Gemma Martino: Docente Scuola Italiana di Senologia “L’arte del curare: motore intellettuale e politico di una sperimentazione che ha messo consapevolmente davanti ai saperi medici la soggettività dei medici stessi e dei pazienti. Il curante scopre, quando rinuncia a fare esercizi di potere e di assolutismo scientifico, un effetto straniante e del tutto inedito. Abituati a pensare che il nostro corpo e la nostra psiche siano nostri solo finché funzionano senza farsi notare, nel momento della malattia, del dolore, del bisogno, siamo indotti a rivolgerci a esperti che in teoria dovrebbero sapere di noi più di quanto ne sappiamo noi stessi. Ed eccoci in balia dell’evento : passivi, deleganti, infantilizzati, sottomessi. Non più interi, non più capaci di volizione in proprio, da soggetti pensanti ci trasformiamo in corpi subalterni, sganciati dalla nostra storia, dall’idea che ci siamo fatti di noi nel corso del tempo, in altre parole spogliati della nostra soggettività. E, dove non c’è un soggetto, è impossibile che ci sia libertà. È proprio questo rapporto dispari tra curate e curanti che i clinici devono porre al centro della loro riflessione e della loro pratica medica. Nel corso del tempo e attraverso una valutazione mai solitaria degli esiti del loro lavoro, si sono accorti che lo strumento cardine della cura è proprio la capacità di mettere chi ha bisogno di cura in posizione di soggetto capace di autonomia di analisi, pensiero e decisione. Compito dell’‘esperto, non è far credere al paziente di saperne più di lui: una buona pratica di cura (ma non è così in ogni campo dell’esistenza?) è quella che crea interlocuzione paritaria : un interrogare e interrogarsi insieme. il paziente ha sempre una storia che precede la malattia, ha un sesso, un’età, una vicenda biografica, una lingua, una cultura, un intero insieme di convinzioni. Anche il medico ha una sua storia che nella relazione terapeutica entra in risonanza con quella del paziente. Entrambi reagiscono alla malattia e alle reazioni dell’altro alla malattia. Entrambi si emozionano, hanno paura, temono di sbagliare, provano frustrazione, rabbia, smarrimento. È da questo incontro di umanità – nonostante la temporanea disparità dei bisogni e la differenza delle competenze e dei saperi tecnici disponibili in quel momento all’uno e all’altro – che nasce lo spazio della cura. E’ fondamentale che i medici si domandino come si faccia a suggerire una terapia o a proporre un ‘protocollo’ se non si sa cosa legge, cosa sogna, cosa teme chi chiede di essere aiutato a guarire. Il lavoro è dunque anche un lavoro di individuazione delle risorse interne del curato e di scoperta, forse invenzione, delle parole giuste per aiutarlo ad approdarvi. Il linguaggio della medicina, troppo spesso escludente, autoritario, allarmante, punitivo, è un terreno delicatissimo su cui si gioca la qualità non solo della relazione medico/paziente, ma dell’efficacia della cura stessa. Non fare paura, non allarmare, accompagnare suggerendo possibilità e facendo ipotesi insieme, significa de-medicalizzare la relazione medica. Utile ricordare, come già fece Susan Sontag nel suo stupefacente Malattia come metafora – anch’esso nato non casualmente da un’esperienza diretta – che ci sono malattie che si accompagnano a un violentissimo stigma sociale e al conseguente senso di colpa, alla vergogna, alla solitudine . Demetaforizzare, vale a dire smontare e indagare le metafore che ogni epoca associa a un male diverso (tisi, tumori, aids) è la forma più radicalmente politica che può assumere la medicina. Questo MASTER vuol formare esperti nell’arte sottile della relazione capaci di proporre un modello terapeutico d’eccellenza scientifica , basato sull’ascolto, lo scambio, la fiducia. Il sapere medico – questo l’ umanissimo e rivoluzionario approdo – non è solo un insieme di tecniche e di specialismi, un operare dall’alto sul bisogno muto del paziente, è anche capacità di raccogliere e interpretare l’esperienza complessiva della persona che al medico si rivolge, senza ridurla ai suoi sintomi.