37 - Araberara

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P ERSONAGGI
segue da pag. 2
major le ignorano, il mercato
non è musica e la musica non
è mercato, tutto qui. Tutta
la musica ha un grande valore culturale se fatta bene e
invece noi quel valore lo riconosciamo solo alla musica
classica o all’opera ma non è
così”.
E’ finito il tempo delle radio libere: “Gli anni ’70 sono
stati sperimentazione ma
adesso le radio libere non
esistono più, rispondono alle
leggi degli sponsor, non alle
esigenze della musica. Poi c’è
qualche eccezione, qualcuno
che difende a ogni costo la
propria libertà e cerca di innovare, penso a Radio Deejay
che ha proposto e creduto nel
mio ultimo album, ‘La quinta stagione’, scelte coraggiose che dipendono anche dai
conduttori, dalla proprietà,
si prendono dei rischi, mi
hanno spiegato che loro vogliono provare ad accompagnare i loro ascoltatori nel
loro percorso, un’educazione
musicale che gli fa correre
dei rischi ma che invece è
premiata negli ascolti, segno
che i giovani non sono come
qualcuno li vuole descrivere
perché fa comodo farlo. Tra
le radio coraggiose aggiungerei il circuito di Popolare e la
Rai nazionale che, tra i programmi di radio uno, radio
due e tre offre una scelta di
gran lunga maggiore rispetto a quelle commerciali. Se
fosse così anche per le Tv di
stato saremmo messi molto
meglio. Ci sono invece radio
come 105 che non capisco,
hanno scelto una linea di
programmi infarciti di parolacce e linguaggio scurrile, li
trovo fastidiosi”.
Non sei mai stata tentata
di fare musica commerciale?
“Anche se è più difficile preferisco fare quello che mi piace
fregandomi dei rischi che corro e alla lunga sono contenta
di quello che sto ottenendo.
Certo, ho potuto farlo grazie
a Davide che mi ha aiutato,
senza di lui non ce l’avrei mai
fatta, ancora adesso se non ci
fosse non sarebbe possibile
per me fare quello che faccio”.
Adesso però sei in una grande major, la Emi, un sogno
La quinta stagione
di Cristina Donà
per molti musicisti: “Sì, ma
anche nelle major è cambiato tutto, sono in crisi anche
loro per via del mercato che
non funziona, hanno tagliato il personale, hanno budget limitatissimi, promuovono i dischi limitando gli
investimenti, paradossalmente se fossi rimasta alla
Mescal che è molto piccola
avrebbero forse investito di
più nella promozione perché
non hanno molti artisti, la
Emi invece deve suddividere il budget fra tutti. Temevo invece di avere magari
qualche limitazione artistica invece mi hanno lasciato
carta bianca, non hanno interferito”.
Fare l’artista oggi vuol
dire anche cominciare a fare
i conti con vendite e budget,
non è quello che uno s’immagina del rock system:
“Già, soprattutto per me che
ho sempre la testa fra le nuvole, ho dovuto imparare in
fretta a controllare e gestire
un po’ tutto, volenti o nolenti devi imparare a usare la
testa”. Perché il mercato discografico è in crisi?
“E’ difficilissimo vendere,
le case discografiche sono
in ginocchio, ma io credo
che non dipenda solo da
Internet, credo che la colpa
sia anche degli anni ’90, allora sono usciti tantissimi
prodotti non all’altezza di
un intero disco, c’erano due
o tre canzoni belle e basta,
non valeva la pena comprare tutto il cd, così la gente
ha imparato a differenziare
e limitare”.
Torna il 45 giri e il mini
cd: “Per forza, tutti stanno
rivalutando tutto, soprattutto per i gruppi più giovani, le case discografiche sondano il gruppo mettendo sul
mercato due o tre canzoni in
un mini cd per evitare investimenti troppo grossi, poi se
vanno bene si può fare anche
un intero disco. Le spese per
un album sono grosse, uno
studio di registrazione costa in media dai 700 ai
1000 euro al giorno, poi
ci sono i musicisti da pagare, le spese, i missaggi,
insomma un grosso investimento”.
Dove registri i tuoi
album? “Il primo nello
studio Jungle Sound di
Milano, che faceva da
riferimento ai gruppo
che frequentavo negli
anni ’90, il secondo
nello studio di Mauro
Pagani, che collaborava con De Andrè, una
sala enorme per orchestre, il terzo a Milano
in uno studio più piccolo, e adesso questo
per la Emi all’Esagono, uno studio a
Rubiera, in Emilia
Romagna,
dove
Ligabue ha registrato i suoi primi album (ora
ha un suo
studio per
la registrazione), uno studio
bellissimo, dove gli strumenti vanno a meraviglia,
perché la risposta dell’ambiente è importantissima”.
Studio scelto dalla casa discografica Emi, ma quanto
costa un disco? “Ci vuole un
investimento di circa 50.000,
60.000 euro”. Tu quanto hai
preso? “Niente per ora, io
vado sulla percentuale delle vendite, una percentuale
comunque bassa, il 10% sul
netto del rivenditore”.
E allora servono le serate: “Eccome se servono, io
riesco a farne abbastanza.
Tra novembre e febbraio ho
fatto una quindicina di serate per promuovere il disco,
in tutta Italia, Catania, Palermo, nord Italia. Preferisco
suonare nei club, nei teatri,
le canzoni hanno tantissime
sfumature e riesci a renderle
meglio negli ambienti medio-piccoli”.
E come funziona il cachet
nelle serate? “Solitamente
c’è un’agenzia che vende il
concerto, nel budget ci deve
stare dentro tutto, i musicisti da pagare, il mixer, l’impianto. Poi ci sono artisti
che dal vivo rendono molto
e magari non vendono tantissimi dischi, penso agli
Afterhours che dal vivo
sono bravissimi, si
sono costruiti un
grosso seguito,
vendono anche
dischi ma dal
vivo rendono
tantissimo.
Ci sono altri che invece vendono
dischi ma
dal vivo non
rendono”.
Un’artista come te
guadagna
molto? “Non
sto morendo
di fame, ma
devi pensare
a un sacco di
cose, per esempio
un’assicurazione
privata, gli investimenti per il futuro,
c’è l’ENPALS che
dovrebbe garantire la pensione agli
artisti ma non si capisce bene come funziona,
insomma, bisogna sapersi
gestire, ma imparare a gestirsi per fare una cosa che
ami ne vale la pena”.
Quindi le centinaia di ragazzi che suonano nelle cantine e nei garage che futuro
musicale hanno? “Il mondo
della musica è meraviglioso
ma per farcela devi avere
una passione fortissima che
va oltre tutto, se vuoi fare i
soldi hai sbagliato settore,
certo, poi magari capita la
botta di fortuna come agli
883 dell’inizio che avevano
araberara 37
22 Febbraio 2008
incontrato al momento giusto Claudio Cecchetto ma
uno non deve pensare subito
al mercato quando fa questo
mestiere. Io lo faccio perché
sto bene a farlo, la mia voce
mi piace, mi da soddisfazione, mi fa star bene, quando
sto bene e faccio star bene è
la mia più grande gioia. Se
dovessi pensare a fare un
disco pop per il grande pubblico ma che non mi rappresenta non godrei come a fare
la musica che amo e quindi
preferisco continuare a fare
quello che faccio”.
Ma da bambina cosa sognavi di fare? “La ballerina, studiavo danza classica,
avevo un’insegnante di danza classica all’interno delle
scuole elementari, ma al secondo anno la maestra se ne è
andata, mi ricordo che guardavo le mie scarpette e piangevo. Poi la musica ha preso
subito il sopravvento, finite le
scuole medie volevo iscrivermi al conservatorio ma poi
ho scelto il liceo artistico perché a quell’età è così, la mia
migliore amica si iscriveva
all’artistico e l’ho seguita ma
sono contenta di averlo fatto”. Songavazzo che scelta è?
“Una scelta d’amore. Quando
Davide è venuto ad abitare
qui era scapolo e sapeva che
chiunque si sarebbe fidanzata con lui avrebbe dovuto accettare di trasferirsi e io l’ho
fatto. Vado comunque spesso
a Rho dalla mia mamma”.
Ma la gente qui ti riconosce?
“Sì, all’inizio mi vedeva come
la ‘cicianebia’ che ha buontempo, non siamo proprio la
coppia che si alza alle 6 e va
al lavoro e va a letto alle 21.
Abbiamo lavori particolari
ma la gente ha capito e noi ci
troviamo benissimo qui.
Anzi, qui sono stimolantissima, ho cominciato qui a
scrivere le mie canzoni, qui
c’è una sorta di liberazione
dall’eccessiva sovrastimolazione della città, la libertà
del pensiero porta alla creatività. Molte canzoni hanno
dentro il territorio dove vivo
ora, è bello pensare di vivere
in un posto, potersi alzare e
decidere di fare una passeggiata nella natura, è fondamentale e insostituibile”.
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