I. LA FORMAZIONE E IL PRIMO PERIODO DELLA FILOSOFIA DI

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I. LA FORMAZIONE E IL PRIMO PERIODO DELLA FILOSOFIA DI ADORNO
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La vicenda biografica e intellettuale di Adorno è segnata, come quella di altri pensatori tedeschi, dal
trauma dell'avvento de nazismo e dello sterminio del popolo ebraico. Anche Adorno dove fare i
conti con le persecuzioni, l'esilio e il senso di colpa per essere scampato alla tragedia. Il suo
pensiero non si comprenderebbe a pieno senza il riferimento allo sforzo di comprendere le catastrofi
del Novecento e di misurarsi con esse attraverso al ragione.
Figlio di un commerciante ebreo e una cantante francese, nasce l'11 settembre 1903 e trascorre
l'infanzia in agiatezza. Studia Filosofia, Psicologia e Sociologia all'università Francoforte. Le
esperienze determinanti per la sua formazione furono in buona parte extra-accademiche: la lettura
della Critica della ragion pura, fatte da giovane con l'amico Siegfried Kracauer; l'amicizia con
Benjamin. Importante fu anche lo studio della filosofia sotto la guida di Hans Cornelius, il quale era
un neokantiano di orientamento psicologistico, che aveva dato anche un contributo allo sviluppo
della psicologia della Gestalt. L'influenza sul pensiero adorniano si riscontra nelle simpatie per la
Gestalt e nell'interpretazione della filosofia kantiana. Non mancano, anche in Adorno adulto, i
riferimenti al suo maestro, soprattutto nella lezioni, inoltre non manca mai di collocare la riflessione
sulla conoscenza in primo piano nella riflessione filosofica.
Le questioni poste da Cornelius ritornano nella filosofia adorniana: nella Critica mentre si persegue
l'obiettivo di fondare i giudizi sintetici a priori, si presuppone già la validità dei giudizi sintetici, che
in teoria potrebbe essere giustificata solo al termine della ricerca. Giudizi di questo genere sono, ad
esempio, che si danno due fonti della conoscenza, o che si danno due forme pure dell'intuizione
(tempo e spazio). Questi giudizi non possono avere altro fondamento che l'analisi psicologica della
coscienza.
Dopo la tesi di laurea su Husserl, nel 1924, Adorno scrive la dissertazione per la libera docenza su
una concezione della teoria della conoscenza fortemente psicologizzata (in linea con le tesi di
Cornelius e contro quelle di Husserl). Successivamente però si avvede che la pretesa di fondare una
teoria della conoscenza obiettivamente valida mediante la conoscenza psicologica incorre in un
circolo vizioso: si presuppone la conoscenza valida alla teoria che dovrebbe fondarla. Adorno
giunge a respingere la prospettiva di Cornelius, ma non mette in dubbio la pertinenza del problema
di fondo: la coscienza trascendentale non è pensabile senza il rimando all'io empirico, le cui
caratteristiche vengono astratte e assommate a se dall'io trascendentale (l'io empirico si rivela come
costitutivo dell'io trascendentale).
Le condizioni dell'unità della coscienza possono essere rintracciate solo attraverso l'analisi della
costituzione psichica dell'uomo (da cui sono astratte): ad esempio la deduzione dei concetti puri
dell'intelletto rimanda alla distinzione psicologica tra ciò che è saputo e ciò che viene ricordato, ma
ciò significa che il momento dell'appercezione dipende da un momento empirico che ne mette in
crisi l'apriorità. Secondo Adorno sono queste difficoltà che spingono necessariamente il pensiero
filosofico verso la dialettica, in quanto esso non può acquietarsi né nel solo empirico, né nell'a
priori.
L'allontanamento dall'orientamento psicologistico di Cornelius fu tanto precoce da far ritenere che
la fedeltà nel lavoro di abilitazione sia dovuta solo al rispetto delle regole accademiche. Cornelius
non accettò il lavoro di Adorno perché ricalcava troppo il suo punto di vista e mancava di
originalità.
Gli interessi di Adorno erano, prima di tutto, musicali: era compositore e discepolo di Alban Berg,
ma anche già affermato critico musicale. Sul piano filosofico lo ispiravano personaggi lontani dal
maestro Cornelius: Benjamin, Kracauer, Lukàcs, Ernst Bloch. L'ambiente da lui frequentato era
permeato dalla passione per la musica d'avanguardia, dalla critica della società borghese e dalle
passioni rivoluzionarie.
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Nel 1929 Adorno prese contatto con il teologo politicamente impegnato Paul Tillich e concordò con
lui una tesi di abilitazione su Kierkegaard, nel 1931 ottenne la libera docenza in filosofia. Lo scritto
per l'abilitazione era fortemente ispirato al Dramma barocco tedesco di Benjamin e va considerato
insieme a due conferenze adorniane (L'attualità della filosofia e L'idea di storia naturale) e la Tesi
sul linguaggio del filosofo. Questo primo tempo del filosofare adorniano si chiude con un lungo
silenzio filosofico (non pubblicherà nulla fino agli anni Quaranta). Questi scritti sono caratterizzati
da una forte pretesa di originalità e il loro programma filosofico si può riassumere nella formula
«filosofia come interpretazione». Ciò implica una presa di distanza dalla filosofia come
epistemologia o logica della scienza, e una lettura di Heidegger letto come restauratore
dell'ontologia e non come esistenzialista.
Contro Heidegger obietta che lo sforzo di attingere ad un Essere originario non è più possibile da
quando le immagini della nostra vita sono avvallate solo attraverso la storia.
Ai sostenitori della filosofia scientifica viennese obietta che essi non hanno risolto il problema del
senso della realtà data, in quanto questa si è sempre data a un soggetto che non è astorico.
Polemizza con Cornelius per cui né le parole sono semplici strumenti per designare qualcosa, né i
concetti sono mere abbreviazioni di una molteplicità di caratteristiche unificate dalla coscienza.
Nelle parole irrompe la storia, costituendo il loro carattere di verità. La filosofia è quindi lettura e
interpretazione e non le sono accessibili nella loro purezza né i dati empirici ne l'originarietà
dell'Essere. La realtà è un 'enigma', un intreccio di linguaggio e storia. Adorno non ha imboccato
però la via dello storicismo o dell'ermeneutica, come molti suoi contemporanei.
Compito del pensiero è di portare alla luce la verità dei costrutti storico-linguistici, non nel senso di
individuare un'essenza nascosta, ma l'interpretazione filosofica rischiara e consuma al contempo.
(disporre gli elementi fino a formare un'immagine della risposta mentre la domanda si dilegua).
Esempio di questo modo di procedere è la teoria marxiana del feticismo delle merci: VEDI P.12.
Il lavoro interpretativo di Adorno non ha nulla di arbitrario, e la sua validità apre la strada anche a
una possibile prassi. L'interpretazione della realtà data richiama il suo superamento, dalla
costruzione della figura del reale deriva l'esigenza della sua reale trasformazione.
Attualità della filosofia → programma teoretico
Idea di storia naturale → prova a mettere in pratica il suo programma teoretico
In quest'ultima opera sono di primario riferimento le opere di Marx: nel Capitale aveva scritto che
lo scopo era quello di decifrare la dinamica del modo di produzione capitalistico come un processo
di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla loro volontà, ma anzi la
determinano. Non meno importante il riferimento a Lukàs, che nella sua Teoria del romanzo aveva
designato il mondo estraniato come una seconda natura.
Sotto la lente dell'interpretazione filosofica il mondo dominato dalla merce si svela quindi come una
seconda natura, che domina gli individui e si sottrae al loro controllo. In questo orizzonte la storia è
ancora 'storia naturale' (non propriamente storia, ma preistoria in senso marxiano), se per storia si
intende la capacità di fa scaturire un elemento qualitativamente nuovo. La Storia è trascendimento
del mero ciclo naturale che si ripete uguale a se stesso, ma finchè il mondo degli uomini rimane
soggetto a dinamiche non riconducibili a consapevolezza e ragione, esso resta natura alla seconda
potenza. Si rende palese così anche il fallimento dell'idealismo, la cui intenzione era che la ragione
dovesse formare il mondo storico degli uomini.
Un ruolo primario gioca l'elemento 'mitico' (poi anche in Dialettica dell'Illuminismo). Mito è il
modo in cui si palesa il rovesciamento dialettico della storia in seconda natura, ripreso dal Dramma
barocco (in cui il mitico designa il riprodursi dell'imprescindibile caducità nell'ambito storico).
Scrive Adorno nell'Idea di storia naturale: per mitico intendo quello che è da sempre, quello che,
come essere destinalmente disposto e pre-dato, sorregge la storia umana, appare in essa ed è in lei
sostanziale. Il concetto del mitico è strettamente intrecciato con quello di 'destino', che indica la
cieca sottomissione ad un elemento fatale. 'Mito' e 'destino' significano per Adorno l'irretimento
della storia in una dinamica cieca e 'naturalistica', che domina gli uomini come le potenze mitiche e
mostruose dominavano le anime dei primitivi. [riferimento al frammento di Anassimandro p. 16].
Ma proprio in quanto è compiuta la negazione della speranza, il mito apre anche al suo stesso
rovesciamento dialettico: in quanto tradisce la verità su un ordine senza speranza, è anche in se
elemento dialettico che richiama in negativo il momento della conciliazione proprio in quanto lo
espelle, assolutizzando il ciclo dell'eterno ritorno dell'identico come colpa ed espiazione. Questa
dialetticità del mito si palesa, secondo Adorno, nella tragedia classica: i miti tragici contengono in
se, insieme alla colpa e la caduta, il momento della riconciliazione.
Adorno sviluppa in questa prima fase quella che potremmo chiamare una dialettica del mito, che
passa attraverso una riflessione sul reciproco capovolgersi della storia in natura e della natura in
storia. Nel segno della caducità la natura è a sua volta storia [p.18].
Il nucleo del primo pensiero di Adorno, il suo 'materialismo messianico' potrebbe essere espresso
così: la storia, sotto l'impero della reificazione, è seconda natura, ma anche la natura come caducità
(trapasso di tutte le cose), proprio in quanto trapassante non può essere assolutizzata, ma reca in se
l'apertura alla caducità della caducità, cioè alla storia come rottura del ciclo dell'eterno ritorno,
come emersione messianica del Nuovo e riconciliazione dell'uomo con il proprio destino.
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La filosofia interpretativa trova il suo primo esercizio concreto nel libro su Kierkegaard, scritto tra il
1929-30, ed esce nello stesso giorno che vide l'instaurarsi della dittatura hitleriana. Il lavoro di
Adorno si propone, attraverso un metodo allegorico, di far emergere le problematiche e le
contraddizioni del pensiero del filosofo danese, ma anche di mettere in rilievo le aporie
dell'idealismo tedesco e dell'ontologia di Heidegger. Adorno, lungi dal valorizzare la rottura di
Kierkegaard con l'idealismo, lo legge come l'epigono presso cui tutti gli elementi mitici
dell'idealismo assoluto si rendono ancora più visibili. Adorno mostra come l'isolamento dello
spirito, il vagheggiare una presunta pura interiorità diano luogo a una sorta di prigione della
ripetizione, che Adorno definisce come mito.
La sua tesi è che Kierkegaard resta all'interno dell'idealismo in quanto ne condivide l'assunto di
base, l'idea dello spirito come signoria sulla natura, come elevazione al di sopra di essa mediante la
repressione della naturalità (soprattutto all'interno dell'uomo stesso). Quanto più lo spirito si pone
come puro, separato, chiuso in se stesso, tanto più ricade nella dimensione naturale-mitica.
L'emancipazione dello spirito dal cieco ciclo naturale non può darsi attraverso la repressione della
natura, ma riconciliandosi con essa.
Sebbene riconduca Kierkegaard all'idealismo, è anche vero che il lui la conciliazione idealistica tra
ragione e realtà si è spezzata, perciò il rapporto con il 'senso' si pone in modo antinomico: esso
viene cercato in maniera idealistica sprofondando nella soggettività, ma li il soggetto non trova che
disperazione, è quindi costretto a porre il senso teologicamente come irraggiungibile trascendenza.
La condizione del soggetto escluso dal senso è, per Adorno, una condizione storica: rimanda alla
riduzione del mondo a merce, alla privatezza borghese. Nel Kierkegaard vi è la critica della società
borghese chiusa, in cerca di un'immediatezza dei rapporti ormai corrotta dal dominio della merce.
Più onestamente di Heidegger, Kierkegaard mostra lo scacco della pretesa di attingere il senso
attraverso l'analisi dell'esistenza singolare. La disperazione disgrega l'io e lo riduce a un paesaggio
di rovine, ma proprio i ruderi dell'Io disgregato sono i segni caratteristici della speranza. Heidegger
tradisce Kierkegaard in quanto coltiva l'idea di un senso attingibile dentro un senso lacerato e
alienato.
II. FILOSOFIA, MUSICA E SOCIETà
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Nel 1933 venne revocata la sua autorizzazione all'insegnamento (era marxista ed ebreo) e la sua
casa fu perquisita. Iniziò a cercarsi una posizione accademica all'estero: fu accettato solo come
advanced student ad Oxford. Nel frattempo anche i rapporti con l'Istituto per la ricerca sociale,
diretto da Horkheimer, non erano dei migliori, in quanto erano tutti alle prese con l'esilio. Nel 1938,
su invito di Horkheimer si trasferisce a New York e diventa membro ufficiale dell'Istituto. In questo
periodo matura il rapporto con Horkheimer e si distacca da Benjamin (e anche dalle sue posizioni
giovanili, pur non giungendo mai a rinnegarle). In questo decennio drammatico (1935-45) Adorno
delinea e sviluppa i tratti essenziali della sua concezione filosofica e sociale della musica (che si
ritrovano già in un suo saggio del 1932). Nella storia dell'arte e della musica ha senso parlare di
progresso non rispetto alla qualità delle singole opere, ma per quanto riguarda il rapporto tra l'artista
e il materiale, con il quale egli si misura durante il processo compositivo. Il materiale non è
immutabile ed eterno nel tempo, ma è come un deposito di storia sedimentata: progresso significa
impadronirsi di quel materiale al livello più avanzato della sua dialettica storica.
L'opera progressiva è quella nella quale l'artista risponde ai problemi che il materiale a quel dato
livello storico gli pone, trovando le soluzioni che la dinamica stessa del materiale. Il che non
significa (come aveva obiettato Krenek) negare la libertà creativa, ma piuttosto che l'artista è più
libero quanto più instaura un rapporto stretto con il materiale.
L'opera di Arnold Schönberg rappresenta per Adorno l'esempio più alto, perché in essa si compie la
più radicale demitizzazione illuministica del materiale tramandato e tutto il processo compositivo è
sottoposto a un principio costruttivo razionale.
Nel saggio sulla Situazione sociale della musica, l'impianto interpretativo adorniano si dispiega in
tutta la sua chiarezza: nella società borghese-capitalistica, la musica ha lo statuto di merce, ogni
volta che essa risuona, ritrae con linee più nette i contorni e le fratture che solcano la società
contemporanea. La frattura più evidente è quella che attraversa la società come un processo di
demitizzazione e razionalizzazione: il processo di razionalizzazione viene arrestato nel momento in
cui rischia di travolgere i rapporti di classe dominanti, ma se si sviluppasse liberamente si
rivolgerebbe contro i rapporti di dominio vigenti. L'estrema razionalizzazione che Schönberg
impone al processo compositivo rappresenta un progresso nel rischiaramento dialettico, che porta la
musica in una posizione di incompatibilità rispetto alla costituzione sociale presente.
La musica soddisfa la meglio la sua funzione sociale non quando cerca di votarsi a un impegno e
una prassi che le sono estrinseci, ma quando, secondo le sue proprie leggi, porta alla luce i problemi
sociali che essa contiene in se.
La musica che vuole ancora legittimare la sua presenza deve avere carattere conoscitivo. La
resistenza che la musica progredita incontra è così forte perché essa svela ai soggetti la verità che
non vorrebbero sentire, e cioè che non sono più tali.
La figura più appropriata per pensare al rapporto musica-società è quella della monade leibniziana,
che da un lato è una cellula chiusa in se stessa, ma dall'altro rappresenta l'intero universo. L'opera
d'arte non deve lasciarsi orientare da impulsi esterni o dalla volontà di comunicare qualche
messaggio, e tuttavia parla della società.
Nel saggio del 1932 Adorno distingue dei diversi tipi di musica:
• la musica che si lascia orientare completamente dalle esigenze del mercato
• la musica che resiste, all'interno della quale individua quattro tendenza:
◦ quella per la quale è più appropriato il paragone con la monade, ed è quella di
Schönberg, che tanto più si chiude tanto più da vita a una 'dissonanza storicamente
prodotta' (non 'armonia prestabilita')
◦ la seconda è quella di Sravinskij, contropolo di Schönberg: se il secondo è progresso, il
primo è restaurazione. Questa seconda tendenza prende coscienza dell'alienazione della
musica dalla società, ma cerca di superarla attraverso il recupero di forme stilistiche del
passato ancora immuni dall'alienazione. All'interno di questa tendenza vi sono due
possibili direzioni:
▪ neoclassicismo
▪ folklorismo
◦ musica surrealista (Kurt Weill e Brecht)
◦ la musica d'uso (Hindemith e Eisler)
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Questa impostazione di fondo ritorna nella Filosofia della musica moderna, il manoscritto fu letto
da Thomas Mann che lo volle come consigliere musicale per il suo Doktor Faustus e se ne servì per
spiegare come dalla crisi generale della civiltà scaturiva il patto con il diavolo. Schönberg si irritò
per il significato demoniaco che veniva conferito alla composizione dodecafonica.
La parte Schönberghiana della Filosofia della musica prende le mosse proprio dal rapporto tra il
compositore e il materiale. Quest'ultimo possiede una propria tendenza storica, una propria legge di
movimento, per cui «non tutto è possibile in ogni tempo». Il materiale è spirito sedimentato,
storicità coagulata e quindi le sue tendenze sono diverse da quelle della società. La lotta dialettica
del compositore con il materiale è anche lotta con la società.
Secondo Adorno devono essere messe fuori corso le idee romantiche sulla personalità creativa e
sulla libertà del compositore: egli non è un creatore, ma un risolutore di problemi, addirittura di
rompicapi tecnici. La risposta ai problemi, sebbene dettata da una struttura monadica, ci parla della
società. L'unica arte che possa ambire ancora alla verità è quella che rifiuta la conciliazione e ha il
coraggio di guardare in faccia all'angoscia.
Nella Filosofia della musica moderna, il giudizio sulla musica dodecafonica non è esclusivamente
positivo: rispetto alla libera atonalità del primo periodo, la dodecafonia ha un aspetto restaurativo,
soggiace a una peculiare 'dialettica dell'illuminismo'. Sottoporre a un criterio d'ordine tutto ciò che
forma un pezzo musicale significa liquidare la magia della musica. Ne risulta un sistema di dominio
integrale della natura, che come ogni forma di dominio si ritorce contro il soggetto dominatore,
sottraendogli la libertà. La razionalità dodecafonica si rivela come una forma di superstizione, la
volontà di rischiaramento rischia infine di rovesciarsi nel suo opposto.
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Un altro grande musicista che lo impegna dalla metà degli anni '30 è Wagner, su cui scrive un
saggio, Frammenti su Wagner, nel 1937. in un altro brevissimo scritto del 1933, Adorno aveva
cercato di distinguere la musica wagneriana dall'uso che ne facevano i nazisti, mostrando di non
essere sordo al suo fascino e alla sua grandezza. Wagner è presentato come il tipo del rivoltoso antiborghese, il cui risentimento si capovolge in cinismo nichilista, pronto a mettersi al servizio di
qualunque padrone. Wagner è il ribelle anarcoide, che dopo avere preso parte alla rivolta di Desdra
con Bakunin, prega Liszt di procurargli uno stipendio presso qualche nobildonna. È un uomo
caratterizzato da invidia, sentimentalismo e istinto distruttivo, da un culto per la grandiosità e
l'autocelebrazione. Wagner è anche l'antisemita che commentava con battute di spirito lo sterminio
di 400 ebrei a Vienna.
Dopo aver pronunciato, nel primo capitolo del saggio, una condanna del tipo socio-psicologico di
Wagner, Adorno orienta il capitolo conclusivo nel senso di una salvazione. Da salvare è proprio il
Wagner decadente, quello contro cui si era scagliata l acritica di Nietzsche, la sua opera ha a
disposizione la forza della nevrosi: guardare in faccia la decadenza e trascenderla nell'immagine che
resiste allo sguardo divorante. Al di sotto delle onde frastornanti dell'orchestra wagneriana risuona
un anelito di consolazione, in quanto essa ci parla dell'angoscia dell'uomo abbandonato, significa
soccorso.
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Un orientamento propriamente sociologico trova espressione in altri saggi, nel 1936 appare con uno
pseudonimo il lavoro Sul jazz, che costituisce una delle prime elaborazioni della critica adorniana
all'industria culturale. Nel jazz, secondo Adorno, opera il meccanismo della pseudo ribellioni che in
realtà conferma l'acquiescenza al potere. Apparentemente il jazz è democratico, esprime un
desiderio di libertà anche attraverso il movimento istintuale e sessuale, ma in realtà si tratta di un
fenomeno che non ha nulla di spontaneo, che è pianificato e diffuso dalle potenze monopolistiche
dell'industria culturale.
La critica dell'industria culturale comincia a prendere corpo dopo il trasferimento negli Stati Uniti.
Nel 1938 scrive un saggio di notevole impegno Il carattere di feticcio in musica e il regresso
all'ascolto, qui l'autore si concentra molto sulla dimensione del consumo musicale. Il saggio va letto
anche come una critica alle tesi sostenute da Benjamin nel suo scritto L'opera d'arte nell'epoca
della sua riproducibilità tecnica. [esempio dello Stadivari reclamizzato] Il rapporto affettivo che si
instaura con il bene consumato non implica (tranne rari casi) una effettiva capacità di goderne. Il
fatto che venga catalizzato l'entusiasmo e che venga consumato in forme più massive quanto più
esigue sono le capacità di comprenderlo, mostra come si sia invertito rapporto tra valore d'uso e
valore di scambio. Ciò per cui i consumatori spendono non è più il valore d'uso (godimento
estetico), il consumatore idolatra il denaro che spende per il biglietto per il concerto di Toscanini. Il
vero valore d'uso sta nel fatto che il consumatore può rispecchiarsi nel suo oggetto, confermando
nel culto dell'oggetto feticcio la propria personalità e rinforzando questo piacere con il fatto di
appartenere alla comunità dei consumatori.
Adorno registrava con sgomento e ripulsa il nascere di una società di tipo nuovo dove
l'investimento libidico nella merce diventava un collante più potente di religioni e ideologie.
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La questione del consumo culturale di massa è uno dei motivi dell'allontanamento da Benjamin.
Adorno si avvicina molto ad Horkheimer e a una più attenta comprensione della dialettica
Hegeliana, rimprovera quindi all'amico un deficit in dialettica. Benjamin stringe un forte rapporto
con Bertold Brecht e con il suo materialismo marxista, visto da Adorno e Scholem, come
un'influenza nefasta che allontana Benjamin dalle sue intuizioni filosofico-teologiche.
Nelle lettere che Adorno e Benjamin si scambiano, il rpimo sottopone a dura critica L'arte
nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e i Passages parigini (che non porterà a termine). Oltre
all'antipatia per Brecht, altre questioni complicavano il loro rapporto: dalla metà degli anni Trenta
Benjamin riceveva, dall'Istituto per la ricerca sociale, un sostegno che era indispensabile alla sua
sopravvivenza e Adorno era colui che esprimeva pareri molto ascoltati sui progetti di ricerca di
Benjamin. Nonostante ciò, dopo la morte dell'amico, Adorno assunse il ruolo di custode del lascito
benjaminiano.
Sul tramonto dell'«aura» dell'opera d'arte, Benjamin si esprimeva in termini positivi, in vista di una
fruizione di massa che poteva svolgere anche una funzione politica. Le obiezioni più rilevanti che
Adorno muoveva erano due:
• gli rimprovera di non dialettizzare abbastanza i due momenti contrapposti, cioè l'arte
'auratica' e l'arte tecnicizzata, di sottovalutare il potenziale della prima e i lati negativi della
seconda. Entrambe contengono le stimmate del capitalismo ed entrambe contengono
elementi di cambiamento, quindi vanno dialettizzata.
• Adorno invitava Benjamin a non attribuire al proletariato qualità che esso non aveva [e gli
ricordava la tesi di Lenin]
Dei Passages, Adorno criticava il modo in cui Benjamin interpretava gli aspetti della vita culturale e
sociale della Parigi del secondo Impero, mentre lo aveva usato nei suoi primi scritti adesso ne
metteva in risalto i limiti. In Benjamin vi era, per Adorno, una dialettica senza mediazione.
III. DIALETTICA DELLILLUMINISMO: L'AUTOCRITICA DELLA RAZIONALITà
OCCCIDENTALE
1
da quando si trasferisce negli Stati Uniti (1938), il rapporto con Horkheimer diventa sempre più
stretto. Questi aveva già maturato l'intento di scrivere un libro sulla filosofia dialettica, il lavoro
nelle intenzioni doveva avere un ambito interdisciplinare e raccogliere i risultati delle ricerche dei
suoi collaboratori. Il progetto necessita di tempo e cure e Horkheimer riuscirà a iniziarlo quando
lascia New York nel 1941, e si trasferisce in California e lo segue Adorno (con il quale scriverà
Dialettica dell'illuminismo tra il 1942-44). Il titolo è scaturito dalla mente di Adorno , ma il progetto
era di Horkheimer. La collaborazione tra i due autori fu strettissima, proprio per quanto l'opera
risulta così unitaria. Nonostante ciò la paternità di alcuni capitoli può essere individuata: di Adorno
sono l'excursus su Ulisse e il capitolo sull'industria culturale; di Horkheimer sono gli excursus su
Sade, il capitolo 'Elementi dell'antisemitismo' e gli aforismi finali. Il testo, pronto nel 1944, fu
dapprima stampato in 500 esemplari ciclostilati come pubblicazione dell'Istituto, con il titolo di
Philosophische Fragmente. Nel 1947 fu edito ad Amsterdam, e non fu più ristampato fino al 1966,
quando uscì l'edizione italiana Einaudi. In essa però Horkheimer, con il consenso di Adorno, aveva
apportato alcuni tagli che provocarono polemiche in Italia e in Germania. Qui la stampa avvenne
solo nel 1968, dopo una sua edizione pirata, probabilmente perché gli autori non erano molto
favorevoli alla ristampa.
Per quanto riguarda Adorno, i temi che egli porta all'elaborazione comune sono :
• la riflessione critica sulla questione del dominio, che aveva sviluppato nel Kierkegaard e nel
saggio su Wagner
• il rovesciarsi dell'ostilità alla natura in soggezione a essa.
Per quanto riguarda Horkheimer:
• la critica della riduzione della ragione a strumento di calcolo e di dominio, ovvero di mera
autoconservazione
L'ambizione teorica della Dialettica dell'illuminismo risulta evidente dal fatto che viene pubblicata
negli anni della Seconda guerra mondiale, e si presenta con l'intento di cercare risposte a un
interrogativo radicale: perché l'umanità, invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofondi
in un nuovo genere di barbarie. La risposta non ha potuto essere che frammentaria.
Come è possibile che l'intreccio tra la libertà produttiva, capitalismo e tecnica non sia servita a
creare una vita senza privazioni e senza angoscia?
Sia lo stalinismo dell'Unione sovietica, sia lo stato autoritario della Germania nazista, dimostrano
che le forme di domini, come preesistevano al capitalismo, così sopravvivono ad esso. La logica del
dominio è più forte dell'economia capitalistica di mercato basata sulla logica del profitto.
La critica marxiana del potere non è attrezzata per capire come anche forme più brutali di dominio
possano godere del consenso dei dominati ed essere da essi acclamate.
Se il processo di razionalizzazione dell'occidente è fallito, la riflessione deve cogliere ciò che, nel
processo millenario della demitizzazione, non ha funzionato. La convinzione di Horkheimer e
Adorno è che, a questo fine, sia necessario dar luogo a una ricerca «genealogica», per risalire alle
origini del processo di disincantamento del mondo.
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La tesi di Horkheimer e Adorno è, in buona sostanza, che il processo di civilizzazione è segnato, già
all'origine, da una dialettica fatale, perché l'emancipazione degli uomini dalla scarsità e dalla
soggezione alle potenze naturali si compie attraverso un processo bifronte, che per un verso è
conquista di autonomia, per l'altro è inestricabilmente legato al dominio e alla repressione. Ad
esempio con categorie arcaiche come quella del sacrificio, l'uomo si libera dalla soggezzione
naturale solo in quanto si impone egli stesso dei tabù. Insomma il processo di civilizzazione è
dominato da un funesto principio di equivalenza, dove ogni passo in avanti è pagato con un di più di
repressione sulla società e di ogni individuo su se stesso. L'emancipazione dalla scarsità dei beni è
pagata con la sottomissione al principio di scambio.
Gli autori si muovono in un orizzonte teorico segnato dal pensiero di Marx e Freud,ma che si
confronta anche con l'antropologia classica di Durkheim. Gli uomini si costituiscono come tali
attraverso il dominio sulla natura, il lavoro e la costruzione di strumenti, ma l'organizzazione
impone l'obbedienza a norme sociali che reprimono le pulsioni umane. Queste norme
presuppongono che ognuno acquisisca la capacità di dominare la propria natura, la civiltà si
costituisce quindi come una sorta di processo circolare di dominio. Il dominio sociale di una
minoranza privilegiata è funzionale a imporre quest'ordine, a questo proposito si sente anche
l'influenza di Nietzsche sui francofortesi (la civiltà è stata costruita sul sacrificio e sulla violenza).
Questo, per i due autori, è un peccato d'origine che fonda una connessione di colpa che prima o poi
dovrà essere spezzata, la costituzione stessa della soggettività è stata possibile solo attraverso
dominio e repressione. L'Io che vuole auto-conservarsi non può deflettere dall'autodisciplina.
Horkheimer e Adorno fanno riferimento a una delle tesi più ardite di Freud: l'istinto di morte non è
solo aggressività o distruttività, ma anche la tendenza a regredire verso stadi arcaici e inferiori, è
una tendenza a lasciarsi ricadere nella natura.
L'istinto di morte viene chiamato da Caillois 'mimetismo', secondo i due la civiltà ha introdotto
dapprima, nella fase magica, la mimesi e poi, nella fase storica, la prassi razionale. Nella fase
magica non è ancora compiuta la separazione del soggetto dall'oggetto (la natura), la magia è , come
la scienza, rivolta a scopi, ma li persegue attraverso la mimesi, in essa pensiero e realtà non sono del
tutto separati. Il costruirsi del soggetto non si da se non attraverso la mediazione di una gerarchia
sociale (mago) che monopolizza il commercio con le potenze naturali. Qui si insediano le prime
forme di dominio sociale.
Qual è il significato più profondo dello strutturarsi del rapporto sociale in forme di dominio?
Stando alla Dialettica dell'illuminismo, la coercizione sociale è necessaria in quando reprime
pulsioni e permette di uscire dallo stato animale, ma generano la difesa e riproduzione del privilegio
arbitrario. Vi è però un altro aspetto, quello delle risorse a cui il dominio attinge per conservarsi e
riprodursi: deve avere la possibilità di disporre della violenza fisica e deve essere ritenuto legittimo
da chi lo subisce. L'obbedienza presuppone che il privilegio appaia giustificato, ma ciò non può
essere spiegato in una teoria di un'apparenza socialmente necessaria. Non c'è teoria del dominio
senza teoria dell'ideologia.
Ma se il dominio sociale debba essere considerato come una necessità storica oppure no, è una
questione che va lasciata aperta. Marx aveva costruito una storia tutta governata dalla necessità, per
Adorno bisogna contemplare anche altre ipotesi, cioè che il dominio sociale sia frutto di uno
sviluppo contingente, non è da escludere che concorra anche una eredità di storia naturale. La
garanzia e la forza del privilegio risiedono anche nelle ideologie mediante le quali le gerarchie
vantano la sacralità. Queste ideologie vengono credute perché le norme sociali non comprese
diventano tabù. Secondo Freud gli impulsi repressi si manifestano nella creazione di un Altro
minaccioso (ebrei, streghe, diavolo), con ciò diventa comprensibile come la repressione pulsionale
non genera ribellione, ma identificazione passsiva.
3
Il processo di disincantamento del mondo, passando dalla magia al mito, alla metafisica e alla
ragione strumentale, ha il suo archetipo, per Adorno, nella figura di Ulisse, al quale dedica un
excursus nella Dialettica. Ulisse diventa il paradigma della razionalità disincantata, borghese,
strumentale e calcolante, che celebrerà il suo trionfo da Hobbes al positivismo logico. La forma
originaria della razionalità calcolante è l'astuzia, per Adorno, che permette di sfuggire a mostri e
magie ed è strumento di autoaffermazione, in alternativa alla forza bruta. Davanti all'isola delle
sirene riesce a non smarrire la padronanza di se, egli aggira le potenze magiche infrangendo il
timore preistorico. Le funi e i tappi sono strumenti di autocoercizione e simboleggiano il dominio
del Se.
L'Illuminismo si rivela quindi come a sua volta mitico, nell'emancipazione dal mito, il principio di
equivalenza continua a regnare: l'auto affermazione si paga con l'auto sacrificio, l'emancipazione
della natura con la costituzione della stessa società in «seconda natura». Nella storia di Ulisse, il
navigatore avventuriero allude già al mercante, l'Odissea è già robinsonata.
Le ultime pagine del testo adorniano sono
VI. VERSO L'ESTETICA: L'ARTE COME CRITICA E COME UTOPIA
1
Nella produzione adorniana del dopoguerra sono numerosissimi gli scritti dedicati alla musica, alla
poesia e alla letteratura. Un così ricco interesse non si tradusse subito nella sistemazione di
un'estetica, alla scrittura di Teoria estetica iniziò a dedicarsi dal 1966, libero ormai dalle fatiche di
Dialettica negativa (uscito quell'anno). Adorno lavorò a Teoria estetica fino alla morte, e incompiuto
fu pubblicato postumo dalla moglie e da Tiedemann, nel 1970.
Si deve tenere conto che l'approccio di Adorno riflette il fatto che egli sia un musicista e critico,
prima ancora che un teorico dell'arte. Le sue prospettive teoriche si formano nell'intervento
polemico e militante teso a difendere la musica radicale e d'avanguardia dalle critiche. Egli vede
nella musica e nella letteratura d'avanguardia l'unica forma espressiva nella quale l'arte può
sopravvivere in un tempo in cui l'arte tradizionale non ha più luogo e degenera nel bene di consumo
e nella falsità. Prima che un'estetica, Adorno elabora una costellazione storico-sociale nella quale è
immersa l'arte moderna e alla quale essa deve sapere rispondere se non vuole diventare bene di
consumo.
La rottura rispetto alla tradizione risponde a una necessità alla quale l'arte non può sottrarsi, l'arte
conserva una sua verità se manifesta la condizione storica che il corso del mondo impone agli
individui. La situazione dell'arte contemporanea è contraddittoria: essa deve prendere le distanze
dalla comunicabilità e comprensibilità (perché ciò che è immediatamente comprensibile è falso), ma
ciò nonostante essa resta una merce e deve fare i conti con questo.
L'arte se deve manifestare l'orrore, deve conoscerlo e saperlo ordinare, quindi in qualche modo
riconciliare: questa è l'altra contraddizione (non sarà più possibile scrivere poesie dopo Auschwitz,
sarebbe un atto di barbarie1). L'arte è vera in quanto esprime il dolore del mondo e gli da forma, ma
proprio per questa la sofferenza va oltre il dicibile e non si può esprimere nelle forme tradizionali,
essa ha piuttosto il compito di trovare le forme adatte a esprimere la catastrofe. Il formalismo
dell'arte radicale, non è perciò arbitrario, ma adeguato a ciò che deve descrivere. L'esempio che cita
spesso Adorno è Il sopravvissuto di Varsavia, di Schönberg. L'aspetto della conciliazione e del
piacere, che inerisce all'opera d'arte, non è solo un momento della sua falsità socialmente
condizionata, ma anche anche un momento che tocca una verità più profonda, facendo balenare la
conciliazione anche nel dolore più estremo. Questa verità profonda è che la realtà non è
intrascendibile, ma potrebbe essere diversa se gli individui trovassero la voglia di cambiarla.
Nell'arte opera anche il desiderio di produrre un mondo migliore, essa è espressione del dolore e
manifestazione dell'utopia.
La filosofia e l'arte,come forme di conoscenza che è possibile dentro un mondo inconciliato, dicono
lo stesso, nessuna delle due ha priorità. Ciascuna (una con i concetti, l'altra con la mimesi)
convergono nell'intenzionare quel Diverso che nessuna delle due possiede.
2
Tra gli autori su cui Adorno si è soffermato nella sua riflessione, di notevole importanza sono Kafka
e Beckett (ai quali aveva intenzione di dedicare Teoria estetica). L'interesse per Kafka era condiviso
con Benjamin fin dalla giovinezza, e quest'ultimo aveva dedicato un saggio al Processo. In Kafka,
la soggezione dell'esistenza a un destino mitico, a una colpa indeterminabile, diviene centrale, che
però non può essere compreso su un piano astorico (rinvia al dominio totalitario). Secondo Adorno,
si dice troppo poco quando si interpreta l'opera di Kafka come se questa non volesse dire altro che
per l'uomo si è sbarrata la via di accesso all'assoluto. Al contrario, il contenuto di verità delle
parabole kafkiane è la percezione storica dell'impotenza. Quella di Kafka è la profezia del Terzo
Reich: la dipendenza di ognuno da un potere arbitrario che può perseguitarlo per una colpa creata ad
hoc.
1 Su questa affermazione tornerà a dire che la poesia deve tener testa a questo verdetto, proprio perché la smisurata
sofferenza che sembra rendere la poesia futile o falsamente consolatoria, non tollera oblii.
Quando si occupa dell'opera di Beckett, soprattutto Aspettando Godot, pur riconoscendo che essa ha
dei punti in comune con l'esistenzialismo parigino, si preoccupa di sottrarla a questa unica
interpretazione. La lettura non si incentra semplicemente sull'insensatezza della condizione umana,
la situazione che essi mettono in scena è quella di ciò che resta dell'umanità dopo la catastrofe
(dopo Auschwitz tutto è distrutto senza saperlo), lo scenario è quello in cui la fine del mondo ha già
avuto luogo. Dissolta l'individualità e annullato il tempo storico, il linguaggio si riduce a povero
sistema di segni e non resta che la pura negatività, dove però paradossalmente la conciliazione è
salvaguardata attraverso lo sguardo inflessibile sul mondo che la nega. L'ultima assurdità è che non
è possibile distinguere tra loro la quiete del nulla e la quiete della conciliazione.
Le teorizzazioni di Adorno si riflettono anche nella critica che conduce contro le teorizzazioni del
realismo e dell'impegno, contro Lukacs e Sartre. Discutendo del primo, Adorno difende l'arte
moderna dalle accuse di decadentismo e formalismo, dopo aver reso omaggio alla grandezza
concettuale e stilistica del primo Lukacs, lo accusa del fatto che la sua prosa diventa
intenzionalmente banale. Mentre Lukacs attacca il peso eccessivo che nell'arte contemporanea viene
dato all'elemento formale, Adorno ribatte che nella forma sta appunto la specificità dell'arte, ciò che
la distingue da una descrizione scientifica. L'arte, a differenza della scienza, non conosce la realtà
perché, grazie alla sua costituzione autonoma, enuncia ciò che viene celato dalla configurazione
empirica della realtà. Il gesto dell'inconoscibilità del mondo, che Lukacs biasima, può divenire un
momento di conoscenza, quello tra il mondo iperpotente delle cose e l'esperienza che impotente ne
scivola via. Se Lukacs accusa l'arte moderna di insistere troppo sugli aspetti perversi e patologici,
quasi fossero i soli a caratterizzare la condizione umana, Adorno replica che la verità dell'arte sta
proprio nello choc con il quale colpisce la coscienza dell'individuo.
Anche sulla difesa sartriana dell'arte impegnata Adorno esprime un giudizio critico (ma più
moderato). La riflessione di Adorno sull'arte impegnata si può ricondurre ad un orientamento di
fondo: l'arte che si fa strumento di propaganda politica fallisce perché si adegua al livello dato della
coscienza comune, e con ciò smarrisce proprio quella criticità alla quale si voleva ispirata. Per altro
verso, l'arte autonoma è critica in quanto, nel suo costituirsi come dimensione diversa e separata,
retta dalla sua legge formale, opera già una rottura con gli assetti vigenti della realtà empirica.
Paradossalmente l'arte autonoma è più impegnata di quella che sposa esplicitamente una causa.
Con l'astuzia di Ulisse (sirene) nasce il paradosso dell'arte: la tensione verso un mondo altro che è al
tempo stesso promessa e nostalgia, ma si inibisce l'azione, il canto delle sirene è neutralizzato ad
oggetto di contemplazione.
3
Secondo Adorno, l'essenza dell'arte non si può definire perché il suo valore di posizione muta
storicamente in rapporto ai contesti sociali dai quali essa scaturisce. La sua autonomia non è una
categoria eterna, ma un risultato storico. L'arte però è sempre una costruzione di un mondo altro da
quello empirico, l'arte mira a una stabilità che nega e trascende la caducità e il dolore del mondo
dato. Tramite la durata l'arte protesta contro la morte. Anche e soprattutto quando si chiude nella sua
autonomia monadica e si allontana dalla prassi diretta, l'arte è in qualche modo essa stessa critica e
arte. Tutte le opere d'arte, anche quelle affermative, sono a priori polemiche; l'idea di un'opera d'arte
conservatrice è un controsenso: separandosi dal mondo empirico esse rivelano che questo mondo
deve diventare altro, in questo senso ogni opera d'arte è utopia.
Arte e filosofia convergono nella tensione verso la critica e il trascendimento del dato, mirano alla
stessa verità che nessuna delle due riesce ad attingere a pieno. La differenza tra le due non è
semplicemente con la differenza tra intuizione e concetto, l'arte non è riducibile né all'uno, né
all'altro polo, proprio così protesta alla separazione dei due. Entrambe hanno bisogno l'una
dell'altra: l'arte da alla filosofia la manifestazione visibile di ciò che essa deve articolare in concetti,
ma solo l'interpretazione filosofica può rendere leggibile ciò che l'arte dice nella forma di enigma.
Compito dell'interpretazione filosofica è quella di tradurre in concetti quel contenuto di verità
dell'arte, che di regola non coincide con le intenzioni consapevoli dell'autore. Come l'arte, la
filosofia non possiede soluzione, ma deve tenere desta la domanda attraverso il suo esercizio di
resistenza e critica.
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