Numero Marzo '07
EDITORIALE
Terza uscita del 2007 per Fuori dal Mucchio, il nostro consueto appuntamento con
la scena musicale “emergente, autoprodotta, esordiente, sotterranea, di culto”
italiana. Una scena che in tutte le sue innumerevoli sfaccettature di stili e generi –
rock, naturalmente, ma non solo – si dimostra ogni giorno che passa sempre più
ricca. Di etichette, di band, di artisti… e soprattutto di uscite discografiche. Al punto
che anche solo ascoltare tutto quanto diviene un compito improbo e sovente ingrato,
ché quantità e qualità non sempre vanno di pari passo.
Eppure, ad avere la pazienza di cercare, le cose interessanti ci sono, e anche
questo mese ve ne segnaliamo un buon numero. Anzi, per salutare insieme a voi la
fine ormai prossima di un inverno a dire il vero insolitamente caldo, abbiamo voluto
strafare, dando vita a un numero “speciale interviste”, esattamente come quello
dello scorso luglio. Otto gli incontri che vi proponiamo, con altrettante realtà
diversissime tra loro ma tutte ugualmente meritevoli di un approfondimento.
Nella speranza di avervi fatto un regalo gradito, cogliamo l’occasione per augurarvi
come sempre buona lettura e buoni ascolti, e arrivederci al mese prossimo.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Marzo '07
Albert van Venendaal/Fabio Puglisi
Duets For Prepared Unprepared And Toy Pianos
Evil Rabbit/Bassesfere
Il pianista Fabio Puglisi è componente del collettivo musicale bolognese
Bassesfere, associazione libera di musicisti legati all’area jazz e all’improvvisazione
attiva da una decina d’anni, e ha un curriculum di tutto rispetto, avendo suonato in
passato con gente del calibro di John Zorn, Lester Bowie ed Enrico Rava, e avendo
lavorato a lungo ad Amsterdam, intrecciando legami fruttuosi con l’ambiente free
locale. È proprio in questo rapporto con la scena olandese che risiedono
presumibilmente le origini di questo disco, registrato dal vivo nei Paesi Bassi con
Albert van Venendaal. I due pianisti intrecciano le proprie note in brevi composizioni
– sedici in tutto, per poco meno di tre quarti d’ora – a volte convulse e dense (“Short
Fuses”, “Earthquakes”), altre volte più sparse ed impressionistiche (“Ou est-il?”),
accomunate da una attitudine ludica e comunicativa. Ed è un vero peccato, da un
certo punto di vista, che l’esperienza di questo concerto si limiti al solo udito, visto
che ci piacerebbe vedere all’opera i due musicisti mentre maltrattano le corde dei
loro pianoforti, insinuano scricchiolii e rumori sinistri nel tessuto musicale, fanno
interagire con gli strumenti ronzii di natura incerta (“Gazz”, che acquista così una
dimensione quasi ambient, man mano rarefacendosi). La tridimensionalità del suono
riesce comunque ad emergere attraverso il concerto, consegnandoci un’idea di
avanguardia che ci piace parecchio: curiosa, dinamica e aperta al mondo (
www.bassesfere.it).
Alessandro Besselva Averame
Agua Calientes
Clackson!
Flock Haus
Risale a qualche mese fa il primo contatto del sottoscritto con gli Agua Calientes,
quando in altra sede venni chiamato a commentare l'EP che ai tempi rappresentava
l'unica testimonianza discografica della band. In quell'occasione l'impressione che
ne ricavai fu buona, unita alla convinzione di trovarmi di fronte ad una formazione
matura capace di maneggiare con facilità un ampio ventaglio di riferimenti stilistici.
Riferimenti che allora richiamavano in prima battuta ska, funk e beat, declinati in
chiave soul o in calce a qualche sporadica svisata pseudo-etnica; regole formali che
in “Clackson!” – primo episodio sulla lunga distanza per il gruppo – sfociano in uno
spumeggiante andirivieni tra ritmi giamaicani, andature in levare, ottoni in
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Numero Marzo '07
fibrillazione e brani scoppiettanti. Scorre tutto liscio come l'olio nei quarantotto minuti
del disco, tra alternanze di voci impegnate ad indagare i canoni estetici di
riferimento e chitarre anfetaminiche, tanto che, paradossalmente, ci si accorge di
essere arrivati a fine programma quasi per caso, senza uno sbadiglio ma anche
senza un brivido come si deve. Merito – o colpa – della levigatezza e della pulizia
formale diffusa, di una ricchezza di spunti strumentali pregevoli ma talvolta
ridondanti, che alla lunga rischiano di trasformare questo “Clackson!” – per usare le
parole del gruppo – in “una proposta in grado di soddisfare l'orecchio di chi vuole
un semplice sottofondo musicale”. A molti potrà andar bene ma qualcuno, ne siamo
certi, storcerà il naso (www.aguacalientes.it).
Fabrizio Zampighi
Claude Cambed & The Now
Happy Gone Street
Shinseiki/Audioglobe
Claude Cambed è in una botte di ferro. Richiamando per assonanza nel titolo di
questo album – lo dichiara il comunicato allegato al disco – il termine “epigono”
(ovvero colui “che continua ed elabora idee e forme dei suoi predecessori”), il
musicista bresciano blocca preventivamente qualsiasi accusa derivazionista. Ma
non pensate che si tratti di semplice astuzia retorica: l’arte praticata dal nostro uomo
è nobile e immeritatamente bistrattata, soprattutto quando viene dichiarata con una
tale onestà. Il motivo per cui stiamo qui a parlarne, tuttavia, è un altro. Cambed non
solo ama la materia cui attinge (diciamo, approssimativamente, la nobile arte
britannica di imbastardire il pop con la psichedelia), ma scrive ottime canzoni, come
già ha dimostrato in passato. Ad aiutarlo, in questa occasione, una vera e propria
backing band, The Now: Giovanni Ferrario dei Micevice, co-autore di tre brani, e
Lorenzo Corti, chitarrista di Cristina Donà e Mau Mau, qui autore di “My Buddies”. Si
parte con un formidabile apocrifo XTC, “Modern Law”, si procede omaggiando il
Duca Bianco (“Guilty Sky”, scritta con Ferrario), si celebra lo scomparso Syd Barrett
con la dovuta delicatezza (“I Got A Sunshine”), si escogita una meraviglia che pare
sfuggita a McCartney durante le registrazioni di “Rubber Soul” (“Walking”), e via
dicendo. Power-pop alla maniera antica, senza farsi troppe domande sul concetto di
modernità. Limitandosi a sfornare piccola pasticceria Sixties, artigianale certo, ma
all’altezza dei sapori originali. Disco godibilissimo (www.shinseiki.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Marzo '07
Alibìa
Tra tutto e niente
CNI/Venus
Si potrebbe esordire dicendo che gli Scisma non hanno mai, ahimé, raggiunto il
grande successo, però hanno sicuramente potuto contare su un pubblico
attentissimo, che talvolta ha deciso di passare dall’altra parte. Lo si potrebbe dire, e
non sarebbe neppure male come complimento, visto che Benvegnù e soci sono stati
un tassello fondamentale nella costruzione del moderno rock italiano cantato in
italiano, ma questo rischierebbe tuttavia di sminuire la musica di questo sestetto di
Salerno giunto al secondo album e alla terza pubblicazione se contiamo anche l’EP
“Va tutto bene” dello scorso autunno: una musica che è personale, levigata senza
essere troppo luccicante e molto efficace nel creare il proprio immaginario. Un
immaginario suggestivo, in equilibrio tra paesaggio sonoro e canzone, dove
pianoforti e chitarre forniscono solida base all’intreccio di voci, e una tessitura
finissima di suoni e intromissioni elettroniche – ma anche frammenti orchestrali e
svisate noise – amplifica lo spettro espressivo. Canzoni come “Mai più” (ottimo il
lavoro di basso e batteria) sono rassicuranti e avvolgenti all’apparenza, ma non
riescono a nascondere del tutto un’anima malinconica. Ed è proprio su fragili
equilibri come questo che si regge la riuscita del progetto, un progetto al quale, se
dovessimo fare un’unica critica, forse mancano per il momento uno o più brani in
grado di rivoluzionarne le sorti. Ma per quello c’è sempre tempo: “Tra tutto e niente”
rappresenta al momento un ottimo risultato (www.alibia.it).
Alessandro Besselva Averame
Colle der Fomento
Anima e ghiaccio
Rome Zoo/Self
Otto anni non sono per niente pochi. Eppure otto sono gli anni che i Colle der
Fomento hanno fatto passare tra “Scienza doppia H” e questo “Anima e ghiaccio”.
Otto anni in cui il sodalizio tra Danno e Masito non si è mai sciolto, ma anche otto
anni in cui, immancabilmente, ogni anno si diceva che sì, il disco nuovo era pronto
per uscire. Tanto da creare ad un certo punto la sindrome da “al lupo, al lupo”. Di
solito, in situazioni come queste, ciò che alla fine si ha sono dischi sfilacciati,
disomogenei, datati in alcune parti e scentrati su altre: è fisiologico. Difetti che in
minima parte ci sono su questo disco, sì, ma sottolineiamo minima. Del resto una
partenza poderosa come “Ghetto chic”, con una sensazionale base di Lou Chano,
può far perdonare tutto; e un altro colpo ben assestato che resterà è “RM
Confidential”, con ottima base di Bonnot. Musicalmente, da segnalare anche il
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Numero Marzo '07
lavoro di Squarta in “Solo amore”, minimalista e creativo, e dell’illustre DJ Stile nel
remix di “Più forti delle bombe”, un caravanserraglio coldcutiano primi anni 90 a dir
poco appassionante. Come testi invece va detto che Masito e Danno hanno una
proprietà di linguaggio e una incisività scrittoria che è decisamente sopra la media
della scena rap nazionale, era così prima, è così adesso. L’unica critica è che forse,
paradossalmente, questo grande pregio alla fine gli si ritorce contro: sicuri delle
proprie abilità espressive, i Colle der Fomento non si sforzano di mettere a fuoco e
di selezionare le immagini quanto potrebbero. Se lo avessero fatto, “Anima e
ghiaccio” sarebbe una pietra miliare; così, è decisamente un buon disco. Il che non
è poco. Tutt’altro. In attesa di quello di Kaos, forse il miglior disco hip hop degli ultimi
due, tre anni (www.myspace.com/collederfomento).
Damir Ivic
Comanda Barabba
Live In Rome 2005
Bassesfere
Registrato dal vivo il 13 dicembre 2005 nella sala B del centro di produzione Rai
per la trasmissione radiofonica “Battiti” (Radio 3), questo “Live in Rome 2005” è
un’ottima manifestazione di eclettismo musicale da parte dei Comanda Barabba,
quintetto appartenente al collettivo bolognese Bassesfere e impegnato in una
personalissima interpretazione della tradizione jazz. Strumentazione canonica
(piano, batteria, contrabbasso, sax contralto e baritono) e una marcata propensione
a fuggire dai confini si fondono in marce circensi e dissonanti, evoluzioni e
costruzioni collettive che improvvisamente si dissolvono in rumorismi e
improvvisazioni per poi tornare a malinconie e paesaggi lunari. Colpisce l’inventiva,
l’equilibrio tra padronanza dei mezzi e capacità di abbandonarne gli approdi più
sicuri dove necessario, così come il ritrovarsi dei musicisti sulla stessa lunghezza
d’onda di passate esplorazioni in territori jazz rock (per citare qualche consonanza
che si incontra qua e là: Soft Machine, Henry Cow, Area) senza per questo apparire
in qualche modo derivativi, e anzi capaci di passare in pochi istanti, ne “La faccia nei
calzini”, dalla improvvisazione percussiva iniziale alle atmosfere d’antan che
riportano la formazione in territori più classici, senza però macchiarsi di alcuna
leziosità. Una musica che merita di uscire dal circuito di appartenenza per catturare
l’attenzione di chiunque non cerchi conferme ma stimoli. Molto bravi (
www.bassesfere.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Marzo '07
Cor Veleno
Nuovo nuovo
H2O/Sony
Ora l’hip hop è sulla bocca di tutti e sulle copertine di “XL”, ma solo pochi anni fa
era in uno dei momenti di maggior crisi a livello di esposizione. Detto in altro modo,
non se lo filava nessuno, a parte i pochi dello zoccolo duro (che erano tipo gli ultimi
giapponesi, mica come adesso che perfino un Daniele Interrante si dichiara fan dei
Club Dogo). È proprio in quel periodo, il più duro, che i Cor Veleno erano
definitivamente venuti fuori con un paio di dischi, “Rock’n’Roll” ed “Heavy Metal”,
davvero potenti, compatti, forti, fottendosene quindi delle debolezze (così come dei
tic) della scena. E ora? Ora sarebbe il momento di raccogliere. Con la crew romana
in prima fila tra coloro che meritano davvero. Il fatto di uscire con una major,
seppure per via indiretta, dovrebbe aiutare, stiamo un po’a vedere. Sta di fatto che
“Nuovo nuovo” ha un pregio e un difetto al tempo stesso: non fa la cosa più
prevedibile, cioè insistere solo sull’attitudine grezza e oltraggiosa, ma tenta invece di
affinarsi, di fare un disco equilibrato, scorrevole, che sia consistente ma anche
elegantemente rifinito. Il che non significa vendersi alla major – questo sospetto non
affiora, no. È che per dimostrare di essere sempre un passo avanti, in primis a se
stessi, i Cor Veleno hanno perso un po’ della loro unicità. Le tracce scorrono bene,
l’impianto funk e soul (con retrogusto pop) regge bene, le rime si sviluppano bene e
colpiscono; ma finisci di sentire l’LP, e ti sembra di aver ottenuto trenta quando eri
sicuro che avresti avuto trentuno (www.corveleno.com).
Damir Ivic
DDR
Diritto di rivolta
Indiebox/Self
C'è un filo rosso che lega il punk socialmente impegnato in italiano, un filo che
parte dalle contestazioni del Virus nella Milano dei primi 80 passando in forme
diverse anche per i Punkreas; ed è proprio da loro, grazie alla voce di Cippa in
“Terra che non c'è”, che il testimone passa ora ai DDR e al loro “Diritto di rivolta”.
Già l’esordio di un paio d'anni fa, “Alza la voce”, aveva fatto parlare di loro come
una delle promesse del punk nostrano, e bisogna dire che le speranze non erano
mal riposte. Distaccandosi in parte dal sound californiano che li aveva finora
contraddistinti, i DDR tentano la via personale inserendo didjeridoo e tastiere, ma
soprattutto lavorando in fase di arrangiamento per trovare soluzioni più ricercate. Il
lavoro sulle ritmiche è infatti ben riuscito, e a titolo esemplificativo potremmo citare
“In questo momento”. Un brano che, tra l'altro, mette in evidenza la voce di Selina,
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Numero Marzo '07
capace di graffiare così come di farsi melodica senza perdere in credibilità Sulle
tematiche abbiamo già detto: rabbia e frustrazione per un mondo che non piace, ma
senza slogan o proclami; solo un pressante invito a tenere acceso il cervello. Sono
ancora un po' farraginosi i testi, ma i miglioramenti ci sono stati e non tarderanno ad
esserci. In sostanza, i DDR confermano e rilanciano, ed il tour che è appena iniziato
li vedrà spargere il (loro) verbo in tutta la penisola. Poi non dite che non sapevate
niente (www.ddrpunkrock.org).
Giorgio Sala
Dejligt
Feed The Dog
Matteite/Venus
Già formidabile motore ritmico di Here, Ulan Bator e molti altri progetti, Matteo
Dainese ha mollato bacchette e tamburi per imbracciare la chitarra e cantare. Quella
che abbiamo appena usato è a dire il vero una semplice figura retorica, magari pure
un po’ trita, siccome questo disco rielabora materiale raccolti negli ultimi anni, negli
interstizi tra un progetto all’altro. È però la prima volta che la vena autoriale di
Dainese trova uno sbocco compiuto: con l’aiuto di Enrico Molteni dei Tre Allegri
Ragazzi Morti il musicista ha infatti registrato queste canzoni moderatamente
sghembe utilizzando il nome Dejligt, mettendo insieme ritmi sintetici e memorie
elettropop, strumenti acustici e un piglio istrionico nell’approccio vocale che ci fa
venire in mente i primi dEUS. Tra ballate laceranti e sprofondate in abissi interiori
(“Blue Station”, con una splendida tastiera wyattiana), episodi di postmoderna
mutazione folk-punk (“Never Go Back”) e giocattoleria elettronica più (“Chop Chop”)
o meno (“My Favorite Supervisor”) marcata, il risultato è una finestra sul mondo
dell’autore, che riesce a mettere insieme spontaneità “do it yourself” ed
elaborazione sonora, coinvolgendo alcuni amici tra cui Carolyn Honeychild Coleman
(Badawi, Apollo Heights, Here), Troy Von Balthazar (Chokebore) e Colin Lee (Bikini
Bandits).Una sorpresa inaspettata, coincidente con la nascita di una nuova
etichetta, la Matteite, che ci pare partire con i migliori auspici (www.matteite.com).
Alessandro Besselva Averame
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Faveravola
La contea dei cento castagni
Locanda del Vento/Lizard
Dopo aver dato vita ad una filiale cantautorale (La Luna e i Falò), la Lizard – che
solitamente lascia tracce di un rock non codificabile, né moderno né antico,
certamente originale – questa volta si lascia prendere dalla sindrome nostalgica e
apre le porte della Locanda del Vento, luogo di incontri per racconti senza tempo a
base di rock progressivo classico, necessariamente cantato in italiano. Coraggio o
incoscienza? Certamente passione e sincera volontà di non battere le piste scontate
di tante nuove label, che sembrano guardare solo a sonorità finto alternative e
pseudo-intellettuali. La storia dei Faveravola (anagramma di “vera favola”), è
davvero antica, e nasce negli anni 70, per poi interrompersi per i soliti problemi di
scelte di vita. Ma l’amore per la musica non conosce inganni e così, a distanza di tre
decenni, il fuoco si è riacceso e i protagonisti originali di tanti suoni (l’area trevigiana
ricorderà nomi come Diamond Red, Dinoterium Rex, Opera Prima), si sono
mescolati con nuovi musicisti, di una generazione successiva (ex di Black Jester,
Cabaret du Ciel e Asgard), per dare vita a questo sentito e commovente omaggio al
pop progressivo tricolore, con un tocco in più di incantevole amore per il fantasy e
per ideali di lealtà, giustizia e libertà. L’album, splendidamente addobbato dai
disegni di Marta De Martin, è un concept su un cavaliere medievale che, mentre
attraversa la Contea dei Cento Castagni, è protagonista di incontri e storie. La
vicenda si snoda attraverso canzoni leggiadre, che trasmettono purezza e serenità,
con incroci di tastiere, violini, chitarre e cori, con un appeal antico che incanta. La
voce di Franco Violo, che ne “La piana dei temoli del Libenza”, duetta con il grande
Aldo Tagliapietra de Le Orme, ha sentimento e l’intonazione perfetta per raccontare
le tante storie che attraversano queste dodici canzoni, autentica delizia per gli
innamorati del pop progressivo tricolore (www.faveravola.com).
Gianni Della Cioppa
Flap
A Poor Story
In The Bottle
I Flap sono un trio di Montagnana (Padova) e “A Poor Story” è il loro secondo
disco, che segue di due anni l’esordio “Férmo”. Le coordinate del loro suono sono
quelle di un post-rock sulle prime abbastanza didascalico e citazionista – potrebbero
venire in mente gli Explosions In The Sky – ma che in realtà mostra una gamma
sonora ben più ricca, toccando certi punti cari alla Wallace Records e certi
nervosismi degni dell’americana Monotreme e i suoi 65daysofstatic. I sette brani che
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compongono quest’opera seconda guardano oltreoceano e non disprezzano una
sana e costruttiva contaminazione (aiutati anche dalle sapienti mani di Paolo Iocca e
Marcella Riccardi dei Franklin Delano in “’700”) che cerca di espandere i confini di
una musica che caccia così lo spettro della monotonia. Per dire, brani come
“Mexico” e “Liberty”, per arrangiamento e voglia di esplorare, si avvicinano agli
scenari morriconiani di certi Calexico. Così come “///O\\\” potrebbe ricordare i My
Cat Is An Alien, che certo gli ultimi arrivati non sono. Più canoniche, invece, le
conclusive “Specchiodacqua” e “Mai Visto!!!”. Musicalmente parenti dirette di un
post-rock abbastanza riconoscibile ma non per questo meno efficace: ci stanno,
nell’economia di un disco del genere e di genere, episodi meno originali, soprattutto
quando non vanno ad intaccare il risultato finale (www.flapband.org).
Hamilton Santià
Glam
Quello che manca
In_Records/Family Affair
Non bisogna giudicare un libro dalla copertina, dice il detto. Né, aggiungiamo noi,
un gruppo dal nome e dalla sua immagine. Se infatti la ragione sociale di questo trio
napoletano e il look abbastanza “forte” (con tanto di ricorso abbondante al make-up)
fanno pensare, per l’appunto, a un immaginario e a sonorità tipicamente glam, in
questo debutto c’è anche dell’altro. E più precisamente c’è parecchia dark wave,
pulsante alla Joy Division e liquida alla Cure, affiancata da un senso del ritmo e del
groove (anche sintetico) che non ha davvero nulla da invidiare a quello di tante
celebrate band d’Oltremanica. Mescolate tutti questi ingredienti e otterrete un lavoro
sfaccettato e ricco di sfumature, sofferto e rabbioso ma anche romantico, seppure in
maniera tutt’altro che rassicurante. Ecco quindi che “Noir” e “Kitsch” pagano un
rispettoso ma non esasperante debito agli anni 80 meno luminosi, mentre il finale di
“Estetica” e la frenetica “Lentamente” vedono protagonista una sezione ritmica
letteralmente travolgente, e se “Dalle ciglia” è tutta un luccicare di lustrini su
cadenze da dancefloor, “Bella fresca” sfoggia un piglio decisamente post-punk.
Forte anche di una notevole limpidezza sonora – grazie al contributo in fase di
mastering dell’inglese John Davis – “Quello che manca” è un lavoro che riesce a
farsi apprezzare con facilità; e l’impressione è che in concerto i suoi autori sappiano
fare anche meglio: motivo in più per non perderli di vista (www.iglam.it).
Aurelio Pasini
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Karmablue
Acquadanze
Atman
A volte ci sono dei titoli che, con la sintesi intuitiva di una sola pennellata, sanno
riassumere perfettamente e sapientemente tutte le suggestioni e la poetica di un
progetto musicale. “Acquadanze” è la parola chiave con cui i romani Karmablue (bel
nome pure questo) sottoscrivono il secondo disco, dopo averci deliziato quattro anni
fa con “Erratico estatico” (prodotto dalla Toast), e accendono immagini eteree,
introspettive in amniotica leggerezza. “Aurorale” è delicata opalescenza elettrica,
interrotta da un nervoso stacco crimsoniano, ideale biglietto d’accesso per intimistici
madrigali (rubo con piacere l’azzeccata definizione dell’esordiente Atman Records),
incantevoli riverberi dell’anima a cura soprattutto del chitarrista Giacomo Caruso,
coadiuvato da un ensemble aperto. Poche parole fra dinamiche più strumentali, tra il
recitato ed il cantato senza enfasi, frammenti di poesia (“Acquadanze”, “Specchio
meccanico”), intermittenze fra altre progressioni frippiane (“Le miroir mecanique”),
movenze lievi e arpeggi ipnotici, che finiscono per ricondursi in un unico avvincente
tratto stilistico. Tutto molto bello dunque; solo, avremmo voluto che la magia, senza
farne una risibile questione di minutaggio, si fosse protratta un po’ oltre i
venticinque minuti totali del cd, soprattutto per la ricchezza di idee, la personalità e il
magnetismo sonoro fin qui palesato. Che sia dunque un generoso arrivederci, senza
che altri quattro anni ci dividano da nuove fluttuanti, maliose danze (
www.karmablue.it).
Loris Furlan
Lorenzo Hengeller
Il giovanotto matto
Polosud
La voglia giocosa di scomporre e comporre cataloghi e canzonieri, inni e melodie,
per creare nuova musica: è il blob di Lorenzo Hengeller, swingante napoletano
giovanotto (per nulla matto), brillante pianista alla terza prova. Già ti fai un’idea nei
tre minuti dell’“Inno di Mameli”, che giustappone la performance pseudo-patriottica
di Troisi (“Fratel-li d’Ita-lia”), “Bandiera rossa”, “Giovinezza” e “Faccetta nera”. La
fiera del bipartisan che non fa male a nessuno – un’equidistanza anni 50 – che torna
in “Lo swing del giornalaio”. “Il tic” è uno shuffle che guarda a Carosone e Sergio
Caputo (ma anche Natalino Otto, Daniele Sepe, Arbore…), con un po’ di voglia di
goliardate e doppi sensi. Come anche gli intermezzi in cui Hengeller scherza,
tirando su variazioni melodiche dalle suonerie Nokia, come se qualsiasi nota rubata
per l’aria sia utile come la per partire. “Papaveri e papere” cantata da Angela Luce
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segna il matrimonio inedito tra il celebre classico e “Penny Lane”. “Le tue mani” è
per l’armonica di Bruno De Filippi, splendido ospite anche nella deliziosa “In Bruno
veritas”: sono delle “vellutate” degne del Mingus più avvolgente, i due migliori
momenti del disco. “Buonanotte al mare” e “Fraseggio in mi bemolle” di Gorni
Kramer, “Pummarola Boat” del Quartetto Cetra, sono standard che fissano la rotta
eleggendo i propri Virgili.
Divertente e a tratti anche meglio: occhio, soltanto, a non innamorarsi troppo della
propria furbizia (www.lorenzohengeller.com).
Gianluca Veltri
Maurizio Bianchi & TH26
Arkaeo planum
Small Voices
Sono trascorsi circa quattro anni da quando i TH26 esordirono per la Small Voices
Allora l’etichetta pugliese muoveva i suoi primi passi e la band cagliaritana godeva
del sostegno creativo di Simon Balestrazzi dei TAC, vera icona di certa musica
elettronica nostrana. Maurizio Bianchi dal canto suo non necessita di essere
presentato: recuperate album quali “Symphony For A Genocide” (1981) o “Mectpyo
bakterium” (1983) e lasciatevi danneggiare le orecchie dai deliri sonori di uno tra i
più alti rappresentanti della musica industriale. E la voglia di mettersi in discussione,
confrontandosi con un giovane gruppo misconosciuto, rende ancor più merito
all’artista milanese, che tra l’altro continua a produrre dischi con sorprendente
regolarità, a testimonianza di quanti argomenti intenda ancora sviscerare prima di
giungere al traguardo dei trent’anni di carriera. “Arkaeo planum” è un album cupo ed
introverso che al rumore caotico e virulento preferisce sinistri movimenti minimali. Le
sue trame, tessute su campionamenti ed embrionali accenni armonici, creano
atmosfere oscure e nebbiose, solo a tratti sferzate da incisivi stridori metallici che
squarciano la densa coltre sonora, senza tuttavia lasciar traspirare luce alcuna. È la
rappresentazione di una realtà affetta da un male incurabile che, per quanto provi a
dimenarsi energicamente, non riesce ad uscire dal tenebroso incubo in cui è stata
relegata (www.smallvoices.it).
Fabio Massimo Arati
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Mauve
Sweet Noise On The Sofa
Canebagnato
La corsa della Canebagnato continua con il folgorante esordio dei Mauve, trio di
Verbania formato da Carlo Tosi e Alberto Corsi alle chitarre ed Elda Belfanti alla
batteria. Post-rock quando pensavi che il post-rock non avesse più niente da dire.
La cartella stampa parla di Sonic Youth, Mogwai e la paternità ideale di Miles Davis.
Tutto giusto e tutto sbagliato. Sono influenze che si sentono, certo, ma più di Miles
Davis parlerei di John McLaughlin e del suo chitarrismo liquido che ha ispirato le
trame dell’opening-track che del jazzista porta il nome. Citerei l’etereo vagare nei
territori degli Slowdive e delle distorsioni che strizzano l’occhio allo shoegaze di
“Keep Me Warm”. E non finisce qui. Sono solo quattro schegge sonore piene di
fascino che la musica strumentale non ci era più riuscita ad offrire. Insomma, oltre ai
due brani sopracitati bisogna ricordare il dinamismo di “Mauve Paranoid”, che
prende quanto di buono fatto dalle formazioni post-rock per approdare laddove gli
Yo La Tengo hanno dimostrato di poter arrivare in dischi come “I Can Hear The
Heart Beat As One” e il fascino mesmerico di “Autumn Leaves”, paradossalmente
molto più vicino a formazioni nostrane come Giardini di Mirò (si riprenda “Punk…
Not Diet!” per un breve ripasso). Il tutto tenuto assieme da una personalità
consapevole dei propri mezzi che rende “Sweet Noise On The Sofa” un disco da
scoprire e assaporare, così come gli altri numeri del catalogo di quella che è forse la
miglior etichetta uscita dall’antro bulimico del paese negli ultimi sei mesi (
www.myspace.com/feelmauve).
Hamilton Santià
Montecristo
Montecristo
Sleeping Star/Goodfellas
Uno prende in mano il debutto dei Montecristo e immediatamente vede che è
co-prodotto dalla band e da Tony James. Sì, proprio il bassista dei Generation X. Il
che, viene da pensare, è una credenziale non da poco, almeno fino a quando non ci
si ricorda che il musicista inglese era anche la mente dietro i Sigue Sigue Sputnik, e
allora il sorriso si trasforma in una smorfia. Nessun timore, però, perché fin dai primi
secondi dell’iniziale “Cease & Desist” ogni preoccupazione viene fugata a suon di
rock’n’roll, di quello più puro e incontaminato. Un calderone fumante in cui
mescolare influenze hard e atmosfere glam, schegge di rabbia punk e fango di
strada, tra riffoni potenti e ritmiche incalzanti. Così per tutta la lunghezza del disco il
quartetto capitolino ci trasporta in vicoli illuminati male e frequentati anche peggio,
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all’angolo con locali dalla clientela lasciva e pieni di ragazze discinte ma col
serramanico nascosto nel bikini. Del resto, titoli come “Shake Your Bones”, “Devil’s
Do” e “French Kill” non lasciano adito a dubbi: questa è musica che diverte, sì, ma
che non fa prigionieri; anche se a dire il vero qualche episodio – tipo l’inquietante
“I’m A Wheel” – avrebbe potuto essere asciugato nel minutaggio. A rendere il tutto
meno monolitico, poi, ci pensano la ballata acustica “Part Time Loser” e, soprattutto,
una “Loader” che appoggia su un tappeto di chitarre shoegazer una linea melodica
sognante e quasi romantica, frutto degli sforzi congiunti del cantante Emiliano e di
Matilde De Rubertis degli Studiodavoli (dai quali la formazione romana prende in
prestito anche le tastiere di Gianluca, presenti in cinque brani su dodici). L’ennesima
riprova di come la scena r’n’r della capitale stia godendo di una salute invidiabile (
www.montecristorocks.com).
Aurelio Pasini
Pennelli di Vermeer
Trame dannata
Sintesi 3000/Self
I napoletani Pennelli di Vermeer definiscono la loro proposta “rock pittorico”:
descrizione che, dopo avere ascoltato i cinque brani contenuti in questo EP di
esordio, ci pare decisamente appropriata, anche al di là degli ovvi rimandi alla
ragione sociale scelta. La loro è infatti una musica che mescola umori e generi allo
stesso modo in cui un pittore mescola i colori per ottenere le sfumature più varie: ci
sono istanze cantautoriali, c’è uno spruzzo di ritmiche in levare, ci sono spezie
orientali, c’è persino un poco di hard rock; ma soprattutto c’è tanto, tantissimo
progressive: nelle forme, nei riff suonati all’unisono da tastiere e chitarre, nel ricorso
continuo a un certo tipo di sonorità (synth, organi), nei repentini cambi di tempo,
nella struttura aperta delle composizioni. Richiami formali che però sottendono ben
altro, ché il quintetto non si è limitato a riprendere l’esteriorità del prog, ma ne ha
ereditato anche lo spirito avventuroso, il coraggio di lanciarsi nel vuoto senza rete di
protezione, con il rischio schiantarsi miseramente al suolo sotto il peso delle proprie
ambizioni. Pericolo che fortunatamente la formazione sa evitare, riuscendo nel non
facile compito di mediare con l’istinto un approccio di per sé improntato sulla
cerebralità. Il che in un certo senso li avvicina ai Mariposa, con però meno ironia
surreale e una maggiore propensione alla teatralità. Un buon inizio, dunque, specie
per quanto riguarda i brani autografi (con menzione d’onore per “Onde” e il suo
liberatorio coro finale), mentre convince un po’ di meno la cover di “Princesa” di
Fabrizio De André, in cui un’ecessiva enfasi finisce per attenuare almeno parte della
drammatica intensità dell’originale (www.ipennellidivermeer.it).
Aurelio Pasini
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Periferia Del Mondo
Periferia Del Mondo
ElectroRomantic Music
Guidati dal musicista e cantante Alessandro Papotto (da tempo anche nella line-up
del Banco del Mutuo Soccorso) e attivi da ben undici anni, i romani Periferia del
Mondo, appartengono alla stirpe dei “progressivi”: quel genere di gruppi costretto a
pagare pregiudizi e risatine di scherno da una certa critica che considera vetusti
questi suoni, salvo rivalutarli se ne scovano inserti in realtà di tendenza (magari
Mars Volta, magari Muse o Porcupine Tree). Difesa d’ufficio a parte, il sestetto
capitolino dimostra di avere lucidità e talento sufficienti per guadagnare la stima sia
di chi questo genere lo ama incondizionatamente, peccando spesso di senso critico,
sia di chi cerca invece oltre alla qualità anche qualche lieve traccia di innovazione,
seppur circoscritta all’interno dei canoni del mondo prog. I segnali di una crescita,
rispetto all’esordio “In ogni luogo, in ogni tempo” e al successivo “Un Milione di voci”
(gratificato da ospiti importanti come “Big” Di Giacomo e Mauro Pagani), sono
documentati da una maggiore versatilità di scrittura, disseminando nelle dieci tracce
inserti di jazz soffuso e soprattutto ambizioni etniche, che esplodono nei quasi nove
minuti della variegata “Suite mediterranea”, autentico caleidoscopio di sonorità solari
e danzanti. A fronte della maturità di “Oceani”, dell’apertura che omaggia album e
band, o il rock crepuscolare di “Synaesthesia”, dobbiamo registrare anche due pezzi
poco edificanti quali “Charoscuro” e “Angeli infranti”, che paiono più un telaio per il
testo che autentiche canzoni. Il riscatto è immediato, infatti le due bonus-track
(rispetto alla affascinante versione in vinile, un classico per la band), sono tra le
cose più seducenti e dell’intero album (www.periferiadelmondo.it).
Gianni Della Cioppa
Rio
Terra Luna e Margarita
Riserva Rossa/Warner
Benedetti, ma non protetti da Luciano Ligabue, questi Rio annoverano come
chitarrista il di lui fratello Marco, ma – e poi chiudiamo, per sempre, la cosa qui – le
assonanze terminano solo alla parentela. Dopo un primo assaggio di otto brani con
un mini-CD, a distanza di due anni, il quintetto replica con questo album: sempre
breve (solo dieci tracce), senza grossi mutamenti strutturali, ma con una maturità di
scrittura più solida, acquisita anche in numerosi concerti, dove appare una base più
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ruvida di quella che si ascolta in studio. Se il chitarrista si dimostra buon
compositore di rock song classiche, con qualche intuizione degna di attenzione e
gradevoli innesti di pop, è la voce di Fabio Mora il terminale d’eccellenza, un vero
interprete di razza. Scorre adrenalina con il trittico d’apertura: si parte con gli inserti
elettronici della movimentata “Margarita”, segue il refrain conturbante della nota
“Come ti va” e infine “Alice”, posseduta da un riff granitico. Quindi è la volta de “La
vita è perfetta” con omaggi al Messico, posto che la band ha individuato come luogo
ideale del sogno e della fuga, da qui la creazione della zona di raduni e incontri
Hotel Mariachi. Ed ancora “Scossa”, puro hard rock, l’intrigante r&b di “Tutto in una
notte” e “Luna”, che confermano i Rio come un gruppo in crescita, nonostante le
liriche siano dirette ad un pubblico post-adolescenziale. Due le ballate: l’intima “Il
movimento dell’aria” e la splendida “Dimmi”, munita di un’immagine straordinaria,
quella di due amanti si coccolano e lui le chiede “…soffiami addosso”. Fantastico (
www.rio.it).
Gianni Della Cioppa
Sintica
Sintica
Fluidi-CNI/Venus
Un esordio che arriva dopo una lunga e fruttuosa gavetta, quello dei torinesi
Sintica. Dal 2002 a oggi infatti il sestetto ha partecipato con successo a numerosi
concorsi in ambito nazionale, pubblicando anche un pugno di singoli (tra i quali una
cover di “Jesus To A Child” di George Michael, i cui proventi erano destinati alla
LILA) e mettendo in scena una originale quanto fruttuosa strategia di promozione,
con tanto di concerti nelle vetrine dei negozi di dischi. Tutto ciò per dire che questo
omonimo esordio sulla lunga distanza non rappresenta soltanto un punto di
partenza, ma anche un sunto di quanto fatto finora, come testimonia la presenza
nell’elegante confezione di un DVD contenente filmati e videoclip. Un’attenzione per
i dettagli che si riflette in una proposta musicale curata fin nel più piccolo particolare,
frutto di un lavoro produttivo di tutto rispetto, all’insegna di un electro-pop sotto molti
aspetti debitore della lezione dei Subsonica. Come i loro più noti concittadini, anche
i Sintica cercano e trovano un compromesso tra sonorità e groove elettronici, fisicità
rock e melodie a presa rapida, condendo il tutto con una discreta dose di
drammaticità che però non sfocia mai nell’enfasi gratuita. Ibridando e facendo
compenetrare i suddetti elementi, la formazione piemontese dà così vita a canzoni
indubbiamente solide ma talvolta ostacolate proprio dalla evidente vicinanza (anche
nelle linee vocali) con quanto proposto da Max Casacci e soci (www.sintica.com).
Aurelio Pasini
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The Rippers
Tales Full Of Black Soot
Screaming Apple
Potrà sembrare strano, ma le migliori realtà garage e r’n’r nostrane provengono da
una terra come la Sardegna: basta pensare a gruppi come Hangee V, Tunas, Gods
Of Gamble e Rippers. In questa sede ci occuperemo, in particolare, di questi ultimi:
quattro scatenati sardi, che ci tengono a mantenere nascosta la loro identità e sono
già considerati dalla stampa specializzata la migliore garage band europea. Hanno
alle spalle una manciata di singoli, l’omonimo LP uscito nel 2003 per la tedesca
Screaming Apple, la ristampa nel 2005 di quell’album con l’aggiunta dei primi tre
singoli, per arrivare fino al recente e strepitoso “Tales Full Of Black Soot”, nel quale i
nostri “squartatori” lasciano inalterata l’essenza del loro sound, nella sostanza, una
rilettura anfetaminica, selvaggia e primitiva del garage dei Sixties. Brandelli di
brutale rhythm’n’blues, squartati da un crudo approccio garage, unito a un’autentica
attitudine punk: una voce sguaiata e nasale, un’armonica esagitata e incontenibile
(Ripper IV), chitarre sporche e grezze (Ripper III), un drumming furioso e potente
(Ripper I) sono gli ingredienti di base della musica incendiaria e senza tempo dei
Rippers. Un gruppo che ha mandato a memoria l’intera raccolta “Back From The
Grave” e ricalca le orme di band seminali come Pretty Things, Shadows Of Knight,
Sonics, Gravedigger V, Morlocks, Tell-Tale Hearts. L’album in oggetto allinea tredici
infuocati episodi di grezzo e incontaminato Sixties punk, tra i quali segnaliamo il
selvaggio r’n’b di “I Would Mistreat You” e le scatenate “She Doesn’t Believe Me” e
“My Black Light”. Se volete farvi un bel ripasso di garage e musica affine, andate a
lezione dei Rippers (www.myspace.com/therippersinaction).
Gabriele Barone
The Valentines
Hot Numbers
Tre Accordi/Self
Che sia la volta buona? Eh si, perché i Valentines sono una formazione a dispetto
di un paio di album formidabili non ha finora incontrato i riscontri di (vasto) pubblico
che meriterebbe. E dire che per loro si erano scomodati in passato personaggi del
calibro di Daniel Rey, produttore del precedente “Life Stinks!”. Si ritorna a far quasi
tutto in casa con questo “Hot Numbers”, prodotto da Mars Valentine che è, come
sempre, il motore compositivo del combo bolognese. Un disco che segna un
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ulteriore passo nell'evoluzione dei Valentines: se non possiamo ormai più parlare di
“sorpresa” riferendoci alla voce di Vale – per inciso una delle migliori frontwoman del
Belpaese – è sempre un piacere scoprirla cantare pezzi come “Do You Really
Wanna Die For Me” o “Silicone Smiles”, con le nuove composizioni che smussano le
asprezze rock’n’roll dei precedenti lavori e concedono maggiore spazio alle melodie.
Nessuna abiura del passato, quanto piuttosto una crescita naturale volta a definire il
“suono Valentines” nella sua interezza. Un sound che si è sfaccettato, capace di un
pezzo mid-tempo come “The Paradox” oppure della quasi-ballad “Main Deadhead”,
un filotto di due brani che da soli giustificherebbero tutto il bene fin qui detto. C'è
poco da fare: da queste parti si continua a tenere incrociate le dita sperando che
qualcuno si accorga di loro, e “Hot Numbers” sarebbe il biglietto da visita ideale per
l'operazione. E se anche stavolta il treno non dovesse passare non temete: il
prossimo sarà anche migliore di questo (www.valentinesrock.com).
Giorgio Sala
Torquemada
Tales From The Bottle
Insecta
“Tales From The Bottle”, album di debutto dei Torquemada, terzetto di Bergamo,
formato da Alfonso Surace (voce e chitarra), Luciano Finazzi, (voce e batteria),
Davide Perucchini (basso), era il disco che aspettavamo da tempo in Italia: una
violenta mazzata di granitico hard/noise, infettato da insani germi blues e punk,
attitudine garage e suoni selvaggiamente rock’n’roll. Un album esplosivo che ridà
linfa vitale a un genere come il noise rock, che sembrava avesse ormai esaurito
tutta la sua carica propulsiva. I Torquemada, sia ben chiaro, non inventano nulla,
ma sono capaci, come pochi altri gruppi in giro, di canalizzare e calibrare la loro
debordante energia in canzoni che coniugano irruenza e melodia, sudore e
immediatezza rock’n’roll. Il loro rock presenta molte affinità con quello degli One
Dimensional Man, ma, se vogliamo, rispetto a questi ultimi, è ancora più eclettico,
essendo un concentrato di molteplici influenze e stili musicali: dal quadrato
noise/math rock di Steve Albini al brutale ed efferato noisecore/blues degli Unsane
(“It’s Going”), dallo stoner dei Kyuss (“Superrodeo Frog”) al punk/blues di Jon
Spencer (“Infernalcoholic Man”), dal punk-grunge di Nirvana e Mudhoney (“Me & My
Cat”) al crossover dei Rage Against The Machine (“WHO?”). Il disco vanta un’ottima
produzione e riesce a trasmettere tutto l’impatto che i tre hanno dal vivo: ritmi
serrati, voci alcoliche, chitarre sferraglianti e abrasive, una sezione ritmica
potentissima. Con “Tales From The Bottle” siamo certi di poter dire di essere in
presenza di un disco di livello internazionale (www.torquemada.tk).
Gabriele Barone
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Umberto Sangiovanni
Calasole
RaiTrade
Dopo la “Controra”, Sangiovanni ci porta a “Calasole”. L’epopea della stanchezza
che spacca la schiena e avvilisce il cuore. Il percorso che il pianista foggiano segue
è quello dei segni disseminati dal bracciante e sindacalista Giuseppe Di Vittorio, uno
che si onorò di appartenere ai cafoni della terra riarsa dei lavoranti cerignolesi.
L’altro lato di Matteo Salvatore, il cantore pugliese qui autore del brano “Don Nicola
si diverte”. Solo che Sangiovanni per il suo omaggio risponde alle proprie corde, che
non sono quelle dell’etno-folk. I canti stremati sono restituiti in versione ricercata,
dando luogo a un singolare ma riuscito ossimoro: da una parte canti tradizionali,
versi di piantagione e sfruttamento che potrebbero essere ossatura di blues da
lavoro. Dall’altra una vestizione jazz, ora calda ora altera, sempre elegante.
“Annammuraru” (Teresa De Sio la propone stabilmente in scaletta) si stempera e si
rarefà, perde il tempo, se lo riprende, descrive inciampi e entusiasmi d’un ritrovato
amore montanaro. “Calasole”, “Craje”, “Maddalena”, “Sole rosso”, sono classici
affidati alla sensibilità della Daunia Orchestra, che li tratta come standard da cui
estrarre risonanze da camera, klezmer, afro. La voce brunita di Rossella Ruini, le
evoluzioni melodiche di Simone Salza ai fiati, la ritmica mossa di Massimo
D’Agostino (batteria) e dell’Aires Tango Marco Siniscalco (basso) sono tenute
insieme dal piano del band-leader (www.umbertosangiovanni.com).
Gianluca Veltri
Zibba & AlmaLibre
Senza smettere di far rumore
Terzo Millennio/Self
Il punto di Zibba è l’emotività calorosa, la capacità di contagiare. Il musicista ligure
ha nel mirino la pancia degli ascoltatori, e la centra, insieme agli AlmaLibre, il
quartetto che lo accompagna, tra l’altro responsabile di tutte le musiche (i testi sono
del cantautore e polistrumentista). L’importante è non smettere di farsi sentire, non
solo per fare rumore come suggerisce il titolo, ma anche per comunicare, usare la
musica come il ponte che unisce i punti e sottrae all’isolamento, laddove altro invece
tenta di dividere. “Margherita”, il pezzo trainante, è uno ska nobilitato dal violino di
Fabio Biale; “La fine di un se” una classica ballatona a banda larga, sballottata tra il
ping pong ritmico di tempi in 6 e in 5, mentre “Nella notte che verrà” è un pezzo che
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scalda, vi si respira un sentire comunitario di “dolci simultaneità”. Folkeggia
caldamente anche “In una notte con solo due stelle”.
“La karimba di Natale” fa parecchio l’occhiolino a Capossela; “Le ultime dee”,
dichiarazione di sensualità, ha chitarre ondeggianti come dune, con ritornello un po’
troppo telefonato, però. Meglio l’ordito in minore della ballad “Neve d’estate”, un
manufatto di note blu che richiama certe armonie di Ligabue, per fortuna con meno
roboanza. “Regalami di te” è il pretesto per un gioco di citazioni spiritose e fulminee
di Stones, Deep Purple, Jethro Tull (“Jumping Jack Flash”, “Smoke on the Water”,
“Burée”). Special jazz stars Dado Moroni e Enzo Zirilli (www.zibba.it).
Gianluca Veltri
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Alessio Bonomo
In attesa di un album vero e proprio, Alessio Bonomo licenzia un EP (non in vendita,
ma disponibile per l’ascolto gratuito su Internet) che definire interessante è dire
poco: “Un altro mondo” (Rossodisera). Solo un quarto d’ora di musica e parole, ma
basta a ingolosirsi. L’idea è quella di un fanta-concept, orbitante intorno al nostro
destino attuale, che si allontana dalla terra (apparentemente) solo per effettuare uno
zoom più puntuale.
“Lettera sulla libertà”, “Strade azzurre” (che instaura un link naturale con il “Pianeta
azzurro” di Silvano Agosti), “Viaggio intorno a una donna” e “Cose strane dallo
spazio” sono il discorso musicale ininterrotto di Bonomo. Tappeto di suoni
subliminali, testi spesso proposti in un parlato ipnotico. L’ultimo pezzo, “Cose strane
dallo spazio”, rappresenta una rilettura libera che il cantautore napoletano
imbastisce attorno alla bowiana “Space Oddity”, a chiudere il cerchio di
un’inquietudine aliena, siderale. I suoni sono rotti, le parole semplici e pesanti come
meteoriti. Abbiamo parlato con Bonomo dell’EP e dell’album imminente.
Cosa ci puoi anticipare del nuovo album? Sarà una versione lunga dell’EP, o
un’altra cosa?
L'album sarà una sorta di concept all'interno del quale i brani e gli argomenti
contenuti nell’EP verranno maggiormente sviluppati e contestualizzati. Potrei dire
che sarà un album che parla del nostro tempo nella misura in cui se ne disinteressa.
Credo sempre più che viviamo in una sorta di realtà virtuale, che ci appare reale
solo perché ci viene confermata e la confermiamo a noi stessi innumerevoli volte. I
personaggi e le storie di cui trattano le canzoni, invece, condividono proprio il fatto di
esprimere tutti un punto di vista altro rispetto alle cose. Musicalmente si è cercato di
creare nei suoni e negli arrangiamenti una sorta di colonna sonora che amplifichi ed
esalti ciò che i testi raccontano.
Sono trascorsi ben cinque anni dal tuo disco precedente. Cos’è successo da
“La rosa dei venti” a oggi?
Dopo aver pubblicato “La rosa dei venti”, per circa un anno ho continuato a
promuovere l'album dal vivo; poi mi sono dedicato ad altro finché non ho scritto
nuove canzoni ed è nata l'idea del nuovo album.
Ti sei rivelato al festival di Sanremo. Sarà possibile rivederti su quel palco?
Cosa ha rappresentato per te?
Potrei tornare al festival se mi fosse data la possibilità come allora di partecipare in
piena libertà. Fu un esperienza emotivamente molto forte. Una volta dissi che
sembrava di essere sul set di un film di Fellini: c'erano nani, ballerine, persone di
tutti i tipi, star internazionali, facce che di solito vedi solo mentre cambi canale con il
telecomando e schiere di ragazzi che chiedevano autografi a chiunque potesse
vagamente sembrare un cantante; poi, a un certo punto, per due minuti e
quarantacinque, si abbassarono le luci, tutto si fermò e io potei cantare di fronte a
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tutti la mia canzone: “La croce”.
A tenerti a battesimo sono stati gli Avion Travel e Fausto Mesolella in
particolare. Cosa hai appreso da loro? Continua (o continuerà) la vostra
collaborazione?
Di loro la cosa che mi ha sempre colpito e affascinato di più è il feeling musicale che
hanno quando suonano dal vivo, hanno la capacità di diventare come una cosa
sola, un’unica macchina anziché un insieme di musicisti. Siamo rimasti amici quindi
capita di sentirci, di incontrarci e a volte anche di collaborare. Con Fausto Mesolella
e Ferruccio Spinetti (contrabbassista degli Avion, NdI) abbiamo scritto e contiamo di
continuare ancora a scrivere quando capita delle cose insieme.
La rilettura di “Space Oddity” di Bowie è personale e ingegnosa. Sei riuscito
a farla pervenire all’autore originario, così come facesti con la dylaniana ”Girl
From The North Country”?
Mi ha sempre affascinato molto questa canzone, mi è venuta voglia di rileggerla a
modo mio in italiano. So che la mia etichetta sta provvedendo a contattare quella di
Bowie, ma non so a che punto sono i contatti.
Napoli ha dato sempre molto alla musica italiana, con ondate successive e
diverse. Oggi secondo te quali peculiarità esprime Napoli musicalmente e
culturalmente?
È difficile dire cosa esprima Napoli oggi. Rispetto al passato le cose sembrano più
confuse e meno facili da decifrare. Ciò di cui sono certo però è che da Napoli ci si
può aspettare in qualunque momento qualcosa di sorprendente. Napoli, infatti, resta
a mio avviso una delle città più vive e vitali al mondo.
C’è un musicista con il quale ti senti confinante?
Non c'è un musicista al quale mi sento confinante, e, in un altro senso ce ne sono
moltissimi. Mi capita di restare colpito dalle cose più svariate e diverse tra loro.
Inoltre c'è da considerare che questo lavoro si avvale del contributo di diverse
persone: Roberto Romano produttore artistico del disco, Matteo D'Incà musicista
con il quale collaboro dal vivo e che ha dato un suo apporto anche al lavoro in
studio, Cristiano Serino che ha curato tutti gli archi e altri musicisti ancora. Quindi le
influenze si moltiplicano ancora, anche se tutto, poi deve convergere in un unico
linguaggio che è quello proprio del disco.
Non ti chiederò come mai hai composto brani per Andrea Bocelli; piuttosto,
come si è svolto il lavoro con lui, che metodo hai usato e come ti sei trovato.
Prima abbiamo parlato di Napoli. Considero la canzone classica napoletana
l'esempio più alto di canzone raggiunto. Quando mi è stato proposto di scrivere per
Bocelli ho pensato a quello, a quel modo di scrivere molto nobile. Proprio con
Fausto Mesolella, per esempio, scrivemmo mentre lavoravamo al mio primo disco
un brano dal titolo Si voltò, una canzone molto delicata che Bocelli interpretò
nell'album “Cieli di Toscana” e che a mio avviso si avvicina a quel modo di scrivere
che citavo prima. Un modo di scrivere diverso da quello che uso per le cose che
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interpreto io stesso, ma che mi appartiene ugualmente. Credo che ognuno di noi sia
una molteplicità e non una cosa sola.
Hai un estimatore speciale, che oltre a essere un cantautore è anche un
professore: Roberto Vecchioni. Che rapporto hai con lui?
Ho conosciuto Vecchioni in occasione dell'uscita del mio primo disco, a lui piacque
molto e mi invitò a presentarlo al DAMS di Torino dove tenne una lezione in cui
analizzava gli aspetti poetici e letterari delle mie canzoni. Fu molto disponibile e
generoso nei miei confronti. Da allora non mi è capitato di reincontrarlo, mi
piacerebbe ricontattarlo adesso per fargli ascoltare le nuove canzoni e sapere cosa
ne pensa.
Contatti: www.alessiobonomo.com
Gianluca Veltri
Bad(Love)Experience
Lo ammetto, non avevo mai sentito parlare dei Bad(Love)Experience, ma appena
ascoltato il loro esordio omonimo (Mabel/Audioglobe) mi sono pentito di non averlo
fatto prima. Il perché è tanto banale quanto efficace: è un bell'album. Un disco in
bilico tra le mille sfaccettature odierne del pop, del punk e del rock. Un lavoro che
mischia molti elementi ed almeno tre decenni di musica per trovare una propria
personalità, come tra l'altro emerge chiaramente nell'intervista collettiva alla quale
abbiamo sottoposto i tre livornesi, che non si sono certo tirati indietro nel rispondere.
Leggere per credere.
"Un disco fresco!", questo ho pensato la prima volta che vi ho ascoltato. Ho
forse capito male le vostre intenzioni? Com'è venuto fuori?
Abbiamo cercato di mettere insieme tutte le idee che avevamo, partendo dai suoni
fino al modo in cui registrare i pezzi. A livello di registrazione ad esempio abbiamo
effettuato una microfonazione impostata parecchio sul suono d'ambiente,
sistemando i microfoni nei vari angoli della stanza. I riverberi ottenuti ci hanno
permesso di avere un suono un po’ più live ma ben poche possibilità di usufruire
della tecnologia per correggere gli errori di esecuzione dei pezzi a posteriori.
Abbiamo affrontato quasi tutte le take registrando le basi insieme in presa diretta,
cercando di trasmettere maggiore carica e spontaneità, quasi come in un live.
Nonostante ciò, siamo stati attenti a non trascurare i vari dettagli e arrangiamenti
sovraincisi in seguito. Inizialmente la nostra paura era quella di fare la figura dei
"cani sciolti" in un momento in cui il pop-punk in italia si sta orientando sempre più
verso super produzioni. Alla fine invece pare che i più abbiano capito le nostre
intenzioni e questa per noi è una delle più grandi soddisfazioni. Forse questa
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freschezza a cui fai riferimento deriva anche da questo.
Suonate da parecchio tempo assieme eppure solo adesso arrivate al primo
disco: è capitato oppure la scelta era voluta?
Abbiamo sempre visto la realizzazione del primo disco come un passaggio
importante; fino a quando registri demo su demo riesci a dare solo una parziale idea
di quello che sei, non ti metti in gioco né ti esponi. Un disco invece ti rappresenta
completamente, si sente quello che pensi, quello che ascolti, quello che sei (o
almeno così dovrebbe essere). Non abbiamo mai dato per scontato tutto ciò,
volevamo essere sicuri noi in prima persona di quello che eravamo...
Vi muovete in un territorio difficile da catalogare: probabilmente per il
punkers medio siete "troppo pop" e il fan dei Franz Ferdinand vi giudica
troppo duri... voi come vi sentite? Quali ascolti vi hanno influenzato
maggiormente?
Ci muoviamo in un territorio che da oltre cinquant’anni si chiama semplicemente
rock’n’roll, poi dentro puoi metterci le sfumature che vuoi, mescolare le carte, ma
l’essenza non cambia. Kinks, Who, Clash, Jam, Sonics, Beatles, insieme ad altri
come Ted Leo and the Pharmacists, Pixies, Johnny Cash, Police, Elvis Costello,
Small Faces, Buzzcocks, Graham Coxon, Green Day, sono state le nostre maggiori
influenze. Ci metterei anche gruppi nostrani come Forty Winks, Manges, Vanilla
Sky, Peawees tra i nostri ascolti. Non ci piace essere etichettati, anche se ci
rendiamo conto che è quasi impossibile. Quello che stiamo cercando è un sound dei
Bad[love]Experience; nessuno inventa niente nel 2007 ma tutti possono provare ad
avere una propria identità, qualcosa che sia solo loro. Il fatto che tu ci definisca
difficili da catalogare può significare che già qualche passo lo abbiamo mosso! Non
siamo né troppo pop né troppo duri, siamo noi e basta. Il “troppo” esiste solo in
rapporto a delle regole che fanno gli altri per te, la musica è libera, le regole
lasciamole nelle scuole.
Dando un'occhiata alle recensioni la stragrande maggioranza parla bene di
voi: questo si è tradotto in un qualche interessamento o nell'era del download
selvaggio questo non conta più niente?
Le recensioni stanno andando abbastanza bene e questo non ci fa che piacere, in
un modo o nell’altro sembra che il disco venga apprezzato. Per quanto riguarda il
“download selvaggio”, beh cercare di opporvisi nel 2007 sarebbe triste ed
anacronistico, poi sinceramente a un gruppo come il nostro il download può solo
dare maggiore visibilità e quindi produrre anche più interessamento di quanto non
facciano le stesse recensioni. I ragazzi che vengono ai concerti continuano
comunque a comprare i dischi se il gruppo piace, sanno di supportare la scena con
il loro contributo e sanno che quei soldi spesi non serviranno certamente ad
arricchire il gruppo (ai nostri livelli molto spesso pieno di debiti). Comunque sia, tra
recensioni e download selvaggio abbiamo notato una maggiore attenzione nei nostri
confronti, nel senso che le cose sembrano iniziare, molto lentamente, a muoversi.
Fra poco partità una distribuzione per il disco in Italia e abbiamo inziato a lavorare
con un management che sta curando varie date italiane ed estere.
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Com'è far musica a Livorno? A vederla da fuori non sembra poi così male...
Livorno pur essendo una città relativamente piccola è molto attiva dal punto di vista
musicale, ci sono un sacco di band di generi più disparati. Cogliamo l'occasione per
farti qualche nome: Appaloosa, Le Gorille, 7 Years, Chromosomes, Egon, The
Walrus, Lip Colour Revolution, 5 Impossible Dreams, Taster's Choice sono alcune
delle realtà che caratterizzano il panorama musicale della città e variano dallo
sperimentale al metal passando per punk e derivati. Il pubblico medio cittadino è
molto selettivo, giudica molto, stimolandoti sempre nel cercare di dare il massimo.
Toglietemi una curiosità: come mai coverizzare gli Who? Non me l'aspettavo
davvero... e m'ha fatto molto piacere!
Abbiamo voluto coverizzare gli Who perché sono uno di quei gruppi che ci ha
influenzato moltissimo. Siamo dei grandi fan della band di Townshend e soci, non
solo per quel che riguarda i primi dischi, di cui spesso si sono sentite cover
punk-rock in giro, ma anche della fase più sperimentale post-mod. “Tommy” in quel
periodo girava in continuazione nei nostri stereo e così ci siamo decisi a farne una
cover. “Go To The Mirror” è stato il brano scelto sia perché si è adattato bene al
nostro suono, sia perché nel film di Tommy è cantato da un giovanissimo Jack
Nicholson!
Contatti: www.badlovexperience.com
Giorgio Sala
Cheap Wine
"Freak Show" (Cheap Wine/Venus) ci riporta la meravigliosa creatura pesarese dei
Cheap Wine e ce la mostra in ottima forma. È un disco solido e ruvido, aggressivo
ma non per questo insensibile. Un disco che segna anche i dieci anni di attività del
gruppo autoprodotto più longevo d'Italia. Un caso abbastanza atipico di cui abbiamo
indagato assieme a Marco Diamantini, voce e chitarra della band.
Oltre ad essere il vostro nuovo disco, "Freak Show" è anche pubblicato a
dieci anni dalla vostra prima uscita ("Pictures"). Come giudichi l'esperienza
del gruppo fino ad ora? Che aspettative avevate quando avete cominciato e
ora dove pensate di "andare"?
La storia dei Cheap Wine è fantastica ed è un miracolo. Non è facile trovare le
parole giuste per descrivere quello che ci ha dato e che continua a darci questa
band. La musica è la nostra grande passione e siamo riusciti a costruirci un
percorso artistico di cui siamo molto orgogliosi, superando con grande
determinazione tutte le difficoltà che abbiamo incontrato. Abbiamo un pubblico
meraviglioso, capace di trasformare in una grande festa ogni nostro concerto.
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Numero Marzo '07
Personalmente, i Cheap Wine mi hanno salvato la vita e continuano a farlo ogni
giorno. Dove pensiamo di andare? Vogliamo semplicemente continuare a suonare
le nostre canzoni e a raccontare le nostre storie.
La scelta dell'autoproduzione tout-court resterà una vostra costante? Come
mai questa decisione così radicale? Cosa pensate di tutti quei gruppi e artisti
(come Graziano Romani) che condividono questa filosofia?
Il nostro CD d’esordio “Pictures” uscì con la Toast e non fu una bella avventura. Da
quel momento decidemmo che, in mancanza di proposte davvero serie, saremmo
andati avanti con l’autoproduzione e l’autogestione. Da allora, proposte serie non
sono mai arrivate. E noi non siamo mai stati ad aspettare e mai lo faremo: andiamo
avanti con il nostro progetto, nella massima libertà e indipendenza. Indipendenza
vera. Di Graziano Romani abbiamo grande rispetto: lui, come noi, ha scelto di
suonare quello che gli piace, come gli va, senza condizionamenti. È sicuramente il
modo migliore per mantenere la propria integrità artistica.
La consigliereste anche a chi si sta addentrando in questo mondo? Spesso le
etichette propongono condizioni vantaggiose solo per loro e non per l'artista...
Certo! Lo consigliamo con forza alle nuove band, però con l'avvertimento che
bisogna lavorare molto duramente e con grande costanza. Ricevo parecchie
telefonate da gruppi appena formati che mi chiedono come fare per ottenere
attenzione e visibilità: la risposta è che non si può pensare solo a suonare ma ci
sono molti altri aspetti che vanno curati e senza motivazioni fortissime è impossibile
andare avanti. È un lavoro molto impegnativo e noi facciamo tutto da soli. Internet,
in questo, è molto utile. Il nostro sito è ben curato e abbiamo una mailing list
piuttosto vasta. È importante tenere aggiornati i fan e gli organi d’informazione
sull’attività della band. Credo che il caso dei Cheap Wine sia unico in Italia: non
penso esistano altre band con una storia di dieci anni di autoproduzione e
autogestione. È dura, ma così ci garantiamo la massima indipendenza e libertà
artistica, senza condizionamenti di nessun tipo. E in questo è importante anche il
ruolo della Venus che distribuisce i nostri CD nei negozi
Come evidenziato in sede di recensione, "Freak Show" è più monolitico
rispetto agli altri dischi. Molto più compatto, ruvido e fisico. Come mai avete
deciso di alzare il volume e diminuire le varianti più puramente psichedeliche
dei vostri dischi precedenti? Voglio dire, è stato voluto o é venuto tutto così
per pura coincidenza?
È nato tutto molto spontaneamente, come del resto era avvenuto per i dischi
precedenti. Non calcoliamo mai nulla, non ci poniamo mai degli obiettivi prestabiliti.
Le canzoni sono sgorgate così, in maniera naturale: evidentemente, avevamo
bisogno di esprimere quel tipo di energia e sonorità piuttosto aggressive.
Leggendo la vostra newsletter, sembra che il disco sia stato accolto bene
ovunque. Come si trova un gruppo come il vostro, legato ad una tradizione
così estrema dal nostro paese e così "fuori moda" anche per i canoni di certo
underground, a girare in lungo e in largo per l'Italia?
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Non ci siamo mai posti il problema. Tutte queste menate sul genere, tutte queste
etichette che vengono escogitate dai giornalisti ci lasciano indifferenti. "Post" - "pre"
- "emo" - "alternative" - "bim-bum-bam" sono tutte stronzate. Così come la
presunzione di distinguere roba "vecchia" da sonorità "nuove" o "originali". Cazzate.
Esistono solo due tipi di musica: la buona musica e la cattiva musica. Il resto sono
cazzate. E noi siamo una rock'n'roll band che non si è mai preoccupata di seguire
mode o tendenze. Ce ne freghiamo di quello che è "in" per "certo underground".
Vogliamo semplicemente suonare quello che abbiamo nell'anima, quello che ci
emoziona, quello che ci piace. Questo è lo spirito con cui affrontiamo tutti i nostri
concerti. Siamo indipendenti da tutto, anche dai dettami dei cosiddetti "alternativi".
Oltre a fare concerti in giro per l'Italia per promuovere il disco a cosa state
lavorando? Ho letto di tre concerti in Olanda. Com'è la situazione all'estero?
Parlando con altre band, sembra che nel nord - sopratutto in Germania, ma
anche Belgio e Olanda - ci sia molta più attenzione nei confronti della musica
rock, senza razzismi di sorta dovuti al fatto che, nel nostro caso, si sia italiani.
Mi ricollego alla risposta precedente. All'estero ascoltano la musica senza
preoccuparsi della nazionalità di chi la suona, né di quelle seghe mentali sui generi.
Io, quando inserisco un cd nel lettore, mi chiedo se mi piace o no quello che sto
ascoltando: non mi chiedo se è "post" o "pre", se è "in" o "out", se è americano o
bulgaro, ma solo se mi piace o no. Questo fanno all'estero ed è per questo che
sanno distinguere molto meglio la qualità dalla spazzatura. Tantissime radio negli
Stati Uniti, in Inghilterra, in Olanda, in Belgio, in Germania e in Australia trasmettono
le nostre canzoni e non si curano certo della nostra nazionalità. Per loro conta la
musica. Finché questo non succederà anche da noi, l'Italia resterà un Paese
sottosviluppato dal punto di vista della cultura musicale.
Contatti: www.cheapwine.net
Hamilton Santià
Intellectuals
Esiste a Roma una fertile scena underground d’impronta garage, punk e rock’n’roll.
Basta citare qualche nome: Taxi, Transex, Cactus, Motorama e, per quel che ci
riguarda più da vicino, gli Intellectuals. Grazie all’apporto di Tina, chitarrista delle
Felt Ups, gli Intellectuals sono diventati adesso un terzetto e ritornano in pista con
un devastante ed esplosivo secondo album, “Invisible Is The Best” (Hate/Dead
Beat). Registrato in soli quattro giorni, allinea quattordici canzoni deliranti, selvagge
e urticanti, che tengono sempre accesa la fiamma del migliore lo-fi trash
garage-punk-blues esistente qui in Italia. Ne abbiamo parlato con i diretti interessati,
Francesco ed Elena, rispettivamente chitarra e batteria della formazione romana.
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Numero Marzo '07
Entriamo subito in tema. Come sta andando il vostro nuovo album? Perché
avete deciso di stamparlo su due etichette differenti, la versione in vinile con
la romana Hate Records, quella in CD con la Dead Beat Records di Cleveland?
Elena: Non lo abbiamo deciso a priori. Come sempre, cerchiamo di produrre un
certo numero di demo prima; quando abbiamo un certo numero di canzoni le
facciamo sentire ai nostri amici Chicca e Giggi di Hate, se gli piacciono le stampano.
Il tipo di Dead Beat ci ha scritto ricoprendoci di complimenti assurdi ed era
fortemente intenzionato a stampare qualcosa in America, contemporaneamente alla
Hate. Aveva intenzione di fare solo il vinile (che poi è il nostro supporto preferito),
così abbiamo preso la palla al balzo e abbiamo proposto di fare il CD a Dead Beat.
Francesco: Per ora non so come vanno le vendite, ma i responsi sono quasi tutti
positivi, ci sono state tante buone recensioni.
Rispetto al primo album “Black! Domina! Now!” va segnalato un allargamento
della formazione dall’originario duo a terzetto, con l’entrata di Tina dietro le
tastiere. Perché avete aggiunto un terzo elemento?
F: Anzitutto diciamo che le tastiere erano presenti in molte canzoni anche sui dischi
precedenti, perfino sul nostro primo singolo c’erano due canzoni su quattro con la
tastiera. Insomma, è uno strumento che ha sempre avuto una parte nel nostro modo
di suonare; certo, adesso è un po’ più importante e presente, ma non credo abbia
cambiato il nostro stile. Abbiamo scelto di allargare la formazione per diversi motivi,
dal vivo volevamo che pezzi come “Fish’n’Chips” suonassero come sul disco. C’era
poi una questione di vita del gruppo: dopo 5-6 anni solo in due, avevamo bisogno di
cambiare aria. Così ad un certo punto ci è sembrata una buona idea far entrare
un’altra amica nel gruppo… E poi Tina è fenomenale e nessuno suona una singola
nota come lei!
La vostra proposta, però, non cambia nella sostanza. Si tratta della solita
urticante e selvaggia miscela a base di punk ’77, rock’n’roll, blues, Sixties
garage, con sonorità tipicamente lo-fi. La musica degli Intellectuals è ormai
diventata un vero e proprio marchio di fabbrica, facilmente riconoscibile al
primo ascolto. Confermate?
F: Penso proprio di sì, quelli sono i punti di riferimento principali, e credo che
rimangano riconoscibili ascoltando anche questo nuovo disco. Il tutto però va rivisto
in chiave Intellectuals, così inseriamo sempre qualcosa che non sia troppo scontato,
ma che provenga dai nostri gusti e sia legato al nostro modo di fare. Per esempio,
qualche giorno fa stavamo provando un pezzo nuovo che canta Elena, è una sorta
di r’n’b/punk molto semplice e diretto. Poi Tina ha aggiunto uno strano giro di
tastiera improvvisato, che lo ha reso oscuro e drammatico, però senza forzature
dark: è diventato subito una cosa diversa, meno catalogabile. Ecco, queste piccole
sfumature ci fanno impazzire, anche se a notarle non sono in tanti.
L’album contiene tre cover: “White Light/White Heat” dei Velvet Underground,
“Identity” degli X-Ray Spex e “Never Understand” dei Jesus And Mary Chain.
Come mai questa scelta?
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F: Ci piacciono cose molto diverse. La cover dei Velvet Underground è nata per
gioco: dovevamo partecipare ad una festa di Halloween impersonando un gruppo
storico e noi scegliemmo i Velvet Underground, perché li riteniamo fondamentali,
esageratamente stilosi e con canzoni come non se ne sono mai sentite. La festa
andò bene e rimase questa cover. Jesus And Mary Chain, perché io ed Elena
veniamo da quegli anni là: nel 1987 scoprire quel disco fu decisivo. “Identity” è
semplicemente una grande canzone con una stupenda voce femminile di uno dei
gruppi che amiamo di più del ‘77. Quindi alla fine scegliamo le cover anche in
maniera affettiva.
Tra i vostri ascolti vi sono i dischi targati In The Red, Crypt e Rip Off, tre
etichette chiave per comprendere il punk/lo-fi americano degli anni 90. Siete
stati anche molto influenzati dai Bassholes, con cui avete pure suonato. Avete
avuto l’occasione di conoscerli personalmente? Che tipi di persone sono?
F: Fantastici. Don Howland ci ha scritto da poco e speriamo di rincontrarci per
qualche concerto insieme. Sono tutte persone (anche Jeffrey Evans) che forse non
si rendono neanche conto di quanto sono importanti per noi. Quella sera abbiamo
diviso il palco, parlato un po’, scambiato dischi… è stato grande.
Elena, la vostra batterista, prima è stata batterista delle Bambine Cattive e
poi, tra il ’96 e il 2004, cantante delle Motorama. Perché ha deciso di
abbandonare le Motorama, il cui debut-album era stato accolto
entusiasticamente dalla stampa specializzata?
E: È una storia semplice come tante altre: Laura e Daniela sono ancora mie care
amiche, nonostante la separazione. Le Motorama hanno continuato molto bene
anche senza la loro front-girl: ho preferito tornare dietro la batteria continuando a
cantare!
“Invisible Is The Best” prende spunto nel titolo da un film di Joe Dante,
“Donne amazzoni sulla luna”. Cosa vi piace di questo regista?
F: La sua attitudine smitizzante, è un film divertente, ci piace tantissimo ridere e quel
film è micidiale per come colpisce certi luoghi comuni, ma non è che siamo grandi
fan, certe cose nascono casualmente. Avevamo in mente di usare quella frase da
tanto tempo, ha quel tono non-sense che si adatta a noi alla perfezione. E poi, per
un sacco di gente noi siamo invisibili!
Quali tra i dischi che avete ascoltato di recente vi hanno maggiormente
colpito?
F: Leather Uppers, Wooden Tit, Normals, Wipers, Time Flys, i live LP dei Reigning
Sound.
Quali sono i vostri progetti imminenti?
F: Tour in Francia e Spagna con i nostri amici Normals, con i quali stiamo
progettando uno split-LP. Sicuramente andremo a registrare a Strasburgo da Seb
Normal, visto che le canzoni nuove già ci sono.
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Contatti: www.myspace.com/theintellectuals
Gabriele Barone
Kech
Spigliati e sbarazzini come la loro musica, i Kech hanno pubblicato un freschissimo
terzo album. "Good Night For A Fight" (Black Candy/Audioglobe) prende un po' le
idee migliori finora espresse dalla band lombarda e le porta verso una nuova forma
di pop. Abbiamo parlato di tutto questo con Giovanna e Pol, rispettivamente voce e
chitarra del quintetto, tra Milano e New York.
Per il terzo disco avete deciso per un approccio "casalingo". Avete registrato
tutto per conto vostro. Come mai? Volevate prendervela con comodo ed avere
tutto il tempo a disposizione? Per quanto si sono allungate le registrazioni?
Pol: Sì. Un po' per la comodità di disporre a nostro piacimento del tempo, bene
prezioso quando la musica è solo un hobby da affiancare al lavoro. Le registrazioni
sono iniziate verso lo scorso aprile e si sono protratte fino a novembre 2006. Non
siamo stati come gli Strokes che hanno registrato "Is This It" in una settimana ma
neanche come i Guns N'Roses che ci hanno messo undici anni per "Chinese
Democracy". Diciamo una ragionevole via di mezzo...
Giovanna: L'idea di poter avere i nostri tempi ci piace assai, anche perché
lavoriamo e i tempi sono spesso quelli che sono. Poi se una sera sei stanca o se la
voce non é al massimo, non sei obbligata a registrare perché hai pagato uno studio.
Poi però c'è davvero il rischio di metterci una vita e non finire mai. Ma tutto sta nella
ragione e misura.
Anche questa volta non avete usato produttori esterni. Come mai avete
sempre deciso di fare voi? Credete che un confronto con una persona fuori
dalle logiche della band non possa aiutare o semplicemente non ci avete mai
pensato?
G: In realtà per "Join The Cousins", il nostro secondo disco, avevamo scelto di
avvalerci di un vero e proprio studio di registrazione. Max Lotti aveva curato
registrazione, mix e produzione, con dei pre-mix di Paolo Mauri (già collaboratore di
Afterhours, La Crus e molti altri, NdI). Per questo nuovo lavoro in realtà volevamo
fare dei provini noi con Tommaso (bassista della band, NdI) e poi decidere come
registrare. I provini ci sono piaciuti e abbiamo continuato su quella strada e siamo
soddisfatti.
P: Credo che un produttore debba conoscere bene il gruppo che si accinge a
produrre. Deve avere delle intuizioni che diano qualcosa in più alle canzoni che sta
registrando, altrimenti limita le sue mansioni a quelle di fonico. E noi "in casa"
avevamo già Tommy, che è bravo e ci sgrida sempre quando non accordiamo le
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chitarre e non suoniamo a tempo.
"Good Night For A Fight" sembra più compatto dei precedenti lavori. Si sente
una maturazione e anche il suono degli strumenti pare migliorato molto. È
cambiato qualcosa rispetto al passato o si sono solo aggiunti chilometri
macinati per strada ed esperienze cui attingere?
P: Direi i chilometri, visto che gli strumenti e gli amplificatori che abbiamo usato per
registrare questo disco sono gli stessi che abbiamo usato per "Join The Cousins".
Fare chilometri fa bene anche perché in furgone si parla tanto. Noi di "Good Night
For A Fight" abbiamo iniziato a parlare quasi due anni fa. Eravamo sulla Cisa,
dovevamo andare a Viareggio e poi da qualche altra parte a suonare e c'era una
coda pazzesca - come sempre prima dei week end - e per ammazzare il tempo
abbiamo iniziato a discutere sulle possibili nuove canzoni. Il disco è nato così. Poi
abbiamo solo dovuto trovarci in sala prove qualche volta a suonare e registrare...
Ecco, i testi. Come nascono? Li scrivete tutti assieme o qualcuno arriva con
l'idea pronta e voi ci suonate sopra? Insomma, per fare tre album in cinque
anni dovete essere molto prolifici.
G: Normalmente scrivo io tutti i testi mentre i ragazzi, invece, pensano alla musica.
Ho delle idee base sul mio quaderno di parole e poi le sviluppo e cerco di capire su
che musica possono stare meglio. Mi piace mescolare esperienze vere a idee o
situazioni inventate. Mi piace anche creare personaggi a volte: in "Tidoung" ce ne
sono tre! Ci sono tante storie che ho scritto ma mai usato e altre canzoni che sono
nate solo da due parole, non c'è mai una regola. Per la prima volta in questo disco
ho scritto qualche canzone, con Nicola ("First Time" e "Good Night For A Fight") e
Tommaso ("Please Don't Say No").
Il raggio sonoro delle canzoni sembra abbracciare più generi musicali. Gli
arrangiamenti sicuramente sono più ricchi - in "Please Don't Say No" ci sono
addirittura i fiati - Credete che questo possa essere collegato al discorso della
maturità o avete cercato di allargare lo spettro per non essere schiavi dei soliti
due-tre pezzi indie-rock?
P: No, non credo che il problema fosse affrancarsi da un modello. Ascoltiamo
moltissima musica e non escludiamo mai nessuno strumento quando pensiamo ad
un arrangiamento. Poi con ProTools è molto facile, avendo piste e possibilità
illimitate. Anzi, quello è quasi un ostacolo, perché poi ti viene sempre la tentazione specie se registri in casa - di affogare le canzoni sotto una valanga di roba per
migliorare il suono. Abbiamo sempre fatto questo errore, e per "Good Night For A
Fight" abbiamo cercato di moderarci. Questo forse potrebbe essere considerata
maturità, certo. A me però la parola "maturità" - parlando di gruppi - piace sempre
poco, perché suona sempre un po' come un epitaffio. I gruppi che arrivano all'ottavo
disco sono maturi. Noi abbiamo fatto tre dischi in cinque anni: al massimo siamo
arrivati alla seconda media...
G: In realtà anche per "Join The Cousins" avevamo registrato parecchi fiati che poi
nei mix abbiamo tolto non lasciato in primo piano, io avevo pasticciato un po' con
alcuni strumenti e giocattoli, mentre in questo disco ho "solo" cantato. Non siamo
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nuovi all'utilizzo di altri strumenti è' solo che in "Good Night For A Fight" ci sta un po'
tutto quello che abbiamo sperimentato fino ad oggi e in maniera più evidente.
Ora, nonostante alcuni problemi logistici volti alla vostra conquista degli Stati
Uniti, avete in mente di portare l'album in giro? Magari uscire dall'Italia e
vedere che aria si respira, chessò, in Spagna o nel resto di un'Europa molto
più ricettiva?
G: Io e Nicola, appena finito il disco, siamo andati a vivere a New York e
logisticamente è un po' complesso fare le date di continuo come abbiamo sempre
fatto. Quindi ad Aprile torneremo in Italia per un breve e compatto tour per
promuoverne l'uscita. Ora stiamo organizzando quello e poi si vedrà. L'idea di fare
qualcosa all'estero rimane. Vedremo dove.
Siete d'accordo con me che in Italia, questo genere di musica, sia sempre
relegato al circuito dei soliti quattro gatti e che non ci sono molti modi per
uscire da questa situazione? Forse ci si autocompiace di essere piccoli?
P: Sì, il nanismo auto-compiaciuto è sempre stato un problema di certi ambienti off,
la storia è vecchia come il mondo. Ma negli ultimi anni mi sembra che le cose siano
migliorate, non trovi? Può essere che il vero problema, visto anche come va l’ambito
major, sia che davvero in questo momento agli altri gatti di quella cosa che si
ascolta con le orecchie e che non è la suoneria del cellulare non gliene freghi
semplicemente un cazzo, e che siano appagati dal bouquet Sky, dai pacchetti
all-inclusive e dallo scooterone comprato a rate. Non sono così moralista da trovare
tutto ciò scandaloso, perché nella storia delle arti periodi simili di stagnazione dovuti
a contingenze sociali sono stati molto comuni: probabilmente i nostri figli ci
rideranno sopra. Spero per loro, almeno.
Contatti: www.kechworld.com
Hamilton Santià
Muzak
Esordio meraviglioso dalla provincia di Lecce: è “In Case Of Loss Please Return
To:” (Lizard/Audioglobe) dei Muzak. Una commistione di post-rock, brecce di
elettronica, folk e psichedelica che sorprende in originalità e freschezza. Ho sentito
una grande forza d’animo nelle liriche, nelle elucubrazioni chitarristiche e nei
chiaroscuri del piano. Tutte le note parlano del loro vissuto, di quello che hanno
provato, di quello hanno assorbito e ce ne trasmettono l’essenza in forma di perla.
Ne parliamo con Enrico il pianista.
Voi siete di Capo di Leuca in provincia di Lecce, qual è l’ambiente che vi
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circonda dal punto di vista del territorio e d’atmosfere musicali?
La nostra terra è stata sempre molto ricettiva soprattutto per quanto riguarda la
musica rock sin dagli anni caldi di questa forma d’arte. Io sono nato da una famiglia
che possiede una grande discoteca quindi ho potuto attingerne a piene mani. Ci
siamo formati ascoltando molta musica. L’ambiente negli anni 70 brulicava
d’episodi, che non hanno avuto fortuna diventando dei nomi noti come PFM e il
Banco del Mutuo Soccorso, però c’era molta gente che praticava questa forma
magnifica di espressione.
Com’è partita l’idea di creare un gruppo come il vostro?
Quando eravamo ragazzi, al pomeriggio, invece di trovarci per andare a giocare a
calcetto ci siamo incontrati in cantina per suonare assieme. Tre su quattro all’interno
del gruppo, siamo amici d’infanzia. Abbiamo imparato subito a suonare uno
strumento. Mi ricordo che a dieci anni eseguivamo per gli amici quattro pezzi dei
Beatles che conoscevamo. Siamo stati attenti poi, a lasciare subito l’idea delle
cover. Molti non riescono a fare altro. Noi a quindici anni già suonavamo le nostre
canzoni e a nostro rischio e pericolo.
La vostra musica parla di voi o la considerate un mezzo astratto per
estrapolarvi dal quotidiano?
Questo disco di sicuro parla di noi, perché è il primo e perché per completarlo al
meglio abbiamo fatto finta che fosse l’ultimo, quindi ci abbiamo messo soprattutto
noi stessi dentro, la nostra vita, i nostri ricordi, le persone che amiamo e la musica
che abbiamo ascoltato e tutto questo si sente molto. E quindi non si specula su
concetti astratti ma è un disco intimista sulla vita quotidiana.
La coda di “The Only Supernaut” cosa potrebbe raccontare ad esempio?
Ecco. Quel brano per esempio ha un aneddoto. Il nostro professore di musica che ci
ha insegnato a suonare a me il piano e a Giuseppe e Alberto rispettivamente il
basso e la chitarra, aveva un gruppo negli anni 70: i Colon. In tempi non sospetti
fecero un concerto nel nostro paesello che allora doveva risultare come una cosa
assai strana e per tutto il concerto che durò un’ora suonarono di continuo
“Supernaut” dei Black Sabbath nella loro cantina, affollata di hippy. All’interno del
brano originale c’era un assolo di batteria che i Colon allungarono di mezz’ora,
quasi una maratona. Questo giustifica il titolo ma non ha niente a che vedere con il
brano strumentale in questione.
E “Telemachus Is Walking On Arvasì” invece?
Telemaco è notoriamente il ragazzo che è cresciuto senza padre e Arvasì è una
zona del nostro paese che ha delle case in fila tutte uguali: quelle che lo Stato dava
ai reduci di guerra. Quindi abbiamo immaginato questo personaggio omerico
passeggiare per le stradine del nostro paese.
Di chi è stata l’idea d’inserire all’interno del CD un foglio di quadernone
scritto alla maniera di un bimbo delle elementari?
Semplicemente il titolo può richiamare ad una nota, un avviso, le cose che si
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scrivono sui post-it per ricordarsi delle priorità durante la giornata e il titolo recita
appunto che in fase di smarrimento, per favore, riportate l’oggetto ad ecc.., e questo
mi ha fatto subito venire in mente un biglietto scritto in fretta e strappato come la
pagina di un quaderno. E anche questo supporto artigianale mi ha dato delle
soddisfazioni e ne siamo molto contenti.
Qual è stato il vostro modo di lavorare a queste composizioni?
E’ stato un procedimento lunghissimo. Sia perché abbiamo avuto dei problemi a
trovare un produttore che ci desse l’opportunità di fare un album e non un ennesimo
demo, sia per motivi tecnici: perché non ci convincevano ancora. Quando siamo in
saletta per comporre seguiamo un metodo abbastanza caotico e a volte vengono
fuori delle cose che non ci decidiamo mai a definire. Ci sono dei brani che avevano
gia un anno quando sono stati registrati. Per fortuna abbiamo trovato la persona
giusta Fabio Magistrali che è stato davvero fondamentale per la buona riuscita del
disco.
Poi ci sono molti ospiti presenti. Come li avete conosciuti e perché proprio
loro?
Alcuni li abbiamo conosciuti fisicamente solo poco tempo fa. Nel caso di Paul de
Jong, c’era la sua mail sul secondo album dei suo gruppo, i The Books, così ho
provato a contattare questo grande violoncellista che si è rivelato come persona
splendida: molto sensibile e ricettiva. Abbiamo spedito dei brani sia via internet che
via posta, poi Alberto l’ha incontrato al concerto bolognese dei Books di qualche
mese fa. Majirelle invece, l’abbiamo conosciuta a un concerto dalle nostre parti e
l’abbiamo contattata subito dopo per l’epilogo del nostro disco. Poi ci hanno aiutato
tanti amici: Giuseppe De Marco al trombone. Tutta la sezione di ottoni e clarinetti
che hanno composto la nostra banda gli “If Me You Fly”.
Dove avete registrato il CD?
Fabio Magistrali di solito ha uno studio mobile con cui gira l’Italia in lungo e in largo,
ma ha visto nella nostra saletta - che si trova in un casolare in campagna - come un
luogo ideale per registrare quindi ha portato tutto il suo studio mobile e abbiamo
registrato lì, in un ambiente completamente familiare.
Se il vostro disco non fosse uscito per la Lizard, quale sarebbe stata la
seconda opzione?
Non ci abbiamo pensato. Nel momento in cui il disco era pronto le varie possibilità
erano poche, perché non ci piace la scena italiana di oggi e il modo in cui la musica
indipendente viene proposta e accolta dalle etichette. E soprattutto è la parola
etichetta che non ci piace. E’ difficile accostare la nostra musica a qualsiasi
etichetta. Loris della Lizard invece, ha capito subito di cosa si trattava e il nostro
modo di fare e il nostro modo di pensare è molto simile al suo e quindi siamo stati
subito d’accordo.
Avete già fatto dei concerti in giro per presentare questo CD?
Abbiamo suonato quest’estate dalle nostre parti. Poi ci siamo laureati tutti assieme e
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adesso stiamo organizzando un tour nel nord-est, tramite sempre il caro Loris.
Contatti: www.muzakmusic.com
Francesca Ognibene
Nobraino
Pianura Padana, due estati fa. Caldo, zanzare e una birra accettabile. Tanta gente e
il pretesto di un concorso rock, l’ennesimo. Poi salgono sul palco quattro sconosciuti
di Rimini e tutto si illumina. Il loro nome è Nobraino. Dopo due anni abbondanti li
ritrovo all’esordio su CD con “The Best Of” (Acanto/Self). Il cantante Lorenzo Kruger
ci spiega il perché di questo titolo e molto altro.
Fellini, il maestro, diceva che la Romagna, quando vuole, è al centro di tutto. I
Nobraino, splendidi esordienti con il CD “The Best Of”, dimostrano che è la
verità.
È normale che degli esordienti, sulla scena nazionale, si noti molto la provenienza
geografica. In Italia la provincialismo è un carattere forte. Lo si può perdere “facendo
carriera”. Ci auguriamo di far carriera, e, come per Fellini, di non perderla mai.
Per non dimenticare mai la banalità: qualche cenno biografico potrebbe
aiutare chi non vi conosce a scoprire qualcosa dei Nobraino.
A diciotto anni il mio compagno di banco ha affittato una batteria. Aveva il solito
amico che strimpella la chitarra e ce n’era un altro che forse gli sarebbe piaciuto
suonare il basso. Poi il resto. L’iter di ogni gruppetto che nasce e cresce. Concorsi
fatti, vinti e persi. Poi l’incontro con il nostro attuale produttore che ha scommesso
sul progetto. Nel frattempo si è aggiunta la Miller, la ragazza col baritono, il tocco di
classe che ci serviva “per sembrare che facciamo sul serio”. Per ora niente da cui
scrivere un best seller.
Polemica - e quindi verso chi? - o una buona dose di autoironia nel titolo del
CD, un possente “The Best Of”? E come siete arrivati a questo esordio? E
come avete scelto i brani da registrare, ne ricordo alcuni di molto belli
presenti su un vostro demo ma esclusi dall’album.
Beh, in effetti in Italia si vendono solo “best of” è così abbiamo pensato che
qualcuno confondendosi tra gli scaffali si comprasse pure il nostro! In realtà lo è un
“best of” perché fare il primo disco dopo dieci anni di attività, vuol dire pensare ad a
tutte le canzoni che hai scritto e scegliere il meglio. Andrea Felli che ha prodotto il
disco, ci ha seguito in quasi un anno di pre-produzione per scegliere, capire e
migliorare. I live che abbiamo sempre fatto sono serviti molto per il risultato finale di
tutto il lavoro.
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L’album sembra muoversi su due piani, uno legato all’ironia, al divertimento,
ad un certo suono quasi marittimo, con suoni rock influenzati dalla Romagna,
dalle balere, dove prevale una verve, oserei dire “felliniana”, con personaggi
improbabili e indimenticabili. E un secondo piano più introspettivo, dove i
testi diventano percorsi lunghi, quasi tortuosi, dal tratteggio riflessivo, con lo
spettro di De André, padre, dietro l’angolo. È sempre la stessa anima che
muove i Nobraino? I vostri/tuoi testi da dove nascono?
I pezzi appartengono a vari periodi, quindi c’è già un motivo di eterogeneità. In ogni
caso non ci piace seguire linee tematiche e siamo umorali sempre. L’introspezione o
lo sguardo sul quotidiano, o l’ironia, sono tutti, normali alternanze dello stato
d’animo. Anche il falegname ogni tanto vernicia la sedia di nero, a volte di giallo.
Vi ho scoperti ad un concorso, dove avete sbaragliato la concorrenza, per
manifesta superiorità, con uno spettacolo tra rock e cabaret, anche grazie alla
tua presenza scenica. Quanto è importante per voi l’attività dal vivo e come
state organizzate la promozione del CD?
Un’ intensa attività live porta sempre all’esigenza di fare un disco (se non è un tour
promozionale), un souvenir per chi ascolta. Il primo disco è stato questo. Ma non
funziona così. Non nego l’importanza della diffusione tecnologica, ma mi
piacerebbe che il disco fosse il punto di arrivo e non quello di partenza. Il fatto è che
l’edizione del disco ha sostituito quella degli spartiti, ma è un discorso articolato.
Credo che un bello spettacolo debba essere alla base di qualsiasi progetto
musicale, e se non vogliamo dare priorità all’una o all’altra cosa dobbiamo almeno
considerarle complementari. Per questo motivo mettiamo il massimo impegno nel
creare un live che contenga le emozioni che un disco non può dare.
Avete un approccio compositivo decisamente originale, per nulla allineato.
Niente indie post glam e vattelapesca rock, di pop nemmeno l’ombra, di
retaggi tradizionali, che conquistano la critica per bene, solo qualche traccia.
Ma allora come mai le vostre canzoni funzionano così bene?
Questo lo dici tu, e prendendolo come assunto, ti posso solo assicurare che noi
partiamo dalla canzone. L’unico obbligo formale è quello di rispettare il rapporto
musica/testo. Al tempo stesso ci lasciamo la massima libertà nel concepire
arrangiamenti . Abbiamo anime molto diverse ma tutti i componenti devono potersi
riconoscere in quello che facciamo. Questa convivenza all’interno delle canzoni,
quando è ben equilibrata, crea l’effetto Nobraino.
Tra Internet, il falso miracolo “MySpace” e giornali, oggi non è impossibile
guadagnare un frammento di visibilità. Niente che garantisca immortalità e
nemmeno un briciolo di successo. Ma allora come emergere da questa
enorme marmellata?
E’ un ambiente come tanti. Botte di culo, percorsi agevolati non sono una novità qui
come altrove. Ho sempre pensato che a parte saper prendere le giuste strade, e
vivere questa umanità di relazioni, per fare i musicisti basta solo continuare a
suonare.
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Inevitabile una domanda, ancora banale, sul nome. Nobraino, inteso come
“no brain”, senza cervello o è tutto molto più semplice o comico?
Nobraino è una vecchia sciarada, e nessuno ci mette più di cinque secondi a capire
il gioco, ma involontariamente, da subito, avevamo mischiato la nostra lingua con
altri suoni.
Contatti: www.nobraino.com
Gianni Della Cioppa
Torquemada
Il loro album, “Tales From The Bottle”, era esattamente quello che ci voleva per
scuotere l’intorpidito panorama noise rock italiano. Si chiamano Torquemada e
vengono da Bergamo. Hanno pubblicato, via Insecta Records (etichetta
indipendente di Udine), un disco di potente e fragoroso noise’n’roll, con forti radici
hard-blues. Le coordinate sonore di questo album – per chi scrive, una delle migliori
uscite di quest’inizio d’anno – sono collocabili tra il noise rock newyorkese (Unsane)
e chicagoano (Steve Albini e la sua agguerrita progenie: Big Black, Rapeman,
Shellac) da un lato, il grunge/punk di Nirvana e Mudhoney, lo stoner di Kyuss e
Queens Of The Stone Age dall’altro. Abbiamo intervistato Alfonso Surace, chitarra e
voce della formazione bergamasca.
Era da tempo che non si sentiva in Italia nulla di simile. Che cosa ha ispirato
un disco così potente, energico e rabbioso?
Per spiegare al meglio bisogna considerare alcuni presupposti. Io e Ciano (Luciano
Finazzi, batterista, NdI) ci siamo conosciuti nei Manotazo, il nostro precedente
gruppo, nel quale lui cantava e io suonavo la chitarra. Io avevo la necessità di
concretizzare tutte le idee che avevo in testa e sul PC; Ciano sognava da sempre di
suonare la batteria. Così abbiamo cominciato a suonare in due, dando libero sfogo
ai nostri istinti sonori. L’energia sprigionata durante tre mesi di session liberatorie è
la stessa che si può avvertire sul disco.
I Torquemada, sul finire del 2003, erano un duo “guitar&drum”. Si
chiamavano NoiseMachineBand. Quale tipo di musica suonavate allora e quali
erano i gruppi a cui v’ispiravate?
La NoiseMachineBand è stata una mia idea, Ciano l’ha resa possibile. In effetti, tutto
è nato dal mio approccio all’home-recording. Pezzi come “Industrialnoisepostrock”
presero forma già allora: ho passato tante notti al computer, improvvisando con
qualsiasi strumento su loop di drum-machine, e registrando tracce su tracce.
Durante le prime session Ciano diventò la mia “drum-machine”, mi seguiva
perfettamente, con telepatia matematica. Eravamo affascinati dal math rock di Steve
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Albini, ma nello stesso tempo avevamo una passione per le “Desert Sessions” di
Josh Homme e soci.
Terminate le registrazioni di “Tales From The Bottle” è entrato a far parte
della band il bassista Davide Perucchini, il vostro fonico (già fonico di
Verdena e Ulan Bator). Mi spieghi esattamente che cosa è accaduto, cosa ha
spinto Davide a unirsi a voi?
Nel giugno del 2004 siamo andati da Davide con l’intento di registrare solo le
batterie in tre giorni. Avanzò del tempo e iniziai a registrare le chitarre. Fu in quel
momento che dalla sala presa, con le cuffie in testa, sentii Davide che ci proponeva
una co-produzione. Era entusiasta del nostro sound, fu subito amore tra noi, di
conseguenza fummo contenti di collaborare con lui. Nel giro di poco si “invaghì” così
tanto delle canzoni che non aspettò molto a proporsi come nostro bassista.
Nel descrivere il vostro sound ho fatto riferimento a gruppi come Unsane,
Shellac, Big Black, Kyuss. Ma non mancano spunti grunge alla Nirvana (in
“Me And My Cat”) o passaggi crossover/metal alla Rage Against The Machine
(nella potentissima e lisergica “WHO?”). Sono questi i gruppi che vi hanno
maggiormente influenzato?
Assolutamente. Sia io che Ciano abbiamo letteralmente consumato i dischi dei
Nirvana, “In Utero” in primis (non a caso prodotto da Albini). Per quanto mi riguarda,
i RATM sono stati il primo ciclone sonoro che ha sconvolto la mia idea di musica,
come del resto hanno fatto Shellac, Big Black, Melvins, Kyuss, Primus. D’altra parte,
Ciano è stato molto influenzato da Deftones, Korn, Sepultura e tutta la scena stoner
degli anni 90. Davide ama Metallica, Pink Floyd, AC/DC. Sugli Unsane posso dirti
che, fino a quando non ci hanno paragonato a loro, non sapevamo neanche che
esistessero. Così ho comprato subito un disco (“Scattered, Smothered & Covered”,
che consiglio vivamente), per carpire le analogie, e devo dire che ho riscontrato la
stessa attitudine hard-blues, anche se le sonorità mi sono sembrate diverse.
Quali sono i temi principali delle vostre canzoni?
Diciamo che i testi sono scritti, per la maggior parte, di getto, seguendo il flusso
magmatico dei pensieri. Si può dire che in questo disco nascono delle storie
non-sense, deliranti, come in “Industrialnoisepostrock”, “Plug”, “Infernalcoholic Man”.
Più che affrontare temi ben definiti, puntiamo a trasmettere delle sensazioni, delle
emozioni: rabbia, delirio estatico, liberazione dalle inibizioni. Ci sono però anche
liriche più ragionate e intimiste: “WHO?”, per esempio, è l’esternazione di un dialogo
interiore sulla parte oscura dell’uomo, quella parte che nessuno riesce a controllare,
con cui a volte ”si fa a guerra”.
“Tales From The Bottle” allude forse ad una vostra presunta familiarità con la
bottiglia e gli alcolici, come sembrate voler far credere in una vostra simpatica
foto?
Il titolo si collega direttamente al clima alcolico delle storie scellerate che
raccontiamo. Sono “racconti dalla bottiglia”, non solo quella piena di liquore, ma
anche quella che vaga per il mare con un messaggio dentro. Nessuno forse lo
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leggerà, ma esso rimarrà ugualmente come traccia della nostra esistenza.
Che cosa ne pensate dell’attuale scena alternative rock italiana? Credete sia
ancora fervida e vitale come negli anni 90?
Secondo me la scena attuale non ha nulla da invidiare a quella dei 90. Anzi, grazie
a Internet si ha la possibilità di scoprire gruppi interessanti. Senza dubbio c’è
fermento e materiale di qualità in tutta Italia. Fuck Vegas, No Seduction, Vanilla
Resident, Fiub sono solo alcune delle formazioni che seguiamo con maggiore
interesse.
Una semplice curiosità: il nome della band è un “omaggio” al noto inquisitore
spagnolo?
Sì, Tomás de Torquemada. All’inizio non eravamo neanche convinti, ma,
dopo un po’, ci siamo abituati al suono della parola, che in ogni caso rimane dolce,
pur riferendosi ad un personaggio “cattivo” e “potente” della storia. Mi accorsi in
seguito che il primo verso di “Industrialnoisepostrock” rimandava inconsciamente
alle “Inquisitions”, ma anche lì è stato un puro caso. Insomma, è stato il
tORQUEMADA ad appropriarsi di noi.
Contatti: www.torquemada.tk
Gabriele Barone
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Morvida
Nasce sul palco la musica dei Morvida, e si sente: c’è tantissima fisicità nelle
canzoni del power-trio pesarese, frutto di una rabbia e di una tensione per cui il
rock’n’roll, specie se suonato ad altissimo volume, rappresenta la più efficace delle
valvole di sfogo. Muovendosi lungo un territorio che confina con il rock duro e con la
psichedelia, con lo stoner e col grunge, la formazione è protagonista di composizioni
sorrette da imponenti muri di distorsioni e travolgenti nel loro incedere, sature di
elettricità ma non per questo chiuse alla melodia, che anzi sovente non manca di
fare capolino. Come si diceva, è dal vivo che immaginiamo la band dia il meglio, ma
anche in studio riesce comunque a non perdere la propria esplosiva energia, come
dimostrano i quattro brani del “Super Muff EP” (titolo quanto mai azzeccato),
ascoltabili su www.myspace.com/morvida.
Aurelio Pasini
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