per molti aspetti sorprendente, con il solo Mishima Yukio che compariva qualche volta nei repertori con pièces come Madame de Sade (di cui resta memorabile la versione passata anche in Italia diretta da Ingmar Bergman, con un manipolo di indimenticabili attrici). Mancano da noi anche i classici del nuovo dramma novecentesco, ad esempio è stato pubblicato solo un testo di Tanizaki Jun’ichirō e oggi, dopo tanto cinema, tanta narrativa in forma di libro e di manga, è il 7 Luca Scarlini, Manuela De Leonardis, Matteo Boscarol momento di osservare quello che è il filo di maggiore interesse nei teatri di Tokyo, spesso definiti come palcoscenici-studio, nella tradizione della celeberrima sala Bungakuza, dove Mishima si divertiva ad andare in scena nel Britannicus di Racine e dove si susseguono ancora oggi stagioni fitte di proposte. Hirata Oriza, notissimo nel suo paese anche come giornalista, con moltissimi fans per le sue rubriche dai titoli curiosi (Di nuovo a casa, Stavo per farlo) da quando iniziò la sua attività. L’autore è ormai popolarissimo in Francia, dove non si contano più le versioni dei suoi numerosi lavori, che spesso giocano con l’autobiografia, come è tipico di uno scrittore che ha inaugurato giovanissimo la propria produzione, con un lavoro intitolato Oriza e il test di ingresso all’università. Fino dall’inizio la sua attività si riferisce alla compagnia da lui fondata, Seinendan, in cui svolge anche attività registica, ma anche didattica, facendo da trait d’union tra le varie generazioni. Non si contano ormai i premi, i riconoscimenti, le segnalazioni, le critiche positive che hanno accolto i suoi titoli più noti, come la magnifica opera corale Gente di Seoul (1989), in cui una melanconica trama di affetti, dall’impatto quasi cechoviano, è ambientata nella capitale coreana nel 1909, poco prima dell’occupazione nipponica o Tokyo Notes (1995) che narra la contemporaneità del suo paese attraverso la visione di frammenti. Al centro del suo lavoro c’è una riflessione sulla lingua, di cui ha dato conto anche in un manifesto come La teoria dello stile parlato nel teatro contemporaneo, in cui spiega la sua attrazione per il racconto in scena dei momenti di quiete, delle pause che svelano molto più delle parole. La conferenza di Yalta (2002) è un detour verso la commedia nera, indagata nei suoi aspetti più estremi. Il modello è il “rakugo”, una forma di intrattenimento comico popolarissima nel Sol Levante, in cui un interprete virtuoso (se ne ricordano moltissimi del Periodo Edo, che suscitavano un vero e proprio delirio di folla e molti sono quelli apprezzati oggi, tra cui Kaytsura Shijaku, noto per le sue rappresentazioni in inglese) sale in scena e racconta una storia buffa, potendosi servire solo di un ventaglio come unico accessorio. Il termine ha come significato “lasciar cadere le parole” ed è esattamente quello che fanno i tre comici presidenti, impegnati a decidere del destino del mondo, tra bizze, capricci, infantilismi e incontinenze uriche. Il potere viene quindi raccontato come un mockumentary, finto documentario irridente e perfido, oppure come uno scalcinato spettacolino di periferia, pieno di volgarità e di doppi sensi, nel momento in cui, con un grande 8 Così lontano, così vicino trauma nazionale, per la prima volta l’esercito del suo paese torna in guerra, nei bruciati paesaggi iracheni. Un lavoro che gioca con diversi piani di scrittura, ma che spesso si confronta anche con la danza e con installazioni site specific, come l’affascinante progetto Community Cafè, a Osaka, un vero e proprio luogo di ristoro, dove ogni giorno per due ore intellettuali e artisti parlano dei temi più diversi in forma di performance. La vita metropolitana in tutti i suoi aspetti è anche il filo rosso del lavoro di Okada Toshiki, anch’egli segnalato nel vivaio del teatro Seinendan. Dopo gli studi di economia, ha scelto come nome per la propria attivissima compagnia Chelfitsch, una storpiatura infantile dell’aggettivo inglese che definisce “egoista”, termine che a suo parere ben rappresenta il Giappone di oggi rispecchiato nei suoi più segreti moventi. Nella notte illuminatissima di Roppongi è infatti il notissimo locale Super De Luxe a accogliere una recente performance, Free time, che reca sul poster immagini disegnate con un tratto bambinesco, per descrivere un tempo libero che diviene una sofisticata trappola per individui e collettività, nel dialogo muto tra una donna seduta in un ristorante a riempire un quaderno di disegni privi di senso e una cameriera che si sforza di intuire il loro significato. Il physical theatre è un punto di riferimento costante per questa scrittura, messa in scena da attori che sono anche danzatori. Nel breve spazio di un decennio la sua attività è venuta prepotentemente alla ribalta nel suo paese, come all’estero, con ottimi risultati anche in Europa, tra il KunstenFestivalDesArts di Bruxelles e Uovo a Milano. I suoi lavori principali hanno titoli ironici, come On the harmful Effects of Marihuana (2003), Five Days in March (2004), Air-Conditioner (2004), The End of Toil (2005). In Air Conditioner due performer abbigliati con pantaloni neri e camicia bianca, con identici occhiali, mettono in discussione lo statuto del testo e dello spettacolo, suddividendone la scansione in un minimalismo spietato, portato alle estreme conseguenze, come un match di rara violenza che è sempre e solo alluso, in cui argomento del contendere è un condizionatore d’aria che è tenuto troppo alto. Altrettanto forte è l’impatto di Cinque giorni a marzo, che rimane il suo titolo più noto. Sullo sfondo di un love hotel a Shibuya, si incrociano e disperdono i destini di personaggi spesso alla sbando, che hanno l’età dei loro interpreti, mentre fuori scoppia su tutti i megaschermi la cronaca televisiva dell’inizio della guerra in Iraq, il 21 marzo 2003, un evento che, come già detto, riportando all’attenzione l’esercito nipponico, mette radicalmente in discussione 9 Luca Scarlini, Manuela De Leonardis, Matteo Boscarol abitudini, ritmi, modi di vita. Come in un grande affresco corale, scena dopo scena si compone il ritratto di un paese in crisi di identità, che rivede davanti a sé il temuto spettro della guerra. Uno straordinario lavoro iperrealista, quindi, che mette in azione una precisa vocazione alla mimesi del quotidiano, con i comportamenti fotografati con una nitidezza cruda, che a tratti diventa geniale coreografia della banalità verbale e gestuale. Luca Scarlini (storico dello spettacolo, studioso di drammaturgia contemporanea) Adattamento ad opera dell’autore dell’introduzione a Teatro Giapponese Contemporaneo [Roma, Editoria & Spettacolo, 2009] ∗∗∗ ARTE CONTEMPORANEA Foto, manga e arte condite con salsa di soia Rumoroso e alienante il pachinko quanto fluttuante l’ukiyo-e. Mondi a confronto, confini che si intercettano e si perdono gli uni negli altri, come i fiori di pesco e le rocce di un giardino zen in mezzo alle luci artificiali del quartiere di Shinjuku a Tokyo. Luoghi comuni come i semi di sesamo sui fagiolini conditi con miso e mirin. Nel Giappone contemporaneo anche le arti visive ascoltano i ritmi delle contraddizioni, proiettandosi nel futuro – che sia delirante e pop come per Takashi Murakami (1962), tra i più quotati artisti della scena (non a caso è entrato da tempo a far parte della “scuderia” di Gagosian) – ma rimanendo legati a quel filo sottile che si chiama passato. Del resto il manga stesso, considerato fuori dai confini nazionali un prodotto di serie B, nel Sol Levante è un’arte dalle varie sfaccettature, riconosciuta anche dalla presenza a Kyoto dell’International Manga Museum che, oltre ad ospitare centinaia di volumi ordinatissimi e colorati, destinati ad un pubblico di tutte le età, organizza workshop, seminari e mostre invitando artisti di ogni dove. La Tokyo Art Fair, dal 2005 l’appuntamento fieristico dedicato all’arte contemporanea più importante del paese, quest’anno è slittata alla fine di luglio, a causa del 10 Così lontano, così vicino terremoto di cui tutti sappiamo. In attesa di quello che verrà presentato, possiamo dare comunque uno sguardo rapido alle tendenze. Da una parte ci sono i grandi dissacratori, artisti che hanno scardinato il concetto di equilibrio caro all’estetica giapponese, sperimentando ognuno il proprio linguaggio significativo. Artisti come Shozo Shimamoto (1928), proveniente dal Gutai, e fotografi come Shomei Tomatsu (1930), Eikoh Hosoe (1933), Daido Moriyama (1938), Nobuyoshi Araki (1940), hanno in comune il dramma della guerra, gli echi di Sartre e dell’Esistenzialismo. Se Shimamoto, ad esempio, nelle sue pitture e performance degli anni Sessanta rompeva gli schemi del quadro tradizionale, bucando, spruzzando colori – ispirato dalla gestualità dell’Action Painting – allo stesso modo fotografi come Hosoe, la cui poetica è stata attraversata nel tempo dalla presenza di Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno – fondatori della danza Butoh e Yukio Mishima –, usa tonalità estreme del bianco e nero, arrivando ad un minimalismo che annulla dettagli superflui per filtrare la descrizione del reale. Il perché lo spiega lui stesso: «Gli anni Sessanta non erano certo anni tranquilli, come al tempo dei paesaggi di Ansel Adams. Era un periodo politicamente agitato che urlava. Anch’io sentivo che dovevo urlare. Non potevo trovare mezze misure, sfumature: dovevo insistere sui contrasti. Da quest’idea nasce Man and Woman, il lavoro più importante di quegli anni. Avevo ventisei anni quando l’ho realizzato. Ero giovane e vigoroso. Il sesso era, all’epoca, l’argomento affrontato dalla cultura in generale». Di sesso parlano anche le immagini di Moriyama e Tomatsu, ma certamente è Araki che ne ha fatto il proprio stilema: non solo Bondage, anche Love Stories e Tokyo Diary sono vicini all’immaginario dei peep show e lingerie bar di cui parla Ryu Murakami nei suoi romanzi. Intorno al mito individuale e collettivo si concentrano, invece, Orimoto Tatsumi (1946) e Yasumasa Morimura (1951). Il primo utilizza la maschera di pane (baguette, pagnotte, rosette, filoni, legati con lo spago) con cui, annullata la propria individualità, attraversa i luoghi del sociale creando un cortocircuito sotto gli sguardi indifferenti o beffardi di un pubblico immerso nella quotidianità. Al mito collettivo, invece, guarda – ribaltandolo – Morimura, vestendo egli stesso i panni degli eroi del XX secolo, da Mao a Hitler, Charlie Chaplin, Che Guevara, Einstein… Decisamente agguerrite le artiste Mako Idemitsu (1940), Miyako Ishiuchi (1947), Miwa Yanagi (1967): non è casuale che facciano tutte 11 Luca Scarlini, Manuela De Leonardis, Matteo Boscarol parte della collettiva Global Feminisms. New directions in Contemporary Art, organizzata nel 2007 dal Brooklyn Museum di New York. Per molte di loro, soprattutto quelle meno giovani, si è trattato di portare avanti istanze che andavano a cozzare contro tradizioni secolari di devozione, ossequio e sudditanza nei confronti del maschio. Pur rifiutando spesso la definizione “femminismo”, il pensiero espresso in modo più o meno consapevole all’interno delle loro opere, che non sono specificamente legate a questa ideologia, crea un’ambiguità tipicamente giapponese. Torniamo, infine, a citare l’haiku (ed implicitamente il mondo fluttuante) con Masao Yamamoto (1957) e Rinko Kawauchi (1972), interpeti di una visione intima e sospesa nella quale prendono forma le emozioni. Un tipo di narrazione fotografica che focalizza la poesia delle piccole cose, il soffio della vita (ibuki in giapponese), ovvero tutti quei momenti prevedibili che diventano unici. Fotografare, per la Kawauchi, è come cucinare: «Amo cucinare. Mi piace molto sia la cucina italiana che quella giapponese. In particolare, adoro un tipo di pasta italiana da brodo, i semi di melone. Quanto alla cucina giapponese c’è un piatto per cui vengo lodata da tutti, si chiama ‘Chikuzenni’. È un bollito di vari tipi di verdura, tra cui funghi giapponesi, carote, bardana, germogli di bambù, radice di loto… L’importante è che non manchi la salsa di soia». Manuela De Leonardis (Critica e storica dell’arte) ∗∗∗ CINEMA Cinematografia d’autore ibrida e pop Anni di passaggio, periodo di trasformazione. Sembrano espressioni trite, ma mai come in questo caso sono le parole più adatte a descrivere la situazione cinematografica, ed audiovisiva in generale, del Giappone contemporaneo. Da una parte il cinema giapponese che è esploso durante la metà degli anni Novanta si assesta o trova una 12 Così lontano, così vicino definitiva celebrazione internazionale con le opere dei registi emersi allora, dall’altra autori più giovani e nuove leve cominciano a farsi notare dal pubblico degli appassionati anche grazie alla rivoluzione digitale ed al fondamentale apporto di internet come nuovo canale di distribuzione e di fruizione. Se aggiungiamo la triplice catastrofe terremoto-tsunami-nucleare che ha recentemente colpito l’arcipelago nipponico sarà chiaro come il passaggio non sia relativo solo al cinema ma che la trasformazione, dolorosa ma inevitabile, sarà necessaria alla società giapponese nel suo complesso. Naturalmente in questi ultimi anni continua a svilupparsi, in alcuni casi con grandi risultati, il cinema della cosiddetta nuova onda, quella nata negli anni Novanta con nomi che oggi sono ormai parte della cinematografia internazionale come Takeshi Kitano, Shinya Tsukamoto, Shinji Aoyama, Takashi Miike, Kiyoshi Kurosawa o Hirokazu Kore’eda, solo per citare i nomi più noti. Tsukamoto intensifica e stilizza la sua poetica che diviene più essenziale, perde un po’ della freschezza degli inizi ma è un processo inevitabile ed è meglio così, anzi con gli anni il regista di Tokyo va a comporre una filmografia tra le più interessanti degli ultimi decenni. La progressiva disintegrazione del nucleo familiare tradizionale, almeno così come è stato concepito fino a qualche decennio fa, e la crisi economica che continua a destabilizzare e in alcuni casi a cambiare radicalmente alcuni pilastri su cui si fondano la società e l’animo nipponico, offrono un terreno fertilissimo su cui Tsukamoto può far germinare le sue fobie e ossessioni. Il regista continua così la discesa nell’animo e nell’inconscio dell’uomo, della metropoli e della società con una lucidità che ha pochi eguali: A snake of June (Rokugatsu no hebi, 2002) e Vital (2004) sono due esempi di come sempre di più il corpo sia il crocevia e il crogiolo attraverso cui passano tutte le problematiche, le tensioni sociali e politiche che animano la contemporaneità. In questo senso un altro autore importante è Mamoru Oshii, definitivamente consacrato a livello internazionale nel 2004 quando il suo film d’animazione Innocence (Innocensu, 2004) viene invitato al Festival di Cannes. È una data storica non solo per Oshii ma anche per l’animazione, che nello stesso periodo vede la celebrazione internazionale di almeno altri due autori: Hayao Miyazaki, vincitore nel 2002 dell’Orso d’oro a Berlino e dell’Oscar 2003 con La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001) e Satoshi Kon – scomparso lo scorso anno a soli 46 anni – con Paprika (Papurika, 2006). 13 Luca Scarlini, Manuela De Leonardis, Matteo Boscarol Uno dei temi che attraversano trasversalmente tutti i generi cinematografici e televisivi è senza dubbio quello della famiglia tradizionale che implode e che si apre mostrando l’inadeguatezza e la debolezza delle strutture sociali e politiche giapponesi che la attraversano. Quasi tutti gli autori più importanti ci sono passati, ma l’opera che forse sintetizza il tutto nel modo migliore è Tokyo Sonata (2008) di Kiyoshi Kurosawa. Un regista che i temi e gli stili li ha toccati praticamente tutti, con una filmografia fluviale di ben 85 titoli in vent’anni, è Takashi Miike. Si fa conoscere al pubblico internazionale con l’eccessivo Audition (Odishon, 2000) che apre simbolicamente il terzo millennio. Se agli inizi è un regista selvaggio e quasi sperimentale, negli ultimi anni si sta specializzando in remake di “jidai-geki” peraltro ottenendo risultati sorprendenti: 13 Assassins (2010) è stato a Venezia e sarà distribuito nelle nostre sale questa estate; Harakiri: Death of a Samurai (2011) è in competizione quest’anno a Cannes. Discorso a parte va fatto per Kitano, il regista giapponese più noto all’estero: va preso atto di come il suo cinema si sia parzialmente involuto, o meglio, le sue opere della seconda metà del decennio a partire da Takeshi’s (2005), pur rimanendo delle interessanti puntate in territori più personali, non hanno offerto niente di nuovo rispetto all’opus sviluppato nei Novanta (Hana Bi, Sonatine). Chi invece è andato crescendo è Hirokazu Kore’eda, autore nato e cresciuto nel mondo del documentario, retroterra che stilisticamente rimane sempre ben presente in quasi tutti i suoi lavori, essenziali e scarni nella messa in scena ma sempre di forte impatto emotivo. Vuoi quando trattano temi legati alle sette religiose come in Distance (Disutansu, 2001), vuoi quando riesce a descrivere la vita di quattro bambini abbandonati dalla madre in Nobody Knows (Daremo shiranai, 2004). O ancora quando con un tocco lieve e dichiaratamente alla Ozu si cimenta, in Still Walking (Aruitemo aruitemo, 2008), nel racconto e descrizione di una riunione familiare, delle piccole cose e del passaggio del tempo. Tutti i film e gli autori che abbiamo fin qui trattato sono spesso presenti nei festival internazionali, ma in patria succede, come spesso per il cinema cosiddetto d’autore, che non godano di una popolarità massiccia. Quali sono allora i film che attirano il grande pubblico al botteghino? Una costante è sicuramente l’animazione dello Studio Ghibli ed in particolare le opere di Hayao Miyazaki; il decennio è costellato di 14 Così lontano, così vicino suoi successi, dal clamoroso Spirited Away (titolo internazionale de La città incantata) del 2001 a Ponyo del 2008. Un’innegabile tendenza è quella che vede premiati prodotti nati dalla televisione e poi trasferiti sul grande schermo – drammoni sentimentali, polizieschi o quant’altro – oppure, in un processo ancora più totalizzante e dannoso perché di fatto blocca nuove idee e attori emergenti, la continua produzione di film che fungono solo da contenitore per mostrare l’idol del momento. Il problema non è tanto, o non solo, l’impiego di questi volti televisivi, ma la standardizzazione dei prodotti che trasformano il grande schermo in una succursale della televisione. La sorpresa degli ultimi anni ha però proprio un’origine “televisiva”: l’esordio alla regia del famosissimo comico del piccolo schermo Hitoshi Matsumoto. Matsumoto prima sorprende tutti con una personalissima rivisitazione del tema del supereroe triste in Big Man Japan (Dai-nipponjin, 2007), per poi spingersi ancora più in là con l’astratto Symbol (Shinboru, 2009) ed infine firmare il suo capolavoro con Scabbard Samurai (Saya samurai, 2011). Unica ed originale è anche l’opera di Shion Sono, talento capace di incarnare nelle sue opere stilemi del cinema di genere (horror, b-movie) e una visione del mondo poetica e perversa al di là di ogni convenzione sociale. Regista, poeta ma anche attore, dopo lavori molto discussi come Strange Circus (Kimyô na sâkasu, 2005) e soprattutto Suicide Circle (Jisatsu sâkuru, 2001), realizza il suo capolavoro con Love Exposure (Ai no mukidashi, 2008), una galoppata di quattro ore dove riesce a mescolare perversione, sette religiose e amor fou in un film generazionale sui generis. Il suo è un cinema d’autore ma ibrido, “sporco”, che si nutre di b-movie, soft porno, pop ma anche sperimentazione, che mescola l’alto e il basso con grande visionarietà e vitalità, sempre insofferente verso le costrizioni e gli apparati di cattura delle società contemporanee. In questo senso è forse l’autore che meglio rappresenta la cinematografia giapponese contemporanea, tanto che il Festival di Torino gli dedicherà quest’anno una retrospettiva. Matteo Boscarol (Critico cinematografico – Alias, Il manifesto) 15 16 BERNARDO BROGI, CINZIA TOSCANO, MATTEO VALLORANI CONVERSAZIONE CON HIRATA Classe 1962, Oriza Hirata ha iniziato a lavorare giovanissimo come drammaturgo, e oggi la sua compagnia, Seneindan, è tra i nomi di punta della scena contemporanea giapponese. L’arte di Hirata e la sua scrittura sono conosciuti ben oltre gli steccati del mondo teatrale, e la sua compagnia è ormai una presenza fissa in Europa, soprattutto in Francia. In una lunga conversazione con l’osservatorio critico, Hirata ha raccontato le origini della sua carriera e le coordinate del suo metodo che cerca di inventare, attraverso la colloquialità, delle forme che restituiscano la lingua giapponese reale al di là degli stereotipi linguistici dei drammi europei. Come si è avvicinato al teatro? E come nasce la compagnia Seneindan? Sono nato in una famiglia di artisti, mio padre faceva teatro, vivevo in quell’ambiente già prima di diventare famoso. Quando mi chiedono di raccontare la mia vita mi piace cominciare dal viaggio in bici intorno al mondo che ho fatto a sedici anni, perché il mio debutto da scrittore, a diciotto anni, è stato proprio il diario di quel viaggio. Dopo quella prima pubblicazione ho sentito di non essere portato per le cose così legate alla realtà e mi sono avvicinato al mondo del teatro. All’università non ho scelto ambiti artistici, ma ho formato una compagnia teatrale. All’epoca non pensavo che potesse durare così tanto: era l’hobby di un gruppo di studenti… Ma sono passati più di trent’anni! 17 Bernardo Brogi, Cinzia Toscano, Matteo Vallorani Il mio sogno, in realtà, era fare lo scrittore. Sapevo che non ero molto adatto a fare il regista, così per lo più scrivevo i testi. Ogni tanto mi cimentavo nella regia ma i miei spettacoli venivano troppo seri, enigmatici e spesso troppo drammatici: non erano apprezzati dai miei amici che mi hanno consigliato di restare drammaturgo. Un’altra esperienza molto importante per la mia formazione di scrittore è stato il soggiorno in Corea. Io sono nato in uno stato democratico, in una città cosmopolita come Tokyo, quindi andare in Corea significava immettersi in una situazione completamente diversa. Quel soggiorno mi ha aiutato a scrivere in maniera più umana: prima scrivevo cose ideologiche o utopiche, invece lì mi sono avvicinato alla vita vera. Oltretutto vivere in Corea e studiare la lingua coreana mi hanno aiutato a comprendere meglio la lingua giapponese: ho cominciato a vedere la lingua giapponese e ad analizzarla come un oggetto esterno. Dopo questo soggiorno sono tornato in Giappone e più o meno dopo due anni ho ripreso a occuparmi della regia teatrale. La teoria attuale l’ho formata in circa tre anni di lavoro. Il periodo più faticoso non è stato quello in cui ho stabilito la teoria, ma quello in cui ho dovuto applicarla. Quali difficoltà pratiche ha trovato nell’applicare le sue teorie? Sentivo di aver fatto una teoria giusta, ma non ne capivo l’utilità. Nell’89 ho scritto un testo, Cittadini di Seoul, ambientato nell’epoca coloniale, quando la Corea era una colonia giapponese; lo spettacolo racconta una giornata qualsiasi di una famiglia giapponese che viveva in Corea. Non vediamo nessun elemento aggressivo, come la presenza militare o la corruzione politica, e ci sono poche battute che mostrano quanto i giapponesi considerassero inferiori i coreani. Ma è proprio in questo contesto di assoluto realismo che emerge l’aggressività di quella situazione. Questo spettacolo per me è stato la dimostrazione che la mia teoria del super-realismo poteva essere applicata. Il suo metodo ha lo scopo di superare gli stereotipi teatrali importati dall’occidente. Che rapporto ha questa impostazione con la lingua? In Giappone la musica e l’arte sono materie scolastiche. Quando abbiamo iniziato ad importare musica dall’occidente, quindi, lo abbiamo fatto con una certa cautela ed è stato possibile creare una nuova forma di musica e di arte giapponese basate sullo stile occidentale. All’inizio 18 Conversazione con Hirata c’è stato anche un processo di imitazione, ma già nell’atto di copiare sceglievamo sonorità più simili alle nostre: per esempio la musica giapponese tradizionale ha più o meno la stessa scala delle musiche popolari scozzesi o irlandesi. Per il teatro non è stato così. L’importazione di spettacoli occidentali è avvenuta dal 1920 in poi tramite i privati, non era quindi un’importazione organizzata. Gli studenti andavano a vedere gli spettacoli al teatro Odeon, l’unico teatro che faceva spettacoli occidentali tradotti in giapponese, e copiavano le battute e i dialoghi per poi andare a riprodurli in maniera identica. La cosa buffa è che per apparire occidentali mettevano agli attori parrucche di capelli biondi e nasi finti: cercavano di copiare persino le sembianze fisiche. Come sapete noi giapponesi siamo bravissimi a copiare. Ne è un esempio Yukio Mishima: lui è riuscito a copiare gli scrittori occidentali ma scrivendo in lingua giapponese. I testi di Mishima sono dei capolavori perfetti, ma nessun giapponese parlerebbe mai nel modo da lui descritto. Io ho cercato una tensione verso la lingua giapponese parlata, cercando di rispettare anche l’ordine delle parole, la costruzione della frase così come suona quando è detta. Una volta lessi su un manuale di recitazione che per porre l’attenzione su una parola della frase bisogna enfatizzarla. Se dicendo “questo è un bicchiere” vuoi portare l’attenzione sul fatto che il bicchiere è questo e non un altro devi dire “questo è un bicchiere”; se invece vuoi dare più attenzione al fatto che è un bicchiere e non un’altra cosa dici “questo è un bicchiere”. Quindi la tecnica è porre l’accento sulla cosa che più interessa. In giapponese non funziona così: si può anche ripetere tante volte una parola se la vuoi accentuare (“questo è un bicchiere bicchiere bicchiere”). La lingua giapponese è abbastanza piatta nelle intonazioni o negli accenti, mentre le lingue occidentali sono più “movimentate”. Quando hanno importato il teatro occidentale in Giappone, oltre ad aver tradotto mantenendo lo stile parlato occidentale, hanno anche applicato le metodologie della recitazione e della scrittura ad esso legate: il risultato è così innaturale da non essere credibile. Per fare uno spettacolo realistico, per raccontare la vita vera dei giapponesi, non potevamo utilizzare quel linguaggio. In che rapporto è il suo lavoro con i generi tradizionali del teatro giapponese come il Nō e il Kabuki? Sono forme di teatro molto diverse dalla mia, ma soprattutto usano linguaggi molto lontani, linguaggi medievali, antichi. Quindi se 19 Bernardo Brogi, Cinzia Toscano, Matteo Vallorani mi chiedi cosa ho introdotto di quella tradizione nel mio teatro devo dirti “niente”. Sicuramente però ho preso spunto dai testi tradizionali: nel teatro tradizionale è importantissimo come finisce la battuta precedente per l’attacco della battuta successiva; oppure nel teatro del Nō, c’è sempre una presenza, un osservatore sul palcoscenico, oltre all’attore che recita. In Tokyo notes si nota molto bene come anche per me debba esserci sempre una presenza in più, un osservatore, rispetto a chi è impegnato nella conversazione: questo deriva dal teatro Nō. Lei ha realizzato, con l’università di Osaka, il progetto Robot-Human Theatre: laboratorio e spettacolo per attori robot. Che fine fa l’attore? Se devo dire la verità, sono sicuro che sostituire al cento per cento gli attori vivi con dei robot non sarà fattibile, almeno prima di cento anni. Non è una cosa impossibile, ma già il solo fatto che sia una cosa teoricamente possibile ci fa riflettere su cosa sia il teatro e su cosa sia il lavoro dell’attore. Quest’elemento diverso può aiutare la comprensione del teatro, offrendo un confronto. Nel progetto Robot-Human Theatre, che porterò a Palermo il prossimo settembre, uso dei robot non molto raffinati. Eppure questi robot, abbastanza semplici, vengono percepiti dalla maggior parte del pubblico come “vivi”, pieni di sentimenti, come se avessero un cuore. Non penso sia una cosa così strana: succede anche che il pubblico immagini cattivo un attore che semplicemente interpreta il ruolo di un uomo malvagio. Quindi una parte della mia ricerca è proprio indirizzata a questo: che la regia possa essere così precisa e ben strutturata da far credere che anche dei robot abbiano un’anima. Allora quanto il lavoro dell’attore è attivo e quanto invece è meccanico? Ovviamente preferisco un attore bravo, capace ed espressivo. Un attore bravo ha una capacità che non si può sostituire con niente, né con la tecnologia, né con la regia. In Tokio notes c’è un personaggio molto importante, la moglie tradita che rimane spesso con la cognata: quel ruolo lì è stato scritto per un’attrice specifica, che poi ha portato avanti il ruolo per quindici anni e nessuno ha mai pensato che si potesse sostituire con un’altra attrice. Quando a quarantacinque anni rimase incinta, e non poté più andare in scena, è stata sostituita con la ragazza che avete visto in scena a Santarcangelo. All’inizio cambiare l’attrice ha 20 Conversazione con Hirata creato uno scompiglio totale: dalle difficoltà create a causa della sua diversità si capisce quanto la presenza di un attore sia fondamentale. Però dopo un anno la sua presenza è diventata normale e oggi nessuno potrebbe immaginare un’attrice diversa per quel ruolo. In qualche modo il lavoro dell’attore è anche un po’ triste: per quanto sia bravo, per quanto si creda indispensabile, in realtà è sostituibile, qualsiasi attore è sostituibile alla fine. Parliamo del suo metodo. Come nascono i giochi e gli esercizi che propone nei suoi workshop? Cambiano da paese a paese? Prendo spunti da diverse cose, com’è ovvio, ma fondamentalmente sono tutti giochi o metodi creati da me. Originariamente questo tipo di giochi di società è stato sviluppato nei paesi anglosassoni. Io ho fatto una lunga ricerca, ho studiato a fondo questi giochi inglesi, e ne conosco parecchi; però davvero pochi si possono adattare e utilizzare in Giappone perché hanno comunque un’impostazione occidentale. Quando devo organizzare un laboratorio all’estero, la metodologia rimane la stessa, ma applico piccole variazioni di contenuto. Perché alcuni esempi funzionano bene in Giappone e non in altri luoghi. Quindi cerco di stare attento negli esempi, nei doppi sensi, nelle ironie e nelle semplificazioni: quando sono all’estero cerco di semplificare il più possibile. Per quanto riguarda la risposta dei partecipanti a questo metodo le differenze non dipendono dalla nazionalità dei partecipanti, ma dal loro grado di formazione. Nel suo metodo lei si riferisce ad ambientazioni particolari: quello che definisce un semi-pubblic place, un posto dove non c’è una totale intimità ma neanche la codificazione del comportamento in pubblico. Perché? Per capire l’importanza di questi aspetti bisogna tenere presente le peculiarità della cultura giapponese e la differenza tra dialogo e conversazione. La conversazione è un libero scambio di parole, delle chiacchere diciamo; il dialogo, invece, è una discussione, uno scambio di opinioni attraverso il confronto. Il popolo giapponese non è abituato a relazionarsi attraverso il dialogo, a confrontarsi. Spesso quando un giapponese capisce che l’altra persona ha un’altra opinione rispetto alla sua, non si mette a discutere, evita sempre di parlarne, piuttosto 21 Bernardo Brogi, Cinzia Toscano, Matteo Vallorani cambia l’argomento. Solo che il teatro contemporaneo è basato sulle discussioni, non è una narrazione, ma una discussione pubblica. Un’altra caratteristica della comunicazione dei giapponesi di oggi è che non si discute a lungo su uno stesso argomento: le persone si incontrano, scambiano due parole e poi si separano. Questo è molto chiaro in Tokyo notes dove lo spettacolo viene costruito proprio sulle sovrapposizioni di tanti scambi, di tante conversazioni. Il dialogo, lo scambio di opinioni, è una cosa fondamentale per il mondo democratico: sin dall’antica Grecia il teatro, la democrazia e il dialogo erano un’unica cosa. Il Giappone non è ancora un paese democratico al cento per cento: è stato governato per sessant’anni dalla destra, e ora serve un grande sforzo educativo, una formazione che parta dall’infanzia, che insegni ai bambini e ai ragazzi a esprimersi. Per questo, ad esempio, porto avanti anche un lavoro con i bambini. Il suo teatro ha anche una dimensione pedagogica? La pedagogia è pedagogia. La creazione di uno spettacolo teatrale è tutta un’altra cosa. Io considero l’arte e l’educazione due cose diverse, ben distinte, delle volte addirittura opposte. L’arte non fa parte dell’educazione, ma fa parte della società, di un certo ambiente per un certo periodo di tempo. Ma l’arte può influire sulla realtà? Io considero l’arte assolutamente superiore alla politica e all’economia: l’arte è una cosa immensa, perché può essere utile alla società. Può servire alla sua stessa epoca, ma potrebbe essere utile anche per un’altra epoca, in un altro luogo. In Giappone a marzo c’è stato un terremoto e lo tsunami. Ci sono stati eventi o iniziative artistiche per risollevare il morale dei terremotati. Al contrario a Tokyo, che è una città meno colpita, hanno annullato spettacoli e concerti per essere solidali alla sofferenza della parte settentrionale del Giappone. Ma se noi smettiamo di creare adesso, le persone sofferenti come potranno ricevere supporto, oggi o fra cento anni? Io credo che l’opera di un artista sia dedicata alle persone che vivono esattamente dall’altra parte del mondo tra cento anni. Però quando la mia arte sarà utile alla società io non ci sarò più, quindi il compenso devo riceverlo adesso: ecco perché non si possono diminuire i fondi per la cultura. 22 COS’È SEINENDAN* *adattamento dal testo di presentazione della compagnia dal sito www.seinendan.org Seinendan è una compagnia teatrale fondata da Oriza Hirata a Tokyo. Dal 1983 ricerca un nuovo stile teatrale attraverso l’applicazione della “Teoria del teatro colloquiale contemporaneo”. Questo stile ha esercitato una notevole influenza tanto sul teatro giapponese sin dagli anni Novanta, quanto su altri ambiti come la letteratura e gli studi linguistici. Tra gli obiettivi c’è quello di stabilire una nuova forma espressiva che arrivi ad alterare la struttura del teatro stesso grazie a una particolare unione di teoria e pratica. Hirata crede che siano state regolarmente praticate modalità di scrittura e strutture logiche estranee al linguaggio giapponese, così da portare gli attori a distorcere il loro stile recitativo. Il cuore della critica che Hirata muove al teatro giapponese convenzionale è il rifiuto dell’importazione di modelli del teatro occidentale e delle sue logiche. Questi i caratteri fondamentali del suo teatro: - conversazioni multiple che progrediscono simultaneamente; - battute a volte pronunciate con un tono di voce così basso da non essere percepite; - possibilità di parlare/recitare con le spalle rivolte al pubblico. Questi aspetti sono il frutto di una ricerca indirizzata verso l’alterazione dell’intera struttura del teatro, attraverso la 23 Cos’è Seinendan riconsiderazione critica delle teorie teatrali e la ricostruzione di uno spazio d’azione fragile e drammatico. Seinendan cerca di creare un simile spazio basando il proprio teatro sullo stile di vita giapponese, creando allo stesso tempo un nuovo linguaggio teatrale che sia una commistione di scritto e parlato. «La vita non è un flusso continuo di eventi significativi come l’amore e la morte. La maggior parte del tempo è costituito da momenti ordinari o di quiete. La nostra esistenza stessa è drammatica e divertente: può essere entusiasmante, appagante, divertente e stupida in ogni momento. Noi astraiamo e poi ricostruiamo questi elementi complessi, trasferendo sulla scena i momenti di quiete della vita». Ciò che rende Seinendan diversa dalle altre compagnie teatrali della stessa generazione è il fatto che abbia sempre condiviso la propria esperienza attraverso l’organizzazione di workshop e la diffusione dei saggi di Hirata – tra cui Gendai Kogo Engeki no tameni (Per un teatro colloquiale contemporaneo), Toshini Shukusaiwa Iranai (Le città non hanno bisogno di festività), Engeki Nyumon (Introduzione al dramma), Geijutsu Rikkoku-ron (Le arti come base di una nazione). Il percorso che Hirata e Seinendan hanno intrapreso verso questo teatro è stato lento ma continuo. Il lavoro prosegue nella convinzione che il teatro colloquiale contemporaneo sarà completo quando segnerà la nascita di un vero teatro contemporaneo che rifletta la mentalità complessa della società giapponese. Oltre a presentare opere scritte e dirette da Oriza Hirata, nel 2002 Seinendan ha creato Seinendan Links, una nuova struttura per gli attori e registi della compagnia. Per le produzioni di Seinendan Links, un regista sceglie i propri attori e collaboratori attingendo alle risorse di Seinendan e del teatro Komaba Agora, di cui Hirata è il direttore artistico. L’obiettivo è diventare una vera e propria compagnia teatrale come ce ne sono poche in Giappone: un gruppo formato da vari registi, drammaturghi e attori, capace di affrontare produzioni di ogni genere. La teoria di Hirata, nata per aderire alle caratteristiche del linguaggio giapponese, sta diventando popolare e ha ricevuto consensi entusiastici. Hirata ha condotto workshop in varie nazioni, tra cui la Francia, la Corea, il Canada e alcuni stati del Sud-est asiatico. 24 SERENA TERRANOVA TOKYO NOTES Questo lavoro di Oriza Hirata è uno dei più rappresentativi della sua idea di teatro colloquiale. Sovrapposizioni di discorsi, frasi interrotte, silenzi e pause che dicono più delle parole stesse, costruiscono una partitura dove il senso nasce sì da ciò che si dice, ma non necessariamente dal suo significato. Lo spettacolo ha debuttato in Giappone nel 1995; a Santarcangelo è stato presentato l’8 e il 9 luglio 2011. Una recensione. Quando è iniziato l’andirivieni nella sala non si sa. Non sappiamo nemmeno se, dopo che le luci si sono spente, quel procedere di passi nel museo di Tokyo sia finito davvero. Il tempo del racconto è una linea senza termini, e lo spazio che abbiamo di fronte è una scatola che ne cattura un segmento. Uno dopo l’altro, i personaggi di Tokyo Notes prendono posto nel bookshop, ognuno con la sua guida illustrata alla mostra di Vermeer o con un bicchiere di caffè tra le mani. Qualcuno sembra sia venuto da solo, in realtà si nasconde in quell’atrio per riposare dalla compagnia invadente di un’amica; altri arrivano insieme, e si scattano reciprocamente rapide fotografie. Alcuni visitano la mostra, e sanno i colori dei quadri e i nomi dei soggetti, altri la attraversano senza vederla, e ascoltano muti il racconto di chi hanno accompagnato. Nell’arco di quasi due ore di spettacolo, le frasi spezzate compongono il nocciolo di più racconti. I dialoghi sono il vero luogo dell’accadimento, e nelle parole dette dai numerosi attori di Oriza Hirata precipitano vite intere, traumi familiari a cui chi ascolta 25 Serena Terranova non sa come rispondere. Non c’è conforto, non c’è accoglienza, non c’è compassione. Ogni attore è un personaggio verticale, sottile e inafferrabile. La comunicazione tra loro esiste nella superficie del racconto, e si compone per tutta la durata dello spettacolo nella mente di chi guarda, che ricompone pezzo per pezzo il mosaico affrescato di fronte a sé. La profondità di Tokyo Notes è nella cornice della rappresentazione, un quadro spaziale animato con ritmo formicolante da esempi di semplice umanità, illuminati per il tempo che è necessario allo spettacolo, e nella scelta di parole pronunciate nel terrore dello spreco, a comporre frasi con il peso specifico di un’arma che ferisce o di un muro che respinge. Chi sta dentro è lo spettatore, attorno al quale vorticano vite e sguardi, sorrisi e strette di mano, saluti di convenienza e imbarazzi che investono all’improvviso tutta l’aria della scena. Hirata compie un lavoro sulle emozioni che sfugge ai ricatti, e chi guarda è coinvolto senza morbosità, ma si ritrova con incanto dentro un’opera registica che contempla sempre un nuovo ingresso, l’ennesima intrusione, l’ennesimo personaggio che costruisce, con quegli attori, una nuova storia intima, personale, singolare e irripetibile. Credits: Scritto e diretto da Oriza Hirata Con Kenji Yamauchi, Miyuki Moriuchi, Hiroko Matsuda, Koji Ogawara, Mizuho Nojima, Mami Goto, Masayuki Yamamoto, Kumi Hyodo, Minako Inoue, Natsuko Hori, Tadashi Otake, Hiroshi Otsuka, Satoshi Kobayashi, Makiko Murata, Kenichi Akiyama, Mizuho Tamura, Tatsuya Kawamura, Chikako Suzuki, Yuri Ogino, Umi Nagano Scenografia Itaru Sugiyama Luci Tamotsu Iwaki Sottotitoli Aya Nishimoto Direzione tecnica Aiko Harima, Takao Nakanishi Produzione Yoko Nishiyama con il supporto di Agency for Cultural Affairs In collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia Traduzione del testo Chiara Botta Interprete Maria Tiziana Bacco 26 BERNARDO BROGI THE YALTA CONFERENCE Pièce di taglio ironico, dove i grandi della terra – Churchill, Roosevelt e Stalin – sono intenti a prendere il tè come signore dell’alta borghesia. Ma dietro l’apparente affabilità dell’incontro c’è la tragedia umana della guerra e l’appetito insaziabile delle grandi potenze nella spartizione del mondo. Lo spettacolo ha debuttato in Giappone nel 2002; a Santarcangelo è stato presentato l’8, 9 e 10 luglio 2011. Una recensione. L’Internazionale dei golosi, cover ironica dell’inno dei lavoratori, introduce due donne, nel ruolo di Stalin e Roosevelt, e un uomo, nel ruolo di Churchill. I tre giapponesi, con un evidente problema di linea, conversano nella sala consiliare del Comune di Santarcangelo, seduti a un tavolo. Tra sigari di biscuit e praline di cioccolato, i bulimici fanno a fette il mondo come fosse una torta, per poi distribuirle tra loro. Siamo a Yalta, all’interno di The Yalta Conference di Oriza Hirata. Dimenticate le ideologie, perché quello che emerge sono gli stereotipi che ogni leader incarna. I costumi indossati e i colori rimano con i rispettivi cliché: Roosevelt è uno yankee in blue-jeans, Churchill indossa un abito bianco coloniale, mentre il tipico cappotto dell’Armata rossa rende Stalin una parodia della propria icona. Questi personaggi, incapaci di un pensiero politicamente strutturato, scherzano aspettando che uno dei tre si assenti per poterlo calunniare. L’arroganza ingenua della loro carne si risolve in un’utopia malata dai modi grotteschi. Perché corpi di massa tanto grande, e di altrettanto grande potere, possono attirare 27 Bernardo Brogi nella propria orbita tanti oggetti e molto cibo, ma non saranno in grado di abbracciare qualcosa di diverso dalla circonferenza dei propri stomaci. In loro manca la percezione dell’altro; la conferenza potrà dirsi conclusa quando il cibo sarà terminato e non rimarrà più niente di cui cibarsi. Solo allora i leader potranno tornare al consueto solipsismo che quell’incontro aveva forzatamente interrotto. L’ilarità e il sarcasmo suggeriscono una svolta interpretativa ambigua: difficile capire se Hirata condanni i vizi di un Occidente opulento, o se sottolinei le pessime debolezze del Giappone, una nazione, dal dopoguerra a oggi, ormai troppo edulcorata e resa melliflua dai modelli americani ed europei. Un paese desideroso di recuperare una dignità ieratica e non ancora corrotta da influenze straniere: forse l’unico modo per raccontare questo desiderio è nasconderlo dietro le maschere dei fantasmi dell’Occidente. Credits: Scritto e diretto da Oriza Hirata Con Hiroko Matsuda, Yukari Takahashi, Yozo Shimada Scenografia Itaru Sugiyama Luci Tamotsu Iwaki Sottotitoli Aya Nishimoto Direzione tecnica Aiko Harima, Takao Nakanishi Produzione Yoko Nishiyama con il supporto di Agency for Cultural Affairs In collaborazione con Napoli Teatro Festival Italia Traduzione del testo Alessandro Clementi Interprete Maria Tiziana Bacco 28 BERNARDO BROGI (a cura di) LASCIAR CADERE LE PAROLE Nell’ambito di Santarcangelo 41, il regista giapponese Oriza Hirata ha condotto un laboratorio per attori professionisti. Dal 9 all’11 luglio 2011, durante quattro incontri tenuti presso la Cappella Zampeschi, quattrordici attori si sono confrontato col suo metodo. Quello che segue è un report dell’esperienza, proposto come una sorta di “metodo Hirata”. LA SCENEGGIATURA 1. Elementi per una sceneggiatura L’obiettivo del corso è realizzare un breve spettacolo della durata di 5-10 minuti; per fare questo i partecipanti dovranno rispettare la metodologia adottata da Oriza Hirata (da adesso OH). Ogni sceneggiatura rispetterà i seguenti principi: – La scelta di un luogo fisso dove ambientare la narrazione. Non sono ammessi cambi di scena. – Il luogo perfetto è un semi-public space (esempio: sale di attesa, corsia di un ospedale, sauna, etc…). Un ambiente che permette l’accesso a personaggi eterogenei con livelli di relazione tra loro, dal familiare, all’amico, all’estraneo. 29 Bernardo Brogi – Adottare la sincronia tra tempo fisico e tempo della narrazione. – Individuare un problema da risolvere (interno alla narrazione). – Il problema, o la sua soluzione, è introdotto da un estraneo. Nota: OH offre due esempi di ambientazioni errate: l’eccessiva intimità di una cena in famiglia nega un discorso ricco di informazioni; una grande stazione con la sua folla di estranei preclude il dialogo. 2. Costruzione della sceneggiatura Per costruire una sceneggiatura occorrono personaggi ben identificati, e una precisa caratterizzazione degli stessi. La metodologia seguita da OH identifica tre punti: a) La caratterizzazione del personaggio deve precedere lo sviluppo della trama. b) L’intreccio narrativo si otterrà dalle relazioni tra i personaggi. c) Le relazioni tra i personaggi si determinano in base alle��������� informazioni che possiedono. Esempio: Ambientazione: Cerimonia funebre in una casa dal nucleo familiare allargato. Personaggi: Nonno defunto, nonna, padre, madre, nipote, zio (fratello del nonno). Informazioni depositate: – lo zio: fratello del nonno, conosce quindi il defunto sin dall’infanzia; – la nonna: conosce il marito da quando questi aveva venti anni; – il nipote: ha conosciuto il nonno nei suoi ultimi anni di vita. 30 Lasciar cadere le parole Azione: Il nipote chiede allo zio informazioni sconosciute agli altri familiari sull’infanzia del nonno. Problema: Tra i personaggi presenti al funerale ci sono gli amici del nonno, estranei a tutti gli altri familiari. Nota: OH precisa che gli sceneggiatori inesperti di solito impiegano la nonna per raccontare la vita del marito, che è la scelta più facile e stereotipata. Quasi sempre ciò avviene in forma di monologo, che secondo OH è una forma da non utilizzare. 3. Gestione delle informazioni Gestire il numero dei personaggi in scena, ovvero le entrate e le uscite, corrisponde a stabilire le informazioni disponibili per il pubblico, in un dato momento. Al variare del numero dei personaggi, si modificano le relazioni tra quelli rimasti in scena. Nessuno può rimanere da solo sul palco, perché secondo OH l’unità minima è binaria. Affinché il sistema informativo, basato sulle relazioni, resti sempre attivo, non può verificarsi neppure lo scambio, ovvero un attore che entra mentre ne esce un altro. Il successo di una sceneggiatura è parallelo al corretto sviluppo di ogni personaggio; la trama emerge in funzione dei rapporti tra gli attori. ∗∗∗ L’ATTORE 1. L’attore e le azioni Un’ottima sceneggiatura include anche la descrizione di azioni minime che gli attori eseguiranno sulla scena. Ogni elemento dovrà essere previsto. La memoria dell’attore è fondamentale per facilitare il ricordo di una routine non verbale dettagliata. Nel testo, a ogni movimento 31 Bernardo Brogi sarà associato uno stimolo (esempi: l’improvvisa entrata in scena di un personaggio, la posizione di un oggetto su un tavolo, un gesto durante un dialogo). Si crea così un meccanismo di input-output che stimola la reazione corretta nel soggetto. 2. L’attore e la parola «Parlare, spiegare, serve sempre a nascondere una debolezza» (Oriza Hirata) Secondo OH, la conversazione tra i personaggi va costruite seguendo i seguenti principi: – i dialoghi devono essere economici; – la funzione informativa dei dialoghi deve essere ridotta al minimo – deve rimanere fuori dalla conversazione tutto ciò che può essere espresso in altro modo; – i turni di parola devono essere costruiti in funzione del quotidiano per aumentare la coesione con la realtà (sovrapporre le voci; non stabilire turni di parola fissi; etc.); – importanza del silenzio: la pausa, anche prolungata, tra due battute, permette la creazione di un’attesa, fattore che aiuta a sviluppare il senso del ritmo. Esempio: Durante il corso sono state interpretate alcune conversazioni, a più voci, tratte dalle sceneggiature di OH. È stato chiesto di eseguire la loro lettura e le battute si succedevano rispettando i turni. Successivamente OH ha spiegato la simbologia che accompagna le battute e che definisce i momenti nei quali gli attori possono prendere parola, di modo che più piani del discorso possano sovrapporsi. Con questo metodo il ritmo offre un maggiore effetto di realtà e dinamizza il discorso. Queste prove hanno visto un grado crescente di complessità: sono state arricchite con elementi di disturbo, come personaggi che attraversando la sala avrebbero interrotto i parlanti, in funzione di una visione ecologica della scena. ∗∗∗ 32 Lasciar cadere le parole PROVE PRATICHE Durante l’ultima lezione di laboratorio sono stati presentati, presso il Teatrino della Collegiata, due spettacoli realizzati dai quattordici partecipanti. 1. Spettacolo A Il primo spettacolo è ambientato in una galleria d’arte (semipublic space). Al suo interno i visitatori (diversi gradi di relazione tra i personaggi) attendono l’arrivo dell’artista che espone; nessuno lo ha mai visto, persino la gallerista non conosce il suo volto (problema). Chiunque entri nella sala può essere il personaggio atteso. Prima la figlia (estraneo 1) poi la moglie (estraneo 2) sono scambiate per l’autore, ma quest’ultimo non arriverà mai. 2. Spettacolo B Il nuovo assistente (estraneo) di un’estetista fa coincidere l’appuntamento di una donna con quello dell’amante del marito (problema). Nel salone di bellezza (semi-public space) le due donne si confrontano, ignorando l’equivoco (diversi gradi di relazione tra i personaggi). Entra in scena la figlia della donna tradita e rivela a tutti che anche la madre conduce una relazione extraconiugale; pochi istanti dopo arriva l’amante di quest’ultima minacciando il suicidio. I due escono dal salone di bellezza affermando il loro amore. 33 34 MATTEO VALLORANI (a cura di) DA ORIENTE A OCCIDENTE Al termine del laboratorio «Il metodo del teatro colloquiale contemporaneo», condotto da Oriza Hirata, gli attori che vi hanno preso parte hanno raccontato all’osservatorio critico la loro esperienza. Di seguito riportiamo alcune delle loro testimonianze, che danno conto dell’incontro non scontato tra la formazione occidentale e il metodo del regista giapponese. Il confronto con il metodo di Hirata ha significato per gli attori inserirsi in una struttura molto definita. Una partitura scritta nei suoi particolari, dove l’attore deve entrare come parte di un meccanismo. Qualcosa di molto distante dal tipo di formazione dell’attore a cui siamo abituati in Italia. Nel nostro paese si privilegia un lavoro che va a pescare nell’intimo dell’attore, per poi dare forma a questo materiale. Al contrario Hirata chiede ai suoi attori di inserirsi in un meccanismo che li sovrasta, in cui devono trovare il modo di sentirsi parte. Tra i partecipanti al laboratorio, qualcuno ha dichiarato di sentirsi più libero all’interno di una struttura così ben definita: la griglia, anziché ingabbiare, darebbe maggiore libertà. Altri hanno rilevato che una griglia stretta rende tutto più semplice, ma non è detto che questa semplicità renda il lavoro automaticamente “creativo”, secondo quelli che sono i nostri standard. C’è anche chi vede il metodo di Hirata come una “limitazione individuale” che però mette l’attore a servizio di qualcosa di più grande. Quelle che seguono sono sei testimonianze dirette di questo incontro-scontro con il metodo del maestro giapponese. 35 Matteo Vallorani ∗∗∗ La prima puntualizzazione da fare è che Hirata non ha lavorato con noi come lavora di solito con gli attori della sua compagnia. Il Maestro muove gli attori secondo schemi precisi, ma noi abbiamo abitato questi schemi da un punto di vista pedagogico, non artistico. A differenza dei laboratori ai quali ho partecipato in precedenza, questo ha più a che fare con la scrittura, meno con l’attore. Gli altri laboratori erano di ricerca personale, una ricerca interna. In questo invece facevamo tutti parte di un disegno globale, bisognava stabilire e partecipare al sistema di relazioni che si era creato. Il Maestro critica il teatro occidentale, perché secondo lui noi applichiamo uno studio sull’attore troppo introspettivo: come se fosse un qualcosa dentro di noi che deve uscire fuori; invece lui ritiene che l’interpretazione naturale si ottenga attraverso l’aiuto di stimoli esterni, che non dipendono dal nostro controllo. Ci ha insegnato a rispondere agli input: l’attore europeo agisce sulla scena, quello orientale reagisce alla scena. Livia Antonelli ∗∗∗ La cosa che subito mi ha colpito è il suo modo di fare teatro in maniera essenziale. Il nostro teatro si basa molto sull’esagerazione: dell’espressione, del movimento. Al contrario, in questo laboratorio tutto è stato spinto verso il grado zero: mentre per la nostra cultura è un punto di partenza, per lui lo zero è un punto di arrivo, un raggiungimento del nulla. Chiede sempre a ciascuno di rimanere se stesso senza usare tecniche particolari. Sicuramente anche la sua è una costruzione, una struttura, ma è lì per semplificare, per togliere. Indirizzando la recitazione verso questa naturalezza usa certamente degli esercizi teatrali occidentali, vicini al teatro anglosassone o all’ultimo Stanislavskij: dopo aver imparato le battute ci ha chiesto di recitare passandoci una pallina da ping pong per dimenticare l’interpretazione, distrarsi dalle battute. Per quanto questo aspetto sia vicino all’Occidente, l’essenzialità di cui parlavo si sviluppa attraverso caratteristiche che non avevo mai sperimentato, come gli stimoli multipli, le conversazioni in contemporanea e le pause. Stefania Canini 36 Da oriente a occidente ∗∗∗ Sicuramente è sempre molto complesso liberarsi dei condizionamenti, anche involontari, che ciascuno porta con sé, con la propria formazione; ma nel laboratorio con Oriza Hirata questo processo è stato immediato: non solo perché è riuscito a portarci al grado zero di apprendimento, ma anche perché è stato da subito molto chiaro nello spiegare gli strumenti utili e quelli inutili all’apprendimento del suo metodo. Molto interessante è stata l’attenzione agli stimoli esterni sulla scena, che aiutano l’attore a creare altri segnali: come nell’aikido l’attore utilizza la forza dell’altro e la trasforma in energia per la sua azione o reazione. Hirata mette a disposizione tutta una struttura con riferimenti specifici, scientifici, e se sei in grado di rispettarli non ti perderai: come il sassolino della favola occidentale, per ritrovarti puoi anche avere bisogno delle cose che opportunamente vengono posizionate intorno a te. Ti dà la sicurezza che studiando comunque riuscirai a cavartela all’interno di quella rete, non potrà esserci un imprevisto. Gianni Iasimone ∗∗∗ La ricerca della naturalezza è una cosa che sin dal primo giorno mi è piaciuta molto. In realtà lo fanno spesso i maestri, tentano di lavorare su di te eliminando ogni ridondanza. Quello che mi ha colpito in questo caso è il modo in cui ce l’ha spiegato. Lui ha sottolineato come per noi togliere l’enfasi, positiva o negativa, equivale a togliere l’energia, la voce. Ha così cercato di farci raggiungere spontaneamente questa naturalezza aumentando le distrazioni: in un dialogo a due anche l’ingresso in scena di un terzo può creare quella distrazione tale da indurti a essere più naturale. In lui la naturalezza coincide con la semplicità anche nell’insegnamento: da un regista del suo calibro ti aspetteresti una certa rigidità di valutazione, al contrario Hirata ha una sottigliezza, una capacità e una visione talmente ampia che riesce a lavorare su di te proprio a partire dagli errori. Proprio grazie alla fluidità con cui riesce a maneggiare il suo metodo riesce ad alleggerire la scena e la tua stessa recitazione. Marouane Zotti 37 Matteo Vallorani ∗∗∗ Ho trovato molto interessante la lezione di Hirata sulla pausa. Per noi occidentali il silenzio è spesso una provocazione, quasi uno strappo, perché non siamo abituati alle pause lunghe. Durante il laboratorio è stato spiegato che in realtà è necessario alternare all’azione dei momenti di quiete, con un ruolo ben definito: durante una pausa lo spettatore ha tutto il tempo di riflettere su cosa è avvenuto e su cosa accadrà; il silenzio serve per dare al pubblico il tempo di pensare. Quando l’azione riparte si può avere la conferma delle proprie aspettative, o la loro smentita. Gli spettacoli di Broadway e la televisione riducono al minimo l’immaginazione del pubblico, perché hanno ritmi incalzanti, al lato opposto il teatro di ricerca lascia ampio margine all’immaginazione, forse troppo. Hirata vuole trovare un equilibrio matematico tra l’azione e la pausa, attraverso simili strategie si può gestire con facilità l’attenzione del pubblico e offrire una sensazione di realtà più naturale. Paola Pieri ∗∗∗ Già il testo crea un effetto di realtà disegnando una situazione molto precisa, con dialoghi fissi e movimenti prestabiliti. Ma il suo obiettivo è rendere molto chiara la situazione naturale a livello psicologico: quando nella vita parli con qualcuno, ad esempio su un treno, nel momento in cui nella stessa cabina entra un’altra persona il dialogo continua, ma entrambi gli interlocutori non possono far altro che pensare a questa intromissione. Con queste semplicissime spiegazioni riusciva davvero a farti immedesimare nella situazione, a farti capire come dovevi sentirti. L’attore ha un ruolo psicologico molto chiaro, sa ogni volta chi è e cosa sta facendo. Insiste molto sulla chiarezza, perché il pubblico deve capire molto bene quello che sta succedendo. A lui interessava che la scena fosse chiara: potevi interpretarla in maniere diverse, ma se era molto chiaro quello che accadeva andava comunque bene. In questo senso, nonostante la scrittura rigida, restava uno spazio di manovra interpretativa. Enrico Bossi 38 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Teatro Oriza Hirata, Yoji Sakaye, Toshiki Okada, Teatro Contemporaneo, Roma, Editoria & Spettacolo, 2009. Giapponese Luca Scarlini, Hirata e gli altri, prefazione a «Teatro Giapponese Contemporaneo» (vedi sopra). Maria Pia D’Orazi, Buto. La nuova danza giapponese, Roma, E&A Editori Associati, 1997. Cinema Andrea Chimento, Paolo Parachini, Shinya Tsukamoto. Dal Cyberpunk al mistero dell’anima, Alessandria, Falsopiano, 2009. Anna Antonini, L’incanto del mondo. Il cinema di Miyazaki Hayao, Milano, Il principe Costante, 2005. Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann, Daniele Villa (a cura di), Il cinema nero di Takeshi Kitano (con tre sceneggiature: Sonatine, Hana-Bi, Brother), Milano, Ubulibri, 2001. Arte, Fumetto, Fotografia Fabriano Fabbri, Lo zen e il manga. Arte contemporanea giapponese, Milano, Mondadori, 2009. F. Maggia (a cura di), Daido Doriyama. Visioni del mondo, Milano, Skira 2010. Manuela De Leonardis, A tu per tu con i grandi fotografi, Roma, Postcart, 2011. 39 Nero su Bianco edizioni Luglio 2011