le vie della scienza, le vie dell’educazione
Sull'idea
di soggetto vivente
in Edgar Morin
Sergio Manghi
Università di Parma
Modena, 4 settembre 2007
Sergio Manghi
Sull’idea di soggetto vivente in Edgar Morin
Brani dall’introduzione di un libro ancora in preparazione
(forma provvisoria, titolo non ancora definito)
SCIENZE BIOLOGICHE E SCIENZE ANTROPO-SOCIALI
[…] La parola complessità, interpretata in chiave moriniana, è una parola-sfida
(Bocchi, Ceruti, 1983). […]
In questa sfida convergono, intrecciandosi in forme imprevedibili a priori (e
dunque: complesse), differenti percorsi del pensiero scientifico degli ultimi decenni:
la reciproca inclusione, insieme complementare e antagonistica, di ordine e disordine,
di singolarità e universalità, di parte e tutto, di unità e molteplicità, di individuo e
ambiente, di gerarchia logica e circolarità tra piani distinti, di concetti chiusi e
concetti aperti, di prevedibilità e imprevedibilità, di reversibilità e irreversibilità
temporale, di soggetto osservatore e mondo osservato.
La nozione moriniana di complessità evidenzia come proprio nelle riflessioni
più avanzate dei saperi naturalistici assumano pregnanza quei tratti di imprevedibilità,
indeterminazione, ambivalenza e soggettività che le abitudini di pensiero prevalse
nella scienza classica considerano un sicuro segno di saperi immaturi, ancora a uno
stadio infantile di sviluppo, quali le scienze umane e sociali:
Per lungo tempo molti hanno creduto – e molti forse credono ancor oggi – che la carenza delle
scienze umane e sociali stesse nella loro incapacità di liberarsi dall’apparente complessità dei
fenomeni umani, per elevarsi alla dignità delle scienze naturali, scienze che stabilivano leggi
semplici, principi semplici, e facevano regnare l’ordine del determinismo.
Oggi vediamo che le scienze biologiche e fisiche sono caratterizzate da una crisi della
spiegazione semplice. E di conseguenza quelli che sembravano essere i residui non scientifici
delle scienze umane – l’incertezza, il disordine, la contraddizione, la pluralità, la complicazione,
ecc. – fanno oggi parte della problematica di fondo della conoscenza scientifica. (Morin, 1983,
p. 49).
[…]
L’UOMO GENERICO DEL GIOVANE MARX
La separazione dualistica tra un bios meccanicista e un anthropos disincarnato, o tra
un evoluzionismo biologista e un antropologismo culturalista, abita da lungo tempo,
in profondità, i nostri linguaggi quotidiani e le nostre abitudini di pensiero prevalenti,
strutturando sistematicamente i programmi scientifici, la distribuzione degli
investimenti, i criteri di valutazione, l’organizzazione degli istituti accademici e di
ricerca e i curricula degli studiosi.
Per ritrovare nel nostro passato i fili interrotti di un discorso robustamente
avviato a raccordare dialogicamente i saperi, senza assegnare a priori il primato al
bios meccanicista o all’anthropos disincarnato, dobbiamo spingerci piuttosto indietro
nel tempo. Risalendo, scrive Morin nell’introduzione al Paradigma perduto, a quella
metà dell’ottocento nella quale un giovane Karl Marx annotava sui suoi quaderni:
La storia stessa è una parte reale della storia naturale, del processo della natura che si fa uomo.
La scienza naturale prima o poi ingloberà in sé la scienza dell’uomo, come la scienza dell’uomo
ingloberà la scienza della natura: ci sarà una sola scienza. (Marx, 1844, trad. it. p. 188)
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Commenta Morin:
nelle pagine folgoranti dei manoscritti del 1844, Marx poneva al centro dell’antropologia non
l’uomo sociale e culturale, ma l’“uomo generico”; lungi dal mettere in opposizione uomo e
natura, egli asseriva che “la natura è l’oggetto immediato della scienza che tratta dell’uomo”
poiché il primo oggetto dell’uomo – l’uomo – è natura. (Morin, 1973, trad. it. p. 19)
Marx avrebbe in seguito annacquato questo programma scientifico giovanile, in
favore di un materialismo storico più sbilanciato verso “l’uomo sociale e culturale”,
per usare di nuovo le parole di Morin. E la grande occasione fornita al pensiero
moderno dalla rivoluzione darwiniana, possiamo aggiungere, sarebbe stata anch’essa
a lungo sottovalutata, in quanto ben presto inglobata da uno spirito del tempo che
andava ormai virando con forza verso l’opposizione dualistica di natura e storia.
Quell’opposizione che avrebbe presto portato in primo piano gli evoluzionismi
biologisti, a cavallo tra otto e novecento, e in seguito il paesaggio dualistico che
dicevamo. E non soltanto negli studi dei biologi, dei filosofi e dei sociologi, ma
anche, tragicamente, nelle ideologie e nei programmi d’azione di partiti di massa
totalitari – fra l’estremo innatista del sangue e suolo hitleriano e l’estremo culturalista
dell’uomo nuovo staliniano, plasmabile come cera. Ma anche laddove l’opposizione di
natura e storia non sia giunta a questi tragici estremi, è difficile negare che essa abbia
a lungo permeato di sé le abitudini di pensiero prevalenti, fino ai nostri giorni. Le
scienze della natura e le scienze dell’uomo, nei loro programmi prevalenti, lungi
dall’integrarsi nell’unità dell’uomo generico marxiano, appaiono procedere in larga
misura per cammini separati, internamente frammentati secondo logiche specialistiche
autoreferenziali.
[…]
L’UOMO-CHIMERA DI PASCAL
Le domande generiche che hanno spinto Morin all’impresa del Metodo – “Che cos’è
l’uomo, che cos’è il mondo, che cos’è l’uomo nel mondo?” – appaiono dunque ancora
suggestivamente inattuali. Tanto più necessarie, proprio in quanto generiche, e cioè in
quanto sprovviste di quelle finalità “utili” e “pratiche” che governano la
megamacchina del sapere, sempre più frammentata in iperspecialismi, riproducendone
i presupposti istitutivi. Già vari decenni or sono, questa megamacchina richiamava
alla fantasia di Robert Musil l’immagine dello stabilimento di pollicoltura:
…un pensiero che non ha uno scopo pratico è un’occupazione segreta un poco indecente,
soprattutto poi per quei pensieri che fanno passi mostruosi sui trampoli e toccano l’esperienza
solo con minuscole suole, suggeriscono il sospetto di un’origine irregolare. Una volta sì, si
parlava di volo dei pensieri, e ai tempi di Schiller un uomo con simili fiere domande nel petto
sarebbe stato molto stimato; oggi invece si ha l’impressione che un uomo così abbia qualcosa
fuori posto, a meno che quello non sia il suo mestiere e la sua fonte di guadagno. Oggi le cose
sono ripartite altrimenti. Certi interrogativi sono stati tolti dal cuore degli uomini. Per i pensieri
sublimi hanno creato qualcosa come gli stabilimenti di pollicoltura, che si chiamano letteratura,
filosofia o teologia, e là i pensieri si riproducono a modo loro, senza controllo, il che va
benissimo perché con una tale proliferazione nessuno si rimprovera più di non occuparsene
personalmente. (1930, trad. it. pp. 346-47)
“Che cos’è l’uomo, che cos’è il mondo, che cos’è l’uomo nel mondo?”. Edgar
Morin, come spero abbiano mostrato queste poche pagine, è appunto un uomo con
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simili fiere domande nel petto. Nel nostro tempo, questo suggerisce a molti, a molti
più che al tempo di Musil, il sospetto di un’origine irregolare. Ma basta guardarsi un
poco intorno, con gli occhi aperti sulle convulsioni di questo nostro pianeta sull’orlo
della catastrofe bellica ed ecologica, sul malessere quotidiano da incertezza radicale
che abita le nostre esistenze, per trovarsi tra le mani il sospetto che l’origine
irregolare sia da ricercarsi altrove. Più vicino a noi stessi di quanto ameremmo
credere. In quelle nostre abitudini di pensiero, precisamente, così cariche di senso
pratico, che momento per momento riproduciamo senza pensarci tanto sopra. In
quelle modernissime abitudini di pensiero che c’inducono a organizzare e
riorganizzare le nostre istituzioni di ricerca e di formazione secondo modalità sempre
più metodicamente frammentatrici e idiotizzanti – sul modello “musiliano”, appunto,
della pollicoltura.
Alla riforma di queste abitudini di pensiero, Morin ha osato dedicare decenni di
riflessioni, di scavo paziente nei più diversi ambiti del sapere, pienamente
consapevole di poter essere sospettato di un’origine irregolare – e anzi nutrendo la
propria appassionata scommessa di questo stesso sospetto.
A partire da quella svolta di fine anni 60 che abbiamo cercato di delineare,
Morin ha osato anche lasciarsi abitare, più in particolare, dalle domande di cui ci
occuperemo, più specificamente, nei prossimi capitoli: “Che cos’è un soggetto, che
cos’è un soggetto umano, e in che relazione sta con i mondi naturali e sociali più
grandi dei quali è parte?”. Morin, come vedremo, passa queste domande al vaglio dei
saperi scientifici più avanzati, con metodo e passione. Ma senza illudersi neppure per
un momento che a queste domande sia possibile una risposta semplice, univoca,
definitiva. Senza tradire neppure per un momento, in altre parole, la lezione
dell’amato Pascal, posta in bella evidenza nel Paradigma perduto, che c’invita a
immaginare l’uomo come una sorta di chimera. Come la più chimerica, addirittura,
delle creature:
Quale chimere è dunque l’uomo? Quale cosa inusitata, quale mostro, quale caos, quale soggetto
di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutto, verme sciocco della terra; depositario del
vero, cloaca d’incertezza e di errore; gloria e scoria dell’universo. Chi scioglierà questo intrico?
(Pascal, 1669, trad. it. p. 151)
[…]
IL SOGGETTO BIOLOGICO DI MORIN
[…]Il passo teorico forse più arrischiato, potremmo forse dire, dell’intero
Metodo moriniano, quello che più s’allontana dal perimetro dei saperi scientifici
accreditati, oltre che dal senso comune più consolidato […]
Stiamo parlando di quel passo teorico che consiste nell’attribuire a ogni
individualità vivente la qualità di soggetto. E dunque nel riconoscere anche al più
umile degli organismi unicellulari – emblematicamente rappresentati dal batterio
Escherichia coli, spesso richiamato da Morin – una sorta di Io: quella condizione,
cioè, di singolarità autoaffermativa e irripetibile, “amleticamente” lacerata tra essere e
non essere, e tuttavia vincolata a ricostituirsi incessantemente in unità, che tanto
l’umanesimo quanto lo scientismo, da fronti opposti e convergenti, hanno assegnato
in esclusiva al soggetto umano, cioè al solo animale dotato di coscienza.
[…]
Sulla base di questo azzardo teorico, Morin si spinge a elaborare un’idea
generale di soggetto che sollecita un ripensamento radicale. Quella che suggerisce
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Morin è un’immagine costitutivamente biologica del soggetto. Ovvero un’immagine
non imperniata sulle funzioni della coscienza, come vorrebbero le nostre abitudini di
pensiero largamente prevalenti, ancora molto più cartesiane di quanto vorremmo, ma
sulle proprietà dell’organizzazione vivente. Sulla capacità che hanno le creature
viventi, fin dalle loro forme più elementari, di organizzare se stesse e le loro relazioni
con le altre creature a partire da se stesse – autoriflessivamente, singolarmente.
La coscienza, fiore dell’ipercomplessità umana, come la definsce Morin, non
caratterizza tanto la soggettività in quanto tale, ma una sua forma peculiare: quella del
solo animale che può anche divenire consapevole di essere soggetto. La soggettività,
ovvero la capacità del singolo organismo di assumere se stesso come centro della
propria esperienza nell’organizzazione della propria vita e delle proprie relazioni
ecologiche e sociali, ha una storia assai più lunga di quella della nostra specie. Questa
capacità, lungo i milioni di anni di storia del vivente, ha potuto emergere ed evolvere,
facendosi via via più complessa, senza bisogno del minimo barlume di coscienza. Con
l’avvento della specie umana, essa ha indubbiamente raggiunto un grado straordinario
di complessità, incentrato attorno al cervello sapiens sapiens. […] Ma questo salto
evolutivo non si identifica con la nascita della soggettività, né proietta il soggetto
umano al di fuori fuori dalla sua dimensione naturale.
Questa nozione biologica – ma non certo biologistica, come vedremo – di
soggettività, comporta una sfida radicale nei confronti del senso comune proprio
all’insieme delle scienze umane e sociali moderne. Ma comporta anche, allo stesso
tempo, una sfida non meno radicale nei confronti del senso comune proprio
all’insieme dei saperi naturalistici. E cioè di quegli stessi saperi che, a partire dalla
svolta epistemologica sopra ricordata, hanno costituito per Morin, nei loro terreni di
ricerca più avanzati, una matrice generativa e rigenerativa di primaria importanza.
Nei confronti dei saperi naturalistici, la sfida del soggetto moriniano è anzi
duplice: poiché non si limita a sottolineare la necessità della nozione di soggetto per
comprendere il comportamento degli “oggetti” osservati dagli scienziati naturali, e
cioè delle creature viventi; ma si spinge anche a invocare la necessità di includere la
soggettività nelle pratiche scientifiche, in polemica con l’impersonalismo oggettivista
imperante tra gli scienziati naturali.
Noi lasceremo qui sullo sfondo, per mere ragioni di brevità, questa seconda
sfida ai saperi naturalistici […] per concentrarci sulla prima. Cercheremo in altre
parole di mettere il luce le argomentazioni essenziali che sostengono l’eccentrica idea
moriniana di soggetto biologico, sviluppandone poi le implicazioni per il
ripensamento della soggettività specificamente umana, e cercando infine di
evidenziarne la capacità di aiutarci a comprendere meglio la nostra condizione di
soggetti del nostro tempo – di soggetti coinvolti per la prima volta realmente e
massivamente nella nascita della società-mondo. […]
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